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Contesto storico Bologna XV secolo, Slide di Storia Dell'architettura

Appunti sul contesto storico architettonico di Bologna nel XV e primo barocco

Tipologia: Slide

2020/2021

Caricato il 31/10/2023

Marta.uni997
Marta.uni997 🇮🇹

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Scarica Contesto storico Bologna XV secolo e più Slide in PDF di Storia Dell'architettura solo su Docsity! IL PALAZZO DEL PODESTÀ DI BOLOGNA - BENELLI Il primo studio scientifico sull’architettura del rinascimento bolognese risale al 1899, risultato di un’approfondita ricerca eseguita da Malaguzzi che tutt’ora rimane fondamentale per la comprensione di questo periodo dell’architettura cittadina da sempre sottovalutata al di fuori di Bologna. Alla fine del XIX sec il palazzo del Podestà aveva perso, già da più di 350 anni, la funzione per la quale era stato costruito, trasformandosi dapprima in teatro poi in granaio e in seguito in una semi rovina prospicente una delle piazze più famose d’Italia. Il progetto di restauro affidato a Rubbiani suscitò un vivace dibattito all’interno della città, che spinse alcuni esponenti della cultura bolognese a intraprendere ricerche sul palazzo allo scopo di ricostruire il più possibile fedelmente il suo aspetto originario, obbiettivo prioritario da perseguire scendo la prassi del restauro dell’epoca. Ne conseguì un’approfondita ricerca di storia dell’arte intrinseca al palazzo che tuttavia non affrontò i problemi di contestualizzazione della sua architettura, né si preoccupò di capirne la provenienza, la qualità e la portata, evitando considerazioni di carattere strutturale e tecnologico. Nel 1989 Tuttle mise in evidenza come l’importanza dell’edificio fosse semore stata sottovalutata dagli storici dell’architettura auspicando nuove ricerche. Nel 1994 lo stesso Tuttle affrontò il problema dell’attribuzione avviando una sintetica ma corretta analisi stilistica, in questa occasione anche se a margine del tema, “il Podestà” fu esaminato per la prima volta da un punto di vista esterno all’ottica locale. L’ASPETTO DEL PLATIUM VETUS Il palazzo del Comune bolognese, fondato nel 1200 e completato già nel 1203, rappresenta solo parte di un’idea urbana più ampia e complessa che comprese l’apertura contestuale di una nuova grande piazza antistante di forma regolare, appena un anno dopo l’inizio delle acquisizioni, i pilastri e le volte del portico, forse non tutte, erano già stati eretti, così come una grande scala che avrebbe creato il collegamento con la scala consiliare, la sala grande del primo piano e almeno una parte dell’invaso pubblico, erano già fruibile (nel 1203 si tenne il primo consilium all’interno del palazzo quindi la stessa sala grande doveva essere già agibile). L’estensione orizzontale, i portici sulla piazza, la scala esterna, la sala grande al primo piano e la torre civica sono tutti elementi tipici dei palazzi comunali dell’Italia centro settentrionale ereditati direttamente dai più antichi palazzi vescovili della stessa area. Fra i palazzi comunali dell’Italia settentrionale sono rari i casi precedenti a quello bolognese e non tutti pienamente comparabili né ricostruibili: fra questi si ricordano i casi del palazzo di Padova, già costruito nel 115, Verona nel 1193, Bergamo e Pavia nel 1198 e il palaium vetus di Vicenza; tutte città che in un recente passato aderirono alla lega lombarda. Il palazzo affacciato sulla parte nord del nuovo invaso era separato su tre lati dagli edifici cirocstanti in una collocazione che ne aumentava quindi il carattere monumentale; la sua volumetria doveva essere molro simile a quella attuale con un portico al piano terreno composto, come quello quattrocentesco, da nove arcate. Importanti saranno le tracce della facciata duecentesca utili a svelare alcune caratteristiche del palazzo medievale: una serie di finestre, poste a un livello fra la quota del portico e il pavimento della sala grande testimoniano l’esistenza di un piano ammezzato a uso delle botteghe con copertura a volta. L’illuminazione della sala grande al primo piano era consentita da ampie finestre trifore incorniciate da un arco a tutto sesto di circa due metri di diametro e divise da colonnine in pietra, comuni in quegli anni a molti edifici omologhi, la facciata era conclusa con mensole in pietra di selenite e una merlatura; probabilmente, come avverrà nel palazzo di Re Enzo (o palatium novum), i merli concludevano la facciata anche sui lati corti. Sulla facciata principale dovevano esserci probabilmente tre finestre di cui quelle laterali non allineate con il ritmo delle arcate inferiori, a conferma di ciò nella parte occidentale del lato nord è ancora visibile una porta arcuata posta a una quota più bassa di 100 cm rispetto all’attuale livello del salone. Dei pilastri si conosce parte della forma della pianta, costituita da un elemento quadrangolare di circa 1m di lato affiancato da due semicolonne, la facciata medievale capiamo dalle basi dei pilastri che era leggermente più arretrata rispetto a quella esistente. La sala grande era accessibile tramite due scale poste sui lati corti dell’edificio, disposizione tipica nei palazzi comunali medievali italiani, nei quali la rampa poteva servire anche come podio durante le adunate, similmente a quanto avverrà in quella del palazzo di Parma. Non è invece nota la posizione precisa della residenza del podestà, né se egli vi risiedesse insieme alla familia di impiegati; sarebbe un dato utile da analizzare in quanto, se così fosse, bisognerebbe ipotizzare un numero cospicuo di camere e annessi. IL CANTIERE QUATTROCENTESCO Durante il XIV il palazzo Podestà non fu soggetto a significative modifiche, Piazza Maggiore, la contrario diventò centro indiscusso delle attività politiche, finanziarie e commerciali della città. In meno di un secolo gli edifici affaccianti su Piazza Maggiore si trasformarono in voluminosi edifici che ospitavano funzioni pubbliche e religiose: fra il 1293 e 2195 venne eretto palazzo della Biada in cui nel 1336 si trasferì il Consiglio degli Anziani. Nel 1328 cominciò la costruzione del palazzo della sede dei Notai. L’unica modifica consistente al palatium vetus avvenne nel 1314 quando “fu finito di fabricare un portico” verso Piazza maggiore. Il complesso del Podestà rimase con queste sembianze, almeno all’esterno fino al 1438, è di quell’anno, coincidente con la definitiva presa di potere della città da parte dei Bentivoglio, un pagamento per la costruzione di un percorso di due piani con portico e loggia detto iter in voltis bottega pur di avere un luogo di lavoro all’interno del palazzo, ubicazione che evidentemente incrementava di molto gli affari. Si formò una specie di situazione di appalto tra il consiglio dei Quattromila e il luogotenente Pirro Malvezzi su chi e a chi vendere le electe delle botteghe. Al pari dei proprietari delle botteghe, anche i cittadini non esitarono ad essere coinvolti nelle spese di ricostruzione del palazzo, segno di una certa stabilità sociale interna imposta comunque da un governo autoritario di una fiorente economia e della condivisa opinione circa l’importanza dell’impresa edilizia. Il 1488 fu l’anno che segnò una svolta decisiva nella signoria bentivolesca, Giovanni si pose definitivamente allo stesso livello delle maggiori signorie italiane e nel novembre trasformò il governo di Bologna in una esplicita tirannia dominata saldamente assieme ai suoi figli. La parte del contratto significativa per la nostra trattazione è quella in cui si stabilisce che la società durerà per tutto il tempo necessario per concludere ogni residuo lavoro già stabilito tempo addietro dagli stessi soci e dai maestri, sottoscritto da Bentivoglio e Malvezzi  i riferimenti all’architrave e fregio decorativo tra portico e primo piano; quindi, nel 1488 si stava ancora lavorando al primo livello del palazzo utilizzando un tipo di arenaria molto deperibile. La presenza dei merli, coperti dall’intervento quattrocentesco, testimonia che la facciata medievale era ancora in piedi, corrispondente all’attuale parete del primo piano  si parla di un episodio di impiccagione di uno dei Malvezzi ai merli del palazzo dove era la fontana, la scelta di usare il lato ovest dimostra che evidentemente il prospetto principale dove avvenivano le esecuzioni solitamente non era disponibile in quanto ancora in fase di costruzione, probabilmente quindi anche il lato duecentesco est del palazzo venne conservato, mentre si può stabilire con certezza che tutta la parete posteriore verso il voltone del Podestà sia rimasta intatta, in quanto i restauri rubbianeschi riportarono alla luce la merlatura e le ampie finestre medievali ad arco relative alla sala grande. Fra il 1492 e 1494 è notificato un pagamento del comune ad Antonio Infrangipani per le opere in pietra che contribuisce a chiarire la sequenza delle fasi di costruzione del pian terreno: cominciato sul lato est in via degli Orefici con due pilastri finanziati nel 1485 da Cenni, il cantiere si espande verso ovest e nel 1492 vennero realizzati sul lato opposto + pavimentazione e solaio sala grande, tutti gli altri elementi non sono collocabili con precisione in quanto la facciata presenta più elementi della stessa tipologia e il documento non specifica esattamente di quali si tratti. Nel 1493 vennero stabiliti i nuovi banchi e il portico si presuppone fosse tornato agibile; nel dicembre 1494 il comune paga per la messa in opera del ferro operato nella ringhiera terminata l’anno successivo, tale ringhiera, oltre agli elementi in muratura era costituita da un davanzale in barre di ferro che rendeva la composizione molto più “trasparente” rispetto alle massicce balaustre del 1603. Alcuni disegni del XVI sec. a opera del medico Stefano de Corvi rendono un’idea dell’aspetto originario della ringhiera, Stefano disegnò anche se con grafica incerta ma ricca di particolari degli impiccati al balcone del podestà appesi al davanzale costituito da una trama di ferri che formavano un sistema a rombi. Altro elemento importante è la presenza in ogni disegno di mensole che sorreggono lo sbalzo della balconata mettendo in evidenza come almeno una sua parte doveva essere aggettante rispetto al piano inferiore  il balcone era a sbalzo verso la piazza in corrispondenza della campata centrale. Già nelle stampe ottocentesche della facciata del palazzo il balcone sporgente non esisteva più e non è possibile trovarne traccia alcuna tramite l’analisi delle murature in quella parte di facciata. Al fine del XV il palazzo del Podestà doveva essere quasi terminato e comunque agibile, a partire dal 1496 si registrano regolari esecuzioni dei condannati svolte alla ringhiera della facciata sulla piazza. Con l’inizio del XVI le fortune della famiglia cominciarono a diminuire drasticamente assieme all’appoggio delle famiglie alleate bolognesi, anche il popolo, soggetto a forti tassazioni pretese dal duca, cominciò a perdere fiducia nei confronti del signore coincidendo con il progetto di ristrutturazione dello stato pontificio da parte di Giulio II che conquisterà Bologna cacciando i Bentivoglio nel 1506  nel 1513 Giulio II abrogò l’istituto dei Quaranta e nominò un senato investito delle stesse funzioni del consiglio dei Sedici fino al 1796. ASPETTO COMPOSITIVO E FORMALE La facciata quattrocentesca del palazzo del Podestà esprime un’idea grandiosa dell’architettura che si impone in maniera prorompente sulla piazza più importante della città con un aspetto assolutamente sorprendente per Bologna in quegli anni, che sfida le dimensioni del San Petronio ancora in costruzione e quelle del palazzo del Legato di forme ormai arcaiche. Compaiono per la prima volta portici con pilastri e semicolonne addossate, archi con chiave di volta, grandi capitelli corinzi, una trabeazione triumphalis e una facciata organizzata con prevalenza di vuoti rispetto ai pieni puramente all’antica. È nuova anche l’idea di un prospetto esterno costituito da uno pseudo doppio loggiato continuo, anticipato nel XV solo da architetture romane se si escludono i cortili dei palazzi privati. Il primo obbiettivo del progetto esecutivo dovette essere quello di ottenere una serie di campate più possibilmente simili tra loro, dai rilievi appare subito evidente come le campate non presentino dimensioni uguali fra loro, il che entro certi limiti potrebbe essere normale, tuttavia, quando si riscontrano differenze che superano i 60 cm, poco meno di due piedi bolognesi, è lecito considerarle anormale. Questa anomalia provoca incremento dimensionale sul lato est, con l’arco della campata, dovendo rispettare i vincoli fissi delle altezze delle imposte e dell’architrave, risulta schiacciata. L’altezza del solaio della sala grande non poteva inoltre essere spostata di molto perché avrebbe procurato notevoli difficoltà nel raccordare il livello della sala con quello dell’iter in voltis da cui si accedeva alla sala stessa. La soluzione che viene adottata per risolvere tutte le difficoltà planimetriche derivanti dalla preesistenza è quella che riconosce anomala la campata, la cui misura deriva dalla rotazione della parete nord del palazzo rispetto alla maglia romana che organizza la forma della piazza e le direzioni delle strade limitrofe. Ulteriori imprecisioni vengono assorbite dal diverso dimensionamento dei lati dei pilastri bugnati angolari e dal variare a soffitto dell’angolo del lato corto che si raccorda alla semicolonna. L’imponente pilastro angolare divenne soluzione obbligata ed efficace per poter inquadrare e contenere, soprattutto al pian terreno, un prospetto così marcato e ripetuto, e costituito esclusivamente da grandi elementi strutturali alternati a una prevalenza di vuoti. La scelta di accoppiare un pilastro angolare e una semicolonna comportava più vantaggi: il pilastro, assumendo sui fianchi dimensioni leggermente diverse, avrebbe permesso i necessari aggiustamenti delle lunghezze al fine di dare ai lati misure scomponibili in moduli, contenendo al contempo lo spessore della ringhiera; la semicolonna invece avrebbe introdotto e concluso il motivo strutturale ricorrente in tutta la facciata. L’assenza di un piedistallo sotto gli elementi angolari risponde a ragioni di carattere proporzionale: se fosse stato introdotto, tali pilastri, anche se privi di capitello, sarebbero risultati di dimensioni troppo ridotte e tozze rispetto alla facciata e all’altezza totale dell’edificio; un eventuale piedistallo avrebbe anche ridotto drasticamente la dimensione delle semicolonne, indebolendo l’aspetto strutturale di tutto il prospetto. Soluzioni angolari precedenti di questo tipo si trovano nella basilica Emilia al Foro romano, compresa sia nell’aspetto formale che strutturale se ci si basa sui prospetti di Sangallo, in questo edificio di pianta quadrangolare, il pilastro doveva avere funzione di rinforzo strutturale per reggere il peso delle strutture del tesso che si scaricavano maggiormente negli spigoli. Il modello del pilastro angolare della basilica Emilia a Bologna venne reinterpretato, probabilmente dagli scalpellini stessi, aggiungendovi elementi tardogotici contraddicendo la modernità del sistema riscoperto da Alberti. Le uniche misure intere in piedi bolognesi sono rilevabili nella base del pilastro nel lato lungo del dado della base delle semicolonne e nel diametro. Le semicolonne sono dimensionate in base a misure intere, l’altezza dell’ordine è dovuta al vincolo imposto dalla necessità di rispettare la quota dei solai delle parti medievali e dell’iter in voltis alle quali il palazzo doveva collegarsi, un vincolo molto simile a quello che Alberti dovette affrontare per la facciata di S.M. Novella. La ringhiera può essere considerata come una trabeazione corinzia quasi completa: nell’ottavo e nono decennio del Quattrocento sembra non esserci distinzione dell’architettura italiana fra un architrave a due o tre fasce, quello bolognese è composto da solo due fasce separate da perline e fusaroli. Visivamente la ringhiera appartiene quindi al livello sottostante a conclusione dell’ordine corinzio, ma in realtà si trova al di sopra del solaio del primo piano. È questo il primo caso conosciuto di ringhiera a forma di altrettanto vero che negli anni ottanta i rapporti fra Giovanni Bentivoglio e gli Sforza, da sempre molto stretti, si infittirono ancora di più favorendo, presumibilmente, l’arrivo a bologna di echi sulle novità architettoniche lombarde. È possibile datare e attribuire con certezza alla mano di Marsilio Infrangipani e degli scalpellini del suo gruppo le parti lapidee che, come si è cercato di dimostrare, potrebbero in larga parte derivare da un disegno dello stesso Infrangipani o di qualcuno ancora immerso nella tradizione tardogotica di area padana ma con conoscenze fiorentine. Per l’impianto architettonico, l’unica certezza è quella di un modello più o meno definito, realizzato nel 1472 e, stando ai documenti disponibili, mai modificato fino all’inizio dei lavori nel 1484. L’architettura va quindi attribuita all’autore del modello datata al 1472 quando l’attività e la vita di bramante non era ancora documentata. È invece verosimile che la cronaca del Negri del 1600 confonda palazzo Podestà con quello adiacente del comune dove invece l’intervento bramantesco sembra certo. Bologna era una città dove l’edilizia dipendeva ancora da pratiche di cantiere medievali, senza una chiara gerarchia e distinzione fra le maestranze, come attesta la stessa indifferenza con cui un muratore veniva chiamato architetto e viceversa. L’unico bolognese noto in tutta Italia era Fioravanti, nato e legato a Bologna, lavorò a Roma sotto Nicolò V, già in questa occasione potrebbe avere avuto stretti contatti con Alberti, Rossellino e Francesco di Borgo , in quel periodo tutti documentati in vaticano quando il Commissarius Generali delle opere nicoline era proprio Nello da Bologna. Venne chiamato a Roma da ben tre papi: Nicolò V, Paolo II e Sisto V, morirà a mosca nel 1486 dopo la conclusione della cattedrale dell’Assunzione. Aristotele, oltre alle capacità tecniche applicate ai vari campi dell’ingegneria e riconosciuto ovunque, appariva una figura adatta a rappresentare l’ingegno cittadino. Il palazzo del podestà venne rifondato da Giovanni Bentivoglio per dimostrare il valore, l’importanza e l’indipendenza di Bologna: affidare un tale progetto a un bolognese che era stato eletto massaro dell’arte dei Muratori e da anni ricopriva il ruolo di ingegnere di Bologna avrebbe accentuato ulteriormente questi significati. Per concludere, la presenza dei membri della famiglia Fioravanti nelle vicende di piazza maggiore sono note: Fioravante realizza tra il 1425 e 1430 palazzo degli Anziani, Bartolomeo lavora al palatium vetus nel 1430 ed è responsabile della costruzione dell’iter in voltis ultimato nel 1442, Aristotele infine è presente nel palazzo del Podestà già nel 1453. Il progetto come si è visto presenta molteplici elementi di inaspettate qualità, fra cui quello di scegliere opportuni modelli presi dall’antico e comprenderne il significato non solo formale, ma anche strutturale, uniti tuttavia da alcune grossolane ingenuità riscontrabili al piano superiore. Solo dopo dodici anni, quando i lavori nel 1484 ebbero inizio, il Comune decise di affidarli a scalpellini bolognesi guidati da Infrangipani, che proprio nel 1488 fondò una società con altri muratori per dividersi la maggioranza delle imprese cittadine. In questa maniera il cantiere del palazzo Podestà si trovò in mani affidabili ed esperte delle tecniche e dello stile bolognese, tuttavia ancora provinciale e non aggiornato che eclissò parzialmente le scelte architettoniche di Aristotele. TUTTLE – BOLOGNA Alla città di Bologna è stato assegnato un posto decisamente secondario negli annali dell’architettura italiana dell’inizio dell’età moderna, malgrado la vasta attenzione richiamata dagli sforzi del Comune per documentare e preservare l’ampio e altamente omogeneo centro storico. Fatto singolare in quanto Bologna è stata almeno sin dal Duecento uno dei centri regionali più grandi, ricchi e culturalmente produttivi. Bologna nel Quattrocento era snodo fondamentale di rotte commerciali che collegavano l’Italia settentrionale a quella centrale, e racchiudeva una delle più importanti fucine intellettuali e culturali d’Europa. Perché allora l’evidente mancanza di interesse e le scarse ricerche sull’argomento? All’origine del fenomeno potrebbe essere la valutazione dell’architettura del Quattrocento secondo un’accezione alquanto ristretta di Rinascimento, ovvero uno stile nato sotto l’egida dell’élite intellettuale umanistica di Firenze e Roma  Bologna non era mai riuscita in epoca rinascimentale a crearsi una maniera architettonica propria, comparabile a quelle di VE, FI e Roma (Verona e Vicenza comprese). A Bologna, tuttavia, alcune tradizioni costruttive tardo-medievali come quelle relative all’architettura sacra, si conservarono pressocché inalterate per tutto il secolo, mentre altre, come l’edilizia residenziale e civile con portici, subirono profondi mutamenti che hanno relativamente poco a che fare con i modelli classici. La vita architettonica del Quattrocento bolognese è dominata dal tempio civico gotico di San Petronio, concepita da un governo popolare nel 1338 come un monumentale voto sacro alla libertà comunale e all’autonomia politica, la chiesa venne progettata per diventare la più grande della cristianità. Il primo architetto fu Antonio di Vincenzo, attivo fra il 1380 e 1401 stese il progetto dopo aver studiato fra Milano Firenze e Venezia. San Petronio rappresenta un’ingegnosa risposta creativa ad alcune importanti idee architettoniche del tardo Trecento, poiché in essa combinano la semplicità concettuale di S.M. del Fiore a Firenze con la incommensurabile magnificenza del duomo di Milano; l’inserimento delle cappelle private lungo le navate laterali e la luminosità combinata con il caldo cromatismo dei colossali spazi interni presenteranno aspetti originali e significativi per le generazioni successive. La facciata sembra sia stata oggetto di almeno tre proposte progettuali durante il Quattrocento: il progetto originario, di cui resta solo il basamento marmoreo; una seconda proposta, elaborata molto probabilmente in relazione alla maestosa decorazione scultorea di Jacopo della Quercia per l’ingresso principale, la “porta magna” (1425); e una terza rappresentata in modello ligneo che Agostino di Duccio sottopose alle autorità nel 1463. I maestri che dirigevano i lavori alla basilica erano preminentemente funzionari pubblici; la fedeltà al progetto originario era quanto maggiormente preoccupava tanto le autorità governative che il pubblico, e non vi era culto del genio architettonico individuale  il nome di Antonio di Vincenzo venne dimenticato pochi anni dopo e Aristotele Fioravanti non godette di fama nella sua città natale. Tra i documenti di maggiore importanta per la storia architettonica bolognese nel ‘400 è il diario tenuto dal capomastro Gaspare Nadi che, contiene molto poco circa gli architetti e si sofferma invece sulla committenza della signoria e ancor più sulle imprese condotte in collaborazione dalle locali corporazioni di costruttori. Altre opere di Antonio di Vincenzo, come il palazzo della Mercanzia (1384-91), il portico di Santa Maria dei Servi e, Cappella Muzzarelli per la chiesa di S. Francesco (1397) ne consolidarono il valore. Per l’architettura profana si cita Fieravante Fieravanti con la facciata principale del palazzo Comunale (1425-28), dove i ricchi capitelli in arenaria e le cornici in terracotta meticolosamente curate, rivestono con colore ed eleganza quella che è sostanzialmente una massiccia struttura muraria. Architettura Sacra: - Santa Maria dei Servi: riprogettata negli anni ’80 del ‘300 vide realizzata abside gotica nel 1437, deambulatorio gotico con cappelle 1470 e volte costolonate delle navate non oltre il 1505; - San Giovanni in Monte: vennero aggiunte cappelle alle navate imitando la soluzione di San Petronio; - San Marino: vennero costruite le volte fotiche alla metà del secolo; Queste chiese presentano in comune: ampie navate centrali con crociere costolonate e illuminate da finestre a oculi, navate laterali relativamente strette, spesso cappelle poco profonde; le commissioni che si rifacevano esplicitamente a modelli toscani erano poche e non riuscirono a riscuotere molta ammirazione, ancor meno furono oggetto di imitazione. Il persistente ricorso alla maniera gotica non dovrebbe essere imputato solo ad un chiuso conservatorismo, e tanto meno a una mancata comprensione degli apporti stilistici avanzati  le idee architettoniche fiorentine o romane che fossero, erano inadeguate o venivano direttamente scartate dai committenti. Il gotico cittadino di San Petronio fornì un modello di stile elevato appropriato per le importanti opere pubbliche che sorsero, spesso in un grandioso e splendido isolamento del contesto urbano dell’edilizia domestica. Nel campo dell’architettura residenziale vi era un continuo laborioso processo di abbattimento e rimaneggiamento, in questo campo ebbe luogo una rivoluzione importante, anche se tuttora in parte trascurata, nella trasformazione materiale della città  Alberti afferma che le trasformazioni occorse attorno a lui durante la sua vita, specialmente a Bologna sono innumerevoli, la città mutava e si è trasformata rispetto a come la conosceva quando frequentava l’università negli anni venti del ‘400, quando era ancora in larga misura prodotto delle foreste appenniniche. Le poche strutture sopravvissute a del portico pubblico del Baraccano in san Stefano e del portico dei Bastardini in via d’Azeglio, entrambi connessi a ospedali e la riattivazione del Naviglio. In piazza Maggiore, Giovanni II sovrintese personalmente alla parziale demolizione e alla ricostruzione del romanico palazzo del Podestà iniziato nel 1486, un’opera che sia per il significato pubblico che per lo stile non ebbe eguali. L’alzato della facciata corinzia a due livelli, ispirata al Colosseo e chiaramente elaborata sotto l’influenza delle opere realizzate a Roma negli anni sessanta del secolo è per tale data uno dei più notevoli esempi di classicismo alla romana dell’Italia settentrionale. Il palazzo ebbe scarsa incidenza sull’architettura della città: solo un piccolo numero di edifici del primo Cinquecento presenta un portico con pilastri rettangolari o mostra paraste apposte a essi. La cultura antiquaria bolognese sembra più a proprio agio negli studioli dei collezionisti, nelle biblioteche e nelle accademie che per le strade della città. Fu solo dopo la metà del secolo che si iniziarono a costruire palazzi in forme più ampie, più ambiziose e secondo una più spiccata consapevolezza della loro risonanza pubblica. Come avrebbe più tardi scritto Sebastiano Serlio, fu durante questi anni che si iniziò a costruire modernamente in Bologna. Verso il 1500 appariva chiaro a Jacopo Poggi, cronista di corte, che la città di Bologna era stata rinnovata: rinnovata nella sua configurazione architettonica come pure nelle sue infrastrutture, restaurata, non secondo un programma neo-antico o un qualche elevato ideale classico, ma piuttosto secondo nozioni concrete, pragmatiche e politicamente sensate di pulizia, salubrità e decoro urbano. L’ architettura del Quattrocento a Bologna è contrassegnata da un processo diffuso di concreto rinnovamento strutturale. RICCI – BOLOGNA E CARPI Bologna: Giulio II fa il suo ingresso a Bologna nel novembre 1506, poco dopo la fuga di Giovanni II Bentivoglio. La città, sformata e, da prevalentemente composta da edifici di legno e terra, è ora divenuta quasi irriconoscibile. Fino al 1525, tuttavia, perfino importanti palazzi come quello dei Fantuzzi hanno ancora un portico su colonne lignee. Con il pontefice arrivano a Bologna Bramante, forse Giuliano da Sangallo la cui presenza è testimoniata dalle parole di Vasari, e alcuni disegni del suo taccuino senese. Al solo Bramante, tuttavia, saranno affidate dal papa le più importanti commissioni architettoniche. Il palazzo degli Anziani in primis che verrà trasformato su modello di quello Vaticano (1507). La chiesa di San Petronio vedrà innalzata sul fronte incompiuto una statua bronzea del papa scolpita da Michelangelo, più tardi distrutta a furore di popolo. La rocca Galliera, posta verso l’estremità settentrionale della città a presidio dell’omonima porta, è ricostruita probabilmente su disegno di Bramante; infine, un’arteria nuova, la via Iulia, rimasta irrealizzata, è prevista tra la platea comunis, ove si affacciano San Petronio e il palazzo del Podestà. Una grande fabbrica all’antica è iniziata, forse già dal 1512, nella zona di porta Ravegnana, proprio sotto le torri, il committente è Giovanni Gozzadini, influente personalità d’epoca roveresca e poi leonina, priore della chiesa di S. Bartolomeo  il palazzo priorale in costruzione nel 1515 riporta elementi bramanteschi, riconducibili in particolare a S.M. presso S. Satiro, rendono dubbia l’attribuzione al troppo giovane Formigone. La resistenza opposta alla penetrazione del nuovo linguaggio anticheggiante è più marcata nel campo dell’edilizia religiosa, ad esempio, la chiesa del convento di S. Michele in Bosco (1517-23) a navata unica coperta da quattro volte a crociera, ha un impianto ancora medievale nonostante le paraste corinzie rialzate su piedistallo. Il chiostro occidentale della certosa, o quello del convento di S. Salvatore, riprendono tipi architettonici d’ascendenza lombarda, mentre nella cappella Duglioli in S. Giovanni in Monte del 1514-18 l’architetto Arriguzzi non si allontana dal modello brunelleschiano della Sagrestia Vecchia. La S. Petronio è ancora incompleta all’inizio del XVI sec, nel 1509 Arriguzzi inizia la trasformazione dell’originario disegno trecentesco di Antonio di Vincenzo, progettando di innalzare sulla crociera formata dalla nave principale e dai transetti una grande cupola ottagonale; al 1518 può farsi risalire il progetto per la facciata di Varignana secondo cui si prosegue il basamento già iniziato. Influenze raffaellesche sono presenti nella lunga facciata di palazzo Albergati in costruzione dal 1519 segno di un momento di svolta nella cultura architettonica locale e di scambi più incisivi con la capitale pontificia. L’edificio ideato per due distinti nuclei familiari è unificato dalla facciata con scarpa, memore di quella dei palazzi Pepoli e Sanuti. Fraintendimenti, in particolare nelle forme del portale dorico, tradiscono una personalità che, benché al corrente delle ricerche romane, appare come un dilettante ben informato. L’arrivo di Peruzzi a Bologna su invito dei fabbricieri di S. Petronio ancora alla ricerca di una soluzione per il controverso problema della facciata, il senese lascerà una serie di importanti disegni, tra cui quattro prospetti e una sezione prospettica con il progetto di trasformazione dell’intera basilica. La successione cronologica dei disegni permette di seguire l’iter progettuale di Peruzzi, ove la fusione di elementi medievali e di sintassi rinascimentale all’antica, si pone come traguardo di un’interpretazione del gotico cominciata decenni prima nella città natale. Per il convento olivetano di S. Michele in Bosco, Peruzzi progetterà alla fine del 1522 una magnifico portale ionico, eseguito dagli scalpellini Bernardino da Milano e Giacomo da Ferrara  gli verranno attribuite altre due opere non menzionate da Vasari cappella Ghisilardi (Zucchini) e lo scomparso palazzo Lambertini. Il palazzo di via degli Orefici (1522-23), residenza di Lambertini, dissimulava nella mediocritas dell’esterno, ricostruibile attraverso la documentazione fotografica precedente la demolizione, il raffinato eloquio della corte trabeata su colonne, nel tentativo di ricreare, sulle orme di Raffaello, la domus degli antichi. La cappella Ghisilardi (progettata forse ante 1525, eseguita dal 1530) ripropone, sulla scorta del sepolcro romano dei Cecenii, rilevato dallo stesso Serlio, il mausoleo a pianta centrale con colonne angolari d’ordine composito elevate su piedistallo, eretto da Francesco di Giorgio a Urbino. Dal 1520 al 1523 forse con l’interruzione di un ulteriore soggiorno romano, fino al trasferimento a VE nel 1527, è presenta a Bologna anche Sebastiano Serlio, cita lavori minori nel palazzo Comunale, la collaborazione a San Petronio e la creazione di disegni per delle tarsie lignee per il dossale del presbiterio della chiesa di San Domenico eseguite da Zambelli; non va esclusa la possibilità che Serlio abbia partecipato in veste di consigliere all’edifciazione di alcune importanti fabbriche  completata nel 1533, la facciata del palazzo Fantuzzi mostra una soluzione angolare il binato di semi colonne memori delle proposte bramantesche a palazzo Caprini, con mensole a forma di triglifo del primo ordine e una citazione a Peruzzi con palazzo Fusconi, mentre la fascia di separazione tra i due piani e le alte mensole del cornicione riprendono le soluzioni anticheggianti del palazzo Alberini di Raffaello. Facciata Panfilo dal Monte: utilizzo di impegnative fonti antiquarie, dai pilastri con colonne libere su piedistallo e trabeazione aggettante, come negli archi di Costantino e di Severo, alla sovrapposizione di finestre timpanate tra colonne come nel fronte orientale delle terme di Caracalla. Bologna, scelta per ragioni politiche e geografiche come sede dell’incontro tra Clemente VII e Carlo V e della successiva incoronazione di quest’ultimo, è riconfigurata per l’occasione su modello di Roma e dei suoi principali edifici, tramite l’erezione di importanti architetture effimere, che vedono coinvolti pittori e architetti all’avanguardia. Dopo un periodo di formazione nel cantiere del duomo di Milano (1540) si afferma a Bologna Antonio Morandi, detto il Terribilia  Chiostri del convento di San Giovanni in Monte (1543-44), con luci raddoppiate al primo piano rispetto a quello inferiore, influenze vignolesche, continuità con la tradizione locale e sensibilità per l’organizzazione tipologica e distributiva degli edifici. Con lui si è incamminati verso il perfezionamento di tipi e modelli, di cui l’opera principale di Morandi, la fabbrica dell’Archiginnasio, costruita sotto il pontificato di Pio IV (1562), offre l’esempio in assoluto più convincente. Jacopo Barozzi da Vignola: prima opera certa sarà una tarsia lignea con il Mosè salvato dalle acque commissionatagli da Francesco Guicciardini, dopo un soggiorno romano e un periodo francese, Vignola è di nuovo a Bologna come architetto di S.Petronio (1543), per la facciata produrrà due distinti disegni, riproponendo il colloquio instaurato da Peruzzi col mondo gotico. In palazzo Bocchi (dal 1545) ideato seguendo l’umore del committente, Vignola dialoga con alcune delle invenzioni più licenziose di Serlio, non a caso indicato recentemente come possibile autore del palazzo. Nel portale dorico del palazzo Comunale, commissionato dai tribuni della plebe (1547) Vignola sperimenta una soluzione ripresa e sviluppata più tardi nel progetto per il portale romano della Cancelleria fondendo in un’unica sintesi le suggestioni provenienti dall’architettura antica e moderna (come il portale dorico di Sant’Apollonia a
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