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Consumi precari e desideri inarditi, Appunti di Pedagogia

Riassunto libro Consumi precari e desideri inarditi

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 28/01/2022

AuroraP988
AuroraP988 🇮🇹

4.2

(50)

37 documenti

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Scarica Consumi precari e desideri inarditi e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Capitolo 1. Il neoliberismo in prospettiva critica Il testo contestualizza i temi di: consumo, desiderio e precarietà, nell’ambito socio - culturale e politico -economico all’interno del quale essi prendono consistenza storica. La “pedagogia critica” è da intendere come parte della riflessione pedagogica che assume l’educazione come un momento del contesto storico-culturale di appartenenza. La pedagogia critica, dice: “non è mai esistita un’educazione neutrale”. Da qui l’importanza di porre un’attenzione storica nei confronti dei fatti e dei problemi educativi. Gli autori di questo volume intendono interrogarsi sulle ripercussioni in ambito educativo e sugli stili di vita delle persone nel neoliberismo, secondo cui l’economia è l’unica antropologia possibile. Le conseguenze si trovano sul versante economico-politico (enormi concentrazioni di potere, “tirannia” dei mercati...) e su quello antropologico-pedagogico (enfasi sulla competitività a scapito della cooperazione) con ripercussioni sul “desiderio” e sul “consumo”. Oggi, l’indebolimento del lavoro dovuto alla crescente problematicità del lavoro (aumento della disoccupazione, flessibilizzazione, transizione verso il post-divorzio) rende, probabilmente, il consumismo l’ultima fonte che consente all’uomo di affermare la sua identità. L’uomo moderno infatti, ha consegnato la propria libertà e la propria privacy alla società, nella quale compie individualmente il proprio percorso di individuazione. Ciò esige che la pedagogia cessi di costruire modelli che tengano conto solo dell’aspetto educativo e non degli aspetti economico, tecnologico e sociale. Una antropologia/pedagogia intenzionalmente critica ha il compito, invece, di elaborare prospettive di resistenza/progetto per pensare a nuove forme di organizzazione sociale, politica e lavorativa. Per Dewey, la scarsa preparazione a stimolare il desiderio di indirizzare l’economia in nuovi canali produce una mancanza di connessione tra l’educazione e le realtà che controllano la vita sociale. Infatti, l’influenza educativa delle istituzioni politiche ed economiche è più importante delle loro conseguenze economiche. Seguendo la distinzione avanzata da K. Marx tra struttura e sovrastruttura, gli “ideali educativi” sono riconducibili alla sovrastruttura. Le ragioni che spiegano tali ideali non vanno rintracciate nell’evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici nei rapporti materiali dell’esistenza e precisamente in quei rapporti di produzione che costituiscono la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Gramsci ci invita a pensare la derivazione della “superstruttura” dalla “struttura”. Per lui la superstruttura è il luogo dove può maturare una cultura capace di sollecitare il cambiamento della società. Alla pedagogia critica si uniscono anche autori come Don Milani e Dewey. Il neoliberismo ovvero la fase di trasformazione del capitalismo dagli anni Settanta e, in particolare dalla caduta del muro di Berlino, può essere visto come una riduzione di ogni dimensione umana all’economia e al profitto. - La prima età del capitalismo, dalla fine del Settecento agli anni Trenta del Novecento, è quella dell’impresa patrimoniale e familiare, del “borghese” e del capitano d’industria alla Sombart. - La seconda età del capitalismo, che si sviluppa a partire dagli anni Trenta, è quella del compromesso fordista in cui il lavoratore rinuncia progressivamente alla critica sociale in cambio di un flusso stabile e garantito di consumi e di servizi sociali che ne possano garantire l’accesso alla classe media. - La terza età attuale del capitalismo, caratterizzata da una enorme crescita di peso dei mercati finanziari, vede alcune modificazioni non solo in campo economico e politico, ma anche culturale. Il neoliberismo è un modo di intendere la cultura, la natura e l’essere umano assumendo come esempi i principi della competitività fra gli esseri umani e della riduzione dell’uomo a “uomo economico”. Il neoliberismo acquisisce pertanto i connotati di un pensiero mitico che determina quello che è possibile e quello che è impossibile. Per il neoliberismo, ciascuno può/deve diventare ricco per essere libero. Dewey, in un articolo del 1930 dal titolo “Stati Uniti, Spa”, aveva sarcasticamente denunciato il diffondersi negli USA di una mentalità centrata sull’individualismo competitivo. Oggi, i neoliberisti aderiscono al concetto di TINA (There is no alternative). A dare appoggio a questa tesi ci sono sia i rappresentanti del mondo economico sia quelli del mondo accademico e politico. Nel neoliberismo il successo, il denaro, l’arricchimento, il potere, l’economia sono assunti come fini universali. Nell’Ottocento il liberismo era concepito sulla base di un modello naturalistico per il quale il “laissez faire” era l’atteggiamento migliore da adottare in economia. Il mercato si sarebbe spontaneamente auto-regolato in quanto la competizione fra gli attori economici avrebbe automaticamente garantito il massimo incremento del benessere. Il nuovo liberismo si differenzia, invece, da quello ottocentesco perché obbedisce a un sistema di regole molto rigido che orienta l’attività economica in precise direzioni. L’enfasi sulla competizione evidenzia come il mercato non ha niente di spontaneo; è invece un insieme di rapporti sociali istituiti, un insieme di regole che determinano quali cose possono essere scambiate, come possono esserlo, chi può partecipare a questi scambi e chi ne trarrà vantaggio. Tali regole sono imposte da un comitato d’affari che lavora ad un progetto di dominio dell’economia e della politica mondiale, protagoniste del quale sono alcune multinazionali. Ciascuno dei numerosi accordi che il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale stipulano con i vari governi nazionali è accompagnato da un protocollo pensiero e del sentimento. Anche l’intelligenza del soggetto che deve occuparsi solo degli aspetti materiali dell’esistenza ne risulterà indebolita e spersonalizzata. Quantificazione, meccanizzazione e standardizzazione stanno conquistando il mondo. Hanno anche un lato positivo: le condizioni esterne e gli standard di vita sono sicuramente migliorati. Ma i loro effetti non si limitano a questi aspetti: hanno invaso la mente e il carattere e l’animo. - La libertà sta diventando un termine quasi superato: l’individuo sempre più si sente diviso in sé stesso. - Il consumo ha preso il posto del risparmio che caratterizzava i tempi precedenti in quanto una produzione accelerata di massa richiede un aumento degli acquisti. Comprare diventa un “dovere” economico. Il meccanismo industriale dipende infatti dal mantenimento di un certo tipo di equilibrio tra la produzione e il consumo. All’individuo viene detto che, perseguendo il piacere di comprare liberamente, compie il suo dovere economico. In Dewey il consumo, la tecnica e lo sviluppo economico non sono elementi negativi per la crescita delle persone, in quanto essi offrono tante possibilità aggiuntive rispetto alle condizioni del passato. Il problema si ha quando essi vengono gestiti dalla cultura affaristica. In questo modo da mezzi diventano fini. Un indicatore che, per Dewey, è capace di segnalare un’esperienza è la sua qualità estetica. L’esperienza estetica permette un’integrazione delle frammentazioni e delle divisioni dell’esperienza consentendo di vivere una esperienza, completa in sé stessa perché avente le qualità di un intero organico. L’esperienza estetica consente all’individuo di credere che la sua immaginazione sia l’indicazione di una unità che deve essere conservata. L’immaginazione ci fa toccare quel principio di continuità in base al quale le esperienze più semplici possono evolvere in esperienze più intensificate. In Dewey l’immaginazione ha una funzione di unificazione tra ondo interno e mondo esterno, tra essere e dover essere, tra reale e ideale. L’educazione è strettamente connessa a questa attività immaginativo-estetica. L’immaginazione impedisce che il vivere quotidiano si riduca a una vita apprezzata solamente per i suoi tangibili risultati esterni. La meccanizzazione della vita sociale ostacola, invece, quel protendersi verso sviluppi pieni di futuro e in direzione di esperienze compiute. Questo vale anche in ambito lavorativo: coloro che sono impegnati nel lavoro di riproduzione e distribuzione di beni di consumo non hanno alcun ruolo, immaginativo, intellettuale, emotivo, nella direzione delle attività a cui prendono parte. Se molte persone sono escluse dalla possibilità di usare il pensiero, le emozioni e l’immaginazione nelle loro attività quotidiane, allora è impossibile giungere a un livello intellettuale diffuso. La prospettiva deweyana introduce un criterio interno per valutare gli esiti di un’organizzazione sociale in quanto l’esperienza contiene fra le sue caratteristiche primarie il protendersi verso nuove esperienze più intensificate. Dewey adotta pertanto un criterio intrinseco per valutare le evoluzioni dell’esperienza. Educare significa fare esperienza e portare a compimento le potenzialità evolutive dell’educando. Una dimensione economica che si pone come struttura esterna che determina l’evoluzione dell’esperienza è un criterio estrinseco che sollecita le persone dall’esterno lasciandole prive di un’esperienza ricca e immaginativa. Il consumo e il desiderio vanno collocati in questa prospettiva: se per esempio sono i valori economici a prevalere, allora vi è una prevalenza dei valori di scambio. Le persone “devono” consumare in quanto indotte a farlo da un sistema di pressioni estrinseche. A motivo dell’indebolirsi di criteri intrinsechi dell’esperienza a favore di criteri estrinsechi, la società dei consumi è caratterizzata da un “deficit simbolico”. Occorre infatti riconoscere che il semplice scorrimento delle merci e degli stili di vita non può bastare a dotare una società del materiale simbolico necessario per la sua identità. L’uomo realizza sé stesso tramite le “cose” che non sono veri strumenti, ma espressione del suo percorso di umanizzazione. Ma le cose non sono frutto di un vero rapporto di scambio che sveste gli oggetti del loro intrinseco valore simbolico per rivestirli di significati aggiunti utili alla loro collocabilità sul mercato. Se è un meccanismo di comparazione a dare alle cose un significato, essere subiranno un deficit simbolico che non potrà essere superato se non si torna ad amarle. L’esperienza ha, quindi, una dimensione di “intrinsecità” che si perde quando la riduciamo a un insieme di stimoli a cui il soggetto reagisce. Il desiderio di essere sollecitati, stupiti, sorpresi da una cosa instaura con essa un rapporto “alienato” in cui si attende, passivamente, che l’oggetto abbia un’iniziativa. Winnicott, dice che essere vivi significa sentire di esistere anche quando lo stimolo è cessato. Re-agire è diverso da agire. Nel primo caso il soggetto è passivo e dipende dall’oggetto (reagire); nel secondo è attivo e trova nella creatività del vero sé il suo sguardo sul mondo (agire). Fromm dice che l’incremento delle dipendenze nell’attuale società ha la sua radice in un sé demotivato, senza desiderio, fragile, bisognoso, con un costante bisogno di essere attivato, stimolato, dall’oggetto. Sempre Fromm sottolinea la differenza tra “stimoli attivanti” e “stimoli passivanti”: quanto più uno stimolo è passivante, tanto più deve essere cambiato; quanto più è attivante, tanto più mantiene le sue caratteristiche. L’indebolirsi del desiderio dipende da questo eccesso di sollecitazioni che sovrasta l’intenzionalità del soggetto. Quest’ultimo si attiva, come suggerisce Dewey, solo di fronte ad un mondo che gli resiste e di fronte al quale è necessariamente passivo. Ma confrontarsi con tale passività è la condizione indispensabile per scoprire le risorse della propria soggettività giungendo a nuove qualità dell’esperienza. La “resistenza” dell’oggetto è la condizione per amarlo. Lo stato diffuso di comfort in cui è soggiogato il soggetto post- moderno gli impedisce di confrontarsi con la passività, presente in ogni esperienza. Il piacere è diverso dalla gioia, la felicità è diversa dall’eccitazione, il desiderio è diverso dal bisogno. Nel bisogno si dipende dall’oggetto: senza di esso non si esiste. L’oggetto è parte del sé e in quanto tale, l’oggetto è consumato. Nel desiderio l’oggetto è separato dal sé, in quanto tale, può essere visto, rispettato, cercato, amato, odiato, conosciuto. Anche l’aspetto drammatico e tragico della vita è una conseguenza del desiderio perché l’oggetto, in quanto altro dal sé, può anche essere perduto, deluderci, contraddirci, farci del male. Per concludere, possiamo affermare che l’educazione, il gioco, l’apprendimento, l’interesse, il desiderio sono “stati mentali” di apertura e di disponibilità all’esperienza. Dove, a fronte di una realtà resistente, il soggetto gioca un ruolo attivo e non dipende da sollecitazioni esterne o da oggetti di consumo. In tal senso, la precarietà può essere considerata una modalità di sperimentare il rischio in quanto, nell’attuale organizzazione socio-economica, il soggetto è privato della sua capacità di rielaborare creativamente la realtà ed è tenuto in uno stato di passività, pur essendo invitato ad essere attivo. La prospettiva deweyana è certamente ottimistica. Egli crede che la nostra cultura materiale sta per diventare collettiva e associata e che solo la persistenza di un vecchio individualismo centrato sulla mentalità affaristica, che mette al centro l’economia come sistema di potere e di controllo, ostacoli questo cambiamento. Il nuovo individualismo definito da Dewey è attivo e partecipativo. Le analisi di Dewey che abbiamo richiamato risalgono agli anni Trenta. E oggi? Dobbiamo riconoscere che Dewey ha perso la sua battaglia. La vita associata è stata messa in secondo piano dalla centralità dell’economia, del mercato, della tecnica e dei poteri che dietro di essi si celano. L’educazione come evoluzione intrinseca dell’esperienza ha ceduto il posto a un’educazione sempre più finalizzata verso specifici obiettivi utili alla competizione. Il modello educativo che mira all’acquisizione di competenze in un’ottica competitiva introduce una frattura rispetto ad un modello di educazione basato sulla centralità della democrazia. Al concetto di democrazia si preferisce quello di “cittadinanza”, dove si dà più importanza all’individuo che alla democrazia in quanto pratica condivisa e dove il diritto alla partecipazione cede il posto ai “diritti negativi” (diritto alla proprietà privata, a essere tutelati, a consumare in modo libero, a criticare l’operato dei politici senza proporre soluzioni alternative). Secondo i risultati di alcune ricerche, i giovani considerano l’espressione della libertà come più importante della democrazia, evidenziando così un divario tra il valore in sé stesso (libertà) e la forma politica che ne permette l’esercizio (democrazia). Queste evoluzioni degli ultimi decenni non implicano che l’attuale epoca non sia connotata anche da evoluzioni e potenzialità. Temi come quelli della realizzazione di sé, dell’importanza della relazione e dell’empatia, del rispetto per la diversità. Si pensi che la grande “scoperta” della centralità delle relazioni nella costruzione della personalità, risalente agli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, fa ormai parte del sentire comune. In poco più di mezzo secolo alcune sensibilità sono completamente cambiate, in meglio. Una interessante prospettiva sui tempi attuali viene delineata dal “neoliberismo soft” di A.Giddes. A suo parere, la società tardo-moderna è caratterizzata da un incremento della riflessività della vita sociale, conseguenza di meccanismi di disaggregazione che permettono di individuare i rapporti sociali dai contesti locali di interazione il loro ristrutturarsi attraverso spazio-tempo indefiniti. Il sé diviene un “progetto riflessivo”. Giddens riconosce alla società tardo-moderna, tuttavia, una crescente esposizione psicologica al rischio, che deriva dall’indebolimento della fiducia di base necessaria all’identità e da un venir meno - I mercati si liberano dei vincoli sociali e in più, si auto-regolano e non accettano interventi esterni; - Grazie alla finanziarizzazione del capitale, si riscontra una crescita di autonomia del capitale rispetto al lavoro. In secondo luogo, il capitalismo neoliberista consegna il lavoratore stesso a una condizione di illimitatezza e di infanzia adulta. O meglio, fa subentrare un limite anti educativo per la crescita personale ed interpersonale. L’unica che detiene e che può dire la verità è l’economia. Non c’è limite alla libertà espressiva. Non c’è limite alla libertà dettato dalla responsabilità verso sé stessi e gli alti, perché non esiste altra responsabilità che quella di capitalizzarsi adeguatamente. Non c’è un limite che estranei il singolo al godimento di poter sperimentare la gioia di essere considerati e amati dalla madre/datore di lavoro, dando quotidianamente prova di meritare un simile amore tramite il corretto uso delle facoltà personali, e di poter continuare, così, ad accedere al consumo. Non c’è un limite al godimento e coerentemente non può esserci una direzione della maturazione soggettiva, perché il lavoratore è compreso come un eterno bambino; non esistendo un limite all’auto investimento, giorno dopo giorno deve dimostrare di saper crescere ma in realtà non c’è alcuna crescita, determinando il relegarsi in una situazione infantile destinata a non poter mai raggiungere la maturità. Infine non c’è un limite che produca libertà autentica, responsabilità e autonomia sincera perché ciò che propone il capitalismo neoliberista è essenzialmente uno “slegame” sociale nel lavoro. È invece nella relazione educativamente significativa che si creano i presupposti per un abbandono del godimento a favore del desiderio. Il lavoratore coopera per l’efficienza produttiva, ma resta un competitore in vista del mantenimento dell’occupazione e della conquista della felicità privata. In terzo e ultimo luogo, il capitalismo neoliberista consegna questa libertà. Il lavoro è il dispositivo cruciale per la diffusione dell’economia. Tutti, pure quando non lavoriamo, siamo sollecitati ad esercitare la libertà di farsi unità-imprese in competizione con altre unità- imprese, nella ricerca dell’interesse individuale, della soddisfazione del consumo. Si aggiunge infine, la precarietà. L’incertezza, insieme alla concorrenza è l’anima del mercato. La precarietà agita le passioni tristi collegate con il timore di perdere il lavoro, il cui avvenimento è accompagnato da un “senso di colpa personale”, nutrito dalla sensazione che non ci si sia attivati abbastanza sul piano dell’auto-investimento. La precarietà costringe all’impoverimento relazionale. Quello che rimane, che è sempre presente è la merce, il prodotto. Si potrebbe dire che siamo nell’era dove uomini-cose (mezzi) producono cose (fini) per acquistare cose (fini) e goderne intimamente (fine). In tutto questo che cosa c’entra la pedagogia? Essa si inserisce in quell’area di vulnerabilità biopolitica e bioeconomica che si scorge nei poteri autonomi delle persone. Per spiegare cosa centra la pedagogia occorre tornare al godimento. Il godimento si può intendere come assenza di un desiderio progettuale, incapacità/impraticabilità a maturare, annullamento di una tensione etica in favore di uno sconfinamento in quella estetizzante. L’immersione nella merce spinge il soggetto a perdersi nell’oggetto percepito. Il primo luogo in cui si avvera la sparizione del soggetto è l’oggetto di consumo scatenando infinite voglie di godimento e un’insoddisfazione incolmabile che porta nuova insicurezza. Ma l’oggetto di consumo non è il solo oggetto in cui perdersi. L’oggetto della sparizione umana può essere individuato nei beni altrui o pubblici oppure nell’altro/a come oggetto di consumo sessuale o nel consumo di sostanze stupefacenti. La situazione presentata si mostra critica. La riflessione pedagogica può contribuire a risolverla, partendo dalla consapevolezza che, prima di tutto, occorre intervenire sulle condizioni di lavoro, in quanto dispositivo principale al servizio dell’economia. Agire liberamente vuol dire agire tenendo conto della possibilità di conseguire traguardi di evoluzione personale. Per quanto riguarda un discorso pedagogico attinente all’attività lavorativa, la facoltà di agire in termini di libertà rinvia all’opportunità di processualizzare l’azione in una dinamica interattiva dedicata all’attualizzazione delle energie individuali messe in campo in vista di un’auto-realizzazione. Affinché le relazioni diventino relazioni educativamente significative c’è bisogno che il semplice “agire in libertà” muti in “agire in libertà con impegno nei confronti degli altri”. La significatività dell’azione libera risiede nella significatività di un “oi operante” che condivide il valore educativo della realizzazione soggettiva. In gioco c’è un duplice interesse, umano ed economico, che la pedagogia cerca di soddisfare. La significatività dell’agire lavorativo nasce dalla eventualità che ci si possa muovere liberamente e responsabilmente tra azione, riflessione critica sull’azione e negoziazione sui risultati dell’azione, rispondendo agli interrogativi che emergono nel processo lavorativo. La formazione capacitante è una formazione integrale che libera la persona nel rispetto della salvaguardia del suo potenziale globale e della sua dignità con particolare attenzione alla formazione emotiva centrata sul sentire l’altro. Capitolo 3: Formarsi dentro e oltre le maglie neoliberiste Nel nuovo millennio si sviluppa il neoliberismo. Un testo di pedagogia sul neoliberismo dovrebbe interessare un educatore o una formatrice, per due motivi: primo perché la società in cui ogni essere umano vive determina le modalità di fare educazione; la seconda ragione sta nel fatto che il neoliberismo impone a ciascuno di noi uno spiazzamento rispetto a una zona di comfort: la formazione esce dai luoghi preposti per l’insegnamento e l’educazione. Il mondo di oggi ci fa vivere una complessità formativa inedita che va dalla dimensione fisica a quella virtuale (i media e i social network), dal tempo-scuola al tempo-consumo passando per il tempo-libero e il tempo-lavoro. L’assunzione di una visione ampia del formativo non è quindi soltanto una nuova consapevolezza della ricerca pedagogica; piuttosto, è il punto di partenza con cui attori e protagonisti investono sulla formazione dei popoli e degli individui. Assumere un punto di vista pedagogico e clinico sulla realtà necessita di riconoscere la complessità della società, respingendo ogni forma di riduzionismo. Complessa è la struttura di un essere vivente, quella di un atomo, il sistema economico, quello nervoso, complessa è la società. Complessa è la vita. Di cosa si parla, quando si dice “complessità”? essa si configura come una critica del riduzionismo. Ciò che viene ritenuto complesso è sempre un sistema. Si parla di sistema nei vari ambiti: in quello organizzativo (il sistema-azienda), sportivo (sistema di gioco), politico-economico (sistema capitalistico). Ciò che accomuna questi usi è l’idea di un insieme di elementi che ha una propria unicità. Un sistema forma un’entità organica, globale e organizzata. Un mucchio di sabbia, ad esempio, non è un sistema perché non è organizzato, i granelli non sono in interazione e possono essere tolti o scambiati senza modificarne la natura del “mucchio”. I sistemi viventi, e quello umano in particolare, si definiscono complessi perché vivono di interazioni interne e verso l’esterno, sono cioè aperti; sono non lineari, in quanto la modifica di una relazione non produce una risposta automatica; si pensi agli input educativi all’interno del sistema-classe, cui non corrispondono risposte lineari. La relazione verso l’esterno e la non casualità tra input e output rendono ogni contesto sistemico in costante modificazione, evoluzione. Tutto ciò che riguarda il vivente va interpretato in chiave complessa, in quanto un sistema è qualcosa di meno e di più della somma delle proprie parti. Da una parte la rete di rapporti e l’organizzazione impongono dei vincoli che limitano le potenzialità; dall’altra, quello stesso insieme è qualcosa di più della somma delle parti, da cui emergono possibilità e qualità che senza tale rete non esisterebbero. Abbiamo dunque bisogno di strumenti che sappiano cogliere la società complessa nelle sue articolazioni. Pensare pedagogicamente e agire educativamente significa porsi l’obiettivo di generare forme di esperienza esistenziale alternativa, valori concreti e materiali. Non ci si può illudere che schemi di azioni educativa possano essere la risposta a fronte di una società complessa, attraversata da modelli culturali molteplici. Piuttosto, si deve immaginare proposte pedagogiche nuove, che non pretendano il controllo degli spazi, dei tempi e dei significati di appartenenza gruppale dei su di sé e per sé in base alla dinamica del mercato. Nell’epoca in cui ciascuno è capitalista di sé stesso, non esistono più sfruttati e sfruttatori, ma solo sfruttatori di sé, auto-sfruttatori. La società neoliberista pensa l’umano come elemento dinamico in perenne formazione. La precarietà è una forma del lavoro che vale universalmente anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Viene posto in questione il determinarsi di una modalità nuova di pensare la formazione e la soggettività, l’educabilità dell’uomo. Se è vero che l’umanità ha da sempre consumato per rispondere ai propri bisogni primari, va tuttavia riconosciuto che a partire dal 1800 e dall’espansione del modello capitalistico a tutto l’Occidente avviene un importante salto di qualità, con la distribuzione di merci e la conseguente moltiplicazione di bisogni e desideri. Lipovetsky distingue tre fasi storiche nello sviluppo della civiltà consumativa: 1. Quello del consumismo di massa (iniziato a fine 800 e conclusosi con la Seconda Guerra Mondiale); 2. La crescita economica e l’allargamento dell’accesso ai beni di consumo di massa. Felicità privata e diritto allo svago sono i principali ideali di questa fase, che promuove il diritto a godere del piacere della vita senza fermarsi al giudizio altrui, vedendo nella merce un oggetto con un grande significato simbolico, un fine in sé stesso. 3. Si apre la strada per la terza fase, quando la logica dell’acquisto diventa individuale connessa a un piacere provato piuttosto che a un’esigenza di riconoscimento sociale. Oggetti come veicolo da consumare per provare emozioni e vivere esperienze. Lo spazio sociale si riduce a mercato, luogo di acquisto e vendita permanente, in cui tutti sono incentivati a promuovere una merce attraente e a farlo con le forze di cui dispongono, al fine di accrescere il valore di mercato di ciò che vendono. Ma la merce che ciascuno mette sul mercato è solo sé stesso. Sono stati individuati due dispositivi specifici della nostra contemporaneità: quello prestazionale e quello del consumo. Essi si innestano all’interno di un processo di individualizzazione. Ciò significa che le sfide educative del nostro tempo non possono confrontarsi con lo stato attuale dell’arte: 1. Quotidianamente tanto i bambini quanto gli adulti si trovano investiti da una pressione sociale e da meccaniche produttive-riproduttive che ne chiedono il raggiungimento di obbiettivi. Le tecniche di valutazione, monitoraggio, controllo rispondono all’esigenza di misurare la prestazione e di formare soggetti capaci di rimettersi in discussione, spingersi a dare sempre di più. Questa dinamica è ben visibile nelle varie sfere della nostra esistenza quotidiana, dalla scuola al lavoro fino al tempo libero. 2. Larga parte del nostro agire viene orientata dal principio del consumo, dall’acquisto di oggetti ma anche dalla mercificazione di ciò che non è consumabile: il principio di individualizzazione sta investendo la dimensione sociale e relazionale. Costruire una proposta educativa all’interno della società del capitalismo neoliberista significa ripensare a tecniche e pratiche che vadano oltre l’autoritarismo classico. La società ha aumentato il suo livello di complessità, e i meccanismi di individualizzazione lasciano a ciascuno di noi più solo di fronte alle sfide di comprensione e azione all’interno dei processi di riconoscimento, auto - realizzazione. Ciò sta comportando una riduzione degli spazi di educabilità e socializzazione consapevole. Il dispositivo produrrà due tipi di linee, quelle di stratificazione e quelle di fuga. Le prime sono linee che vedono il raggruppare apprendimenti, abitudini di strati consoni al dispositivo; le seconde includono tutto ciò che non può essere integrato all’interno del dispositivo. Le linee di fuga sono accomunate dall’uscita dal dispositivo, ma esse svolgono un ruolo all’interno della struttura stessa del dispositivo: possono modificarlo e romperlo. Si deve cogliere la linea di fuga come processo di soggettivazione ma anche centrare l’analisi sul momento educativo, sia come alterazione che come produzione del nuovo. Il primo gesto educativo deve essere quello di riconoscere e accogliere le linee di fuga che si producono rispetto ai dispositivi strutturati. I dispositivi neoliberisti fanno leva su strutture solide e liquide, tuttavia, il tentativo di integrare ogni opzione critica come elemento di innovazione e modificazione del sistema, non sempre funziona. Abbiamo bisogno di recuperare educativamente la dimensione formativa esistente nel campo sociale extra-istituzionale: assumere la società come uno spazio educativamente comprensibile. La sfida di oggi e di domani non riguarda solo il rilancio di un senso educativo nell’agire sociale; essa riguarda anche lo stare insieme nella forma di una società democratica. Educazione e democrazia: entrambe chiedono una risposta a un capitalismo che pensa l’educazione come auto - valorizzazione di soggetti produttivi e la democrazia come individuale messa a disposizione di beni di consumo. Capitolo 4. La condizione giovanile e i rapporti etici per educare al desiderio oltre il godimento Per quanto riguarda i giovani e il loro rapporto con il desiderio/godimento nell’era del neoliberismo, bisogna partire dalla condizione giovanile, affidandoci alle indagini empiriche condotte su di essa. I giovani italiani risultano fermi nel presente e riluttanti rispetto ad un’apertura verso il futuro. Una minaccia sostenuta da una visione del domani regolata da un regime competitivo di origine economica ed ancora ad un’occupazione incerta e, comunque, legata ad un lavoro insufficiente e sottopagato. Il loro presente è anche riempito da un coinvolgimento dei social media, concepiti come tramite per la ricerca di un riconoscimento identitario e di una società virtuale. I giovani italiani di questo primo nuovo secolo sono animati da sfiducia istituzionale generalizzata, inosservanza delle regole, mentre c’è l’impulso a far avanzare l’immagine di sé e la tendenza ad esprimersi superficialmente nell’apparenza con l’ausilio dei social. A proposito dei social media si può aggiungere che la vendibilità di sé è una esibizione di sé finalizzata alla conquista della popolarità e del “successo” riscontrabile nella voglia di divenire youtuber affermati imitando altri giovani che ci sono riusciti facendo della vendibilità di sé un’occupazione a tempo pieno. Per i nostri giovani, ancora, la mamma rimane il punto di riferimento, seguito dai coetanei. La scuola, invece, non lo è altrettanto, poiché avvertita come mezzo per acquisire conoscenze e competenze in base alla futura esperienza lavorativa piuttosto che per agire la vita. e nemmeno lo è la famiglia nel complesso, poiché sentita più come un contesto in cui semplicemente vivere, che come un luogo di scambio. Siamo di fronte a giovani fortemente disorientati, in bilico tra demotivazione - disimpegno e voglia di mettersi in discussione con gli altri per rinvenire il proprio percorso identitario e la propria autonomia, e, inoltre, desiderosi di figure educativamente significative che attenuino le difficoltà rilevate nei rapporti intergenerazionali. Inoltre, si scrive di giovani che vivono le relazioni interne al nucleo familiare all’insegna di un clima interattivo neutrale e che non sentono il bisogno della responsabilità. Si scrive di giovani nichilisti, frutto del nichilismo che si basa sulla crisi valoriale post- moderna e sul senso di vuoto che l’accompagna. Si scrive, anche, di giovani narcisi, centrati unicamente su sé stessi. L’autocentratura e l’amore esclusivo per sé sembrano effettivamente la conseguenza del “nichilismo neoliberista”. Capitolo 5. Immaginare la formazione a venire Si è visto come il tempo neoliberista si caratterizzi per il passaggio a un regime di controllo che integra e supera quello disciplinare; al suo interno c’è un doppio dispositivo: quello prestazionale, che libera il desiderio nell’auto-affermazione come imprenditore di sé e quello consumistico, che impoverisce le forme della relazionalità riducendole all’uso strumentale e moltiplica occasioni di consumo, accessibili con il denaro. Se riconoscere la formatività di questi dispositivi è il compito del ricercatore, assumerli come agenti concreti modificabili è il compito dell’educatore; ciò si rende possibile solo a partire dalla formatività del campo sociale, sia negli spazi educativamente intenzionati sia in quelli non intenzionati. L’allargamento dello spazio dell’educativo al campo sociale extra-istituzionale rappresenta dunque il primo passaggio da fare, per favorire una piena comprensione delle dinamiche formative che agiscono all’interno del neoliberismo. Significa tornare a inserire un punto di vista pedagogico, in grado di cogliere il divenire dinamico delle soggettività singolari e collettive: ecco che i social media potranno essere letti non solo come il luogo di una perdita del tempo, ma anche come lo spazio educativo; l’alternanza scuola-lavoro non sarà più soltanto il momento di un apprendimento sul campo, ma sarà visto anche come lavoro non retribuito, ma al tempo stesso come risposta alla voglia degli studenti di mettersi alla prova e imparare facendo. La necessità teorica è quella di cogliere gli elementi di dipendenza e disumanizzazione presenti nei meccanismi formativi, focalizzandosi al tempo stesso sul bisogno espresso, fino a determinare i nuovi bisogni. Il triangolo rappresenta la fondamentale griglia formativa del tempo neoliberista: 1. Processo di individualizzazione; 2. Dispositivo prestazionale; 3. Dispositivo consumistico. Il processo di individualizzazione, iniziato con il liberismo moderno e l’avvento del capitalismo, ha portato negli ultimi quarant’anni alla frantumazione dei contesti di socialità tipici del 900 ed ha determinato l’innestarsi del doppio dispositivo. Il dispositivo della prestazione, basandosi sull’idea di concorrenza si radica sul singolo e forma lo spazio della riflessività; il dispositivo consumistico respinge il desiderio individuale dentro una logica di riconoscimento di sé negli oggetti, sviluppando meccanismi solitari. Al terzo lato del triangolo, la connessione tra prestazionalità e consumo è determinata dal movimento deterritorializzante che vede il soggetto in perenne movimento tra il divenire altro e il costruire il senso. È necessario che la pedagogia avvii vere e proprie inchieste socio-educative, che permettano di mettere a fuoco i modi con cui i due dispositivi agiscono sugli specifici contesti. Bisogna arrivare a capire dove e come, nelle pratiche quotidiane, la forma del consumo invade le relazioni. Neoliberismo e inchiesta sono i primi due punti per una pedagogia del presente e del futuro che sappia tenere insieme l’analisi della fase storica e l’azione educativa. Il neoliberismo ha prodotto una riduzione degli spazi di educabilità e socializzazione consapevole, determinando una sempre maggiore dipendenza delle istituzioni formative all’economia: il mercato entra nella vita sociale. Si prenda la scuola secondaria come esempio: la competizione tra istituti per le iscrizioni, la pubblicazione dei successi di rendimento, l’esaltazione dei voti e poi la differenziazione per tipologia, con i licei come luogo di un’eccellenza formativa e i professionali come rappresentante degli emarginati e degli improduttivi. Quarto elemento, dopo il triangolo, l’inchiesta e la decostruzione dei dispositivi, è l’assunzione dell’evento come momento centrale dell’educazione. C’è un quinto punto: si è parlato di come il neoliberismo nasca e si alimenti dentro la crisi delle autorità prodotta dalla rivoluzione del Sessantotto. Nel Sessantotto il potere autoritario viene attaccato come movimento di diseducazione collettivo alle strutture della formazione: sia con i genitori sia con la scuola, nei gruppi di pari, nell’organizzazione delle serate tra amici e nell’esperienza cooperativa fino alla politica. Il Sessantotto si porta via il modo relazionale dell’autorità e con esso l’intera società disciplinare. Il primo passaggio da fare sta nel sottolineare la totale insostenibilità dell’autoritarismo educativo: l’autorità classica, sui cui è nata e si è strutturata la nostra cultura educativa, è morta. Quel modello, secondo cui il potere di una persona è proporzionale alla sua specifica posizione nel mondo sociale è superato: la superiorità del docente, del genitore, del politico non c’è. La fine del mondo autoritario classico crea un vuoto, non colmato da nuove strategie e azioni educative: si pensi alla scuola e alla famiglia, ai contesti urbani post-disciplinari. Partire dall’insostenibilità del vecchio modello ci permette di individuare nell’esigenza del riconoscimento il primo elemento di reciprocità su cui pensare l’educazione per il futuro. Il “vero” dell’azione può emergere solo dentro il reciproco riconoscimento, che sempre può e deve rigenerarsi e rinnovarsi nella nostra azione. Fondare una pedagogia critica sulla teoria del riconoscimento significa affermare l’insuperabilità del patto come evento costituente l’azione educativa. Il patto educativo diviene lo strumento del reciproco riconoscimento del percorso di soggettivazione. Il patto educativo è il risultato di un incontro tra soggettività che convivono. Parlare di pedagogia anti-autoritaria del riconoscimento ci permette di interrogare i luoghi del nostro vivere sociale, sulla loro reale capacità di riconoscerci. La forma assembleare è quella che più di tutte si presta a un approccio anti-autoritario e volto al riconoscimento di ogni singolarità: è il luogo in cui porre questioni, avanzare proposte e risolvere problemi e costruire i confini dello stare insieme. L’assemblea, nel suo porre ogni persona di fronte alle altre come eguale, trova la sua auto - legittimazione. D’altro canto, l’assemblea permette l’emersione di forme conflittuali e impegnate a decostruire il portato di violenza che invece il potere dell’autorità educativa porta sempre con sé. Il patto educativo deve essere rinnovato: non basta l’assemblea a favorire il dialogo in una famiglia o in un centro di aggregazione giovanile; non è sufficiente laddove non si ha l’abitudine alla presa di parola democratica, come in un luogo di lavoro. È necessario costruire e valorizzare situazioni capaci di rinnovare il valore del patto, dove il riconoscimento di un bambino come interlocutore reali si affermi anche nei momenti in cui la regola viene violata, la fiducia tradita. In che modo le soggettività si sentono considerate nel capitalismo della prestazione? Il capitalismo prestazionale lavora i soggetti attraverso la spinta all’auto valorizzazione. Il riconoscimento è in realtà solo potenziale, va guadagnato, in quanto tu esisti solo se acquisisci un valore che ti rende riconoscibile. Si diventa soggetti a partire dal campo che è il mercato: centro di produzione del valore, diviene luogo unico per un riconoscimento. Qui sta il compito formativo del dispositivo prestazionale, che agisce non più esteriormente, ma nel riconoscimento di sé. Dovremo fondare una pratica del riconoscimento che disinneschi il dispositivo prestazionale individuando nell’assemblea e nel patto educativo i momenti da rinnovare continuamente. Riassumendo ci sono due elementi cardine del dispositivo neoliberista: - l’individualizzazione, attraverso la ricostruzione di una comunità - il principio prestazionale per cui il riconoscimento sociale è un punto da raggiungere per la propria valorizzazione. Lavorare per costruire una comunità educante significa rimettere insieme le varie agenzie educative, evitando conflitti. Scuole e centri di aggregazione, parrocchie, famiglie, gruppi di pari, amici, cittadinanza: pensare la comunità educante come un’esperienza democratica, fatta di reciproco riconoscimento e tentativi, di scelte condivise e sani conflitti. Si pone al centro la comunità che si auto-educa, assumendo pratiche non autoritarie, rinnovando il coinvolgimento non competitivo delle diverse agenzie formative. Quindi si configura un modello pedagogico democratico basato sulla responsabilità dei soggetti e sul fare. Parlare di comunità educante come proposta pedagogica, strategia sociale e gesto politico, significa rimettere in discussione buona parte dei dispositivi in atto. Quale figura servirebbe per costruire e preservare la comunità educante? Servirebbe un educatore con alta capacità di analisi dei processi, un educatore che sia “non educante”, perché attendo a individuarne le resistenze come luoghi principale della soggettivazione. Un educatore che fondi la propria azione sul patto educativo sempre rinnovabile e negoziabile con gli altri, che sappia assumere una postura democratica, al fine di legittimare sé e stimolare la responsabilizzazione altrui. Una figura capace di collegare attorno a sé altre figure esperte, docenti con conoscenze specifiche. Una persona significativa perché in grado di appassionare e farsi desiderare, di attivare sentimenti. Dovrà essere un educatore che lavori per scelta e non per necessità, interrogandosi sul perché lo porta a occuparsi della vita degli altri e di una comunità. all’idea che l’economia fosse la più importante delle attività umane. Occorre riconoscere che, accanto al neoliberismo nuove sensibilità stanno maturando. Esse spingono verso una cultura che non abbia al centro l’economia, ma il bene comune, le relazioni, la democrazia, la giustizia, l’educazione. L’attuale situazione di crisi sul versante economico-politico-culturale può essere interpretata come l’occasione per un cambio di direzione che coinvolge non solo l’economia, ma soprattutto la dimensione culturale e anche spirituale. Indicazioni interessanti a tale proposito si trovano “nell’Enciclica Caritas in veritae” di Benedetto XVI. Essa collega i molteplici problemi della contemporaneità (dall’assolutizzazione della tecnica alla globalizzazione, dalla gravità dell’attuale situazione economica all’urgenza di una rinnovata solidarietà nei rapporti con i Paesi in via di sviluppo) con la necessità di uno sviluppo umano integrale. L’Enciclica sottolinea come non sia sufficiente progredire solo da un punto di vista economico e tecnologico. L’uscita dall’arretratezza economica non risolve la complessa problematica della promozione dell’uomo: occorre una nuova progettualità, una civilizzazione dell’economia. Si deve perseguire un autentico umanesimo; che si può raggiungere, però mettendo al centro il principio di gratuità, il dono, la carità. Anche sul versante economico, infatti, senza forme di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente svolgere la propria funzione economica. Invece, Latouche si oppone alla “crescita per crescita”. A suo parere c’è la necessità di desacralizzare l’economia. Lui introduce il tema della decrescita. Per lui la decrescita si configura in un percorso educativo di disintossicazione dalla crescita, dal progresso con la rivoluzione industriale e la tecnologia. La pedagogia mostra un’attenzione ancora marginale al tema dell’interazione fra economia, cultura, educazione e consumismo. A conclusione si possono riassumere delle brevi riflessioni che, consentano di inquadrare in modo nuovo le problematiche delineate permettendo, così, di individuare aree di praticabilità per una rinnovata azione educativa: 1. L’uomo contemporaneo ha acquisito un’accresciuta sensibilità per tempi quali la cura, l’empatia, la relazione, l’auto-realizzazione, il rispetto della diversità. Questi concetti si riferiscono però a un “altro reale”, non a forme di autocompiacimento. Essere sé stessi significa anche tentare di cambiare il mondo. Occorre, pertanto, riscoprire forme di “generatività” e di “creatività culturale” che si propongono di migliorare il contesto sociale e ambientale; 2. Alla diffusione di un mono-culturalismo liberista globalizzato occorre contrapporre un rispetto della diversità. È necessario entrare in relazione con l’altro anche senza comprenderlo. Ogni cultura è un universo che richiede un’empatia e rispetto; 3. Al mono-culturalismo globale occorre contrapporre forme di riterritorializzazione e di ritorno ai luoghi; 4. Al globalismo neoliberista e alle ripercussioni sul versante culturale, sociale, istituzionale ed educativo occorre contrapporre azioni consapevoli di resistenza; 5. Occorre sconfiggere il mito per cui l’evoluzione della società si basa sulla competizione. Tale convinzione identifica la competizione con lo sviluppo sociale e interpreta la solidarietà come un “correttivo morale” che rallenta lo sviluppo. Ogni fenomeno complesso evolve, invece, se accanto alla competizione esistono forme di cooperazione e solidarietà che tengono assieme le diverse istanze. Se la competizione prevale sulla cooperazione il sistema si disgrega. Insistere sulla competizione è corrosivo nell’educazione. Nella scuola, in particolare, l’insegnante non sa, se educare alla democrazia e alla collaborazione o educare all’individuo competitivo e imprenditore di sé. Occorre pertanto impedire che l’approccio competitivo prenda il sopravvento in questi ambiti; 6. È necessario pensare a altre forme di economia che riportino il mercato dentro la comunità, che rafforzino il sistema di legami sociali, che mirino a una reale responsabilità sociale d’impresa; 7. Poiché l’economia è una parte e non il tutto della società, la cultura rappresenta un fattore centrale del cambiamento; 8. Occorre pensare in modo critico; 9. A fronte della passività a cui è tenuto il soggetto nella società estetizzata, occorre rivendicare l’importanza di un’esperienza estetica; 10. Occorre sviluppare un amore per la natura. Nel pensiero ecologico, infatti, la natura è considerata come risorsa a uso e consumo dell’uomo.
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