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Contenuto completo per preparazione esame di istituzioni di estetica., Appunti di Estetica

Il testo contiene discorsi trattati a lezione con la professoressa: l’estetica e la sua nascita, Kant “la critica del giudizio”, l’analitica del bello, Baumgarten.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 30/05/2023

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Scarica Contenuto completo per preparazione esame di istituzioni di estetica. e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! Istituzioni di estetica. Posizione ambigua resistente di Kant verso l’estetica nella Critica della Ragion Pura. In essa, nel 1781, Kant è molto sospettoso nei confronti dell’estetica come disciplina filosofica, non credo che il progetto di Baumgartner di fondere un’estetica come disciplina filosofica, trasformando la critica del gusto in una scienza, in una filosofia, sia possibile. Baumgartner viene ritenuto un imprudente. Kant cambierà idea quando lavorerà nel 1790 alla Critica della facoltà di giudizio, che si occupa di estetica da un punto di vista filosofico. Comincerà a convincersi del fatto che si possa fare dell’estetica una disciplina filosofica, che l’esperienza estetica abbia fondamento universale e fondamento a priori, come già accadeva per la conoscenza scientifica di cui lui parla nella Critica della Ragion Pura. La critica del giudizio fonda l’estetica come estetica della ricezione. Kant afferma che l’esperienza estetica va studiata e analizzata dal punto di vista della ricezione, della funzione e non solo dal punto di vista della produzione dell’oggetto. Analitica del bello. Prima parte della critica del giudizio: Kant pone le basi dell’estetica moderna, dividendo l’analitica del bello in quattro momenti: qualità, quantità, relazione degli scopi, modalità del compiacimento per l’oggetto. Alla fine di ogni momento, Kant definisce il bello a partire da ciò che dice in ogni singolo momento. Secondo la qualità, Kant cerca di chiarire cosa sia il giudizio di gusto e come esso si differenzi per qualità delle altre forme di esperienza, di conoscenza di vita. Definizione finale del primo momento: gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un modo rappresentativo, mediante un compiacimento o un dispiacimento senza alcun interesse. L’oggetto di un tale compiacimento si chiama bello. Quando si giudica un qualcosa sulla base di un compiacimento o dispiacimento, si formula un giudizio. Il piacere è un piacere particolare che va definito: è senza alcun interesse, un piacere che non produce in noi un interesse particolare verso l’oggetto. Questa definizione ha portato ad interpretazioni fuorvianti del pensiero kantiano, come quello di Nietzsche, che disse che la teoria del disinteresse estetico ha portato l’estetica in sentieri sbagliati e senza interesse vuol dire senza un certo tipo di interesse. L’esperienza estetica è seduttiva e coinvolgente, della soggettività nella sua totalità, una delle esperienze più coinvolgenti. Quando noi sentiamo un piacere disinteressato è perché si stanno ponendo le basi per un giudizio di bellezza. Se invece si prova una sensazione di dispiacimento, giudicheremo quell’oggetto come brutto, poiché il gusto si ferma sul piacere o dispiacere e che questo è disinteressato. Quando il piacere è disinteressato, l’oggetto è bello. Il piacere è disinteressato perché si differenzia dal soddisfacimento del piacevole, il buono e il vero. Piacevole è il piacere dei sensi, non è un piacere estetico, ma è un piacere affidato alla superficialità delle nostre sensazioni. Il bello non è necessariamente in relazione col buono: qualcosa può essere eticamente immorale, ma esteticamente bello. Non ci si cura di conoscere quell’oggetto, ma è interessato a fare esperienza del sentimento che quell’opera o oggetto produce in me. Secondo la quantità: un sentimento estetico quante persone coinvolge? È un sentimento solo personale o è universale? Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Kant si inoltra nel problema fondamentale dell’estetica come concetto di universalità. Il giudizio di gusto non necessita di conoscenza e quindi è per questo che il bello è senza concetto. L’universalità non si giova di un concetto, ma di un concetto che non lavora al servizio di una conoscenza scientifica, ciò che conta è registrare un giudizio. Proprio perché privo di interesse, non riguarda l’utile del piacere e del possesso dell’oggetto, il giudizio del gusto non è fondato su un’inclinazione soggettiva psicologica. Non è una soggettività che va capita come esperienza personale, non scaturisce dalla soggettività psicologica, proprio perché il bello è fonte di un piacere universale fondato su un soggetto che si può presupporre in ogni soggetto giudicante. Universalità come punto di partenza del giudizio del gusto, che è analoga a quella del giudizio logico della scienza. L’universalità del giudizio di gusto è fondata sul sentimento, è un’universalità soggettiva e non oggettiva. C’è un paradosso dell’estetica che si è tentato di sciogliere: universalità soggettiva se qualcosa è universale, non riguarda me, il soggetto, ma riguarda tutti, l’oggettivo. Kant, eppure, arriva a questa conclusione paradossale. Il sentimento non è autentico, non ci chiude nell’individualità, ma è un sentimento espansivo che vuole aprirsi al mondo e contagiare gli altri, vuole la condivisione. Secondo la relazione degli scopi: la bellezza è la forma della conformità a scopi di un oggetto, in quanto essa vi è recepita senza rappresentazione di uno scopo. Gli ultimi due momenti approfondiscono i primi momenti. Sembra una contraddizione: conformità a scopi/ senza scopo. L’esperienza estetica è di fatto contraddittoria, perché non si basa su chiarezza e distinzione del concetto, bensì è un’esperienza che si fonda sul sentimento, sul sentire qualcosa di complesso che non si lascia afferrare in modo analitico del concetto. Kant afferma che quando dichiariamo bello un oggetto è perché sentiamo un accordo fra oggetto e facoltà conoscitive (intelletto e immaginazione). È bello un oggetto che mette le nostre facoltà in uno stato di libero gioco, gioco che richiama all’idea che non ci sia una finalità particolare: un bambino gioca con delle finalità, perché le finalità sta nel gioco stesso, ossia mettendo in atto quel rito del gioco che porta piacere nel gioco stesso. L’intelletto non ha finalità di formulare i concetti, l’immaginazione non ha particolare finalità, se non entrare in relazione d’accordo e gioco con le altre facoltà conoscitive. Le facoltà sono operative non per produrre oggetti, non per entrare in un rapporto libero e puro, senza fini con le altre facoltà. Quando si guarda qualcosa e le facoltà entrare in uno stato di libero gioco, l’oggetto presenta una finalità: l’oggetto è come se avesse una sua Ratio, una sua finalità interna, che non corrisponde a nessuno scopo interno. Non è una finalità legata all’utile o al concetto, è finalità in sé, pura. Di fatto, la finalità non ha nulla a che fare con la funzionalità, con il “servire a”: un oggetto interessato a fare un’esperienza estetica, non si chiede a che cosa serve un oggetto, non è un servire a. Finalità vuol dire “concordanza delle parti in un’unità, armonia e accordo”. Quando Baumgartner parlava di chiarezza chiara e confusa per definire la rappresentanza alla base del giudizio estetico, intendeva il confuso come la composizione di varie parti. L’idea di finalità deriva dall’unione di diversi elementi, uniti in armonia e accordo, concetto fondamentale di Kant e Baumgartner. L’oggetto bello rappresenta la finalità che non è della funzionalità, ma è una sensazione di accordo tra le parti di un oggetto, che formano un’unità, come se fosse stato concepito da una volontà ben precisa. La finalità per Kant è senza scopo, perché non è in funzione di qualcos’altro, come il gioco del bambino: il bello non ha come scopo né l’utilità e né la perfezione. L’idea di bellezza assoluta non esiste, il termine perfezione era stato usato da Baumgartner nelle meditationes: la perfezione era considerata positivamente, perché era considerata in un senso vicino a Kant, il quale però rifiutava il termine. Perfezione era compresenza di diversi elementi che facevano capo ad un’unità. La conformità a scopi può essere senza scopo esterno in quanto possiamo porre le cause di questa forma in una volontà; tuttavia, possiamo rendere comprensibile la spiegazione della sua possibilità solo derivandola di una volontà, che è apparente. Ma che senso ha una conformità che non ha utilità, cioè non si deve conformare a nulla? Il piacere è conoscenza della conformità a scopi, non limitata ad una conoscenza determinata, ma come semplice forma. Il piacere che si prova dinanzi ad un fiore è puramente formale, indipendentemente da qualsiasi scopo, dimensione estrinseca esterno all’oggetto stesso. L’estetica kantiana, nelle discussioni successive, è stata considerata formalista, ed è per questo che per molti fosse necessario staccarsene. Formalismo nel senso che la competizione dell’oggetto bello, isola l’oggetto di finalità esterna, per contemplarlo solo nella sua forma, nella relazione strutturale che genera un accordo con le nostre facoltà conoscitive. Kant afferma che il piacere è un sentimento, che è essenzialmente sentimento della forma, legato alle vicende dell’unica vita, ma la forma stessa delle cose suscita sentimento, svincolato dalle occasioni fortuite della vita di tutti i giorni. Se volessimo formulare un giudizio estetico su un quadro, non dovremmo tener conto del colore, ma della forma che sta dietro quel colore, come della musica dovremmo tener conto della struttura sonora e non quelle della forma, cioè il timbro del suono di uno strumento. Kant afferma che bisogna oltrepassare la sensazione iniziale di timbro o colore, per cogliere ciò che sta dietro, cioè la struttura sonora o ciò che sta oltre il semplice colore. Kant isola l’idea di forma da quella di attrattiva e seduzione, legata ai sensi e alla sensibilità in senso deteriore. Dovremmo guardare o ascoltare al disegno (nella pittura) e alla composizione (nella musica), che sono alla base del giudizio di gusto. Non si dovrebbe far condizionare da elementi contingenti che possono cambiare, puntando alla forma della base, che resta invariata qualsiasi sia il colore o il timbro scelto. Si possono muovere diverse critiche su questa separazione kantiana nelle arti figurative: il non mutare delle forme alla base del disegno o composizione è apparente, se cambia un colore cambia anche il disegno. Kant afferma che esiste una bellezza libera (pullchritudo vaga) che può vagare senza attaccarsi a nulla, senza essere trattenuto da fine esterni, ed è una bellezza aderente (pullchritudo aderens) che è fuorviante: è una bellezza che aderisce a finalità esterne. Non si giudica la bellezza in sé di un qualcosa, ma si giudica a partire da un effetto (si giudica un cavallo, a partire da un salto da lui effettuato). Non dovremmo giudicare il bello Concetto di CAUSA: ha due cause= causa come causa d’azione e causa intesa come portare in causa qualcuno perché lo si ritiene responsabile di qualcosa. Lo slittamento del termine causa implica la straordinaria importanza data alla soggettività, che diventa colpevole dell’azione. Agamben sottolinea il rischio di una concezione psicologista della colpa, un errore fatto da molti, compreso il giurista Carl Schmitt, autore controverso, poiché fu nazista. Nel suo primo lavoro dedicato alla colpa, Schmitt esordì criticando la riduzione del concetto di colpa ad una CATEGORIA PSICOLOGICA. La COLPA era legata ad intenzione e negligenza del soggetto, nel senso che avrebbe una predisposizione psicologica a compiere azioni sbagliate. C’è un eccesso di moralismo e psicologismo che demolisce il soggetto, mentre invece andrebbe colpita l’azione. Schmitt aveva capito questo, afferma Agamben, ma da buon cattolico si pente della sua posizione, ritrattandola. Agamben procede ricercando in maniera sottile e fine, che si appoggia all’etimologia delle parole scelte nelle prime parti delle sue opere. È una prima parte che appare dispersiva, per poi cercare di arrivare alla sua tesi fondamentale, esplicitata nelle parti conclusive, come accade proprio in KARMAN. Procede nell’indagine etimologica: indaga i termini PECCATO, che deriva da un termine che vuol dire piede (pes) e di per sé peccato vuol dire passo falso, un’azione fallita o sbagliata; e SCAELUS da cui deriva scellerato. Quando qualcuno fa un passo falso, un errore, non è implicito un senso di colpa: ha sbagliato ma non c’è intenzione malvagia. In origine il peccato era un errore necessario dell’uomo: essendo limitato e non Dio, sbaglia e continuerà a fare passi falsi; dunque, non vi era una volontà peccaminosa. Il secondo termine analizzato è KARMAN (in realtà è un doppio termine: KRIMEN/KARMAN) e vuol dire crimine. KRIMEN= crimine, parola con lo stesso destino del termine causa. La parola causa vuol dire causa di qualcosa e indica l’imputabilità dell’azione provocata. La parola crimine ha doppia valenza semantica: -accusa di un qualcosa compiuto; -delitto che implica una colpa soggettiva. Il crimine di LESA MAESTA’ era quello di colui che metteva a repentaglio lo stato. Krimen indicava in origine un’azione OGGETTO DI ACCUSA, ma che non indicava subito il rilievo della consapevolezza. Oggi KRIMEN MAIESTATIS indica sia l’accusa di lesa maestà, sia il delitto e l’imputazione delittuosa. Dunque, Krimen indica un’azione considerata colpevole ed è sanzionabile. In quanto sanzionata perché giudicata a partire dalle conseguenze che ha prodotto: lo sguardo non è più sull’atto ma sulle conseguenze prodotte dall’azione e sul soggetto stesso. Agamben afferma che ci si concentra sulle conseguenze perché al contempo si ipotizza che dietro l’azione ci sia un soggetto che abbia voluto che quell’azione provocasse quei determinati effetti. È un’azione concepita come un evento di natura. Nozioni di “causa” e “Krimen”: possiedono due significati diversi ma che finiscono per sovrapporsi: causa= causa di qualcosa/ causa come processo, krimen= azione per cui siamo accusati di qualcosa/ delitto. Non viene solo punito il fatto di un’azione che non andava compiuta, ma viene punita la responsabilità soggettiva. Sia una tendenza a psicologizzare l’azione, riscontrando una volontà di compiere un’azione con conseguenze negative. Krimen è la forma che l’azione umana assume quando è imputata nell’ordine della responsabilità soggettiva. Quando un’azione supera la soglia del krimen perde la sua innocenza. Quando l’azione diventa Krimen perde la sua innocenza. Agamben nota che il termine “criminatio” indicava la calunnia. Ogni accusa lega immediatamente l’azione alla responsabilità soggettiva. Per Agamben si può punire l’azione e il soggetto che l’ha fatta senza necessariamente colpevolizzare la soggettività in modo diretto e automatico, trasformando l’accusa in calunnia. Agamben si riferisce agli studi di linguistica fra il 1859 e il 1863, Adolphe Pictet, che avrebbe influenzato molto Ferdinand De Saussure. Pictet era un pensatore ginevrino che si soffermò sull’etimologia del termine Krimen, come poi Agamben. Egli rivela un’assonanza tra la parola Krimen e la parola Karman. Karman significa letteralmente “azione”, sia essa buona o cattiva. Agamben nota che questa vicinanza tra Krimen e Karman mostra un’affinità concettuale stringente. Gli indologi confermano che il termine Karman (azione) sta ad indicare una connessione ad un’azione, e le sue conseguenze anche alla volontà del soggetto che l’ha messa in atto. Tutto ciò che si compie produce delle conseguenze, positive o negative a seconda del Karman. Karman indica un’azione, non tanto in sé, ma in quanto produce delle conseguenze, non solo dell’oggi ma anche del futuro e a distanza di molto tempo. La teoria del Karman afferma che noi nasciamo con un destino che è l’effetto di un’azione prodotta da qualcuno prima di noi, molti anni prima. Noi siamo la conseguenza di qualcosa fatto molti anni prima di noi. La teoria del karma non punta sull’azione in quanto tale, ma sulla volontà che poi produce, e noi con la nostra esistenza incarniamo quelle conseguenze. Il buddismo chiama la connessione di atti con le loro conseguenze “RUOTA DELLA COPRODUZIONE CONDIZIONATA”: una ruota dell’esistenza che rappresenta il circolo di causa-effetti da cui l’essere umano non riesce ad uscire. Questa dipendenza tra cose fatte nel passato e che poi avverranno nel futuro, si chiama cooperazione condizionata, di cui esempio è la trasmigrazione degli esseri viventi attraverso la nascita di esseri viventi fortunati. L’azione è legata alle sue conseguenze in tre modi: -nel presente, compio un’azione sbagliata e pago oggi -nell’esistenza futura, cioè karman -in un’altra vita, cioè quando rinascerò pagherò il prezzo delle azioni compiute in vita. L’azione imputabile, alla base di krimen e karman, è alla base della cultura indoeuropea, ma soprattutto della cultura occidentale moderna poiché non è sempre stato così. Questo modo di concepire l’azione è talmente radicato che si fa fatica a concepire idee diverse che pur esistevano. Nella Grecia Classica il concetto di volontà non esisteva. Agamben usa gli studi dello storico della filosofia e antropologo Jean Pierre Vernant: quando si parla di volontà, parliamo di un concetto costruito che non esisteva nella Grecia Classica, non esiste infatti un termine di traduzione anche se esistevano espressioni che potevano definire la volontà. La volontà è qualcosa di costruito, per Vernant, e non ambito dalla natura. La teologia cristiana, con una certa lettura, il diritto, ha permesso di costruire il concetto di volontà. I greci non avevano la volontà, ma parlavano di un’inclinazione verso un atto, un’azione. La volontà fa affidamento su un io stabile, che ad un certo punto decide liberamente di fare qualcosa che potrebbe fare del male a qualcun altro. Quando si parla di inclinazione il soggetto non è stabile. Se per gli occidentali di oggi è fondamentale la volontà, per i Greci era fondamentale la potenza. L’uomo non è responsabile dei suoi atti perché li ha voluti, ma ha potuto compierli, si è inclinato verso quell’atto. Il mondo antico per Agamben basava la teoria della prassi umana sul poter fare qualcosa e non sul volere. Lo sforzo di Agamben è provare ad ascoltare ciò che sostenevano i Greci, provando a focalizzarsi su un concetto di azione più morbido e liberato dalla nozione di colpa che teologia cristiana e diritto hanno attribuito all’azione. Agamben sottolinea che la nozione moderna di volontà, come qualcosa che induce ad un’azione, sia una nozione acquisita col tempo e che non abbia carattere originario, poiché nella filosofia greca classica non ci sia un termine che possa esprimere la volontà. Jean Pierre Vernant è un punto di riferimento per il pensiero di Agamben: la volontà non è un dato di natura dell’uomo, ma è un concetto costruito nel tempo grazie all’influenza di teologia cristiana e del diritto giuridico. BOULOMAI= indica un’inclinazione all’azione, una tendenza, una disposizione, un desiderio piuttosto che una volontà. Rispetto al nostro modo di concepire la volontà, l’etica antica ci appare come UN’ETICA INTELLETTUALISTICA, nel senso che si basa sulla conoscenza. Oggi parliamo di azione e non crediamo ci sia in gioco una questione di conoscenza, ma di prassi. Nella Grecia Classica l’azione aveva un fondamento conoscitivo profondo. Detto Socratico: “ogni azione malvagia, sbagliata, si basa sull’ignoranza e non sulla volontà”. Nessuno fa del male volontariamente, lo fa perché non conosce il bene o sbaglia ad individuare conoscitivamente il bene. Per Agamben ciò non vuol dire non dover punire un’azione quando rivolta verso il male, ma non la puniamo perché attribuiamo al soggetto una malvagità strutturale e costitutiva, ma perché è un’azione che non è stata improntata alla conoscenza del bene. Agamben interpretando la grecità classica, afferma che non è questione di non sbagliare, di non essere puniti, ma del fatto che l’azione va punita non per responsabilità soggettiva, ma per ignoranza di fondo poiché non conosce il bene e se lo conoscesse ne sarebbe attratto. Per questo Platone dice che il verbo boulomai esprime un’intenzione diretta sull’oggetto e non sull’azione. Nella Grecia Classica si desidera l’oggetto dell’azione e non l’azione stessa. Gli antichi vincolavano l’azione all’oggetto dell’azione, i moderni legano l’azione alla volontà. Il principio da cui scaturisce la colpa della Grecia Classica, non è la cattiva volontà ma la cattiva ignoranza. L’azione immorale si fonda infatti sull’ignoranza del bene. L’uomo non agisce perché vuole, ma perché conosce ciò che è il bene, il punto di attrazione frase, si scosta: il perno primo e il soggetto (l’uomo agisce perché vuole); poi diventa il bene (l’oggetto dell’azione) l’uomo agisce perché conosce il bene. Se si conosce il bene non è più una nostra scelta compiere o meno il bene, ma è il bene stesso che ci trascina verso di sé. Il concetto del soggetto libero di agire viene messo in scena per la prima volta nel teatro della tragedia di Eschilo. Agamben non è d’accordo fino in fondo con la linea interpretativa della tragedia greca: è vero che c’è l’idea di individuare la responsabilità soggettiva di un’azione, tuttavia non c’è solo questo. Parallelamente c’è un’idea d’azione vicina ad Agamben. L’uomo della tragedia greca è Scisso, schizofrenico fra le due idee di azione: la prima azione ha come responsabile il soggetto; nella seconda azione il soggetto si inclina verso il modo di agire poiché è attratto da qualcosa che non dipende da lui. L’uomo diventa schiavo di un dissidio interiore ma anche sociale. L’altra idea di azione, accanto all’azione intesa come responsabilità volontà e soggettività viene espressa da Agamben rivolgendosi di nuovo agli studi di Vernant e a quelli di Andrè Rivier, che dimostrano l’insufficienza di questa tesi, ovvero quella di chi dice che la tragedia è il regno della libertà soggettiva, della volontà e della colpa. Vernant discute il paradigma secondo cui il teatro greco sia luogo dell’azione libera dell’uomo. Le azioni di quelle persone sono condizionate da scelte divine e non dal soggetto. Libertà e necessità fanno un tutto uno, ovvero sono libero e non libero allo stesso tempo, libero perché ho deciso di volerlo fare e non libero perché non si tratta di una scelta, bensì dell’obbedienza ad un’inclinazione. Vernant afferma: “l’uomo tragico non ha più di scegliere, ha una sola via”. Il suo impegno esprime non la libera scelta del soggetto, ma il riconoscimento di questa necessità di ordine religioso, al quale il personaggio non può sottrarsi, anche se interiormente forzato nel cuore stesso della sua decisione. Nella mia interiorità si è formata un’inclinazione rispetto alla quale io stesso mi sento forzato. Se esistesse una volontà non sarebbe autonoma in senso kantiano o tomista del termine, ma è una volontà legata al timore referenziale del divino. I personaggi della tragedia agiscono perché ascoltano la parola di Dio. Agamben ha una posizione analitica e per certi versi problematica, riprendendo Jean Pierre Vernant, il quale vede nella tragedia greca la distinzione dell’azione: -azione deliberata, cioè scelta dal soggetto -azione della nascita, cioè che traina dentro. La tragedia greca non riesce ad unire queste due definizioni di azione, cosa che invece vuole fare Agamben. Nel caso della vocazione c’è in moto sia un soggetto che si inclina, che va verso un qualcosa, ma c’è anche una necessità che impone di comportarsi in una determinata maniera. Agamben deve tenere insieme questi due momenti. Quando si sceglie di studiare filosofia, non scelgo di studiarla, ma mi metto nella disposizione di seguire qualcosa che si offre come necessità. Vernant esprime la scissione che c’è nella tragedia greca: l’uomo appare responsabile delle sue azioni e poi come schiavo della necessità. Momenti separati perché la tragedia non è in grado di unirli, cosa che invece farà Platone riuscendo a tenere inclinazione del soggetto e necessità uniti. L’opera tragica non riesce ad unire questi due momenti, Agamben vuole tenere insieme quest’ambiguità legando volontà soggettiva a necessità. L’azione è l’impossibilità di distinguere questa ambiguità dell’azione e per Agamben non sono due categorie esclusive. La tragedia greca pone l’uomo originariamente scisso, perché accetta ancora l’idea che esista la possibilità di un’azione sanzionata senza riuscire ad armonizzare quelle due dimensioni. Contro l’idea dell’azione imputabile e sanzionabile si pone Platone, che prende posizione il primato magico dell’azione sanzionata: “nessuno fa il male volontariamente e se fa il male è perché non ha conosciuto a fondo il bene”. Platone cerca, quindi, di identificare altrove il ruolo dell’etica e della politica, quindi fuori dall’azione. L’idea di Platone è vicina ad Agamben: politica che si basa sull’azione ma anche sull’inazione, sull’inoperosità, sulla passività. Egli oppone alla mitizzazione dell’azione, l’inazione di Socrate, il quale preferisce subire il male piuttosto che compierlo, rifiutando l’azione in nome del logos, della conoscenza della filosofia, auspicandosi che siano i filosofi ad andare al potere. Filosofi che a differenza degli uomini politici, non sono uomini d’azione. Infatti, sono uomini di pensiero, ed è preferibile questa tipologia di uomo al potere perché si mette in posizione di contemplare il bene. Per Platone è essenziale vedere e conoscere il bene, che non riesce a bagnare il nostro essere se ci concentriamo sulle nostre azioni, le quali diventeranno sempre più sbagliate. Ma che cos’è l’estetica? L’estetica nasce nella metà del Settecento con l’intento di conferire una legittimazione universale filosofica ad un ambito dell’esperienza che è caratterizzato dall’emergere della soggettività, legata al sensibile e al sentimento: tutto ciò che prima nella storia veniva considerato contingente, empirico (dell’illusione e dell’errore) acquista ora una sua universalità e può essere studiato dalla scienza filosofica. Dunque, il regno fatto di percezioni, sensazioni, affetti e sentimenti è contingente. È importante richiamare la distinzione colore che rappresenta energia ma al tempo stesso freddezza, un sentimento vuoto. Per la percezione è fondamentale la realtà effettuale o energia, che nel nostro secolo è definita “Actual fact”: tramite la loro irradiazione i colori generano determinati caratteri atmosferici, caratteri definiti da esso azioni sensibili e morali del colore, per noi caratteri di atmosfere. Il rapporto tra sinestesie e dati sensibili sta nel fatto che per generare le sinestesie, i dati sensibili possono sostituirsi gli uni con gli altri. Fisionomia. La fisionomia o essenza personale è l’insieme dei caratteri fisionomici o per meglio dire li genera. La fisiognomica è una disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona nel suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti del volto. Alexander Vonumbolt, un paesaggista, si approccia al carattere di un paesaggio come ad atmosfere ed attribuisce un ruolo all’interno della scienza naturale alla pittura. La fisiognomica diventa componente dell’estetica, in cui i tratti della fisionomia sono elementi generatori che rendono percepibili un carattere nell’apparenza. Elemento principale della fisionomia sono gli occhi, perché lo sguardo di una persona ci permette di percepire fin da subito un’attività tramite l’impressione: nello sguardo altrui si diventa un oggetto da percepire. Scene. A promuovere la concezione secondo cui la fisiognomica è parte dell’estetica è stato il teatro: trucco, maschera. Nel teatro viene messa in scena qualcosa. Esso è il luogo dell’apparenza di qualcosa o qualcuno, in cui i sentimenti degli attori sono fittizi, apparenti, che vengono esternalizzati. Come anche la pubblicità mira a sottolineare il valore messa in scena della merce. Si tende a dare di sé l’immagine come anche in campo politico si pone l’esigenza di apparire, in modo che l’azione politica sia efficace per ottenere voti, come infine nella cosmesi, della moda, posti di lavoro: è moto realizzazione. Dunque, mettere in scena significa produrre uno spazio per la sua apparenza e ci si serve della fisiognomia. Estasi. Noi percepiamo cose e persone e notiamo la loro presenza attraverso l’estasi o proprietà, perché le proprietà sono qualcosa che le cose hanno in determinazione e si possiedono anche nel momento in cui ci si limita a pensarle. La teoria aristotelica dei quattro elementi ovvero fuoco, acqua, terra, aria e le loro rispettive proprietà, ovvero caldo, freddo, umido, secco, ci offrono un esempio del modo in cui si possono concepire le proprietà fondamentali della corporeità fisica, come l’estasi. Il fondamento di tale teoria sta nel fatto che Aristotele concepisce la natura come sfera del percepibile. Un esempio di estasi sono odore e voce, perché sono modi caratteristici in cui le cose contrassegnano la loro presenza, esprimono ciò che esse sono. La voce viene espressa tramite l’intonazione, che Bohm chiama segnatura, è la forma di articolazione che eccita l’essenza (la voce). Segni e simboli. La semiotica è la teoria dei segni, l’ermeneutica è la disciplina teorica del comprendere. Si concepisce l’estetica come teoria dell’opera d’arte tramite la relazione tra il segno e il significato, il significante è ciò che esso significa, esempi di segni sono i simboli e le rappresentazioni che vanno compresi, cioè bisogna scoprire cosa significano (ad esempio un quadro va interpretato). La cosa. Una parte considerevole del lavoro estetico mira alla progettazione di cose: i quadri sono dipinti, le sculture scolpite e le cose fabbricate, il design dà forma agli oggetti d’uso. Le cose vengono percepite sia come reali che come funzioni. Quello che distingue l’uomo fisicamente reale dall’immagine è che quando egli è presente dobbiamo fare i conti con la natura della soggettività. Si percepisce la realtà in modo diverso dall’immagine. In cosa consiste la percezione della cosa? È la costatazione di qualcosa che esiste in un certo luogo nella dimensione fisico-corporea e con determinate proprietà, rendendosi percepibile con la propria presenza (forma), generando cioè una certa atmosfera. La cosa è percepita comunque solo in forma indiretta (apparente) e per far sì che diventi reale deve rispondere a: distanza, differenziazione e restrizione= percezione ordinaria delle cose. Prassi estetica e critica estetica. L’estetica è una teoria dell’esperienza sensibile ma anche un sapere che può guidare la produzione di opere d’arte, nonché il fondamento di una teoria del gusto e della critica d’arte. La prassi estetica è l’insieme di espressioni di linguaggio funzionali all’estetica, in cui il fondamento è l’educazione del gusto, una facoltà di giudizio o scelta che sia in grado di fare tramite l’esperienza estetica (vi sono diversi tipi di percezione che passano dalle atmosfere alle cose) che predispone una comprensione dell’arte. Una competenza che fa acquisire una critica di giudizio: giudicando la qualità delle opere dalla loro bellezza, di cui criteri della bellezza sono la perfezione, l’adeguatezza espressiva e l’autenticità. L’opera d’arte giudicata è definita la “performance” dell’artista. Ancora oggi continua la disputa su cosa sia l’arte e che posta ha l’estetica nella storia. Kant, la critica del giudizio. L’estetica nasce con tante anime, ma con un intento preciso: come tentativo di conferire una legittimazione universale, una legittimazione filosofica, ad un ambito dell’esperienza che è caratterizzato dall’emergere della soggettività nelle sue componenti più immediate, legate al sensibile e al sentimento. È una situazione paradossale: da una parte abbiamo il bisogno di individuare una regola, una modalità, oggettiva; dall’altra la soggettività piena, il gusto, il sentire, tutto ciò che non si può fondare universalmente perché la soggettività muta nel tempo, non mantiene un carattere stabile e unitario. Tutto ciò che fino ad un certo punto della storia del pensiero veniva considerato come il regno del contingente, dell’empirico, dell’illusione e dell’errore acquista ora la dignità di un’esperienza che possiede una sua universalità e che può essere dunque studiato dalla scienza filosofica. Pensiamo, per esempio, al sentire: il sentire è soggetto ad un’infinita quantità di sfumature, per cui può essere considerato un buon esempio per comprendere il significato di contingente: qualcosa che muta. Il regno dei percetti, e in qualche modo anche del sentire, a metà del Settecento, in corrispondenza con la nascita dell’estetica comincia ad acquistare una diversa dignità, diventando oggetto di indagine filosofica. L’autore che più di ogni altro ha cercato di determinare l’ambito dell’estetica, individuandolo proprio nel mondo delle percezioni, è stato Immanuel Kant. Quest’ultimo è partito dall’idea che, infondo, tutto questo mondo caratterizzato dall’accidentale e dal contingente, che sembra non possedere una regola universale, in realtà ha una sua regola universale. “Il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto dell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente riflettente”. Immanuel Kant, “Critica del giudizio”, 1790. Kant ci propone una distinzione decisiva per entrare nel discorso dell’estetica kantiana: • giudizi determinanti, propri delle scienze meccaniche e che caratterizzano il procedere delle scienze esatte, per i quali noi possediamo la regola, il principio, la legge e dobbiamo semplicemente sussumere, portare a livello universale il particolare; • giudizi riflettenti, nei quali è dato soltanto il particolare, mentre l’universale sarà appunto il giudizio a doverlo trovare: non posseggono uno strumento universale entro cui sussumere il particolare, e sono propriamente i giudizi che caratterizzano l’esperienza estetica. Un giudizio è la sussunzione di un particolare all’interno dell’universale. Mentre nel giudizio determinante possedevamo l’universale, nel caso del giudizio riflettente noi non lo possediamo più. Ci sono degli eventi difronte ai quali la ragione è costretta a capitolare poiché non possiede l’universale, non ha gli elementi universali per giudicare quel che vede. Un evento è un particolare che entra nelle nostre vite, ma non abbiamo un universale che lo possa leggere (es. situazione attuale). Un’opera d’arte si presenta sempre con la forza di un evento, di un inaspettato, rispetto al quale non possediamo l’universale entro cui sussumerlo. Quando noi formuliamo un giudizio di gusto stiamo formulando un giudizio riflettente, dal momento che questi tipi di giudizi riguardano propriamente l’esperienza estetica. Il secondo grande autore dell’estetica moderna è Immanuel Kant, autore delle tre critiche: “Critica della ragion pura”; “Critica della ragion pratica” e “Critica del giudizio”. Quella che più interessa il discorso estetico è la terza, la critica della facoltà di giudizio. In un primo tempo, cioè quando Kant lavorava alla sua prima critica, uscita, non aveva ancora una buona opinione dell’estetica, se per estetica intendiamo una filosofia del gusto, del bello. Kant aveva un sospetto nei confronti dell’estetica, quindi nella prima critica usa il termine “estetica” secondo un significato diverso da quello che gli aveva dato Baumgarten. Kant aveva un sospetto nei confronti della seconda anima dell’estetica: sospetta che non sia possibile fondare una scienza su ciò che riguarda il sentimento del bello, il giudizio di gusto, ritiene che non sia possibile coniugare l’anima dell’estetica come conoscenza sensibile con l’anima dell’estetica come scienza del bello. All’altezza della “Critica della ragion pura”, Kant usa il termine “estetica” ma con un senso preciso che è diverso da quello usato da Baumgarten, soprattutto per quanto riguarda la seconda anima. Dice Kant: “l’estetica trascendentale è una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità”. Questa definizione è molto simile alla prima definizione di Baumgarten: l’estetica è la scienza del pensare in modo sensibile. È con questo significato che nella “Critica della ragion pura” Kant parla di estetica, mentre esclude dall’estetica tutto ciò che riguarda il giudizio di gusto, il tema dell’esperienza estetica. Kant muove una critica a Baumgarten, il quale ha cercato di fondare un’estetica come critica del gusto. Tutto ciò che riguarda il bello non viene preso in considerazione da Kant perché è qualcosa di troppo empirico, sempre diverso: non è possibile individuare un’universalità all’interno del gusto. Quando scriverà la “Critica del giudizio” è proprio su quest’ultimo punto che cambierà idea. In una nota posta proprio all’inizio della “Critica della ragion pura” Kant accoglie l’estetica soltanto come una filosofia della conoscenza sensibile e ritiene che tutto ciò che riguarda il gusto non possa avere questa denominazione, se non usando il termine “estetica” con un’accezione molto diversa, cioè con un’accezione psicologica ma non filosofica. Quando Kant scrive la “Critica della ragion pura” sostanzialmente non ritiene che nel mondo del sentire si potessero individuare delle regolarità, delle leggi, una ragione: tendeva a lasciarlo fuori dalla filosofia e dalla scienza, mentre manteneva la percezione sensibile come base della conoscenza. Quando Kant scriverà la sua terza critica, quella del giudizio, nel 1790, nove anni dopo la prima critica, notiamo che ciò che nella prima critica Kant aveva tenuto fuori, cioè il giudizio di gusto e del bello, nella terza critica torna addirittura nel titolo, diventando il centro della sua argomentazione. La “Critica del giudizio” è un testo di estetica nel senso pieno della parola, nel senso che tutte e due le anime dell’estetica che aveva presentato Baumgarten ritornano anche in Kant. L’estetica kantiana è un’estetica della ricezione: ovvero l’esperienza che compie colui che si pone difronte ad una qualsiasi esperienza estetica. Alla base del giudizio di gusto c’è un sentimento di piacere: colui che si pone difronte ad un’opera prova un sentimento, fa un’esperienza affettiva. Il problema è capire che tipo di piacere è quello che provo quando sono posto difronte ad un’opera d’arte. È un piacere che Kant chiama “disinteressato”, in quanto si differenzia dal soddisfacimento del piacevole, del buono e dalla ricerca del vero. È un piacere disinteressato non perché il fruitore sia insensibile a quello che accade, ma perché questo disinteresse in realtà nasconde un interesse a livello più profondo, una seduzione del sentire più patetica, più legata al pathos. Disinteresse rispetto al piacevole, rispetto a quel gusto dei sensi: ad esempio, il piacere che provo degustando un buon vino non è uguale al piacere che provo davanti ad un’opera d’arte. Il piacere legato al vino è chiamato “piacevole”, poiché legato ai sensi, non alla totalità delle facoltà che abbiamo, è qualche cosa di molto superficiale che riguarda i puri sensi. Quando osservo un’opera d’arte sono in una posizione che potremmo chiamare “contemplativa”. Il piacere estetico è un piacere che non bada tanto al bene o al male, bada al sentimento della bellezza. Il bello è disinteressato anche al vero, cioè alla conoscenza, che di fatto non è neanche un piacere infondo. Il bello ha assai poco a che vedere con la conoscenza, quando io faccio un’esperienza di bellezza non sto formulando un concetto ma sto esprimendo un modo di sentire. Della “Critica del giudizio” ci occuperemo solo della prima parte, relativa all’analitica del bello. Questa prima parte è quella che è rimasta più studiata ed è anche la più conosciuta nella storia dell’estetica. Qui Kant pone le basi dell’estetica moderna e divide l’analitica del bello in 4 momenti del giudizio di gusto: 1. secondo la qualità: Kant cerca di chiarire che cosa sia il giudizio di gusto e come il giudizio di gusto si differenzi, per qualità, dalle altre forme di esperienza e di conoscenza; 2. secondo la quantità: “un sentimento estetico quante persone coinvolge?”; 3. secondo la relazione degli scopi: chiamato anche “momento della relazione”, è il momento a cui Kant tiene di più perché proprio qui cerca di definire questo strano “sentire” che è proprio dell’esperienza estetica; 4. secondo la modalità del compiacimento per l’oggetto: il tipo di piacere che il sentimento del bello produce. Alla fine di ogni momento, Kant ci dà una definizione del bello secondo quello che ha appena detto, quindi a partire da quel momento.
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