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Con Pura Passione di Alberto Granese, riassunto , Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Un riassunto del libro di Alberto Granese "Con Pura Passione"

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Scarica Con Pura Passione di Alberto Granese, riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Sovranità popolare e indipendenza nazionale La produzione poetica giovanile di Foscolo è attraversata dal suo entusiasmo patriottico: nel sonetto a Venezia, composto contro il governo oligarchico della Serenissima, che aveva rifiutato l’alleanza con la Francia profetizza la fine di tutte le tirannidi. Verseggiata ai primi di maggio 1797, in più punti ritoccata fino all’edizione definitiva genovese del 1799, l’”Oda”, Bonaparte Liberatore, segna il momento più convinto della tensione libertaria foscoliana. Napoleone Giovin campion e Liberator dato dal destino all’Italia. Bonaparte porta prosperità all’Italia creando una repubblica libera e indipendente in cui anche il villano potrà sentirsi cittadini. Tuttavia il poeta si rivolge agli italiani per ammonirli a conservare il patrio amor, coraggio e valore militare non con truppe mercenarie, la libertà, perché i nemici tiranni, possono distruggerla per sempre. Nell’ode, Ai novelli repubblicani¸ composta nella Venezia ormai democratica, la preoccupazione della possibile perdita della conquistata libertà viene gridata a gran voce. Il poeta esalta la riforma agraria dei Gracchi, accusando l’egoistico potere senatorio: Caio, spinto all’azione dallo spettro del fratello Tiberio pur sapendo di andare incontro alla sconfitta e alla morte propose la legge agraria. Per non versare sangue dei suoi concittadini, istigati dal senato, si fece trafiggere come Catone Uticense, per sottrarsi ai soldati di Cesare non la ricerca dell’azione, ma del martirio. Per Foscolo, quasi una premonizione delle delusioni e di patimenti del dopo Campoformio, che indurranno alla stessa scelta, quella del suicidio, il giovane Jacopo Ortis. Insieme con le poesie di ispirazione politica, l’altro documento dell’intenso impegno patriottico di Foscolo nella Venezia “democratizzata” è costituito dagli interventi alle Sessioni della Società d’Istruzione Pubblica. Nel resoconto di questi discorsi è possibile cogliere il formarsi del primo nucleo del suo pensiero politica. Ferma è la convinzione che per mantenere la conquistata libertà è indispensabile una riforma dei costumi. Una delle prime proposte di Foscolo è, infatti, la chiusura delle sale da gioco. Altro motivo ricorrente è la necessità che il nuovo Stato repubblicano si armi, far intendere, sulle orme di Machiavelli, quanto indispensabile sia per un popolo non avere milizia mercenarie, ma un esercito nazionale formato dai cittadini. Durissimi infine gli attacchi contro l’arbitrio e gli interessi dei demagoghi. Né diversi furono gli interventi tenuti al Circolo Costituzionale di Milano, quando dopo Campoformio, fu costretto a lasciare Venezia e a trasferirsi nella capitale della Repubblica Cisalpina: ritornò spesso sull’argomento del lusso e su quello delle armi proprie. A questi temi si aggiunsero i problemi nuovi, sia sulla sciagurata condizione di Venezia, caduta di nuovo sotto la tirannide, sia sulla conduzione politica del governo cisalpino, sempre più subalterno alle direttive imposte da Parigi: gli scritti giornalistici di Foscolo e degli altri collaboratori di “Il Monitore italiano” danno ampio resoconto dei primi, deludenti mesi del 1798. Insistenti gli appelli al Direttorio cisalpino per metterlo in guardia contro i pericoli che minacciavano la giovane repubblica: la debolezza nel difendere la libertà e l’autonomia dello Stato: la dilagante corruzione dell’amministrazione. La difesa degli oppressi e dei poveri si alterna, negli scritti sul “Monitore” ai problemi più generali della libertà della Cisalpina e della formazione di uno stato unitario. La Cisalpina avrebbe dovuto rappresentare il fulcro di una compagine statale unitaria con un’effettiva indipendenza dalla Francia e una sua dignitosa autonomia. Questa aspirazione dell’esule veneto era destinata a rimanere sempre più frustrata dal progressivo deterioramento della situazione politica cisalpina tanto da richiedere una coraggiosa denuncia da parte di Melchiorre Gioia, immediatamente accusato di essere nemico del governo democratico. Contro questa infamante denigrazione intervenne Foscolo con la Difesa del “Quadro politico” di Melchiorre Gioia, in cui faceva rilevare che l’autore non aveva affatto minacciato la caduta della Repubblica, ma ne aveva messo a nudo “i mali”. In talo modo si era reso utile al popolo per risvegliarne la diffidenza “La diffidenza del popolo è come la sentinella della Libertà”. Quando riprese la sua attività giornalistica a Bologna con “Il Genio democratico” e “Il Monitore bolognese”, Foscolo continuò a mettere sotto accusa la dirigenza cisalpina e ritorna sul tema dell’indipendenza di un popolo: “Stringo, e dico: non esservi indipendenza ragionevole ove non v’è sovranità popolare”. Di conseguenza in una repubblica libera e indipendente vanno abolite “la somma povertà e la somma ricchezza, perché la prima è cagione di avvilimento e di schiavitù, l’altra di baldanza e di tirannia”, il compito delle leggi consiste nel fare in modo che il bene comune sia anteposto al bene degli individui. La rivoluzione d’Italia e gli esuli meridionali Il problema dell’indipendenza nazionale fu riaffrontato sullo scorcio dell’anno successivo. All’inizio di ottobre 1799, nel Discorso su la Italia Foscolo invita il generale Championnet a dichiarare “la indipendenza d’Italia” perché, secondo la massima di Solone “il fondatore della Repubblica deve essere un despota”, ma facendo in modo che la libertà sia incominciata dal popolo e convertendo tuti i cittadini in soldati; solo allora si sarebbe manifestato in tutta la sua forza il “grande carattere” degli Italiani, i quali ancora rifiutavano di sottomettersi alla tirannide dei Francesi. Il dominante registro espressivo del Discorso con il prevalente uso della paratassi e la spaziatura tra i capoversi è apodittico, sentenzioso, perentorio, poiché si trattava non tanto di riprendere le consuete recriminazioni contro gli errori della dirigenza francese in Italia, ma in una situazione di estrema urgenza di indicare delle precise linee di tempestiva azione politico-militare. Championnet, doveva guidare, facendo leva sulla forze rivoluzionarie della penisola, la lotta per la liberazione dell’Italia, assicurandole indipendenza e unità territoriale. Il più grande documento politico e letterario di questo periodo, è certamente la “dedicatoria” a Bonaparte, in occasione della ristampa dell’”oda” Bonaparte liberatore. Il poeta con uno stile degno della perfezione geometrica di Cesare e della densa concisione di Tacito, scarno e insieme maestoso, riesce ad innalzare alla massima tensione possibile tutte le contraddizioni sue e dei democratici italiani d fronte al condottiero corso, fatte di ammirazione per il suo genio militare, ma di sdegno per le sue ambiguità politiche, in un continuo alternarsi di elogi e moniti, speranze e minacce. La dedica a Bonaparte riprende nell’ambito del Discorso su la Italia. Il colpo di stato non viene visto in un’ottica completamente negativa perché anzi Foscolo, riprendendo la massima di Solone sulla necessaria e autonoma azione di un despota per fondare una repubblica si dimostra consapevole che le rivoluzione d’Italia è opera di Napoleone. L’esule veneziano ritiene ancora possibile a soprattutto necessario indicare, da patriota e da uomo di lettere, a lui, figlio della rivoluzione, le due più dignitose e onorevoli linee di condotta politica: restaurare nella misera Italia quella libertà che egli per primo aveva fondato; rispettare gli “altissimi ingegni” qualora aspiri non tanto e non solo al “sommo potere” ma soprattutto “all’immortalità”. Foscolo aveva posto tute le sue premesse delle due direzioni fondamentali della linea politica e dell’ala radicale del movimento democratico e unitario convinta e partecipe adesione alle eccezionali conquiste del suo genio militare; duttile e intelligente opposizione a qualsiasi suo tentativo di imporre in una futura Repubblica italiana l’arrogante autoritarismo tristemente famoso nella prima Repubblica Cisalpina. Appena qualche anno dopo questa situazione si ripeterà anche nella Milano della seconda Repubblica Cisalpina. Appena qualche anno dopo questa situazione si ripeterà anche nella Milano della seconda Repubblica Cisalpina. A disegnarne il quadro, non meno squallido e torbido, sarà ancora una volta il poeta nell’Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione del 1802 divisa in tre parti e sviluppata in dieci capitoli, L’Orazione a Bonaparte con il suo stile epidittico e dimostrativo ripropone il confronto tra due protagonisti: Foscolo, il libero scrittore, che proclama alta la verità, sollecitando modi, tempi e limiti dell’azione; Napoleone, il condottiero che deve condurre l’azione politico-militare per dare libertà, unità e soprattutto dignità all’Italia. Il suo sarà un compito superiore a quello di Mosè, perché mentre questi salvò il suo popolo, la grande impresa di Bonaparte, consiste nel dare libertà, e quindi redenzione ai popoli conquistati. Elenca spietatamente tutti i mali della screditata seconda Cisalpina, dovuti al degrado politico e civile delle sue classi dirigenti. Invano spera che l’intervento di Napoleone possa mettere fine alla dannosa ambizione e alla sfrenata rapacità dei governanti e rendere l’Italia uno stato vero, unito e indipendente, con una sana e capace classe dirigente. Il giudizio foscoliano sulle imposizione liberticide dei proconsoli, voluti dal Direttorio francese, era perfettamente in linea con le valutazioni di tutta l’ala repubblicana e democratica dei patrioti unitari italiani. Il vertice della cultura “civile” italiana Fin dal suo celebre incipit l’Ortis è scandito da pagine memorabili, molte delle quali care ai protagonisti del Risorgimento italiano, come quelle dedicate a Firenze, in cui, Jacopo, visitando la Toscana si accorge che il suo spazio vitale si andava sempre più restringendo, essendo ormi gli Italiani degli stranieri in patria e, recandosi a Montaperti, sull’onda del ricordo del X canto dell’Inferno dantesco, riflette sulle “piaghe” prodotte all’Italia dalle guerra fratricide: Foscolo si pone in tal modo al centro di una grande tradizione civile, che va da Petrarca a Machiavelli e ad Alfieri, fino al Manzoni del coro del Conte di Carmagnola e del primo coro dell’Adelchi. Nella lettera del 4 dicembre da Milano, in cui è narrato l’incontro con Parini il conflitto del protagonista, tra Gli intellettuali e i ceti dirigenti si dimostrarono incapaci di valorizzare anche i pochi spazi di autonomia, comunque concessi durante il Regno d'Italia, e di cogliere l’occasione, quando stava iniziando la disgregazione dell’impero, di assumere la direzione morale dello Stato. Contro il servile conformismo delle oligarchie politiche e le interessate adulazioni dei letterati, il poeta ribadisce la propria orgoglia solitudine. Non sempre lo sguardo critico dell’autore è lucido e penetrante, la scrittura chiara ed equilibrata gli impedisce di cogliere, al di là della propria sconfitta esistenziale e politica, un più ampio scacco generazionale ed epocale. Quando Giuseppe Mazzini decise di pubblicarne il manoscritto, fondò in realtà il mito risorgimentale di Foscolo. Alla creazione di questo mito, esaltato dal martirologio dell’esilio contribuirono anche tutti quegli esuli, costretti, dopo il fallimento dei primi moti rivoluzionari, a lasciare la patria. Divenuta finalmente l’Italia una nazione unita e indipendente, i resti mortali di Ugo Foscolo venne traslati nella chiesa di santa Croce a Firenze, il tempio cantato nei sepolcri che lo accoglie ora, poeta di altissima ispirazione civile e vero fondatore della letteratura nazionale tra le itale glorie. Sulle tenebre della notte foscoliana Quarantuno componimenti lirici dell’adolescenza divisi in quattro sezioni dedicati e inviati manoscritti a Costantino Naranzi, appartengono alla preistoria poetica di Foscolo anche se rivelano una notevole inclinazione per lo sperimentalismo metrico e lasciano presagire motivi e forme della poesia successiva. Fin dalla terza lirica A Saffo. Il tentativo precoce di Foscolo che dichiarar di vivere lo stesso tormento di Saffo, consiste essenzialmente nel cercare un’immediata assimilazione tra stato emotivo interiore e oscurità notturna, angosce e tenebre, pianto e buio. Non diversamente, in All’amica incerta mentre scendono le ombre della notte grondano le lacrime, che rendono le tenebre ORRIBILI. Nei versi giovanili, la consueta rete di aggettivi ritorna con maggiore frequenza e intensità, a incominciare dai versi del 1796, dedicati alla madre, In morte del padre. Nelle stanze centrali della canzone, il genitore spira A MEZZA NOTTE, anticipato dalla CUPA NOTTE e dal TENEBROSO ISTANTE del primo. L’apparato ritmico aggettiva cui ricorre il giovane Foscolo riprende quello dell’adolescenza senza uscire da una circolarità retorica. I sei sonetti, che accompagnano la canzone, non escono da questo chiuso orizzonte notturno e sepolcrale. Oltre ai poeti greci e latini, è indubbiamente la letteratura sepolcrale inglese a suggestionare il giovane Foscolo, Elegy written in a Country ChurchYard di Thomas Gray ed Edward Young, Le Notti e Le rimembranze. La personificazione delle ore notturne e dell’oscurità, il loro ORRORE, assume per Foscolo una valenza totalizzante. La potenza generatrice dei raggi solari è oscurata dal silenzio e dalla pace notturna, dall’appagamento dato dalle tenebre, dall’assorbimento dell’animo affaticato nel grembo protettivo della notte. Quando Foscolo compone e pubblica i dodici sonetti maggiori, questa visione più profonda della notte si andava sempre più maturando e stabilizzando fino a raggiungere la punta espressivamente più alta in Forse perché della fata quiete. Tema ripreso nelle Grazie, notte, silenzio, attraversato solo dai languidi e morbidi suoni di una musica lontana e ignota. La NOTTE foscoliana, in coppia con OBBLIO, come avverrà più volte acquista dunque uno spesso ben più variegato, una polisemia che agglutina il buio delle tenebre, l’scurità della morte, il mistero del nulla e dell’eternità. Il sonetto incipitario, Forse perché della fatal quiete è il migliore in assoluto, per profondità di pensiero e interna musicalità, anche perché si distingue da tante poesie di scene notturne e di passioni infelici, tipiche della letteratura preromantica, come modello esemplare di raro equilibrio formale. La QUIETE della sera, minacciata dal conflitto dei sentimenti, messa in dubbio dalla meditazione intorno al NULLA ETERNO e dalla fuga inesorabile del tempo, è alla fine riconquistata con il momentaneo placarsi dei tormenti dello spirito, consapevole della fugacità di tutte le cose. Il sonetto presenta la sera come CARA, proprio in quanto immagine della morte. Anche il NULLA ETERNO non incute timore, perché si può immaginare come un’immensa estensione temporale prima e dopo la morte, verso cui precipita la fugace e tormentata esistenza umana per trovarvi la PACE assoluta. Nella lettera del 13 Maggio. “Il mondo era in preda alla Notte” si trasforma in “il mondo era in cura alla Notte” in quanto esprime un sentimento del sublime, ispirato dalla stupefatta ammirazione della volta notturna. L’ Autoesegesi di Foscolo alla lettera nella Notizia bibliografica che stesa in età matura può essere considerata la poetica del “notturno” non solo dell’Ortis, ma in generale della sua opera e, quindi, il punto cruciale della concezione foscoliana della notte. Subentra l’altro elemento che accompagna i notturni foscoliani, la folgore. Sempre nella Notizia, precisa che “quante cose di minuto in minuto, di passo in passo attorniano l’Ortis, prendono tutte colori e qualità della sua cupa disperazione”. Il passo più importante è nel richiamo analogico notte-nulla-eternità. La catena associativa è ormai completa: la notte transita verso la morte. Nei Sepolcri al di là dei riscontri intertestuali o dei calchi lessicali, si stabilizza, in un contesto molto più ampio e complesso l’idea centrale di Foscolo, NOTTE nel senso di buio profondo, di NULLA ETERNO, in cui precipitano tutte le cose e le creature dell’universo: proprio in questo confondersi e annullarsi in un caos informe sono completamente soggette a essere dimenticate per sempre. La coppia NOTTE-OBBLIO ritorna nella celebre descrizione dello squallido cimitero. Sono dodici versi composti alla maniere sepolcrale e ossianica. Le tenebre, dense di inquietanti pericoli, la campagna cimiteriale squallida, gufi e upupe svolazzanti con strida luttuose. Elementi questi rinvenibili non solo nella letteratura classica ma anche nella poesia moderna tra Sette e Ottocento: l’ululato delle belve e il loro raspare famelico richiama la descrizione della selva dei suicidi Inferno XIII di Dante. La civetta che fugge e si lamenta dei raggi lunari è nell’Elegy di Gray. Tuttavia, foscoliana, l’exemplum della statura civile di Parini e innalzano, con una sorprendente struttura gnomica e un veloce colpo d’ala, l’idea centrale, apparentemente meno in parte debitrice ai topo notturni e sepolcrali, a dimensione universale. Su quelle tombe dimenticate e destinate a sparire nel nulla, a essere distrutte dalle fredde e inesorabili ali del tempo, vegliano però le stelle, umanizzate dalla pietas, prodighe nel versare i loro remoti, ma luminosi raggi, come in un doloroso e partecipe compianto. In questa stupenda notte foscoliana, in cui è assente ogni è assente ogni vestigia dell’uomo, popolata ad animali immondi, mentre, metaforizzato dal buio, il NULLA ETERNO incombe su queste ultime RELIQUIE sembra che il cosmo intero, metonimicamente rappresentato dalle stelle, abbia un’anima segreta e misteriosa, palpitante di umana pietas. Non nella dispiegata e invadente luce solare, ma nella notte, il poeta capta i segnali proveniente dall’infinito universo e, in uno slancio di immersione nell’Assoluto, proietta in essi le vibrazioni emotive dell’anima umana. Il FIORE sepolcrale, che non sorge presso le tombe degli estinti, se non viene coltivato da debite onoranze funebri e da AMOSO PIANTO. Proprio questo finale gnomico, che associa stabilmente sepolcro e pianto, se conclude, da un lato, l’episodio dell’insensibilità civica verso un esempio di dirittura morale, si estende, dall’altro, andando oltre il pur paradigmatico caso di Parini, a una visione di ordine generale, in base alla quale tutti i sepolcri, non solo quelli dei grandi uomini, vanno onorati, perché possa nascervi un FIORE, possa rivivere il ricordo dell’AMICO ESTINTO. Né diversa da questo impianto è l’altra ben nota e più citata evocazione della battaglia notturna nel campo di Maratona. Il procedimento analogico consente l’evocazione dell’exemplum di Maratona, dove ai loro prodi gli ateniesi consacrarono le tombe, che hanno significato per la Grecia quel che Santa Croce dovrebbe essere per gli italiani futuri: una preziosa fonte di amor patrio, fino al sacrificio e alla morte. L’attualità del suo messaggio eroico è rappresentato della scena del conflitto, antichissimo evento storico che per il suo alto valore simbolico si è dilatato nel tempo e sembra replicarsi. Ha un preciso antecedente nella rievocazione storica di Montaperti fatta da Jacopo e narrata nella lettera da Firenze del 25 settembre: gli scontri cruenti di guelfi e ghibellini sono immaginati di notte, quando le ombre occultano la violenze della lotta armata. L’unica differenza è ostilità tra fiorentini di fazioni avverse ha scatenato una guerra civile e fratricida, mentre l’antica PUGNA di Maratona rappresenta il paradigma dell’eroica difesa della patria dall’invasione degli stranieri. Jacopo infatti salito a Montaperti definisce INFAME quello scontro. Diversa dai tragici notturni di Maratona e Montaperti è la notte fiorentina, evocata nei versi 168-169 come Jacopo che visitando Santa Croce adorava le sepolture, così il poeta celebra in cui la città toscana trova sublime esaltazione sia nella rappresentazione della religiosa bellezza del paesaggio che nell’entusiastico riconoscimento di essere madre della poesia e vero centro spirituale d’Italia. Non è la luce solare a vestire i colli di Firenze ma i limpidi e trasparenti raggi lunari. Sembra in questo passo famoso che non il Sole, com’è nella natura delle cose, ma la Luna, con l’incanto quasi straniante della sua luce, dia fertilità. Sempre nei Sepolcri e nelle Grazie, due donne, questa volta, sono mitiche o misteriose protagoniste di dolci notti d’amore. La prima è Elettra, la ninfa amata a Giove, che, nell’ultima parte del carme innalza una dolente preghiera allo sposo divino, quando sente di essere ormai chiamata ai CORI DELL’ELISO. L’ansia di immortalità, che pervade tutti i SEPOLCRI, in questa invocazione all’OLIMPIO a cui chiede FAMA perenne, se egli ebbe care le DOLCI VIGILIE del loro amore. Nelle parole di Elettra vibrano insieme una dedizione quasi mistica e un’ineffabile felicità umana. Le notti sono allusivamente ricordate dall’amata con una levità e una delicatezza tali da trasfondere le sue stesse fattezze fisiche. La notte THANATOS ora diviene notte EROS con un’altra sorprendente VARIATIO semantica, che trova un analogo corrispettivo in un sublime frammento delle Grazie, Una delle fondamentali componenti del processo genetico e dell’elaborazione ideativa delle Grazie è rappresentata dalla dinamica unificazione delle esperienze umane di Foscolo e della loro memoria con le suggestioni letterarie e gli spunti culturali da altri poeti. I versi evocano non tanto il rapimento esercitato dalla musica sugli animi quanto lo smarrimento di un cuore, che dalla contemplazione della pace notturna si volge a ricordi di affetti sepolti ma non cancellati. Le RIMEMBRANZE di un amore lontano o le angosce di un amore respinto, ancora una volta sullo sfondo dello scenario notturno, l’unico, secondo Foscolo, in grado di ispirare al sensibile animo femminile il ricordo di una gioia amorosa perduta per sempre o intensamente desiderata ma mai realmente posseduta. Non tenere fanciulle e dolci notte lunari nelle tragedie di Foscolo a cominciare dalla prima da lui composta, Tieste. Il protagonista è rappresentato come un eroe perseguitato e costretto all’esilio dal tirannico fratello Atreo. La tragedia si apre con una diretta invocazione alla notte da parte di Erope. La notte, ricordata dalla moglie di Atreo è quella dell’adulterio. Tuttavia nell’invocazione di Erope, questa notte da tragedia, per l’immaginario del giovanissimo poeta ha uno spessore più profondo e ambiguo, perché non si tratta della notte di un delitto, ma della notte della VERGOGNA AVVOLTA che sembra rinfacciarle la sua colpa. Con un suggestivo scambio temporale Foscolo non rappresenta una sola e unica notte, quella più volte ricordata, da cui trae origine la stessa vicenda tragica, ma anche la notte presente, le ore tenebrose in cui si dovrà perpetuare l’infanticidio. Nella tragedia Ajace, subito ritirata in quanto ritenuta ostile a Napoleone è possibile scorgere diverse allusioni politiche: in Agamennone, che non mai sazio di dominio scatena guerre interminabili Napoleone; in Calcante il papa; in Aiace il valoroso e sventurato generale Moreau. Le parole, da Calcante rivolte al supremo condottiero dei greci sono proprio quelle che il poeta riterrà premonitrici delle luttuose campagne napoleoniche. La tragedia si svolge nelle canoniche ventiquattro ora, da un’alba all’altra del giorno successivo. La notte si carica, dunque, di un’ulteriore violenza, acquista un ulteriore senso a dimensione antropologica, in quanto metafora di un oscuro e minaccioso groviglio di perfide macchinazioni, di inconfessabili desideri di conquista e di potere. Non si sottrae a questa norma l’ultima tragedia, Ricciarda. Ambientata nella Salerno altomedievale rappresenta il dramma della protagonista, combattuta tra il rispetto filiale e l’amore per Guido (nascosto nella cripta del castello, dove si trovano le tombe di famiglia); la vicenda si conclude con la morte di Guelfo, padre di Ricciarda, che prima di togliersi la vita uccide anche la figlia. Clima sepolcrale, Medioevo di maniera. Scene drammatiche dipinte a tinte cupe e notturne, il motivo funebre della tomba come letto nuziale di Guido e Ricciarda. L’attesa delle tenebre notturne come protezione dai pericoli è sospirata da Guido quando nascosto tra le tombe si prepara a ricevere la fugace visita di Ricciarda. Si trasforma poi nel polo opposto, come foriera di distruzione e morte. Guelfo, pronunzia le parole più terribili e sinistre dell’intera tragedia. La notte diviene apocalitticamente una LUNGA NOTTE INFERNALE di tormenti e terrori, di tenebre e di manifestazioni numinose rapide e terrificanti come folgori, e pertanto ritorna l’accostamento notte e fulmini ma con un’ulteriore variatio semantica di dimensione profondamente psicologica, correlata alla visione biblica del Dio vendicatore e delle tenebre eterne destinate ai dannati. Notti tenebrose nella Ricciarda stampata per la prima volta a Londra nel 1820 quando Foscolo era in esilio in Inghilterra: la sua aura vagamente shakespeariana si addiceva forse alla terra che lo ospitava e al suo stato d’animo. Non più incline alle rasserenati visioni di notturni lunari, ora la sua immaginazione e le sue emozioni sono messe in moto dal buio assoluto della notte, perché la luce della luna o delle stelle non rendono possibile intravedere la sensazione dell’infinito o del nulla. Quando fu messa in scena la tragedia salfiana in funzione di monito per le ambizioni politiche dell’astro ormai nascente di Bonaparte, il 1811 l’anno di rappresentazione dell’Ajace foscoliano, nello stesso teatro della Scala di Milano, segna invece il momento più significavi del disinganno verso un’eccezionale avventura militare e politica.. Il rapporto tra potere politico e letterati. Pur mantenendo un duro giudizio di fondo su Bonaparte, ne riconobbe i meriti politico-militari distinguendo tra le lodi che certo gli andavano tributate e le adulazioni degli uomini di cultura italiani. Gli intellettuali e i ceti dirigenti si dimostrarono incapaci di valorizzare anche i pochi spazi di autonomia, comunque concessi durante il Regno d’Italia, e di cogliere l’occasione, quando stava iniziando la disgregazione dell’impero fondato da Napoleone, di assumere la direzione morale dello Stato. Foscolo si dedicò alla composizione dell’Ajace tragedia in cinque atti di endecasillabi sciolti. Subito ritirato dalla scene in quanto ritenuto ostile a N. anche per le insinuazioni dei detrattori del poeta. L’argomento è tratto dal mito dell’eroe greco, a cui l’astuzia di Ulisse e l’arroganza di Agamennone avevano tolto le armi di Achille, costringendolo ad uccidersi per onore. La rappresentazione dell’umana infelicità s’innalza nei versi ad una dimensione universale, che comprende non solo il magnanimo e sfortunato Ajace e la sua innocente sposa Tecmessa ma anche il potente Agamennone, ucciso poi a tradimento dalla moglie, al ritorno da Troia. Insieme on queste motivazioni profonde è possibile scorgervi diverse allusioni politiche: in Agamennone, non sazio mai di dominio che scatena guerre interminabili, N.; in Ajace il valoro e sventurato generale Moreau; lo stesso autore, prima della rappresentazione, aveva previsto una lettura in chiave politica dell’opera, e, in molti anni dopo, nella Lettera apologetica, attribuirà un valore profetico ad alcuni versi riferiti ad Agamennone ma dedicati, in realtà, a Napoleone. Tutte queste componenti implicano molteplici piani di lettura rendendo complessa la tragedia che segue il modello tragico alfieriano. L’Ajace foscoliano ha versi scanditi da un ritmo robusto e solenne di chiara ascendenza omerica modulati da una ricca varietà tonale a seconda della situazione scenica e dei personaggi dialoganti. In questa mescidazione di generi, propria della tragedia classica greca, si devono fare rientrare le stesse autocitazioni di Foscolo, dall’Ortis ai Sepolcri. In una lettera al Pellico Foscolo stesso delineò le caratteristiche dei protagonisti, individuando in Ulisse il personaggio assolutamente negativo dell’intera vicenda, per essere violento e perfido nell’ambizione, come Agamennone ma da lui dissimile quanto ad ALTEZZA DI CUORE quest’ultimo infatti riusciva a ricordarsi ancora della sua perduta virtù del tempo in cui fu venerato dalla Grecia come LIBEATOR (esplicito riferimento a N.) Le parole, da Calcante rivolte al supremo condottieri dei greci, sono proprio quelle che il poeta riterrà premonitrici delle luttuose campagna napoleoniche. Calcante illumina anche le interne contraddizioni h in segreto sconvolgono Agamennone. Modellata sulle eroine di Euripide ma soprattutto portavoce del pudore e della compassione è Tecmessa. La donna non solo è portatrice della civile forza del pudore, ma riesce a infonderlo anche nei feroci soldati di Achille, pronti a inferire sugli inermi prigionieri troiani per immolarli al loro due proditoriamente ucciso. Mentre Ajace è sempre consapevolmente lucido fino al momento cruciale della scelta del suicidio. Diversamente dall’Ajace di Sofocle che, impazzito, a causa delle armi di Achille negategli fa strage di una mandria credendola una schiera di greci guidata da Ulisse e Agamennone (e rinsavito se ne vergogna e si uccide), l’Ajace di Foscolo è anzitutto l’eroe virtuoso, tenace e coraggioso guerriero. Quel che caratterizza l’Ajace di Foscolo non è solo una straordinaria lucidità conservata intatta fino alla catastrofe ma anche un profondo pessimismo tragico, epico, di un eroe che si sene incompreso nella sua solitaria grandezza e perciò escluso dalla comune e normale imparzialità della giustizia. Spettacolo teatrale come istruzione pubblica rivoluzionaria Una nuova politica dello spettacolo, secondo principi rivoluzionari, fu elaborata e diffusa dal “Giornale de’ patrioti d’Italia”. Il Saggio di istruzione pubblica rivoluzionaria rappresentano anche la sintesi della proposte democratiche del suo direttore, Matteo Galdi, nel duplice aspetto di consuntivi del passato e di progetti per l’avvenire. Il nucleo ideologico del Saggio è costituito dall’idea di fondo che l’istruzione pubblica rivoluzionaria non spetta solo allo Stato Cisalpino ma anche al movimento repubblicano e patriottico, il quale doveva collegarsi a tutto il popolo, istruendolo in completa autonomia rispetto alle insufficienti strutture governative, attraverso l’insegnamento gratuito nelle scuole sati, la gestione dei teatri nazionali da parte di compagnie di recitazione formate da patrioti e la rifondazione di un giornalismo libero e democratico. Quando Galdi si proponeva un forte rilancio in senso più accentuatamente democratico della sua infanzia politica. La diffidenza verso il quadro politico e sociale della Cisalpina, fedelmente e coraggiosamente disegnato da Gioia, manifestata dallo stesso Galdi. Ci fu l’imposizione della nuova costituzione elaborata dall’ambasciatore Trouvé e la conseguente discriminazione dell’ala “unitaria” giacobina, identificata come anarchica e terroristica altro che rilancio dell’attività rivoluzionaria con l’istruzione pubblica auspicato da Galdi. Si trattava per il Salernitano di inserirsi nel dibattito sul teatro per promuovere una svolta decisiva in direzione di una prospettiva più strettamente politica e rivoluzionaria per l’immediato futuro. Lo scritto galdiano dunque diventa uno degli interlocutori, al momento della sua pubblicazione, dell’ampio e attento dibattito sulla funzione del teatro, individuato come una vera e propria scuola patriottica. L’asse ideologico è fondato sull’idea essenziale e basilare che il teatro deve essere soprattutto una scuola di costume e di morale. Per tale ragione i teatri, a cui la comunità assegna questo delicatissimo compito, possono fiorire solo in uno stato assolutamente libero, dal momento che i regimi tirannici li hanno corrotti, facendoli degenerare a manifestazioni servili. Ogni governo, inoltre, deve avere a sua forma di teatro corrispondente. Il punto di riferimento paradigmatico è costituito dalle libere e indipendenti repubbliche greche, in cui il teatro era uno spazio onnicomprensivo, aperti a tutte le classi sociali, con interpreti di specchiata moralità. Nelle concezioni di Galdi il teatro, proprio per la sua funzione educativa, aveva una precisa valenza politica, che insieme con l’attività giornalistica e la milizia pubblicistica ne faceva un potentissimo strumento per organizzare il consenso intorno alla nuova repubblica democratica e agli ideali patriottici rivoluzionari. Vi emerge con maggiore evidenza il vigore argomentativo dell’attivo militante giacobino, le cui proposte si collocano nella tormentata ricerca di una nuova prospettiva rivoluzionaria, in un momento in cui si tentava di emarginare l’ala radicale. Essendo questo processo di emarginazione ancora in fieri i margi idi manovra per un’iniziativa di rilancio delle idealità e delle attività repubblicane patriottiche e rivoluzionarie erano ancora possibili. Galdi dissente finanzi con Rousseau. Non solo questi argomenti della storia e della mitologia dei Greci ma anche quelli della storia romana di età repubblicana sono gli unici modelli ancora validi per la scena moderna. Le tragedie antiche sono superiori alle moderne, perché hanno acquistato grandezza e sacralità con il passare dei secoli. Se proprio si vogliono rappresentare tragedie di poeti moderni, è necessario però che questi trattino nelle loro composizioni argomenti antichi, per alcune ragioni fondamentali elencate e argomentate da Galdi, il quale parte dal presupposto che non essendovi tra i cittadini delle attuali repubbliche giacobine o napoleoniche eroi paragonabili a Bruto o a Catone, gli argomenti antichi sono superiori ai moderni. Galdi aggiunge una serie di motivazioni di ordine tecnico. Scegliendo argomenti antichi, storici o mitologici che siano, prodotte da più grandi modelli del genere epico e tragici si possono infine raggiungere una maggiore verisimiglianza senza pericolo di essere smentito, dal momento che può tranquillamente operare tagli e ampliamenti su circostanze di fatti antichi, facendo più liberamente spaziare la propria fantasia. Anche altri argomenti dei tempi barbarici, in cui si sono avvicendati goti, longobardi soprattutto quando le rinate eroiche virtù fecero fiorire la libertà delle repubbliche italiane, possono certamente richiamare l’interesse degli spettatori, ma saranno sempre fonti di second’ordine poiché i loro modelli umani non potranno essere mai all’altezza dei grandi uomini di Atene e Roma. Delle vicende e della rigenerazione de’ teatri si colloca in un periodo in cui la situazione politico-istituzionale della prima Cisalpina non si era ancora così tanto deteriorata. il Saggio d’istruzione pubblica rivoluzionaria e il discorso sull’organizzazione dei teatri nazionali potevano ancora vivere una funzione importane essendo le possibilità di iniziativa politica non ancora del tutto chiuse. Proprio questa fiducia nella ripresa dell’inarrestabile cammino del genio della rivoluzione animano la scrittura densa e veloce di Galdi in cui il lessico classicheggiante si alterna con quello rivoluzionario. Seguirà la stessa impostazione anche il Rapporto al cittadino Carnot di Lomonaco, che pur nell’impianto storico-saggistico sia del bilancio critico dei fatti napoletani che della coraggiosa denuncia appare struttura come la rappresentazione di un vero e proprio dramma storio con una netta e manichea distinzione tra i tenebrosi artefici del male e i campioni pur del bene, tra gli imbelli tiranni e gli intriganti cortigiani, da una pare e gli eroi della rivoluzione e della libertà dall’altra. Anche qui ritornano i nomi tipici del mondo classico reco e romano ma non più come figure di una finizione scenica ma come deformante caratterizzazione espressiva. Proprio questa crudele scissione descritta da Lomonaco nel Rapporto caratterizzata dalla discordia e dalla guerra civile, che h armato i cittadini l’un contro l’0altro è al centro dell’azione tragica dei Platessi di Salfi in cui notiamo sia profonde divisioni civili e familiari che distruggono la sicurezza dello stato e la pacifica convivenza sociale. Nella fabula drammatica salfiana i repubblicani diventano i platesi assediati. I Francesco, che abbandonarono i patrioti napoletani abbandonati al loro destino, sono infine nella finzione gli ateniesi che ritardarono nel portare i loro aiuti ai Plateesi. All’interno di questo schemi speculare Salfi colloca anche i l topo romanzesco dell’amore contrastato tra i figli di due nemici. Fu dunque Matteo Angelo Galdi esule nella Milano cisalpina e napoleonica, a sviluppare con rigore e coerenza gli aspetti più decisamene innovatori del pensiero politico meridionale. Progettare, programmare, organizzare, mirata campagna di propaganda repubblicana non potevano ancora avere un ruolo decisivo per il mantenimento. Riscritture del personaggio tragico Nella Grecia arcaica, nella fase orale della sua civiltà, molto prima dell’Ottavo secolo, epoca a cui risalgono i poemi di Omero e di Esiodo, considerava il racconto mitico vera e propria storia. Nati in una remota dimensione spazio-temporale, i miti si staccano dalle loro origini e diventano poesie nei versi di Omero ma storie che fondano la loro autorità non solo sul passato ma anche sull’esperienza collettiva di una comunità, ne esprimono gli archetipi dell’immaginario. Il mito è un “organismo dinamico” che resiste nel corso dei secoli per la sua capacità di “rinnovarsi continuamente”: è nella sua essenza, uno e molteplice, tale che pur rimanendo inalterato nella sua struttura originaria, è oggetto di indefinite riscritture. Già Omero aveva apportato delle varianti rispetto alla tradizione mitica precedente, accogliendone le versioni più contestuali e organiche alle sue esigenze narrative. In epoca ellenistica poi si tenderà a secolarizzare il mito, eliminandone gli eventi soprannaturali; ma è soprattutto la saga troiana al centro di numerose riscritture, diventando una sorta di “opera aperta” e di work in progress. Il mito dunque non si è esaurito, non è mai concluso, vi saranno sempre altre versioni da leggere e da riscrivere. Soprattutto nella cultura moderna è apparso sempre più evidente che i miti ellenici sono le radici stesse della nostra civiltà. Già la tragedia aveva messo in rapporto tempo mitico e tempo presente. Il punto di vista moderno, soprattutto rispetto ai miti arcaici, oscilla tra una tendenza a spiegarli e a razionalizzarli. Il mito di Antigone è sempre stato considerato una vicenda cruciale dell’identità politico-culturale del popolo greco, attraverso le ragioni opposte del genos e della polis fondata sul nomos, e perciò stesso dell’intera civiltà occidentale. Fedra, in d’Annunzio, che in parte si ispira a quella della quarta epistola delle Heroides di Ovidio e soprattutto alla Phaedra di Seneca. Non è reticente la Fedra d’annunziana nell’esprimere liberamente la sua libido. Euripide ha trasmesso all’immaginario occidentale un altro mito: come Fedra, anche Medea, che si vendica dell’abbandono del marito uccidendo i figli è una grande eroina del teatro antico, un personaggio inquietante i cui valori sembrano non appartiene al mondo umano. La storia di Medea è dunque uno dei grandi miti immortalati da due tra i più grandi testi classici dell’antichità quali le tragedie di Euripide e di Seneca che turbano in maniera potente l’immaginario moderno fino a darne una donna sola in lotta contro il Potere. Le opere che hanno rappresentano l’eroina come ESSERE DIVINO O DEMONIACO, che hanno accentuato LA NATURA BARBARICA E L’ALTERITÀ ESOTICA; le tragedie DELLE PENE D’AMORE che mettono in risalto l’amore di Medea e il tradimento di Giasone e interpretano la dismisura nell’odio e nella vendetta, come conseguenza la dismisura della passione erotica. La tragedia di Alvaro e soprattutto il film di Pasolini enfatizzano il conflitto tra le culture e le differenze etniche, il conflitto culturale ed etnico scandiscono il lavoro teatrale del primo. Nella tragedia è tuttavia presente anche il motivo magico e demoniaco della personalità di Medea. La novità della Medea di Alvaro consiste nel fatto che uccide i figli non per vendetta contro Giasone ma come lo stesso autore ha dichiarato, per sottrarli al linciaggio della folla inferocita, o nel caso in cui ne fossero usciti indenni, alla persecuzione e alla fame, li uccide per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno. Anche nella costruzione dell’altro protagonista, Giasone, Alvaro trova elementi innovativi rispetto al mito di Euripide. L’aura leggendaria dell’argonauta è programmaticamente accentuata in direzione demitizzante, antieroica e borghese. Qualche anno prima della tragedia alvariana, nel 1947, Pavese rappresenta l’eroe, ormai vecchio che discorre con la giovane Melita e ricorda l’avventura argonautica. Decisiva è l’innovazione alvariana del personaggio di Creusa, chiamata Glauce. La giovane diventa simbolo dell’innocenza, violentata dalle vicende della storia, dalle forze oscure che si scatenano nell’animo umano e colpiscono gli inermi: non muore, infatti, per le arti magiche di Medea che anzi nella tragedia alvariana non nutre propositi di vendetta contro di lei ma perisce lasciandosi abbandonare da una torre della reggia corinzia, quando veder il popolo inferocito dare l’assalto alla casa della straniera per ucciderla con i figli. proporre, ancora una volta, il suo giudizio negativo, espresso in maniera antifrastica attraverso il discorso del suo personaggio produttore, sull’ignoranza del ceto medio italiano, ostile e prevenuto verso una delle manifestazioni di più forte spessore artistico del cinema mondiale. Guerra vs cultura e Guerra vs natura nella Ciociara di Moravia Il settimo capitolo del romanzo, che si apre con lo sbarco degli alleati nei pressi di Anzio, ha un’insistita impostazione diaristica. La protagonista e voce narrante Cesira osserva e annota il lento scorrere del tempo, insieme con la progressiva diminuzione delle scorte di cibo. In tale contesto gli eventi si susseguono con una monotonia estenuante; tranne l’incontro con un tedesco e un breve viaggio in montagna, il percorso diegetico ristagna e sembra definitivamente arenarsi. Ed è a questo punto che l’autore, a partire dal capitolo successivo, imprime un ritmo nuovo e più veloce al racconto con l’esercito anglo-americano quasi alle porte di Roma quando il peggio sembra passato si verifica un capovolgimento, che ha dell’assurdo e del paradossale nella sorte dei tre protagonisti, Cesira, Rosetta e Michele. I guai della guerra non sono finiti, ma stanno per assumere un risvolto tragico. Inizia, quindi, la parte più meritatamente nota del romanzo con l’andamento ormai mosso e accelerato in crescendo del racconto: Michele è sequestrato poi ucciso, colpo durissimo per Cesira e soprattutto per Rosetta, le due donne avendo ospitato clandestinamente dei soldati inglesi, ricevono in cambio dal comando militare di essere trasportate in auto nel Villagio natale di Cesira, ormai abbandonato, dove proprio nel suo paese, assiste alla catastrofe di tutta quell’avventurosa fuga dalla guerra con lo stupro di Rosetta nella chiesa deserta perpetrato dai “liberatori” marocchini; seguono il silenzio e il traviamento della giovane. Proprio questa parte conclusiva, in cui si intrecciano ritmo incalzante gli episodi più romanzeschi, soprattutto la vicenda più tragica di tutta l’avventura bellica, la violenza subita da Rosetta, è sempre stata al centro dei lettori. I personaggi di La Ciociara subiscono, dunque, la guerra, non la incontrano direttamente. Moravia non racconta particolari eventi bellici ma i loro riflessi fisici e psichici ed etici. La guerra è considerata non in sé, ma in rapporto all’istruzione, all’educazione e alla cultura. È proprio Cesira a sostenere che non dovrebbe bastare istruire la gente ma bisognerebbe anche insegnarli come fare uso dell’istruzione perché aveva osservato che a molti l’istruzione non era servita chef a renderli peggiori. È+ soprattutto la guerra a mettere in crisi la cultura, ma prima ancora sconvolge la morale degli individui nel senso che istruzione ed etica non vanno considerate disgiunte ma profondamente connesse. Sulla “Figlia d’oro” la ciociara arriva a questa conclusione: perfezione, purezza, santità, se sono prodotte da inesperienza e ignoranza, si riveleranno sempre più deboli e proprio la guerra le farà brutalmente crollare, poiché la vera santità è essenzialmente conoscenza ed esperienza. La purezza quindi non p innata ma acquisibile attraverso le prove della vita. Se Moravia che oltre ad essere un attento osservatore era anche un fine intellettuale, affronta argomenti squisitamente etici attraverso la voce narrante della popolana Cesira. Su temi più strutturalmente culturale Michele, che dimostra di avere nelle proprie idee la stessa sicurezza di rosetta nelle sue convinzioni religiose. Solo creando un personaggio dal temperamento forte e deciso era possibile per Moravia raccontare una vicenda personalmente vissuta con il filtro di una creazione letteraria che, pur distanziandola e oggettivandola, non le facesse perdere la forza, l’energia, la pregnanza di quel vissuto. In Michele, poi, si cerca, calmo, sicuro, perentorio, sulla base del quesito esistenziale posto da Cesira, donde nasca, pur essendo vissuto, educato, istruito in pieno regime fasciata il suo antifascismo. Alla ricerca di ciò che non andava in quell’essere Michele scatenato contro il fascismo nonostante la formazione culturale ricevuta nelle scuole fascista, Cesira s’imbatte nell’unica risposta possibile: Michele, come Rosetta, non ha fatto esperienze di vita, non conosce realmente le cose di cui parla, come la religiosa Rosetta così è l’idealista Michele. L pretesa di essere puri e perfetti dinanzi alla bruttura del mondo sono in realtà delle creature fragili, soprattutto in un frangente storico eccezionale rappresentato dal conflitto bellico. Mentre la natura, che pure è violentata dalla guerra, continua indifferente il suo corso, chi ne subisce gli effetti devastanti, fino a metterla in crisi, è la cultura, intesa come educazione etica e purezza dei sentimenti. La concatenazione di queste continue pause riflessive, soprattutto se inserite nella monotonia delle giornate trascorse a Sant’Eufemia, tendeva a rallentare però la dinamica strutturale del romanzo ed è a questo punto che l’autore introduce altri episodi con nuovo personaggi, come dei micro racconti autonomi che in un certo senso anche interscambiabili, ma tutti convergenti nel tema unico della guerra che li connette costituendone il filo conduttore tanto che si potrebbe ipotizzare un modello Decameron essendo la guerra-peste la cornice in cui si inseriscono e attraverso cui si raccordano i diversi episodi-racconti. Anzi, questi si presentano come veri e propri apologhi sulla guerra, ciascuno con un suo senso compiute una morale. L’episodio evangelico di Lazzaro, letto, di morte e resurrezione, emblematico della condizione degli sfollati e di tutti gli italiani nel cruciale momento storico. Alla fine della lettura Michele evidenza l’analogia di Lazzaro e la storia degli Italiani sotto l’occupazione nazista. Per gli uomini contano più la roba che le idee. Prima la roba poi il denaro, i beni materiali non valgono nulla di fronte alla guerra. Quando i fuggiaschi soldati inglese, il giorno di Natale, vengono ospitati da Cesira, i personaggi del romanzo e i lettori sono lontani dall’immaginare che quel gesto di solidarietà sarà beffardamente ricompensato dallo svolgersi imprevedibile degli eventi: proprio per il rischio corso dalle due donne, il comando militare alleato le farà accompagnare in segno di gratitudine nel paese abbandonato di Cesira dove avverrà lo stupro di Rosetta. Tuttavia, l’episodio degli inglesi ha non solo una funzione diegetica, ma anche una sua autonomia, un proprio significato e soprattutto una dimensione di apologo sulla guerra con annessa “morale”. Significativa infatti è non tanto l’utopia di Michele che dalla liberazione nascerà un mondo nuovo e migliore ma la prima parte di un dilemma: se gli aerei alleati bombardano le città italiane piene d’arte è perché gli inglesi e gli americani non possiedono una cultura tale da conoscerne il valore, dunque, si può, intanato, inferire da questa circostanza, in linea generale che il male è provocato e prodotto dall’ignoranza. Il male è identificato nel Nazismo, i nazisti fanno il male credendo di fare il bene. La malvagità non è che una forma dell’ignoranza. L’epifania della guerra: i lati nascosti del carattere umano si rivelano; assente l’azione costrittiva delle leggi, ciascuno agisce senza freni, facendo emergere la sua vera natura e, secondo il giudizio inflessibile della popolana Cesira, chi si comporta in questo modo criminoso non può tornare a essere come prima. Va direttamente collegato alle convinzioni di Cesira sull’educazione, la perfezione e l’inesperienza di Michele e Rosetta e soprattutto in seguito alla riflessione dello stesso Michele sul male provocato da chi non sa, sull’immoralità dovuta all’ignoranza: una considerazione ispirata a un rigoroso intellettualismo etico che ora viene smentita dai fatti. L’incontro con un tenente tedesco, ufficiale nazista che si rivela ai suoi interlocutori coltissimo, ottimo conoscitore della lingua, letteratura, arte e storia italiana dichiara di aver provato una sensazione “estatica” a uccidere in guerra i nemici con un lanciafiamme, ritenendo il conflitto armato un’esperienza insostituibile. Questa affermazione sconvolgente lascia esterrefatto Michele, perché mette in crisi il suo teorema sul male prodotto dall’ignoranza: com’è possibile che possa farla un uomo colto? Anche chi sa può fare il male. Dinanzi alle barbarie della guerra si sprigionano gli istinti peggiori dell’uomo, per cui crolla tutto, non solo la perfezione, ma anche la cultura. Cesira da semplice donna del popolo si limita a constatare semplicemente che i tedeschi hanno un carattere strano e diverso. Proprio perché la guerra distrugge ciò che si vede e ciò che non si vede, si genera una confusione etica tra bene e male: si crede di fare il bene facendo il male; in guerra, pertanto, non solo la perfezione risulta inutile ma non servono neppure roba e denaro. Ancora più tragica è l’inutilità dell’istruzione, della cultura, ritorna pertanto il problema posto all’inizio del romanzo da Cesira convinta che l’educazione non è sufficiente se non se ne conosce l’uso, senza uno scatto etico. Tutta questa parte del romanzo costellata da una serie di eventi non è altro che una lunga complessa e sofferta meditazione di Moravia sugli effetti devastanti della guerra, rappresentati da episodi e personaggi che ne emblematizzano non solo il versante singolare legato a un’esperienza contingente, come quella vissuta dai protagonisti a Fondi durante la seconda guerra mondiale ma anche l’aspetto più generale assunto da ogni tipo di conflitto bellico. L’altro polo dialettico verso il quale si orienta gran pare della trama del romanzo è costituito dalla Natura. Una Natura, quindi, sconvolta dalla violenza dell’evento bellico, e pure, nonostante l’abbandono dei terreni e dei loro prodotti non raccolti, essa continua a fruttificare perché il punto fondamentale che la distingue dalla Cultura, fragile dinanzi alla guerra, è rappresentato dalla sua indifferenza, di qui la sua intrinseca forza, rispetto alla storia degli uomini: La Natura è leopardianamente indifferente alle loro gioie e ai loro dolori, alle violenze delle loro guerre e, pertanto, coltivata o violentata, continua sempre inarrestabilmente il suo corso. Va notato nel romanzo, specularmente, all’indifferenza della Natura corrisponde l’assenza della Legge: in guerra si ruba e si uccide impunemente. Cesira, invece, giunge alla conclusione che in guerra ci rimettono gli onesti, chi ruba e chi ammazza, i peggiori, si salvano. Lasciata Roma, Rosetta e Cesira piombano in piena civiltà contadina. Ed è proprio in questo spazio che attraverso la descrizione della vita dei contadini e dell’occasionale soggiorno dei rifugiati, procedendo lento il racconto, come a predisporre il precipitare rapido e catastrofico degli eventi finali, scorre, fino a emergere in primo piano, il secondo motivo del romanzo, guerra vs natura con rilievi dati guerra vs cultura. Nello scenario en plein d’air Rosetta esclama “Che bella notte, mamma” e cade in ginocchio in preghiera con le lacrime. La volta celeste con i suoi astri, la sua incomparabile bellezza, è lontana e indifferente, la miriade di stelle, il kantiano sublime matematico è inattingibile, sono loro, le due donne, a proiettarvi i loro sentimenti, a credere di stabilire un contatto, a illudersi di comunicare. La realtà naturale che circonda l’uomo rimane estranea alla sua storia. In questo scenario cangiante gli argomenti al centro delle discussioni tra i personaggi accampati sulle macerie di Sant’Eufemia si ripetono in maniera nevrotica e ossessiva. La registrazione diaristica del trascorrere del tempo e del mutarsi delle stagioni accentua la staticità degli eventi. La guerra è tuttavia in corso ma sembra lontana, gli sfollati non la sentono e non la vedono. Nelle belle giornate gli spari lontani sembrano mortaretti. A una natura brillante e quasi sorridente con promesse di felicità gli uomini contrappongono la corsa folle alla reciproca distruzione. In questo urto inevitabile, guerra vs natura, che si svolge in parallela convergenza con guerra vs cultura, solo la lontananza effettiva, anche se momentanea e precaria, dal conflitto bellico può consentire ai protagonisti, all’inizio del capitolo sesto, una tranquilla e rasserenante immersione nella solitudine e nella pace dell’alta montagna, nella cui descrizione Moravia riesce magistralmente a toccare le corde di un alto lirismo. La natura che si presenta agli sguardi stupiti e rapiti Michele, Cesira e Rosetta. Cesira si accorge che il tesoro nascosto delle favole infantili non è sotto la terra o nel fondo dei pozzi e delle grotte ma è in lei nella parte più intima e segreta della sua anima. L’estrema concentrazione su se stessa, le epifanizza una verità inattingibile in altri contesti: dopo la contemplazione della vita notturna, quando insieme con la figlia aveva osservato le stelle lontane e pregato in ginocchio sulla macera erbosa, questo è l’altro momento “religioso” di collegamento e di intesa che la protagonista stabilisce con la natura, perché l’autore al sublime matematico dell’infinito cielo stellato non fa seguire un sublime dinamico ma un altro tipo di sublime, quello maestoso delle alte cime dei monti e delle loro rupi gigantesche. Secondo un procedimento squisitamente kantiano, il rapporto della protagonista con la natura è ancora una volta proiettivo: non è in questa il sublime ma nella donna che osserva e contempla. L’escursione sull’alta montagna richiama l’ascesa al monte ventoso di Petrarca. Gli uomini vanno ad ammirare le bellezze della natura e trascurano se stessi, mentre niente è degno di essere ammirato se non la propria anima, di cui nulla è più grande. È là che è nascosto il tesoro come ha intuito Cesira. Moravia accentua lo stato regressivo, a cui giungono gli uomini condizionati dalle privazioni provocate dal conflitto bellico, come nel paesaggio della piana di Fondi mostra la decomposizione della vita stessa della natura, lo squallore a cui è ridotta quando è attraversata dalla furia distruttiva dello scontro armato. La Natura riesce sempre a superare gli scempi della guerra e che gli uomini scatenano tra di loro. Cesira osserva che intensificandosi i bombardamenti si va stabilendo una simbiosi o meglio una sinestesia acustico-visiva: il fragore delle bombe pare legato e confuso con la luce del sole come se ormai si fosse abituata alla guerra, come se il rombo del cannone riuscisse a entrare nella sua vita. Alcuni giorni prima, gli aerei erano considerati bianchi e belli, come i paracadutisti. Cesira quindi proietta più volte il suo desiderio di libertà bella potenza bellica. Sulle macchine da guerra e non solo sulla bellezza indifferente della Natura Cesira dunque proietta le proprie sensazioni, i suoi desideri, gli slanci dell’anima, tanto da giungere alla perfetta identificazione delle une con l’altra: la potenza bellica di quelle armi micidiali le sembra una forza naturale come il tuono e la valanga. Pur essendosi imposto sugli uomini e le cose l’assurdo della guerra, valeva sempre la pena di continuare a vivere scongiurando il ritorno nella tomba perché proprio il sentirsi come morta le aveva mostrato la via della resurrezione. Così il romanzo si chiude nel nome di Michele nel ricordo dei suoi insegnamenti, che avevano molto contribuito, insieme con la drammatica esperienza della guerra, alla maturazione di Cesira. Mentre l’incubo della guerra pareva finito, Cesira ha comunque quella forza di continuare che il sogno della salvezza, voluto da Michele ma in realtà dal suo desiderio inconscio, le aveva rivelato. Il romanzo si conclude, quindi, con l’evocazione della parabola evangelica e il ricordo di Michele, così come la trasposizione cinematografica di De Sica finisce con le lacrime di Rosetta quando apprende che il compagno di quegli interminabili mesi trascorsi a Sant’Eufemia era stato ucciso da una pattuglia tedesca in fuga. Maturazione avvenuta anche nella giovane donna attraverso il dolore.
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