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Controllo del titolo esecutivo trattato, Slide di Diritto Penale

ALESSANDRO SAMMARCO

Tipologia: Slide

2011/2012

Caricato il 06/06/2012

lusherazad
lusherazad 🇮🇹

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Scarica Controllo del titolo esecutivo trattato e più Slide in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! Parte I – L’ESECUZIONE PENALE Sez. III – L’INTERVENTO DELLA GIURISDIZIONE ESECUTIVA Cap. I - Il controllo del giudice dell’esecuzione sul titolo Angelo Alessandro Sammarco Sommario: 1. La nozione di titolo esecutivo: a) cenni storici. - 2. Segue: b) la concezione ontologica. – 3. Segue: c) la concezione funzionale. – 4. Segue: d) a seguito della riforma codicistica. – 5. La esecuzione penale come fase giurisdizionale. – 6. Verità processuale e titolo esecutivo. – 7. La funzione del titolo esecutivo. – 8. Giudicato, esecutività ed esecuzione. – 9. Forza e potere esecutivi – 10. I problemi di coordinamento tra la fase della cognizione e quella della esecuzione. – 11. Il titolo esecutivo nel passaggio dalla esecutività alla esecutorietà. – 12. La risoluzione delle questioni sul titolo esecutivo. – 13. Il controllo sui vizi e sull’efficacia del titolo: a) premessa. – 14. Segue: b) l’invalidità. – 15. Segue: c) il titolo “ingiusto”. – 16. Segue: d) per effetto di pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo. – 17. Segue: e) la ineseguibilità del titolo. 1. La nozione di titolo di titolo esecutivo: a) cenni storici. Nel codice previgente l’espressione di “titolo esecutivo” non era prevista; il che consentiva persino di ritenere che all’esecuzione penale fosse estraneo un simile concetto, specifico dell’esecuzione civile1. Sennonché, immaginando che la vicenda esecutiva debba avere una “causale”, debba cioè avere un fondamento giuridico che giustifichi le attività compiute successivamente alla conclusione del processo di cognizione terminato con il giudicato, fu, sin dall’epoca, elaborata una nozione teorica di “titolo”, identificato con la sentenza irrevocabile e quindi “esecutiva” 2. Lo schema procedimentale del previgente codice, fondato sul passaggio ad una fase successiva a quella del giudizio di cognizione, destinata all’attuazione pratica dei comandi giurisdizionali, era dunque simile all’attuale, anche se nel passato contesto normativo alla fase esecutiva era complessivamente attribuita una natura amministrativa, soltanto episodicamente caratterizzata da parentesi giurisdizionali. Il fulcro della giurisdizione era perciò costituito dagli “incidenti” di esecuzione che, in quanto tali, confermavano la funzione episodica e quindi “residuale” della tutela giurisdizionale. Nell’attuale sistema normativo, quanto meno a livello di impostazione di principio, lo scenario è fortemente mutato e ciò per due ragioni fondamentali: a) è stata introdotta la 1 Cfr. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1965, 76. 2 Cfr. MIRTO, Il titolo esecutivo penale, in Riv. dir. pen., 1936, 734. nozione di “titolo esecutivo”; b) è stata ridisegnata la competenza giurisdizionale nella fase esecutiva. Sotto il primo aspetto, l’art. 670 c.p.p. ha espressamente previsto il “titolo esecutivo” come oggetto di specifiche “questioni” da sottoporre alla giurisdizione esecutiva. Sotto il secondo aspetto, la competenza giurisdizionale del giudice dell’esecuzione non è più concepita come episodica, ma è stata strutturata come funzione conoscitiva immanente all’intera fase esecutiva, ormai completamente “giurisdizionalizzata”. Tuttavia, ancorché significativa, la riforma normativa non ha prodotto i risultati sperati: il “titolo esecutivo” rischia di restare una formula vuota, una mera etichetta, piuttosto che un complesso di fattori e dinamiche processuali che costituiscono l’autentico fondamento dell’esecuzione penale; la giurisdizione esecutiva, dal canto suo, pur dichiarata come totalizzante, resta, in realtà ancora episodica: il giudice dell’esecuzione, ancora oggi, infatti interviene su richiesta di parte e solo nelle situazioni che sono tassativamente indicate dalla legge processuale. L’esecuzione continua, dunque, a svolgersi come una fase amministrativa sotto l’impulso del magistrato del pubblico ministero che agisce come organo titolare dell’azione esecutiva. Il cammino verso la piena tutela giurisdizionale dei diritti nella fase esecutiva si presenta ancora lungo e difficile. 2. Segue: b) la concezione ontologica. In un’ottica ontologica, il titolo esecutivo è considerato come documento o atto che costituisce il fondamento della tutela esecutiva che è giustificata solo “in ordine ai rapporti che risultino accertati di fronte alla legge in modo particolarmente sicuro”3. Secondo questa prospettiva, dunque, il contenuto di verità del titolo esecutivo costituirebbe la ratio della vicenda esecutiva che risulterebbe, altrimenti, ingiustificata ed inspiegabile. Una simile concezione appare radicata su un’idea forte di giudicato, considerato come affermazione di verità definitiva e immodificabile. Infatti, è possibile concepire la “sicurezza dell’accertamento” dei rapporti giuridici solo se si parte dall’idea che, nel percorso dell’accertamento, per sua natura inesauribile, possa invece individuarsi un momento di stabilità, di irreversibilità da cui scaturisca, appunto, la “sicurezza” dell’accertamento stesso. Si identifica quindi un simile momento con il giudicato, visto come punto finale PAGE 84 3 Cfr. FURNO, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942, 32 ss. sistema normativo che potrebbe anche essere unicamente polarizzato sugli aspetti procedimentali e funzionali dell’esecuzione8. 4. Segue: d) a seguito della riforma codicistica . Tra le due principali impostazioni concettuali, appare difficile dire quale sia stata adottata a livello di diritto positivo: probabilmente, siamo di fronte, come solitamente accade nei casi di contrasto tra ideologie processuali differenti, a soluzioni intermedie o “miste”, nate dal sovrapporsi di differenti concezioni processuali. Ma ciò che poi conta veramente non è il nome o l’etichetta di una soluzione normativa, quanto, piuttosto, l’effettiva disciplina prevista, a prescindere dalla coerenza astratta delle impostazioni ideologiche. E così, non tanto importa sapere se il legislatore abbia recepito un modello ontologico o un modello funzionale, quanto, piuttosto, stabilire, quanto di “ontologico” o di “funzionale” sia presente nel tessuto normativo vigente. Ebbene, da questo punto di vista, si osserva che il titolo esecutivo, ancorché non definito normativamente, appare tuttavia caratterizzato da indubbie connotazioni in senso funzionale, posto che la sua efficacia giuridica processuale prescinde dall’accertamento contenuto in un provvedimento giurisdizionale definitivo (giudicato). E ciò non tanto e non semplicemente perché, come già rilevato, costituiscono “titolo” esecutivo anche provvedimenti non definitivi, quanto perché, in effetti, la legge processuale vigente non concepisce il titolo esecutivo come contenitore di un “accertamento”, ma semmai come situazione da cui scaturisce l’effetto esecutivo. Insomma, la vicenda esecutiva è prevista semplicemente in termini di efficacia e non di verità. Esemplificando, si può dire, cioè, che la pena inflitta con una sentenza di condanna definitiva, non viene applicata perché, “giusta”, in quanto ricollegabile all’accertamento di PAGE 84 8 In tal senso, si è sottolineato che “il provvedimento che contiene la ‘normativa’ costituita attraverso il processo, non è per se stesso un titolo esecutivo, ma lo diviene in forza di una norma che espressamente gli riconosce l’esecutività, rendendolo, appunto, ‘titolo’ (GIAMBRUNO, Lineamenti di diritto dell’esecuzione penale, Milano, 2001, 3); in senso leggermente diverso si è ritenuto che “il titolo esecutivo penale vada identificato non – come in passato si affermava – con il provvedimento da eseguire, bensì con il comando in esso contenuto” (DEAN, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, cit., 82; in ogni caso, ormai appare superata la concezione tradizionale in base alla quale si immaginava un’identificazione tra “titolo esecutivo” e provvedimento giurisdizionale da eseguire; cfr. in tal senso, BAROSIO, Esecuzione penale, in Enc. dir., XV, Milano, 1966, 492 ss., 493; SANTORO, L’esecuzione penale, Torino, 1953, 207.; MIRTO, Il titolo esecutivo penale, in Riv. dir. pen., 1936, 736; MARSICH, L’esecuzione penale, Padova, 1927, 9; PRESUTTI, Esecuzione penale in Enc. giur., XIII, Roma, 1996, 3. Si è sostenuto che si "ha titolo esecutivo complesso quando esso risulti dalla componente o integrazione di due provvedimenti (rispettivi documenti) diversi" (LEONE, Trattato dir. proc. pen., Napoli, 1961, 476); l’argomento è ripreso da SANTORO, L’esecuzione penale, cit., 191 verità contenuto nella sentenza, ma soltanto perché si sono verificati determinati presupposti, tra i quali vi è appunto quello della definitività della sentenza stessa. Ed infatti, l’intera vicenda esecutiva, in ogni suo momento, è legata a condizioni e presupposti di semplice efficacia che per loro natura prescindono completamente dal riferimento a contenuti di verità o di accertamento. Questo aspetto è stato sottolineato nelle prospettive interpretative di matrice processualcivilistica che fanno leva sul concetto di “astrattezza” del titolo esecutivo o di “incorporazione” in questo dell’azione esecutiva9. In questo senso, anche la tradizionale distinzione tra atto e documento, quali elementi del titolo, sostanziale il primo e formale il secondo10, porta a ritenere che l’azione esecutiva non trovi nel titolo esecutivo documentale il proprio fatto costitutivo11. Insomma, l’impostazione dogmatica non può sovrapporsi al testo normativo che invece necessariamente ne costituisce la base imprescindibile. E così si deve obiettivamente riconoscere che nel sistema vigente il titolo esecutivo è concepito quale situazione giuridica o se si preferisce, fattispecie complessa 12, costituita da più componenti tra i quali figura certo una base documentale, ma con la precisazione che l’aspetto documentale del titolo non costituisce l’essenza giuridica di questo, rappresentandone, semmai, un semplice presupposto. In pratica, i documenti su cui si fonda il titolo esecutivo, ove richiesti dalla legge processuale, rilevano giuridicamente, ma solo dal punto di vista della completezza della fattispecie che, una volta perfezionatasi, legittima l’inizio della fase esecutiva13. Il documento presupposto del titolo esecutivo ha quindi natura puramente formale; il che spiega, ad esempio, perché quando si tratti di formare il titolo per l’esecuzione di una pena detentiva, mediante ordine di carcerazione, rilevi semplicemente l’estratto della sentenza divenuta definitiva che non ha valore in quanto documento contenente un accertamento di verità, ma semplicemente in quanto atto che presenta le caratteristiche previste dalla legge processuale. Nella medesima prospettiva, risulta evidente anche il carattere per così dire “relativo” della documentazione di supporto del titolo esecutivo, nel senso che, da un lato, la base documentale da cui scaturisce il fenomeno esecutivo è per così dire “liberamente” individuata e definita dal legislatore (ad esempio, in linea teorica, nulla vieterebbe al legislatore di sganciare l’esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva dalla formazione PAGE 84 9 Cfr. LIEBMAN, La sentenza come titolo esecutivo, in Riv. dir. proc. civ., 1929, 117 ss. 10 Cfr. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1960, 266 ss. 11 Cfr. REDENTI, Diritto processuale civile, Milano, 1957, 203 ss. 12 Cfr. ANDOLINA, Contributo, cit., 122 ss. 13 In tal senso, MICHELI, L’esecuzione forzata, Firenze, 1961, 104 ss. dell’estratto della sentenza stessa) e, dall’altro, i documenti che sono indicati come presupposti del titolo esecutivo, in realtà, non hanno valore costitutivo del titolo stesso, essendo piuttosto semplici condizioni di “procedibilità” dell’azione esecutiva ed in quanto tali in ogni momento allegabili al procedimento, integrabili e persino sostituibili14. 5. La esecuzione penale come fase giurisdizionale. Secondo una celebre definizione “l’’esecuzione è l’anello di congiunzione dell’opera e delle funzioni giudiziarie con l’opera e con le funzioni amministrative” 15. Questa definizione, tradizionale e certamente superata, ha tuttavia il pregio di indicare il nesso che sussiste tra la fase propriamente giurisdizionale del processo di cognizione e la fase, di natura sostanzialmente amministrativa, dell’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, cogliendolo all’atto del passaggio dall’una all’altra fase. Al momento dell’esecuzione, la forza giuridica (efficacia) dei provvedimenti giurisdizionali si trasforma in forza effettiva, in potere di attuazione concreta che modifica la realtà materiale nel senso previsto nel dispositivo del provvedimento giurisdizionale da eseguire16. Così, ad esempio, divenuta definitiva la sentenza di condanna a pena detentiva, si passa all’attuazione pratica del trattamento sanzionatorio indicato nel dispositivo e quindi al trasferimento del condannato nell’istituto carcerario dove avverrà l’esecuzione della pena irrogata. Un simile schema evoca una situazione tipica del diritto amministrativo che è esecuzione: un organo dello Stato realizza in concreto un comando che ha valore giuridico (nel caso prospettato una sentenza definitiva di un giudice)17. Tuttavia, è evidente che il condannato non può essere considerato un mero oggetto materiale dell’esecuzione penale, un corpo sul quale si eserciti semplicemente la forza fisica in cui consiste la pena irrogata. PAGE 84 14 Cfr. sui poteri di integrazione del titolo esecutivo da parte del pubblico ministero per circostanze sopravvenute che incidono sulla determinazione della pena, Cass. pen., 23-1-1995, in Cass. pen., 1996, 584; Cass. pen., 30-3-2000, in Cass. pen., 2001, 924, entrambe riportate in PERONI, SCALFATI (a cura di) Codice dell’esecuzione penitenziaria, Milano, 2006, 596. 15 LUCCHINI L., Elementi di procedura penale, Firenze, 1908, 399. 16 Cfr. GAITO, RANALDI, Esecuzione, cit., ss.; ID., Esecuzione penale, Milano, 2005, 19 ss.; CORBI, NUZZO, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 14 ss.; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, 25 ss. 17 Sottolinea l’aspetto “burocratico” dell’apparato giudiziario originariamente previsto per “gestire le sorti del reo in espiazione pena, DEAN, Ideologie e modelli, cit., 3. 6. Verità processuale e titolo esecutivo. Non vi è dubbio che l’obiettivo del processo penale è il raggiungimento della verità23. Sotto questo aspetto, non vi è, né vi può essere, distinzione tra i vari modelli processuali che operano come fonte di produzione della verità24. Non è infatti concepibile un processo che si prefigga lo scopo di nascondere o di stravolgere la verità dei fatti che in esso vengono accertati. La storia dei processi politici insegna che, anche quando il processo serve come strumento di eliminazione di un avversario politico o addirittura di epurazione di intere classi sociali, l’esigenza primaria è quella della parvenza della legalità e con essa l’esigenza dell’accertamento corretto dei fatti rilevanti, di modo che il risultato dell’accertamento stesso possa essere percepito e quindi accettato come verità; in altre parole, anche quando il processo maschera operazioni di puro potere è necessario che tali operazioni siano rappresentate in modo tale da apparire come produttive di verità25. Naturalmente, la verità in senso assoluto non è un obiettivo raggiungibile sul piano umano che, per definizione, è fallibile. Dunque, la distinzione, molto diffusa nelle trattazioni dottrinali, tra un modello di verità assoluta e un modello di verità relativa o formale, inteso come contrapposizione tra una verità, per così dire, completa ed una verità incompleta, di grado minore, non può essere considerata con riferimento all’obiettivo generale del processo del raggiungimento della verità26. Infatti, da un lato, tale obiettivo, come si è detto, è connaturato ad ogni forma di processo; dall’altro, ogni tipo di accertamento processuale è formale, in quanto previsto secondo le regole vigenti in un determinato sistema giuridico. Anche il metodo più invasivo, e più coercitivo, come ad esempio la tortura (pratica di accertamento in vigore per vari secoli nel processo penale) non può garantire il PAGE 84 23 Cfr. CALAMANDREI, Il giudice e lo storico, in Riv. dir. proc. civ., I, 1939, 105 ss.; CAPOGRASSI, Giudizio, processo, scienza, verità, in Opere, Milano, V, 1959, 51 ss; DEL VECCHIO, La verità nella morale e nel diritto, Studium, Roma, 1952; CORDERO, Riti e sapienza del diritto, Bari, 1985, 295 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 18 ss.; ILLUMINATI, La presunzione di innocenza, Bologna, 1979, 108 ss.; NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 23 ss., 33 ss.; PUGLIATTI, Conoscenza, in Enc. dir., IX, Milano, 1961,45 ss.; SAMMARCO A.A., Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Milano, 2001, 45 ss.; TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 3 ss.; UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, 1 ss. 24 Sulle diverse implicazioni logiche e storiche dei modelli processuali inquisitorio e accusatorio, cfr. GIULIANI, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1971, 29 ss.; 115 ss; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 33 ss. 25 Sia consentito il riferimento a SAMMARCO A.A., Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, cit., 45 ss. e bibliografia ivi cit. 26 Sulla distinzione tra il modello della verità “assoluta” o “materiale” tipica del processo inquisitorio e il modello della verità “formale” o “processuale”, cfr. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 92 ss. V. pure, retro, nota 23. raggiungimento della verità assoluta. Fu questa, infatti, la critica razionale che gli illuministi italiani prospettarono per sostenere l’abolizione della tortura, in grado di estorcere la confessione soltanto nei confronti dei soggetti più deboli e non, quindi, necessariamente nei confronti dei soggetti realmente colpevoli dei reati oggetto dell’accusa. Persino la verità estorta attraverso i tormenti è allora concepibile unicamente come verità semplicemente formale. Non esiste, dunque, un metodo processuale di accertamento che garantisca il raggiungimento della verità assoluta, dal momento che un simile obiettivo risulta sia influenzato dalle regole dell’accertamento, sia fuori dalla portata delle capacità umane. Ne consegue che la verità processuale è sempre, per definizione, verità formale. Il processo penale è allora caratterizzato dal dovere del giudice procedente ed in genere dell’autorità giudiziaria di accertare e di rispettare la verità processuale27. La distinzione tra i modelli di verità attiene piuttosto agli scopi e agli obiettivi specifici del metodo processuale di accertamento dei fatti rilevanti. Nel processo inquisitorio, forma di processo in vigore in Europa dalla seconda metà del XIII secolo sino alla seconda metà del XVIII secolo, lo scopo “specifico” dell’inquisitore, l’obiettivo connaturato alla sua funzione, era il raggiungimento della verità assoluta, nel senso che non esistevano limiti, né temporali, né formali, all’accertamento dei fatti oggetto del processo28. Nel diverso modello accusatorio, forma di processo caratteristica di alcune epoche antiche e in epoca moderna dell’area culturale anglosassone, invece, l’obiettivo specifico dell’accertamento processuale dei fatti rilevanti deve convivere con una serie di valori condivisi, tutelati da apposite norme (di sistema – principi; oppure di metodo - regole processuali) che impongono una serie di limiti all’accertamento29. PAGE 84 27 Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 18 ss.; NOBILI M., Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, 270 ss. 28 “… l’inquisitore può perseguire chiunque frapponga ostacoli all’esercizio dell’Inquisizione. Egli deve scomunicare ogni laico che, in pubblico o in privato, metta in dubbio punti di teologia. Procederà contro ogni avvocato o notaio che presti soccorso a un eretico”, EYMERICH N., Directorium inquisitorium, in Manuale dell’inquisizione; a cura di Cammilleri R., Casale Monferraro, 1998, 244 29 Si consenta ancora il riferimento a SAMMARCO A.A.,Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, cit., 24 ss. e alla bibliografia ivi cit. Si pensi ad esempio, per quanto riguarda l’attuale sistema processuale, ispirato al modello accusatorio, all’art. 188 c.p.p. che vieta l’applicazione di tecniche o di metodi idonei ad influire sulla capacità di autodeterminazione30. Dunque, un unico fine generale, proprio di ogni forma di processo, il raggiungimento della verità, è perseguito nell’ambito dei vari modelli processuali, che storicamente si realizzano con metodi diversi: giustificazione di ogni azione degli organi preposti all’accertamento processuale per raggiungere, ad ogni costo, il fine stesso (processo inquisitorio); oppure, rispetto dei valori valutati come fondamentali per l’individuo e condensati in norme di sbarramento (divieti probatori, regole di metodo) che introducono una serie di limiti all’accertamento (processo accusatorio). In ogni caso, ciò che caratterizza l’operato degli organi giudiziari preposti all’accertamento processuale, indipendentemente dal metodo codificato storicamente, è il generale dovere di verità, nel senso che lo scopo dell’accertamento processuale e delle attività ad esso connesse non può discostarsi dal fine ultimo del raggiungimento della verità. Si potrebbe discutere ad esempio, se si riducano le “perdite” di verità con un metodo piuttosto che con un altro (inquisitorio piuttosto che accusatorio) ma è certo che un “prezzo” in termini di scostamento rispetto alla verità assoluta è insito in ogni forma di processo. In altre parole, la verità accertata nel processo di cognizione è una verità per definizione relativa, in quanto perfettibile. Ciò significa che il risultato di ogni concepibile accertamento processuale non può essere considerato né assolutamente giusto, né assolutamente vero; il che giustifica l’esigenza di una rivisitazione del giudizio che, conservando la sua intrinseca fallibilità, dovrebbe essere soggetto ad un controllo, che consentirebbe di eliminare, sempre più, i margini di errore. Tuttavia, all’esigenza di controllo, che in teoria potrebbe esercitarsi all’infinito, essendo il giudizio sempre fallibile, si contrappongono altre esigenze, quali la certezza del diritto (anche da parte dell’imputato che non può in eterno restare sub judice) o il bisogno di reazione da parte della società rispetto al fatto reato commesso (esigenza punitiva di effettività della pena). Dal contemperamento delle contrapposte esigenze scaturisce quindi la soluzione pratica adottata nei moderni sistemi e nel nostro ordinamento processuale, di un complesso di rimedi (impugnazioni) che possano assicurare il controllo del giudizio, ma che ad un certo punto si esauriscono, bloccando l’accertamento giurisdizionale che, altrimenti, si protrarrebbe PAGE 84 30 Su tale istituto, cfr. NOBILI, Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998, 63; MARCHETTI, Testis contra se. L’imputato come fonte di prova nella procedura penale medievale e moderna, Milano, 1996, 225 ss..; TRANCHINA, Ipnotismo, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 738 ss.; VENTURATI, Ricognizione di persona e poteri coercitivi del giudice, in Cass. pen., 1993, 453; D’altra parte, la presenza del titolo esecutivo implica, automaticamente, come detto, il problema della verifica di esistenza e di validità del titolo stesso e quindi un momento di “controllo” che necessariamente deve avvenire nelle forme della giurisdizione. Del resto, il procedimento di esecuzione, previsto nell’art. 666 c.p.p., possiede tutti i caratteri della giurisdizione, quali la presenza di un giudice, un contraddittorio tra le parti, un provvedimento del giudice che decide su una controversia tra le parti35. Sotto questo aspetto, vi è quindi essere piena coincidenza tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione. Sennonché, il giudizio di esecuzione non è disciplinato esattamente come il giudizio di cognizione (dibattimento con le forme dell’oralità, massimo rispetto delle garanzie dell’imputato, del diritto in difesa, tre gradi di giudizio) 36, nonostante che la fase dell’esecuzione sia certamente definibile come “giurisdizionale”, sulla base, peraltro, delle previsioni espresse del legislatore che all’esecuzione ha dedicato un apposito libro del codice di procedura penale37. In effetti, permangono, ancora oggi, nella disciplina positiva dell’esecuzione, ambiguità e lacune, retaggio di epoche, per la verità neppure troppo lontane, nel corso delle quali il condannato, marchiato di infamia, era esposto all’arbitrio dell’autorità che aveva il potere di esercitare la vendetta legale contro colui che aveva deviato dall’ordine sociale38. Non si dimentichi l’istituto “esecutivo” del processo inquisitorio della “consegna al braccio secolare” che segnava il momento di passaggio dalla dimensione del processo legale, alla dimensione dell’attuazione concreta e definitiva della forza repressiva39. L’esigenza di un ampliamento delle garanzie giurisdizionali in fase di esecuzione, impone alcune considerazioni. PAGE 84 35fr. GAITO, RANALDI, Esecuzione penale, 2005, cit., 32 ss.; ID., Esecuzione, Aggiornamento, 2000, cit., 559; DEAN, Ideologie e modelli, cit., 95 ss.; CORBI, Guida pratica, cit., 177 ss.; ID., L’esecuzione, cit., 194 ss., 244 ss.; DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, 317 ss.; LORUSSO, Aspetti problematici del contraddittorio in executivis, in Giust. pen., 1996, III, 129; LOZZI, Lineamenti di procedura penale, cit., 403 ss.; PRESUTTI, Esecuzione, cit., 8; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 811 ss. 36 Su queste caratteristiche del giudizio penale, cfr. FERRAJOLI L., Diritto e ragione, Roma- Bari, 1989, 591 ss. 37 Nel presentare la riforma, il legislatore delegato ha evidenziato le novità rispetto alla sistematica caratterizzante il codice del 1930, sottolineando che la scelta operata muove “dall’esigenza di porre a base di tutta l’esecuzione la nozione di giudicato”: cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., 140. 38 Cfr. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 1992, 11 ss. 39 Sull’istituto, tipico del processo inquisitorio, della consegna al “braccio secolare”, cfr. ESMEIN A.,Histoire de la Procédure criminelle en France, Paris, 1882, 75 ss.; LEAH. CH., Storia dell’inquisizione, Milano, 1974, 247 ss.; Il santo rogo e le sue vittime, a cura di OLMI G., Viterbo, 1994, 3 ss. Si potrebbe così immaginare che, a parità di “forma” giurisdizionale, il giudizio di esecuzione non dovrebbe avere lo stesso oggetto del giudizio di cognizione. Ma ciò significherebbe che, se in sede di esecuzione dovessero essere decise tematiche già risolte in fase di cognizione, la decisione contenuta nella sentenza definitiva non potrebbe più avere alcun significato, essendo travolta da un provvedimento successivo dotato dello stesso rango e valore giuridico del precedente. In un simile contesto, sarebbe inconcepibile la situazione processuale del giudicato, come effetto proprio della sentenza definitiva. E non avrebbe neppure alcun senso la nozione stessa di “definitività” o “irrevocabilità” della sentenza come presupposto del giudicato40. Si potrebbe allora immaginare che il giudizio di esecuzione debba essere assistito dalle medesime garanzie giurisdizionali del giudizio di cognizione soltanto sul piano “formale” e non, cioè, per quanto riguarda l’oggetto dei due giudizi che dovrebbe essere, invece, rigorosamente distinto. Tuttavia, alcune delle vicende trattate nella fase dell’esecuzione, necessariamente, implicano problematiche direttamente attinenti alle questioni affrontate e risolte in sede di cognizione; basti pensare, ad esempio, per quanto riguarda lo specifico tema del controllo giurisdizionale del titolo esecutivo, al problema della duplicazione del giudicato a norma dell’art. 669 c.p.p. (e cioè allorché il giudice di esecuzione si trovi a dover verificare se un intero giudizio di cognizione si è svolto in violazione del divieto del bis in idem ex art. 649 c.p.p., rilevabile in ogni stato e grado del processo). L’idea della “tenuta” assoluta del giudicato scaturito dalla sentenza definitiva del giudizio di cognizione si pone allora come fortemente problematica rispetto alla fase giurisdizionale dell’esecuzione. Un simile assunto potrebbe infatti essere giustificato soltanto sulla base di un’alternativa, “formale” o “sostanziale”. Nella prima prospettiva, tra la sfera della giurisdizione di cognizione e la sfera della giurisdizione esecutiva dovrebbero sussistere differenze “formali”, relative alle modalità di esercizio della giurisdizione e ai poteri e facoltà delle parti; nella seconda prospettiva, invece, la differenza tra le due sfere di giurisdizione dovrebbe riguardare l’aspetto “sostanziale” dell’oggetto dell’accertamento. PAGE 84 40 In questo senso si colloca l’interpretazione giurisprudenziale, consolidata, che ravvisa, pur in assenza di previsioni normative espresse, una preclusione valutativa e quindi decisoria nei confronti del giudice dell’esecuzione, su tutti i punti e le questioni decise dal giudice di cognizione. Si consideri, ad esempio, la seguente massima della Cassazione penale: “ contro i provvedimenti concernenti la restituzione delle cose sequestrate emessi de plano dal giudice a norma dell’articolo 263 c. non è previsto alcun mezzo di impugnazione, e deve ritenersi consentito incidente di esecuzione nelle forme di cui all’art. 666 stesso codice, la cui proponibilità non può ritenersi preclusa dalla pendenza del giudizio di appello” (Cass. pen., 28-10-1993, n. 3018, Bartke; come si vede, la soluzione è quella dell’individuazione di un principio di specialità pratico che serve a prevenire il rischio di un completo sfaldamento del concetto di giudicato). Ma entrambe le soluzioni suscitano perplessità, posto che, nel primo caso, si tratterebbe di ipotizzare uno “sdoppiamento” della giurisdizione, incompatibile con il principio di “unicità” della giurisdizione stessa (che, cioè, in quanto garanzia dell’ordinamento, tutelata anche costituzionalmente, non può che essere concepita “unitariamente”)41; mentre, per quanto riguarda il secondo caso, l’idea di una netta separazione tra oggetto della giurisdizione di cognizione e oggetto della giurisdizione di esecuzione appare francamente irrealizzabile, considerate le ineliminabili interconnessioni, interferenze e sovrapposizioni tra le due sfere di competenza42. La nozione di giudicato si pone, dunque, in tendenziale contrasto con il concetto, necessariamente di natura giurisdizionale, di esecuzione. Ma se l’attuale complesso normativo, costellato, come detto, di lacune e ambiguità, non consente di ricavare soluzioni coerenti in tema di giudicato e di “tenuta” dello stesso, è sulla diversa nozione di “titolo esecutivo” che, invece, risulta possibile una ricostruzione interpretativa coerente e funzionale alle specifiche esigenze della fase esecutiva. In altre parole ed in linea con gli accadimenti giurisprudenziali più recenti, come si vedrà, si può dire che il baricentro dell’esecuzione si è ormai spostato dal tradizionale tema del giudicato, ormai privo del suo valore di assolutezza e tendenzialmente “flessibile” 43, al diverso concetto di titolo esecutivo, quale situazione giuridica processuale ben più adattabile alle dinamiche dei fenomeni tipici della fase di esecuzione. PAGE 84 41 Cfr. DEAN, Ideologie e modelli, cit., 30 ss. 42 A parte, ovviamente, la prospettiva de iure condendo del processo “bifasico” che prevede una distinta sfera di competenze tra il giudice della cognizione come giudice del “fatto” e giudice dell’esecuzione come giudice della “pena” (cfr. sul punto, GAITO, RANALDI, Esecuzione, 2005, cit., 40; GAITO, Dagli interventi correttivi sull’esecuzione della pena all’adeguamento continuo del giudicato: verso un processo penale bifasico?”, in Giur. cost., 1996, 892; DEAN, Ideologie e modelli, cit., 13; KALB, Funzioni e finalità della pena tra teoria e prassi nella determinazione giudiziale, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, II, Milano, 2000, 391; CONSO, Prime considerazioni sulla possibilità di dividere il processo in due fasi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1968, 706; GIANNITI, Il problema della divisione del processo in due fasi, in Giust. pen., 1976, I, 166. 43 L’espressione “giudicato flessibile” è utilizzata in DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit., 798. Sull’intangibilità del giudicato non va dimenticato il principio di diritto formulato dalla cassazione, secondo il quale il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’articolo 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo, sancite dall’articolo 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo (Cass. pen., 25 -1- 2007, n. 2800, in Guida al diritto, n. 9, 2007, 74 ss. con commento di Scalfati, I giudici offrono un «rimedio tampone» in attesa che si colmi il vuoto legislativo, ivi, 80 ss.). L’esecutività diviene allora un “programma vuoto”, una clausola fine a se stessa e ridondante. Emerge così un ulteriore aspetto problematico del giudicato che, pur configurando una sorta di “concentrato” di esecutività, tuttavia, sul piano concreto, viene superato da situazioni sopravvenute che rendono inattuale e inattuabile il “programma” esecutivo contenuto nel provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo. In questa prospettiva, si comprende ancora meglio la funzione del “titolo esecutivo”, quale situazione giuridica “intermedia” tra il momento dell’astratta “esecutività” e il momento della concreta “esecuzione”. In altre parole, attraverso il titolo esecutivo e le vicende modificative dello stesso, si realizzano le “compensazioni” necessarie per adattare l’effettiva attuazione dei comandi giudiziari alla realtà concreta dei soggetti destinatari dell’esecuzione e allo specifico contesto storico e normativo, entro il quale l’esecuzione stessa deve realizzarsi. 9. Forza e potere esecutivi. L’art. 650 c.p.p. dispone che “salvo che sia diversamente disposto le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili”. Questa norma attribuisce l’esecutività ai provvedimenti giurisdizionali irrevocabili: attraverso l’esecutività avviene la trasformazione della verità di fatto condensata nel provvedimento giurisdizionale irrevocabile nella verità di diritto del giudicato. Sotto questo aspetto, considerando il dispositivo dei provvedimenti giurisdizionali irrevocabili, l’esecutività si configura come situazione che consente la transizione dal piano giuridico astratto dell’attuabilità, al piano giuridico concreto della materiale realizzazione del comando giurisdizionale. Le modificazioni del mondo reale, prodotte dall’attività di esecuzione, rappresentano una sorta di traduzione in realtà effettiva delle previsioni sino a quel momento astratte dei provvedimenti giurisdizionali irrevocabili. In sostanza, l’esecutività è il presupposto del potere esecutivo, inteso come potere di attuazione reale e pratica della verità di diritto sancita dal giudicato. Con il passaggio in giudicato della sentenza pronunciata in giudizio, il dovere di verità proprio della fase di cognizione si trasforma in potere di verità proprio della fase dell’esecuzione. In questa prospettiva si realizza il ribaltamento dello schema tradizionale tipico del processo di cognizione del “potere-dovere” che si trasforma nello schema alternativo del PAGE 84 “dovere-potere”: dall’esercizio della facoltà di accertamento basata sul libero apprezzamento delle risultanze probatorie nel rispetto delle regole di metodo previste dalla legge (potere- dovere, proprio del processo di cognizione) si passa all’attuazione della verità di diritto, condensata nel giudicato, mediante l’esercizio di attività coercitive o direttamente modificative della realtà esterna (dovere-potere proprio della fase dell’esecuzione)50. Così, mentre il giudicato evoca un dovere, legato al carattere cogente della verità “imposta” ai consociati in quanto contenuta nella sentenza divenuta definitiva, l’esecuzione rimanda ad un potere riconducibile all’attuazione pratica della verità sancita dal giudicato. Nella fase di cognizione l’accertamento dei fatti processualmente rilevanti e la valutazione delle prove acquisite seguono i percorsi del libero convincimento, con le limitazioni imposte dalla legge (“potere” di ricerca della verità; “dovere” di osservare determinate regole che indicano il metodo della ricerca e i criteri di valutazione delle prove acquisite). In fase di esecuzione, invece, si parte dal “dovere” di realizzazione della verità contenuta nella sentenza definitiva, per giungere al “potere” di attuazione pratica di tale verità che, inevitabilmente, tiene conto degli eventi successivi alla formazione del giudicato51. Anche sotto questo aspetto si coglie il nodo problematico della transizione, che non può avvenire senza significative trasformazioni del giudicato nella fase dell’esecuzione. 10. I problemi di coordinamento tra la fase della cognizione e quella della esecuzione. La diversità “ontologica” tra la sfera del giudizio di cognizione e la sfera dell’esecuzione52 determina una serie di difficoltà di coordinamento normativo che sono fonti di gravi problemi interpretativi. Innanzitutto, si pensi alla figura del giudice dell’esecuzione che è colui che ha già esercitato le funzioni di giudice di cognizione (art. 665 c.p.p.) e che, in sede di procedimento, ex art. 666 c.p.p., è chiamato ad esercitare il controllo sul titolo esecutivo. Ebbene, la regola generale sulla determinazione della competenza funzionale a conoscere dell’esecuzione, attribuita al giudice che ha emesso il provvedimento, appare in contrasto con il principio di “imparzialità” che si riferisce alla posizione istituzionale ed PAGE 84 50 Sulle situazioni giuridiche di “potere” e “dovere”, cfr. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino, 1990, 95 ss.; CONSO, I fatti giuridici, cit., 131 ss.; CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino, 1986, 14 ss. 51 Cfr. LORUSSO, Giudice, pubblico ministero e difesa nella fase esecutiva, Milano, 2002, 70 ss. 52 Cfr. RICOEUR, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, 2003, 699, il quale riconduce l’orizzonte che porta al perdono che si instaura dopo l’affermazione della colpevolezza, all’ontologia dell’atto-potenza e cioè ad una dimensione che prevede la trasformazione, secondo lo sviluppo determinato dagli avvenimenti futuri, della situazione che, invece, in quanto esclusiva espressione della colpa, di per sé incancellabile, sarebbe vincolata ad un passato immodificabile. esterna del giudice che non può essere portatore di interessi diversi da quello, astratto e impersonale, dell’esclusiva applicazione della legge53: nel caso di specie, il giudice che è autore di un provvedimento, nella valutazione delle questioni concernenti l’esecuzione, potrebbe essere animato da un interesse di tipo “conservativo” del provvedimento stesso per non mettere in discussione il proprio operato. La stessa Corte costituzionale, in più occasioni, ha rilevato il contrasto con il principio di imparzialità, quando si è trattato di affrontare il problema della compatibilità a giudicare, da parte di colui che in precedenti fasi del procedimento avesse già ricoperto la funzione di giudice54. Dunque, la regola di determinazione del giudice dell’esecuzione non sembra rispettare il principio di imparzialità sancito dall’art. 111 Cost. Ma, a parte simili profili di illegittimità costituzionale, è certo che nei singoli casi concreti la stessa persona che, in veste di giudice della cognizione, ha emesso una sentenza divenuta definitiva difficilmente, in veste di giudice dell’esecuzione, potrà concepire una modifica delle statuizioni coperte dal valore assoluto del giudicato. Eppure, proprio in sede di procedimento di esecuzione, avente ad oggetto l’accertamento di una o più delle situazioni previste dalla legge, spesso si pone il problema di affrontare valutazioni e decisioni contrastanti con le corrispondenti valutazioni e decisioni adottate in sede di giudizio di cognizione. È evidente che il soggetto che abbia rivestito la qualifica di giudice della cognizione è il meno adatto per rivisitare in chiave critica il proprio operato. In ogni caso, a prescindere dall’esattezza o meno del criterio normativo di individuazione del giudice dell’esecuzione, resta la questione fondamentale della sovrapposizione delle vicende trattate in fase di giudizio di cognizione e in fase di esecuzione. La giurisprudenza ha adottato il criterio pratico del potere solamente sussidiario del giudice dell’esecuzione che può valutare e decidere sulle vicende che non siano già state trattate dal giudice della cognizione55. PAGE 84 53 Sul principio di imparzialità, cfr. GAITO, RANALDI, Esecuzione, 2005, cit., 9 ss.; DEAN, I requisiti di imparzialità e terzietà del giudice, in DEAN (a cura di) Fisionomia costituzionale del processo penale, Torino, 2007, 165 ss.; FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 592; FERRUA, IL ‘giusto processo’, Bologna, 2005, 45 ss.; SAMMARCO, La neutralità del giudice penale, Salerno, 2006, 97 ss. 54 Con riferimento all’art. 34 c.p.p., in tema di incompatibilità tra il giudice per le indagini preliminari e il giudice dell’udienza preliminare in occasione del giudizio abbreviato o del patteggiamento, cfr. C. cost., Circa l’esigenza di garantire un giudice dell’esecuzione che sia veramente terzo, nel senso di organo estraneo alla pregressa vicenda giudiziaria v. le riflessioni critiche formulate da Gaito, Esecuzione, in AA. VV., Compendio di procedura penale, Conso, Grevi (a cura di), Padova, 2006, 926 ss. 55 Cfr. Cass. pen., 10-10-1991, in CED Cass., n. 188984. Un perfetto esempio di questo schema si ha considerando la sentenza di condanna, che subisce le seguenti trasformazioni: inizialmente “esecutiva”, quando si realizzano i presupposti indicati negli artt. 648 e 650 c.p.p.; successivamente, “eseguibile” o “esecutoria”, quando, a norma degli artt. 656 e ss. c.p.p., il magistrato del pubblico ministero esercita l’azione esecutiva emettendo l’apposito ordine di esecuzione ed infine in “esecuzione” quando si attua in concreto il trattamento sanzionatorio disposto nel provvedimento, secondo le regole vigenti (ad esempio con riferimento alla pena detentiva, cfr. gli artt. 22 d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 e 94 d.lg. 28 luglio 1989, n. 271). Quando dunque si affronta il tema del controllo giurisdizionale del titolo esecutivo si deve necessariamente tenere conto della specifica collocazione procedimentale del titolo stesso (che, a sua volta, costituisce un sub procedimento) per poter comprendere quali possano essere le conseguenze delle eventuali pronunce giurisdizionali che ne dovessero dichiarare l’invalidità o l’inefficacia. Occorre tuttavia stabilire se il titolo esecutivo costituisca fase necessaria ed imprescindibile del procedimento esecutivo o se sia eventuale e legata esclusivamente alle previsioni dell’art. 670 c.p.p. e alle altre previsioni coerenti o coordinate con queste. In effetti, il problema si pone perché la nozione di “titolo esecutivo” è prevista espressamente solo con riferimento alla situazione successiva alla pronuncia della sentenza definitiva, come si desume dalla lettura dell’art. 670 c.p.p. che si riferisce al tema dell’impugnazione tardiva e della restituzione in termini per proporre impugnazione. E’ però evidente che, indipendentemente dalle classificazioni nominalistiche, il momento del passaggio da un fase di mera potenzialità esecutiva all’esecuzione in atto costituisce una realtà concettuale innegabile dalla quale non si può prescindere ogni qualvolta si prenda in considerazione il fenomeno esecutivo. E così anche quando, ad esempio, venga emessa un’ordinanza di applicazione della custodia cautelare in carcere, deve essere preliminarmente accertato, dagli organi competenti all’esecuzione, che sia effettivamente sussistente la situazione che sul piano dell’apparenza giuridica renda operativo il provvedimento emesso. Dunque, a livello concettuale, deve necessariamente esistere una situazione intermedia che lega il provvedimento emesso alla sua effettiva esecuzione 57. Questa situazione è appunto quella espressamente menzionata come “titolo esecutivo” nell’art. 670 c.p.p. con riferimento alla sentenza, ma non certamente caratteristica esclusiva di tale provvedimento: semplicemente, è il legislatore che, proprio per l’importanza del provvedimento e delle conseguenze che da esso discendono, ha ritenuto di fornire, per la sola PAGE 84 57 Al limite, anche l’ordinanza di applicazione della misura cautelare richiede, come situazione intermedia, che gli operanti di polizia giudiziaria, incaricati della sua esecuzione, siano muniti della documentazione necessaria per procedere. sentenza, un’indicazione precisa che, quanto meno a livello nominalistico, potesse scandire il momento fondamentale dell’esecuzione penale. È stata così coniata l’espressione di “titolo esecutivo”, con evidente richiamo alle analoghe situazioni nel campo della procedura civile58. La nozione di “titolo esecutivo” è dunque generalizzabile ed in questo senso deve necessariamente essere inquadrata. Si può, quindi, considerare in generale il fenomeno esecutivo, come scandito nei tre momenti sopra indicati, dell’ “esecutività”, dell’ “eseguibilità” o “esecutorietà” e dell’ “esecuzione”. Servendoci della nozione di “titolo esecutivo”, possiamo così inquadrare i tre momenti menzionati: l’ “esecutività” è il presupposto del titolo esecutivo; l’ “eseguibilità” o “esecutorietà” ne è il contenuto; l’ “esecuzione” ne è l’attuazione pratica. Ponendo in generale il problema dei possibili vizi che incidono sui tre aspetti del titolo esecutivo, si osserva che i vizi degli elementi che ne costituiscono il presupposto colpiscono il titolo stesso, che risultando in via derivata invalido, in quanto privato ex post delle sue condizioni di efficacia59, finisce per essere inefficace ab origine, come se non fosse mai stato emesso. I vizi degli elementi che costituiscono il contenuto del titolo, colpiscono, invece, in via diretta il titolo che deve essere eseguito e che deve essere sostituito da un nuovo titolo provvisto dei suoi requisiti di “eseguibilità” o “esecutorietà”. Infine, i vizi che attengono alla fase di attuazione pratica del titolo inibiscono semplicemente l’esecuzione del titolo, che può avere luogo non appena siano attuate o ripristinate le modalità di esecuzione previste dalla legge; naturalmente, si fa riferimento a quest’ultima fase per quanto riguarda tutte quelle situazioni di “modifica” del titolo esecutivo caratterizzate dalla sostituzione delle modalità originarie di esecuzione con modalità diverse, secondo, ovviamente, le specifiche previsioni normative (si pensi, ad esempio, alle misure alternative alla detenzione che, sotto questo aspetto, non sono altro che modalità diverse di esecuzione del titolo). PAGE 84 58 Cfr. DALIA, FERRAIOLI, Manuale, cit., 859; DEAN, Ideologie e modelli, cit., 82; CORBI, NUZZO, Guida pratica, cit., 87; CORBI, L’esecuzione, cit., 73; DI RONZA, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, cit., 118; TRANCHINA, L’esecuzione penale, in SIRACUSANO, GALATI, TRANCHINA, ZAPPALA’, Diritto processuale penale, II, cit., 583. 59 Sul concetto di inefficacia come conseguenza dell’invalidità, cfr. CAMMARATA, Il significato e la funzione del fatto nell’esperienza giuridica, in ID., Formalismo e sapere giuridico, Milano, 1963, 251; CONSO, Il concetto e le specie di invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Milano, 1972, 3 ss.; ID., I fatti giuridici, cit., 1 ss.; FALZEA, Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 432 ss.; ID., Rilevanza giuridica, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1989, 901 ss. 12. La risoluzione delle questioni sul titolo esecutivo. L’art. 670 c.p.p. si occupa delle questioni sul titolo esecutivo60. Il giudice dell’esecuzione, anche di ufficio, deve accertare, preliminarmente, l’esistenza materiale e giuridica del titolo da eseguire (co. 1). Nell’ambito di questo accertamento il comma 1 dell’art. 670 c.p.p. prevede anche l’ipotesi specifica del controllo “anche nel merito” dell’osservanza delle norme che regolano la dichiarazione di irreperibilità (cfr. artt. 159 e 160 c.p.p.). Quando il giudice dell’esecuzione abbia rilevato l’inesistenza materiale o giuridica del titolo esecutivo o la violazione delle regole concernenti la dichiarazione di irreperibilità, dichiara la circostanza con ordinanza e sospende l’esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente effettuata in caso di erronea dichiarazione di irreperibilità; in quest’ultima ipotesi decorre nuovamente il termine per l’impugnazione. Quando è proposta impugnazione od opposizione (a decreto penale di condanna) il giudice dell’esecuzione, successivamente alla propria decisione sulla richiesta dell’interessato, trasmette gli atti al giudice dell’impugnazione (o dell’opposizione in caso di decreto penale) competente. Il giudice dell’impugnazione, non vincolato dalle decisioni del giudice dell’esecuzione, se ritiene ammissibile il gravame, sospende con ordinanza l’esecuzione che non sia già stata sospesa (co. 2). In questo caso la sospensione dell’esecuzione è disposta dal giudice dell’impugnazione ed è conseguenza automatica del vaglio di ammissibilità. Quando l’interessato nella propria richiesta di declaratoria di non esecutività del provvedimento richiede, altresì, la restituzione del termine a norma dell’art. 175 c.p.p.61, purché tale ultima istanza non sia stata già proposta al giudice dell’impugnazione, il giudice dell’esecuzione decide sulla restituzione del termine, se non deve dichiarare la non esecutività PAGE 84 60 Cfr. GAITO, RANALDI, Esecuzione, 2005, cit., 203 ss.; ID., Esecuzione, Appendice, 2000, cit., 561 ss.; CORBI, NUZZO, Guida pratica, cit., 221 ss.; CORBI, L’esecuzione, cit., 260 ss.; CORDERO, Procedura penale, cit., 1161; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit., 862; GIAMBRUNO, Lineamenti, cit., 90 ss.; LOZZI, Lineamenti di procedura penale, cit. 405; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 814; VALENTINI, Questioni proponibili in fase esecutiva, in Giur. it., 1992, II, 734. 61 Sulla restituzione del termine per impugnare, cfr. da ultimo, Cass. pen., 2008, in CED Cass., n. 35345, secondo cui «qualora il giudice dell’esecuzione, applicando l’articolo 670 comma terzo c.p.p., nel respingere la richiesta di non esecutività della sentenza, accoglie invece quella di restituzione in termine per la proposizione dell’impugnazione, il giudice cui l’impugnazione viene proposta non può dichiararla inammissibile per tardività sulla base della ritenuta insussistenza delle già riconosciute condizioni per la restituzione in termine». Dunque, secondo tale orientamento, la restituzione in termine disposta dal giudice dell’esecuzione determina una nuova decorrenza del temine per impugnare, non più sindacabile, in quanto tale, dal giudice dell’impugnazione. e in virtù di una competenza funzionale esclusiva, potrebbe intervenire il giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 670 c.p.p. La verità è che, come detto, il complesso normativo non risulta chiaro e coerente e la stessa menzionata previsione di cui al comma 4 dell’art. 627 c.p.p. risulta ambigua nell’indicazione di una preclusione operante esclusivamente nei confronti del giudice di rinvio (l’irrazionalità di tale norma, non costituirebbe, peraltro, un caso eccezionale in un sistema processuale costellato da contraddizioni e difetti molto gravi). Quanto all’ipotesi sub b), si tratta di un evidente superamento della barriera, altrimenti invalicabile, del giudicato, che il legislatore ha previsto con riferimento alla situazione dell’irreperibilità del condannato. Infatti, posto che il decreto di irreperibilità viene emesso dal giudice della cognizione, nel momento in cui è consentita, in sede di esecuzione, la verifica dei presupposti e delle condizioni per l’adozione del citato decreto, ciò vuol dire che il giudice dell’esecuzione ha il potere di rivedere, “anche nel merito”, una decisione del giudice della cognizione. Questo caso dimostra, ancora una volta, come sia ben possibile che in fase esecutiva possano essere rivisti i giudizi adottati nel corso del processo di cognizione. Tuttavia, la situazione prevista dal legislatore non è l’unica a giustificare la rivisitazione del giudizio di cognizione: si pensi, ad esempio, alla citazione dell’imputato avvenuta con le forme della notifica attraverso la spedizione della lettera raccomandata, che, pur se avvenuta in violazione delle regole previste nell’art. 157 co. 8 c.p.p., non rientra nella disposizione concernente l’irreperibilità. In giurisprudenza, peraltro, si ravvisano precedenti ancor più restrittivi della lettera della legge: « in sede di incidente di esecuzione, l’indagine affidata al giudice è limitata al controllo dell’esistenza di un titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione. A tal fine, il giudice dell’esecuzione non può attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente a quella del passaggio in giudicato della decisione, ma deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’intrapresa esecuzione. Ne consegue che, allorché la legge annovera, fra i compiti e le competenze del giudice dell’esecuzione, le valutazioni, anche nel merito, dell’osservanza “delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato”, essa si riferisce chiaramente alle eventuali irregolarità riguardanti la dichiarazione di irreperibilità emessa dopo, e non prima, della pronuncia della sentenza »67. Questo orientamento restringe arbitrariamente il campo applicativo della disposizione del comma 1 dell’art. 670 c.p.p., pervenendo ad una vera e propria interpretatio abrogans. PAGE 84 67 Cass. pen., 15-6-1998, in CED Cass., n. 211025. Quanto al caso sub c), è necessario premettere che la situazione prevista è quella della proposizione dell’impugnazione o dell’opposizione avverso la sentenza o il decreto penale di condanna quando, a norma del comma 1 dell’art. 670 c.p.p., il giudice dell’esecuzione abbia disposto la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita dei provvedimenti stessi. Dunque, quando nei termini per impugnare, che decorrono dal momento del compimento della nuova notificazione, sia stata proposta impugnazione (o opposizione) il giudice dell’esecuzione trasmette gli atti al giudice di cognizione competente il quale decide liberamente, senza essere pregiudicato dalle eventuali decisioni del giudice dell’esecuzione, sia per quanto attiene all’ammissibilità dell’impugnazione (o dell’opposizione) sia per quanto attiene alla sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati. Potrebbe quindi accadere che il giudice dell’impugnazione (che è, in questo caso, il giudice della cognizione) non condivida la decisione del giudice dell’esecuzione in ordine all’invalidità della dichiarazione dell’irreperibilità dell’imputato e, quindi, dichiari l’inammissibilità dell’impugnazione (o dell’opposizione) proposta. Va altresì precisato che il percorso procedimentale considerato (rinnovazione della notificazione della sentenza di condanna o del decreto penale - proposizione dell’impugnazione o dell’opposizione da parte del condannato - trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione - decisione finale di quest’ultimo) è ipotizzabile con riferimento alla verifica di invalidità della sola dichiarazione di irreperibilità dell’imputato, nel caso in cui si adotti un’interpretazione restrittiva dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’esecuzione. Invece, immaginando un potere di cognizione e di decisione del giudice dell’esecuzione idoneo a superare la barriera formale del giudicato, la verifica di invalidità di tale giudice potrebbe spingersi fino a rilevare l’inosservanza di ogni regola di legge prevista per la notificazione degli atti avvenuta nel corso del processo di cognizione. In tal caso, sarebbe risolvibile, ad esempio, la situazione prospettata della sentenza di condanna definitiva emessa nei confronti di un imputato mai citato in giudizio. Sul punto, occorre considerare l’orientamento giurisprudenziale in tema di impugnazione tardiva, secondo cui la mancata conoscenza di un atto per nullità della notificazione impedisce la decorrenza del termine per impugnare l’atto stesso; in tal caso è sufficiente la presentazione dell’impugnazione, corredata dalla prova che il termine per impugnare non è mai decorso per la nullità della notificazione dell’atto dalla cui data il termine stesso avrebbe dovuto avere decorrenza68. PAGE 84 68 Cfr. Cass. pen., 20-12-1991, in CED Cass.,. n. 189119; Cass. 20 settembre 1996, in CED Cass., n. 206280. Come si vede, almeno sotto questo aspetto, la giurisprudenza concepisce la nozione di giudicato puramente formale, formatosi in relazione ad un provvedimento solo apparentemente divenuto irrevocabile, essendo in realtà ancora impugnabile in conseguenza dell’invalida notificazione all’interessato. Dunque, è espressamente riconosciuta l’esistenza di una dimensione di giustizia sostanziale (all’interno della quale non è accettabile come giusta la sentenza di condanna emessa nei confronti di una persona che, senza colpa, non abbia mai potuto avere conoscenza del processo svolto nei suoi confronti) che entra in collisione con lo schermo artificiale del giudicato. Per quanto riguarda l’ipotesi sub d), il legislatore ha preso in considerazione l’eventualità che contestualmente alla proposizione della richiesta, perché sia dichiarata la non esecutività del provvedimento, siano prospettati i presupposti e le condizioni per la restituzione nel termine per impugnare. Dalla previsione normativa si desumono due conclusioni: 1) la richiesta di restituzione nel termine per impugnare non costituisce un onere per l’interessato (infatti, il giudice dell’esecuzione può disporre comunque, d’ufficio, la rinnovazione della notificazione a norma del comma 1 facendo nuovamente decorrere il termine per impugnazione); 2) la richiesta perché sia dichiarata la non esecutività del provvedimento appare svincolata dalla questione del termine per impugnare. In quest’ultimo caso, si potrebbe quindi ipotizzare, sempre in un’ottica di interpretazione estensiva del testo normativo dell’art. 670 c.p.p., anche una richiesta diretta alla declaratoria di non esecutività del provvedimento, fondata su situazioni verificatesi nel corso del giudizio di cognizione che non abbiano direttamente influito sui termini per impugnare. Si pensi alle già citate problematiche riguardanti i vizi insanabili “in ogni stato in grado del procedimento” come, ad esempio, le nullità assolute. Si vedrà nel prosieguo che proprio sulla base di questo percorso dell’interpretazione estensiva delle previsioni dell’art. 670 c.p.p. si è formato un orientamento giurisprudenziale recente determinate l’invalidazione del titolo esecutivo come conseguenza di vizi di legittimità del giudizio di cognizione (la violazione delle regole del giusto processo ex art. 6 CEDU, accertate con sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo). 13. Il controllo sui vizi e sull’efficacia del titolo: a) premessa. Il presupposto dell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari è l’esistenza del titolo esecutivo che non è meramente materiale (presenza fisica della documentazione necessaria), ma deve essere anche e soprattutto giuridica: è cioè necessario che si siano effettivamente verificate le situazioni PAGE 84 Tenendo presente che, come già chiarito, il giudicato è il presupposto del titolo esecutivo, appare evidente che gli eventuali vizi del giudicato debbano riflettersi sul titolo esecutivo che sarebbe quindi affetto da invalidità derivata. Sennonché, occorre accertare, da un lato quali siano i vizi del giudicato rilevanti e, dall’altro, quale sia il tipo di invalidità del titolo esecutivo. Non si intende con ciò superare del tutto l’impostazione tradizionale basata sul canone interpretativo di sistema, secondo il quale il fenomeno giuridico del giudicato è comunque congegnato come situazione che, per le già esaminate ragioni di carattere pratico e “politico”, pone termine alla vicenda processuale che altrimenti rischierebbe di protrarsi all’infinito. Si cerca, piuttosto, di verificare alcuni spunti interpretativi in direzione dell’adeguamento (piuttosto che del superamento) del giudicato nei casi più evidenti di ingiustizia del processo di cognizione. A tale proposito, potrebbe venire in considerazione la summa divisio tra la categoria degli errores in judicando e degli errores in procedendo73 per immaginare una soluzione del problema. In effetti, l’esigenza dell’immodificabilità del giudicato riguarda la naturale fallibilità del giudizio di merito che, per sua natura, è perennemente perfettibile; di qui, come si è visto, la necessità di porre un termine definitivo all’attività del giudizio. Il tema della sopravvenienza, in fase di esecuzione, di elementi, circostanze o situazioni che possano far rivedere il giudizio di merito, al di là di una casistica limitata, come è quella prevista per la revisione delle sentenze di condanna, non ha nulla a che vedere con l’illegittimità del giudizio che sia stato cioè adottato in violazione di norme di legge. Infatti, la decisione di condanna, emessa nel pieno rispetto delle norme della legge processuale e che debba essere successivamente rivista a causa della sopravvenienza di prove dell’innocenza dell’imputato, non è, per definizione, processualmente ingiusta. Dunque, è evidente che, per quanto riguarda i cosiddetti errores in judicando, il giudicato, a parte le ipotesi eccezionali che possono essere previste in sede di impugnazione straordinaria come la revisione, effettivamente, non può subire alcuna modificazione. Viceversa, in caso di violazione della legge processuale, la decisione finale del processo di cognizione, ancorché confluita nella sentenza divenuta definitiva, è ingiusta processualmente. PAGE 84 73 Su questa distinzione, cfr., CALAMANDREI, Cassazione civile, in Nuovo Dig., II, Torino, 1937, 981; CORDERO, Procedura penale, cit., 1073; ID., Guida alla procedura penale, cit., 411 ss.; LOZZI, Sulle condizioni per sindacare il travisamento del fatto, in Giur. it., II, 1993, 521; SIRACUSANO, I rapporti tra ‘Cassazione’ e ‘rinvio’ nel processo penale, Milano, 1967, 162 ss. Ciò significa che anche la fase dell’esecuzione non può non risentire, in via derivata, dell’invalidità della sentenza definitiva che ne costituisce il presupposto giuridico. In questa prospettiva, è dunque ragionevole ipotizzare un rimedio all’ “ingiustizia” processuale subita dal condannato nel corso del giudizio di cognizione. D’altra parte, come si è detto, la stessa giurisprudenza è intervenuta in tal senso, quanto meno nei casi macroscopici, come quando ha immaginato la possibilità di proporre l’impugnazione tardiva avverso provvedimenti giurisdizionali solo formalmente passati in giudicato, in quanto non validamente notificati alla persona legittimata ad impugnare. Né, in ogni caso, si potrebbe ritenere che la rilevabilità in fase esecutiva dei vizi processuali insanabili rischierebbe di determinare il progressus ad infinitum del processo penale, giacché, per sua natura, il vizio processuale, in quanto violazione di una norma processuale espressamente prevista è oggettivamente rilevabile in fase di accertamento giurisdizionale, essendo molto ridotto il margine della valutazione discrezionale del giudicante circa l’esistenza o l’inesistenza del vizio. Pertanto, immaginando la rilevabilità dei vizi processuali insanabili in fase esecutiva, si potrebbe, da un lato, porre un ragionevole rimedio ai casi evidenti di ingiustizia processuale del giudizio di cognizione e, dall’altro, evitare il rischio del giudizio perenne. 15. Segue: c) il titolo “ingiusto”. Questione pregiudiziale, è quella dei limiti all’oggetto dell’accertamento del giudice dell’esecuzione, tenuto conto della particolare situazione in cui questo giudice si trova normalmente ad operare e cioè successivamente alla pronuncia da parte del giudice di cognizione di una decisione divenuta irrevocabile. In questa prospettiva, il problema è cioè quello degli eventuali effetti vincolanti del giudicato rispetto alla giurisdizione esecutiva. La questione si presenta problematica, a seconda che si consideri l’assenza di pronuncia del giudice di cognizione o viceversa la pronuncia di questo su specifici punti che potrebbero rilevare in sede esecutiva. Sul piano sistematico, considerato che, laddove abbia voluto prevedere l’effetto vincolante della statuizione del giudice di cognizione, il legislatore ha introdotto una specifica indicazione in tal senso74. Si può ritenere che, in effetti, il giudice dell’esecuzione non abbia limiti al controllo del titolo esecutivo, se non nei casi in cui il legislatore abbia espressamente e specificamente introdotto un’eccezione in tal senso. PAGE 84 74 Come si desume dagli artt. 671 e 675 c.p.p. che, espressamente, per quanto riguarda, rispettivamente, la disciplina del concorso formale e della continuazione tra reati e la falsità dei documenti, attribuiscono la competenza funzionale piena al giudice dell’esecuzione, a meno che non si sia pronunciato specificamente sul punto il giudice di cognizione. Anche in giurisprudenza si propende per questa soluzione. Ad esempio, con riferimento all’art. 669 c.p.p., è stata sottolineata la competenza funzionale esclusiva del giudice dell’esecuzione a giudicare in ordine ai provvedimenti di condanna pronunciati per lo stesso fatto contro la medesima persona. Si è infatti ritenuto che “l’affermazione incidentale, contenuta nella sentenza 25.1.1996, di esclusione della medesimezza del fatto, già giudicato con quella 4.4.1995, non costituisce preclusione al riesame della applicabilità del disposto di cui all’art. 669 c.p.p., in quanto tale affermazione radica la competenza di quel giudice nel proprio ambito, ma non assume efficacia formale di giudicato, essendo quella esecutiva la sede nella quale propriamente la questione va affrontata e risolta.” 75. Il significato di tale affermazione è chiaro ed indica nel giudice dell’esecuzione l’unico organo competente a dirimere le questioni che eventualmente insorgano con riferimento alla medesimezza di fatto e di persona in ordine a diversi provvedimenti; e ciò, indipendentemente dalla circostanza che un qualsiasi altro giudice si sia pronunciato su questioni che riguardano la tematica del bis in idem: al punto tale che, se un giudice di cognizione si è già pronunciato in ordine alla eventuale medesimezza di un fatto di reato, escludendola, il giudice dell’esecuzione non è vincolato a detto giudizio, essendo la sede esecutiva, l’unica nella quale le questioni di cui all’art. 669 c.p.p. devono essere affrontate e risolte. Naturalmente, pur avendo natura strettamente “processuale”, lo specifico campo dei vizi di “ingiustizia” del titolo esecutivo non è facilmente individuabile. In presenza di lacune e ambiguità normative, nonché di orientamenti giurisprudenziali formalistici e restrittivi, finirebbe per risultare oggetto di fantasia interpretativa, l’operazione ermeneutica di concepire l’invalidità derivata del titolo esecutivo, quando nel giudizio di cognizione si siano realizzate ipotesi di nullità (e di quale tipo, assoluta – in tutti o in alcuni casi) o inutilizzabilità o decadenza o inammissibilità. Da questo punto di vista, non resta che rassegnarsi alla dura realtà e attendere o gli sviluppi normativi, come la sempre più necessaria riforma del diritto dell’esecuzione; oppure un guizzo di modernizzazione giurisprudenziale che possa finalmente valorizzare la natura giurisdizionale della fase esecutiva. Per la verità, in quest’ultimo senso occorre segnalare un importante, anche se al momento unico, approdo giurisprudenziale che ha posto e risolto efficacemente il problema ormai non più procrastinabile, dell’ “ingiustizia” del titolo esecutivo, in quanto formatosi sulla base di un processo di cognizione svoltosi in violazione dei principi del “giusto” processo. 16. Segue: d) per effetto di pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’antefatto che da cui occorre partire è costituito dalla decisione della Corte europea dei diritti PAGE 84 75 Cass. pen., 9-2-2001, in CED Cass., n. 16170. limiti indicati dalla stessa corte di cassazione, immediatamente operativo nel nostro ordinamento. Non appare corretto evocare lo spettro di un “quarto grado” di giudizio o l’esautorazione delle istituzioni giudiziarie italiane da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Si tratta di argomenti fuorvianti, perché il punto non è chiedersi se oggi il processo italiano abbia perso importanza in quanto sottoposto al giudizio della Corte europea, ma, piuttosto, se sia ancora tollerabile la reiterata inerzia del legislatore rispetto all’art. 46 CEDU che stabilisce la forza vincolante delle sentenze della Corte europea e se il giudicato in senso formale possa avere valore giuridico anche quando si sia formato in contrasto con le regole fondamentali del giusto processo. E’ quest’ultimo l’aspetto fondamentale della questione che non solo giustifica l’intervento della cassazione, ma apre nuovi e importanti spazi interpretativi. 17. Segue: e) la ineseguibilità del titolo. Stante la vincolatività diretta all’interno del nostro ordinamento delle norme convenzionali, circostanza esplicitamente menzionata dalla corte di cassazione nella citata sentenza nel caso Dorigo83, piuttosto che immaginare un criptico e inspiegabile distinguo, è possibile ritenere che, appunto, l’efficacia vincolante nei confronti del giudice italiano dovrebbe scaturire, tanto dalle sentenze della Corte europea, quanto, direttamente, dalle norme CEDU. Sennonché, mentre l’adeguamento ad una sentenza della Corte europea appare relativamente semplice, quanto meno secondo il percorso tracciato dalla cassazione, giacché si tratta, in effetti, di verificare in concreto che effettivamente la Corte abbia accertato una violazione dell’art. 6 CEDU sul giusto processo, non sembra invece altrettanto agevole immaginare un adeguamento, in fase esecutiva, rispetto alle disposizioni CEDU, tenuto conto che per raggiungere un tale obiettivo sarebbe necessario un complesso accertamento di fatto. In altre parole, per stabilire se un determinato processo sia stato conforme alle disposizioni dell’art. 6 CEDU, occorre che, in concreto e attraverso le tipiche regole della giurisdizione, un giudice compia approfondite verifiche in fatto; il che, ancora una volta pone i già menzionati problemi dei rapporti con il giudicato e dei poteri di accertamento del giudice dell’esecuzione. D’altra parte, considerato che anche le norme costituzionali ed in particolare le disposizioni dell’art. 111 Cost., introdotte dalla l. n. 1 del 1999 cha ha importato le previsioni contenute nell’art. 6 CEDU84, hanno, secondo un orientamento interpretativo consolidato, PAGE 84 83 Si è infatti espressamente sostenuto: “deve considerarsi ormai acquisito il principio della immediata precettività delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. 84 Cfr. FERRUA, Il giusto processo, Bologna, 2005, 15 ss. efficacia diretta all’interno dell’ordinamento85, la questione assume un significato ancora più generale, tenuto conto, appunto, del diretto riferimento alle disposizioni costituzionali. Occorre poi prendere in considerazione anche il principio dell’esclusività della giurisdizione penale ex artt. 1 e 2 c.p.p. 86, secondo cui il giudice penale non ha obblighi di adeguamento rispetto alle pronunce di altri organi, nazionali o internazionali, a meno che non sia “diversamente stabilito” dalla legge (cfr. art. 2 c.p.p.). In questa prospettiva, non è dunque ipotizzabile che il dictum della Corte europea circa l’inosservanza delle disposizioni dell’art. 6 CEDU in materia di giusto processo, possa avere effetti vincolanti diretti sulla giurisdizione italiana, a meno che, appunto, un simile principio non sia espressamente previsto. Dunque, la stessa soluzione di principio enunciata nella sentenza Dorigo rifluisce nella questione di carattere generale dell’effetto vincolante e diretto della normativa CEDU all’interno dell’ordinamento italiano; e ciò, persino a prescindere da una previa pronuncia della Corte europea, che, come detto, di per sé, non avrebbe alcun valore diretto nell’ordinamento italiano, avendo efficacia soltanto il disposto dell’art. 46 citato che parla semplicemente di forza vincolante nei confronti delle parti contraenti e che, tuttavia, sotto questo aspetto, ha la stessa efficacia di ogni altra disposizione CEDU, quale è certamente anche il menzionato art. 6 sul giusto processo. Di qui l’esigenza di esaminare il problema nella sua generale impostazione e cioè di stabilire se il giudice dell’esecuzione possa ed entro quali limiti, nell’esercizio dei suoi poteri di controllo, invalidare il titolo esecutivo, verificando se nel giudizio di cognizione dal quale è scaturito il titolo stesso siano stati o meno applicati i principi del giusto processo e ciò persino indipendentemente dall’esistenza di una sentenza della Corte europea che abbia riconosciuto una simile violazione. E’ chiaro che in questa prospettiva il giudice dell’esecuzione disporrebbe di poteri diretti di superamento del giudicato. Pur essendo evidente che la questione è delicatissima e non risolvibile se non a seguito di ponderati ulteriori interventi giurisprudenziali e, probabilmente, di precisazioni normative, in linea puramente teorica è possibile tracciare, se non una soluzione, quanto meno una riflessione propedeutica. Se si parte dalla premessa dell’inosservanza nel giudizio di cognizione delle regole vincolanti del giusto processo, si deve concludere sul piano logico-giuridico che anche il giudicato, ottenuto al termine del procedimento di cognizione, è oggettivamente “viziato”; si PAGE 84 85 Cfr. FERRUA, Il giusto processo, cit., 26. 86 Cfr. BELLIZZI, Giurisdizione penale, in Dig. pen., VI, Torino, 1992, 1ss.; SPANGHER, Nuovo codice di procedura penale: poteri di cognizione del giudice e questioni pregiudiziali, in Giur. it., 1991, IV, 241. tratta, semmai, di stabilire se un simile “vizio” possa avere conseguenze nella fase dell’esecuzione. Si è già detto che tra il giudicato e il titolo esecutivo vi è un rapporto di consequenzialità logico-giuridica, nel senso che il primo è il presupposto del secondo, essendone parte integrante. Ne consegue che l’invalidità del giudicato deve necessariamente riflettersi sul titolo esecutivo che in via derivata risulta colpito dallo stesso vizio. Dunque, l’invalidità del titolo esecutivo è necessariamente della stessa specie dell’invalidità che può colpire il giudicato. Ci si potrebbe a questo punto chiedere se l’ipotesi del giudicato “ingiusto”, in quanto formato in violazione delle regole sul giusto processo (nazionali, secondo l’art. 111 Cost. o internazionali, secondo l’art. 6 CEDU), rientri o meno ed eventualmente in che termini nelle forme tipiche dell’invalidità processuale. Ma a parte la difficoltà di impelagarsi in un intricato groviglio classificatorio, legato all’esigenza di inquadramento il vizio nelle tipologie conosciute, in sede di preliminare approfondimento teorico è sufficiente prendere atto che il giudicato “ingiusto”, dovrebbe essere per definizione privo di efficacia tipica, essendo cioè inidoneo ad esplicare la funzione ad esso assegnata dall’ordinamento. Del resto, è esattamente questo il tracciato teorico seguito dalla cassazione, la quale si sostiene chiaramente che laddove non sia stato rispettato l’apparato normativo posto a garanzia del giusto processo e direttamente operante e vincolante all’interno del nostro ordinamento (si tratti degli artt. 6 o dell’art. 111 Cost.) il processo, sia pure terminato con sentenza formalmente divenuta irrevocabile (ex art. 648 c.p.p.), non può dare luogo ad un giudicato sostanzialmente efficace87 (dal punto di vista formale, invece, come si è visto, il giudicato, ancorché “ingiusto”, è condizione valida per l’ “esecutività” della sentenza). L’inefficacia del giudicato “ingiusto” diviene quindi la causa dell’invalidità del titolo esecutivo che viene meno essendo stato privato del suo presupposto essenziale (la situazione è paradossale: il titolo sine titulo). A questo punto si comprende come sia davvero di poca importanza stabilire il nomen del vizio del titolo esecutivo fondato su un giudicato “ingiusto”; è invece fondamentale prendere PAGE 84 87 Cass. pen., 25 -1- 2007, n. 2800, D., in Guida al diritto, cit., 74 ss., che ha formulato il seguente principio di diritto: “Il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, norma dell’articolo 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’articolo , 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo”. Per alcune interessanti riflessioni sulla soluzione adottata dalla cassazione cfr. NEGRI, Corte europea e iniquità del giudicato penale. I confini della legalità processuale, in Dir. pen. e processo, 2007, 1229 ss. Elementi concernenti il carattere e l’individualità dell’imputato, non emersi o non considerati nel giudizio di cognizione, rendono così inattuale il trattamento sanzionatorio applicato in concreto contraddicendo il giudizio sulla personalità del condannato, divenuto formalmente immodificabile. Come è noto, proprio per le ragioni segnalate sono stati previsti, da un lato, rimedi straordinari come la revisione della sentenza di condanna e, dall’altro, istituti che consentono, in particolari casi, il superamento del giudicato di condanna o l’adeguamento del trattamento sanzionatorio alla personalità del condannato. Ma, sul piano generale, il problema rimanda ad un sistema di riferimento concettuale la cui conoscenza è necessaria, sia per l’elaborazione dei criteri interpretativi in grado di risolvere le numerose difficoltà applicative riconducibili alle complesse e al tempo stesso lacunose disposizioni normative previste nel settore, sia per l’ideazione di soluzioni de iure condendo, sempre utili alla riflessione e quindi alla stessa attività interpretativa. È stato detto che il discorso storico ha come propria principale ambizione e rivendicazione, “quella di rappresentare in verità il passato”89. Ciò significa che il giudicato in quanto affermazione di un passato oggettivizzato e artificialmente reso immodificabile, costituisce addirittura un ostacolo rispetto all’obiettivo di verità che si cerca di raggiungere sul piano storico. La vera differenza tra il giudizio del giudice e il giudizio dello storico consiste proprio nella limitatezza, “artificiale”, del primo e nella illimitatezza, “naturale”, del secondo 90. Il cerchio che viene chiuso dal giudice con il giudicato viene riaperto dalla prospettiva storica che si instaura dopo il giudizio stesso. In altre parole, contro la verità storica non può mai prevalere la verità irreale del giudicato. Di fronte al bisogno socialmente condiviso di verità sostanziale, lo schermo formale del giudicato è costretto a cedere91. L’orizzonte vasto della storia è quindi per sua natura prevalente rispetto all’orizzonte, circoscritto, del diritto. Consideriamo che rispetto al giudizio di cognizione compendiato nella sentenza irrevocabile, la fase dell’esecuzione rappresenta il campo degli eventi futuri che superano il passato del giudizio giurisdizionale definitivo. Molto spesso emergono in fase di esecuzione situazioni che impongono, se non un superamento, quanto meno un aggiornamento della realtà affermata dal giudicato. Ebbene, tutti PAGE 84 89 RICOEUR , La memoria, la storia, l’oblio, Milano, 2003, 327. 90 Cfr. GINZBURG C., “il giudice e lo storico”, Torino, 1991, 14 ss. 91 RICOEUR , La memoria, la storia, cit., 455 ss. questi fenomeni di “adattamento” a fini esecutivi del giudicato, si realizzano attraverso il titolo esecutivo che immediatamente si plasma sul novum sopraggiunto. Si pensi, ad esempio, al caso della sopravvenienza di una sentenza di condanna che si aggiunga ad altra sentenza di condanna riguardante lo stesso imputato, ma avente ad oggetto fatti di reato diversi; in questo caso, in presenza del vincolo della continuazione tra i due episodi criminosi, il giudice dell’esecuzione potrebbe, a norma dell’art. 671 c.p.p., applicare il regime sanzionatorio previsto nell’art. 81 c.p.p., calcolando e fissando la nuova pena da eseguire. In questa ipotesi, dunque, si forma un nuovo titolo esecutivo, diverso da quello originario, e svincolato dalle situazioni processuali da cui quest’ultimo era scaturito. Insomma, la “flessibilità” del giudicato si realizza mediante la duttilità del titolo esecutivo in grado di recepire le varie situazioni che rilevano sul piano esecutivo. Lasciando la prospettiva del giudizio sui fatti oggettivi accertati nel processo di cognizione, e concentrando l’attenzione sul giudizio sulla persona che è a base della commisurazione della pena applicata con la sentenza definitiva, si osserva che anche la nozione di colpevolezza presuppone un nesso tra passato e futuro92. Infatti, le situazioni che segnano i progressi del condannato nel percorso di rieducazione e di reinserimento nella società, pur non appartenendo al campo del passato, oggetto del giudizio di cognizione, tuttavia non possono, per loro natura, non incidere sulla colpevolezza intesa come ragione, morale e sociale, della pena da applicare per una certa durata e con certe modalità. In questo senso, il “ritratto” del colpevole scolpito nella sentenza passata in giudicato viene superato dalla realtà successiva alla condanna che dimostra che il condannato non corrisponde alla tipologia rappresentata dal giudice di cognizione: alla verità formale e artificiale sulla persona consacrata nel giudicato si contrappone la verità reale e storica sulla persona emersa in fase di esecuzione. Ebbene, anche in questo caso, il necessario adeguamento del giudicato rispetto alla realtà, si realizza mediante i progressivi “aggiornamenti” del titolo esecutivo che, ancora una volta, finisce per segnare il punto di convergenza tra il passato, proprio del processo di cognizione e il futuro, proprio del processo di esecuzione, operando come necessario meccanismo di compensazione tra le esigenze della giustizia formale e le esigenze della giustizia sostanziale. PAGE 84 92 Cfr. RICOEUR La memoria, la storia, cit., 518, che citando il HEIDEGGER M., - Essere e tempo, Milano, 1976, - par. 65, osserva che “il legame tra futurità e passeità è assicurato da un concetto ponte, quello di essere colpevole”. 2. Modifiche del titolo esecutivo. Il giudicato indica una condizione di certezza giuridica assoluta e di immodificabilità del provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo. Dal punto di vista dell’esecuzione, si dovrebbe quindi, semplicemente, passare alla fase dell’attuazione pratica della realtà giuridica compendiata nel giudicato. Tuttavia, la barriera del giudicato è superabile in presenza di situazioni, spesso sopravvenute, ma anche preesistenti (si pensi ad esempio all’erronea dichiarazione di irreperibilità dell’imputato verificata in sede esecutiva a norma dell’art. 670 c.p.p.) che il legislatore ha di volta in volta considerato per rendere compatibile l’esecuzione del provvedimento giurisdizionale definitivo con esigenze di giustizia, di razionalità, di favor rei, di premialità, di rieducazione. E’ ciò che accade nelle ipotesi di revoca della sentenza di condanna o del decreto penale nei casi di dubbio sull’identità fisica del condannato, di errore di nome, di pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona, di mancanza materiale o giuridica del titolo esecutivo, di applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, di applicazione dell’amnistia o dell’indulto, di abolizione del reato; oppure si pensi, ancora, direttamente sul piano del trattamento sanzionatorio, alle varie misure sostitutive o alternative alla detenzione o ai benefici consistenti in modifiche del trattamento sanzionatorio in presenza di determinate condizioni. La gamma delle situazioni previste dal legislatore incide su entrambi gli aspetti del giudicato, considerato sia dal punto di vista “teorico”, concernente, cioè, la parte del provvedimento giurisdizionale definitivo direttamente riferita alla dichiarazione di colpevolezza dell’imputato (motivazione in fatto in diritto) sia dal punto di vista “pratico”, concernente, invece, la parte del provvedimento giurisdizionale definitivo riferita alle statuizioni conseguenti alla verifica di responsabilità (dispositivo)93. Nella fase esecutiva può quindi realizzarsi il progressivo sgretolamento del giudicato che, di fatto, finisce per identificarsi in una sorta di aspirazione astratta ad uno stato di irraggiungibile certezza e stabilità giuridica. Sorge allora la duplice esigenza, da un lato, di verificare la “tenuta” della concezione tradizionale del giudicato come barriera invalicabile rispetto all’accertamento di situazioni che possano incidere sul provvedimento giurisdizionale divenuto “esecutivo” (principio dell’intangibilità del giudicato) e dall’altro, di considerare anche quelle situazioni che, pur non PAGE 84 93 Sul conflitto teorico di giudicati, cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., 1141; ID., Guida alla procedura penale, cit., 431 ss.; LOZZI, Giudicato, cit., 914; PRESUTTI, Revisione del processo penale, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1991, 3 ss.; SPANGHER, Revisione, in Dig. disc. pen., XII, Torino, 1997, 135 ss.; sul conflitto pratico di giudicati, cfr. CIANI, Sub art. 669 c., in LATTANZI, LUPO (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, IX, Milano, 2003, 347 ss.; CORBI, L’esecuzione, cit., 318 ss.; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 769; TRANCHINA, L’esecuzione, cit., 607 ss. non abbia potuto partecipare al processo (e che, cioè, non sia stata citata come imputato in giudizio neppure sotto altro nome)99. Non sarebbe altrimenti giustificata la sospensione dell'esecuzione nel caso di un mero errore materiale nella citazione in giudizio. Naturalmente, sul piano pratico si pone il problema dell'individuazione del margine di errore nella citazione, tale da giustificare il ricorso alla semplice procedura della correzione dell'errore materiale piuttosto che alla diversa disciplina che dà luogo alla revisione. La disciplina degli articoli citati crea non pochi problemi interpretativi. Innanzitutto, se è chiaro che la situazione di dubbio riguarda l'identità fisica del condannato, è altrettanto chiaro che la causa del dubbio sull'identità fisica può essere proprio l'errore di nome. D'altra parte, nell'art. 667 c.p.p. è prevista espressamente la sola situazione dell'inizio dell'esecuzione della pena detentiva (“ .. se vi è ragione di dubitare dell’identità della persona arrestata per esecuzione di pena..”, come recita il comma 1 dell’art. 667 c.p.p.), come se il dubbio sull'identità fisica del condannato non potesse sorgere in un momento successivo; mentre per l'ipotesi dell'errore di nome si fa riferimento a tutto il corso dell'esecuzione. Inoltre, nel caso di dubbio sull'identità fisica è prevista la "liberazione" del condannato, mentre nel caso di errore di nome riferito a persona che non sia stata citata in giudizio, è prevista la "sospensione" dell'esecuzione (in un caso, il legislatore si riferisce all'effetto materiale della liberazione, nell'altro, al provvedimento di sospensione dell'esecuzione, da cui però discende il medesimo effetto). Rimane comunque scoperta la situazione del dubbio sull'identità fisica del condannato verificatosi nel corso dell'esecuzione della pena e non derivante da errore di nome. In tale ipotesi, stando al tenore letterale della disciplina normativa, non vi sarebbe alcun rimedio per colui che sia soggetto alla pena detentiva, pur in presenza del dubbio (o addirittura della certezza) che non sia la persona che deve essere punita. Sul piano interpretativo il problema è risolvibile ipotizzando che la nozione di "errore di nome", comprenda anche quella di errore sull'identità fisica. In tale prospettiva, le due situazioni di cui agli artt. 667 e 668 c.p.p. sarebbero legate da una progressione dinamica (inizio dell'esecuzione - art. 667 e prosecuzione dell'esecuzione - art. 668); non si spiegherebbe, tuttavia, perché il legislatore avrebbe utilizzato due espressioni diverse, quali il “dubbio sull'identità” e l'”errore di nome”, per qualificare la stessa situazione, sia pure considerata nel suo divenire. PAGE 84 99 Cfr., CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 341 Più semplicemente si dovrebbe immaginare la possibilità di attivazione dell'incidente di esecuzione sulla questione specifica della mancanza di un presupposto dell’esecuzione, quale l’errore sull'effettivo destinatario dell'esecuzione. Gli artt. 667 e 668 c.p.p non prevedono poi il potere del giudice dell'esecuzione di revoca della sentenza definitiva di condanna, posto che, come detto, i due provvedimenti previsti sono, unicamente, la "liberazione" del condannato (art. 667) e la "sospensione dell'esecuzione" (art. 668). Se con il termine "liberazione" fosse indicato l'effetto della disapplicazione permanente della pena, si determinerebbe una contraddizione tra la liberazione, "definitiva", conseguente all'ordinanza ex art. 667 c.p.p. divenuta inoppugnabile per scadenza del termine per proporre opposizione o ricorso per cassazione, in seguito allo svolgimento dell’eventuale procedimento di esecuzione ex art. 666 c.p.p. e la sentenza di condanna non revocata e tuttavia, di fatto, inefficace. Sarebbe allora forse preferibile conferire al termine di "liberazione" un significato equivalente a quello di "sospensione dell'esecuzione" richiamato del resto nel successivo art. 668 c.p.p. La revoca della sentenza di condanna è prevista solo all'esito del giudizio di revisione (non da parte, quindi del giudice di esecuzione); tale soluzione varrebbe in tutti i casi, se si ritenesse che anche l'ipotesi del dubbio sull'identità fisica verificatosi successivamente all'inizio dell'esecuzione, fosse riconducibile a quella dell'errore di nome, come si è detto. Se non si seguisse questa impostazione interpretativa, si dovrebbe concludere che: a) la situazione del dubbio sull'identità fisica, verificatosi prima dell'inizio dell'esecuzione, sarebbe destinata a rimanere provvisoria a tempo indeterminato ex art. 667 c.p.p.; b) nel caso di dubbio sull'identità fisica, sorto durante l'esecuzione della pena, la revoca della sentenza di condanna dovrebbe essere disposta in sede di incidente di esecuzione, mediante ordinanza, in base al richiamo alle norme generali sul procedimento di esecuzione ex artt. 666 e 670 c.p.p. (da considerare come rimedio ordinario esperibile per ogni questione sorta in fase esecutiva). Come si vede, le soluzioni sono piuttosto complesse ed insoddisfacenti, ma costituiscono il risultato, inevitabile, di una disciplina, lacunosa, contraddittoria e eccessivamente generica. In tema di errore di nome l'art. 668 c.p.p. distingue l'ipotesi della citazione in giudizio del condannato, anche sotto nome errato, durante il processo di cognizione, che dà luogo alla correzione di errore materiale ex art. 130 c.p.p., dall'ipotesi di mancata citazione che conduce alla revisione. In effetti, le due situazioni non sembrano coordinate con le previsioni normative in tema di vizio di nullità (assoluta) derivante dall'omessa citazione in giudizio determinata PAGE 84 dall'indicazione errata del nome o delle generalità dell'imputato (arg. ex art. 429, 178 lettera c, 179 c.p.p.). Da un lato, l'imputato, dovrebbe essere stato citato con nome errato, senza aver mai eccepito la nullità durante tutto il corso del giudizio, dall'altro, sarebbe dovuto rimanere totalmente all'oscuro del processo formalmente instauratosi nei suoi confronti. Nel primo caso, la situazione appare improbabile perché presuppone l’esistenza di una nullità conclamata e nota nel giudizio di cognizione e tuttavia mai eccepita e mai rilevata. Nel secondo caso, risulta eccessivamente blanda ed incongrua la soluzione prescelta dal legislatore, che in presenza di un macroscopico e gravissimo errore giudiziario, ha previsto il solo rimedio aleatorio e farraginoso della revisione. Ma il punto ulteriore riguarda il problema dell'applicabilità della procedura di correzione dell'errore materiale ex art. 130 c.p.p., espressamente esclusa, dal medesimo articolo, quando gli errori da correggere non determinino la nullità. Ebbene, l'erronea indicazione del nome o delle generalità dell'imputato, quanto meno quando sia tale da configurare un’omessa individuazione del soggetto, determina certamente la nullità100. Sicché, per dare un senso alla norma dell'art. 668 c.p.p., occorrerebbe ritenere sanate le nullità derivanti dall'omessa citazione dell'imputato (per errore di nome). Non si può negare che, tuttavia, l'errore di nome avrebbe comunque determinato una nullità, pur se questa fosse stata successivamente sanata dal giudicato. E allora, in questa prospettiva, l'art. 130 c.p.p. non sembrerebbe comunque applicabile. D'altra parte, non si può ritenere "eseguibile" una sentenza affetta da errore di nome irrimediabile (si pensi ad esempio alle conseguenze dell'errore, incorreggibile, per i certificati del casellario giudiziale, o, anche, per l'esecuzione di pene diverse da quella detentiva come le pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici, dall'esercizio di imprese o professioni). Quindi, necessariamente, si dovrebbe pervenire alla sospensione dell'esecuzione. Ma in questo caso si configurerebbe la situazione paradossale, della sospensione dell'esecuzione, in presenza di una sentenza di condanna non revocabile e neppure correggibile per quanto riguarda l'erronea indicazione del nome dell'imputato condannato. Naturalmente, una simile complessa situazione problematica, sarebbe risolvibile (ma il tema richiede articolati approfondimenti non consentiti in questa sede) se si immaginasse, quanto meno per le ipotesi delle nullità assolute, un superamento del principio della netta PAGE 84 100 Cfr. DOMINIONI, Sub art. 179, in Commento al nuovo codice di procedura penale, diretto da AMODIO, DOMINIONI, II, Milano, 1989, 280; RAFARACI, voce Nullità (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg. II, Milano, 1998, 608 penale esercitata nei suoi confronti e quindi di ottenere il non luogo a procedere in sede di udienza preliminare. Inoltre, non sembra affatto giustificabile, se non sulla base di un'impostazione aprioristicamente colpevolista, la preferenza accordata al decreto penale (adottato sulla base di un sommario e cartolare accertamento giurisdizionale) rispetto alla sentenza di non luogo a procedere (che, invece, scaturisce da un approfondito esame che il giudice compie in contraddittorio, sulla base delle risultanze probatorie). Come sopra accennato, il rimedio di cui all’art. 669 c.p.p. non è previsto in presenza di un “contrasto” tra giudicati, ma in presenza di una “duplicazione” di giudicati. Tale articolo costituisce espressione del principio del ne bis in idem, che tende a scongiurare che, per il medesimo fatto si emettano più provvedimenti105; nel caso specifico, il rimedio interviene in una fase in cui i provvedimenti sono già stati emessi, e sono tutti irrevocabili. Un primo profilo da prendere in esame, riguarda la richiesta identità del fatto per il quale è intervenuta sentenza di condanna. Secondo la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, “l’applicazione del principio del ne bis in idem presuppone l'esame degli elementi costituivi della condotta ed anche la qualificazione giuridica della stessa, posto che per medesimo fatto deve intendersi identità degli elementi costitutivi del reato e cioè di condotta, evento e nesso di causalità, considerati non solo nella loro dimensione storico - naturalistica ma anche in quella giuridica, potendo una medesima condotta violare contemporaneamente più disposizioni di legge”106. Ovviamente, il concetto di “medesimo fatto” richiamato dall’art. 669 c.p.p. è equivalente e svolge la stessa funzione rispetto a quello individuato all’art. 649 c.p.p., con riguardo al divieto di secondo giudizio: “il fatto cui l'art. 649 c.p.p. fa riferimento è il fatto storico, da un punto di vista fattuale giuridico, su cui si è formato il giudicato e non il fatto come è stato giuridicamente configurato nel primo giudizio nei suoi elementi non essenziali. Il medesimo fatto deve infatti risultare tale nei suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità considerati non solo nella loro dimensione storico naturalistica ma anche in quella giuridica: v. Cass., sez. 5^, 19 giugno 1998 n. 4071, Abbrescia, rv.211617; sez. 6^, 8 novembre 1996 n. 459, Privitera, rv. 207729) e purché, naturalmente, si realizzi nelle medesime condizioni di tempo, di luogo e di persone (v. Cass., sez. 2^, 15 aprile 1994 n. 5386, Matrone, rv. 198642).107” (Cassazione penale , sez. IV, 20 febbraio 2006, n. 15578). PAGE 84 105 Cfr. CONFALONIERI, MAMBRUCCHI, Sub art. 649, in Codice di procedura penale ipertestuale, Torino, 2006, 2786; Cass. pen. s u., 28-06-05, in D. giust., 2005, n. 40, 82 106 Cass. pen, 21-04-06, in CED, n. 19787 107 Così Cass. pen., 20-02-06, in CED, n. 15578 Quindi per medesimo fatto si intende, in ogni caso, l’identità, di tutte le componenti della fattispecie concreta, vale a dire degli elementi costitutivi del fatto, identificabili nella condotta, nell’evento e nel nesso di causalità. In base a questa ricostruzione unanime della giurisprudenza, perciò, l’eventuale diversità di configurazione dell’elemento soggettivo contenuta in due diversi provvedimenti in relazione alla medesima vicenda, non potrebbe innovare il fatto storico, che rimarrebbe il medesimo, stante la permanente identità degli elementi costitutivi del fatto. Altro profilo della norma da prendere in esame, riguarda la competenza funzionale esclusiva del giudice dell’esecuzione a giudicare in ordine ai provvedimenti di condanna pronunciati per lo stesso fatto contro la medesima persona. Tale competenza è pacifica: al di là del dato sistematico, costituito dalla collocazione dell’art. 669 c.p.p. nel libro decimo, titolo terzo, del codice di procedura penale, relativa ai giudizi di esecuzione, la giurisprudenza di legittimità, per la verità mai investita principalmente del problema, stante la vera e propria insussistenza di questioni interpretative al riguardo, ha avuto modo, incidentalmente, di affermare che: ”l'affermazione incidentale, contenuta nella sentenza 25.1.1996, di esclusione della medesimezza del fatto, già giudicato con quella 4.4.1995, non costituisce preclusione al riesame della applicabilità del disposto di cui all'art. 669 c.p.p., in quanto tale affermazione radica la competenza di quel giudice nel proprio ambito, ma non assume efficacia formale di giudicato, essendo quella esecutiva la sede nella quale propriamente la questione va affrontata e risolta.108”. Il significato di tale affermazione è chiaro ed indica nel giudice dell’esecuzione l’unico organo competente a dirimere le questioni che eventualmente insorgano con riferimento alla medesimezza di fatto e di persona in ordine a diversi provvedimenti; e ciò, indipendentemente dalla circostanza che un qualsiasi altro giudice si sia pronunciato su questioni che riguardano la tematica del bis in idem: al punto tale che, se un giudice di cognizione si è già pronunciato in ordine alla eventuale medesimezza di un fatto di reato, escludendola, il giudice dell’esecuzione non è vincolato a detto giudizio, essendo la sede esecutiva, l’unica nella quale le questioni di cui all’art. 669 devono essere affrontate e risolte. E’ infine il caso di aggiungere che, a fronte della violazione del ne bis in idem seguita alla emissione di due distinte declaratorie di colpevolezza, il legislatore ha individuato la decisione da attuare alla luce del principio generale del favor rei. E’ dunque pacifico, al punto da non aver mai costituito questione controversa in giurisprudenza, che la condanna che deve rimanere in piedi è quella meno grave: proprio a questo fine il giudice dell’esecuzione, in deroga al principio della intangibilità del giudicato, rivaluta i fatti oggetto del giudizio di cognizione; revoca la sentenza più grave e dispone PAGE 84 108 Cass. pen., 9-02-01, in CED, n. 16170 l’esecuzione di quella meno afflittiva109. 5. Concorso formale e reato continuato. L'art. 671 c.p.p. prevede che nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti separati contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possano chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina sul concorso formale di reati o sulla continuazione, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione (comma 1)110. Il giudice dell'esecuzione che procede a norma dell'art. 666 c.p.p., determina la pena comunque in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza e con ciascun decreto (comma 2). Infine, quando a seguito della rideterminazione della pena in applicazione della disciplina della continuazione o del concorso formale del reato, ne ricorrano i presupposti, il giudice dell'esecuzione concede i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel casellario giudiziale. La disciplina dell'applicazione della disciplina del concorso formale di reati o del reato continuato in fase di esecuzione costituisce una delle vere novità del codice di rito introdotto nel 1989. Prima dell'avvento dell'attuale normativa, la diminuzione di pena derivante dal riconoscimento della continuazione o del concorso formale tra reati, era ritenuta possibile, da parte del giudice della cognizione, soltanto nell'ipotesi in cui il reato oggetto di sentenza divenuta irrevocabile fosse quello più grave111. PAGE 84 109 Cfr. Cass. pen., 1-10-98, n. 2188, in CED, n. 211859 110 Cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., 162; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit., 862; DEAN, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, cit., 55; GAITO, Concorso formale e reato continuato nella fase dell’esecuzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, 1000; ID., Poteri di integrare il merito ‘post rem judicatam’, in Dir. pen. proc., 1995, 1317; ID., Reato continuato e cosa giudicata nel nuovo processo penale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, III, Il nuovo processo penale, Milano, 1991, 215; GAITO, RANALDI, Esecuzione penale, cit. 214; LORUSSO, Procedimento applicativo della disciplina relativa al concorso formale ed al reato continuato in executivis e garanzie giurisdizionali, in Cass. pen., 1994, 2125; MARAFIOTI, Giudice dell’esecuzione, reato continuato e art. 671 c.p.p. 1988, in Giur. it., 1990, II, 327; MASCAGNI, L’applicazione della continuazione criminosa in fase esecutiva, in A. n. proc., 1998, 5; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 817; VARRASO, Il reato continuato tra processo ed esecuzione penale, Padova, 2003; ZAGREBELSKY, voce, Reato continuato, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 840 111 Cfr. CORDERO, Procedura penale, cit., 1137; LI VECCHI, Reato più grave di quello giudicato ed applicabilità della continuazione, in Riv. pen., 1989, 3; Cass. pen., 15-11-89, Fanigliulo, in Giust. pen., 1991, II, 109; Cass. pen., 19-04-89, Granvillano, in Cass. pen., 1990, 1937 fissazione del termine, fino alla scadenza del quarto mese dal giorno della pubblicazione del decreto. L'amnistia e l'indulto condizionati si applicano definitivamente quando alla scadenza del termine fissato o previsto ex lege è dimostrato l'adempimento delle condizioni o degli obblighi ai quali la concessione del beneficio è subordinata. Esercitando il potere di applicazione dell'amnistia o dell'indulto il giudice dell'esecuzione incide profondamente sulla sentenza emessa al termine del giudizio di cognizione, modificando la pena inflitta al condannato117. Il trattamento sanzionatorio comminato nei confronti del condannato, viene così ridimensionato nella durata o addirittura eliminato, dal decreto di concessione del beneficio. In questa situazione, evidentemente, venendo meno, in tutto o in parte, l'esecuzione della pena, vengono conseguentemente meno anche le connesse funzioni della pena. Né, d'altra parte, l'amnistia o l'indulto (salvo il caso in cui siano condizionati) possono avere alcun collegamento con la condotta del condannato nel periodo di esecuzione della pena. Tuttavia, anche l'amnistia o l'indulto, allorché condizionati, possono assumere una diretta valenza funzionale per quanto riguarda l'esecuzione della pena (e non certo per quanto riguarda la previsione edittale della pena, semplicemente vanificata, in tutto o in parte, dall’applicazione del beneficio). In altre parole, quando le condizioni o gli obblighi ai quali fosse subordinata la concessione dei benefici, attenessero direttamente alla condotta del condannato, indirizzandola verso obiettivi rieducativi o risarcitori o comunque socialmente rilevanti, la funzione dell'esecuzione della pena risulterebbe certamente potenziata o integrata. In ogni caso, al di fuori della particolare l'ipotesi del condizionamento del beneficio, l'amnistia e l'indulto si pongono, in generale, come eventi normativi che sconvolgono l'assetto del sistema dell'applicazione della pena, determinando ripercussioni all'interno dell’intero ordinamento. Occorre a questo punto affrontare il problema dei limiti del potere di accertamento e di valutazione del giudice dell'esecuzione. PAGE 84 117 Cfr. Cass. pen., 13-01-94, Di Maria, in Cass. pen., 1995, 297; CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 329 La soluzione tradizionale in dottrina e in giurisprudenza è quella secondo cui il giudice dell'esecuzione, nell'esercizio dei poteri di applicazione dell'amnistia e dell'indulto, non può spingersi fino al punto di superare le decisioni adottate sul tema dal giudice di cognizione 118. In altri termini, se il giudice di cognizione ha escluso l'applicabilità dell'amnistia o dell'indulto, su tale questione dovrebbe essere precluso ogni intervento da parte del giudice dell'esecuzione. L’assunto è certamente corretto, anche non in senso assoluto se si considerano una serie di situazioni. In via preliminare, occorre riflettere sul concetto di "esecutività" o di "eseguibilità" evocato nell’art. 650 c.p.p119. Come si ricorderà, in tale articolo non è contenuta la definizione esplicita della nozione di "esecutività" o "eseguibilità", ma è previsto, espressamente, il collegamento tra "forza esecutiva" e definitività della sentenza (o del decreto penale) dipendente dalla irrevocabilità. Insomma, nonostante l'ambiguità del dettato normativo dell'articolo citato, è certo che la nozione di "esecutività" o di "eseguibilità", legata appunto all’irrevocabilità del provvedimento, ha un significato "operativo" o "pratico", necessariamente ed esclusivamente riferibile ad alcune statuizioni del provvedimento e non ad altre. Così, risultano, ad esempio, certamente "ineseguibili" le argomentazioni riportate nella motivazione del provvedimento, addotte a sostegno dell'attendibilità o dell'inattendibilità di un testimone. In linea generale si può dire che le statuizioni eseguibili sono quelle contenute nel dispositivo del provvedimento che deve essere eseguito120. Ebbene, in molti casi le affermazioni concernenti l'applicabilità o l'inapplicabilità dell'amnistia o dell'indulto possono essere, implicite, allusive, problematiche, poco comprensibili, perplesse, apparenti e quindi dotate di tutte le possibili sfumature di significato, intermedio tra quello del riconoscimento, chiaro e certo dei benefici, oggetto, peraltro, di esplicita declaratoria nel dispositivo della sentenza e quello della totale omessa considerazione della questione. PAGE 84 118 In tal senso CATELANI, Manuale dell’esecuzione penale, cit., 283; in senso opposto CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 329, secondo cui amnistia e indulto sarebbero situazioni giuridiche sulle quali non si potrebbe formare un giudicato implicito; in ogni caso, non si contesta il divieto di superamento della preclusione cognitiva derivante dal giudicato allorché il giudice della cognizione abbia espressamente escluso l’applicabilità della causa estintivi del reato o della pena; sul punto, Cass. pen., 24-09-92, Marchese, in Cass. pen., 1994, 327 119 Cfr. supra, cap., par. 120 Cfr. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 64; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit. 780; Cass. pen., 15-03-99, Mazzucca, in Cass. pen., 2000, 2371 In pratica, al di là dei casi evidenti, può essere molto difficile stabilire se il giudice dell'esecuzione si sia effettivamente occupato, ed entro quali limiti, della questione dell'applicabilità dell'amnistia o dell'indulto. Peraltro, non esiste alcuna disposizione normativa che impedisce al giudice dell'esecuzione l'applicazione dell'amnistia o dell'indulto, persino in contrasto con le decisioni o le valutazioni del giudice della cognizione. Per avere un saggio dei complessi problemi connessi ai poteri di intervento del giudice dell'esecuzione si considerino le seguenti massime tratte da precedenti giurisprudenziali: "allorché il giudice della cognizione non abbia eseguito alcun accertamento in ordine alla data del commesso reato, indicata in modo generico nel capo d'imputazione, è consentito al giudice dell'esecuzione, nell'ambito dei poteri di interpretazione spettantigli, prendere conoscenza del contenuto della sentenza e, occorrendo, degli atti del procedimento, per ricavarne tutti quegli elementi dalla cui valutazione sia possibile determinare il tempus commissi delicti, qualora tale circostanza sia rilevante ai fini della decisione"121 ; "in tema di riesame dei provvedimenti applicativi dell'indulto, il ridimensionamento del detto beneficio, in sede esecutiva, è ammesso quando l'errore sia derivato da difetto d'informazione e di conoscenza e non ha anche allorché esso sia dipeso da inosservanza della normativa che regola il condono, dovendo in tale ipotesi ritenersi che, qualora l'errore non sia stato emendato, attraverso i rimedi appositamente predisposti dalla legge processuale, i predetti provvedimenti siano intangibili perché coperti dal giudicato"122. Infine, con riferimento al comma 5 dell’art. 672 c.p.p., è possibile rilevare che: a) il termine di quattro mesi dalla data di pubblicazione del decreto di concessione del beneficio, per l'accertamento dell'adempimento delle condizioni o degli obblighi ai quali la concessione del beneficio è subordinata, stabilito in caso di mancata previsione di altro termine nel decreto stesso, non è previsto per quanto concerne il giudizio di cognizione; b) l'accertamento dei presupposti per l'applicazione dell'amnistia o dell'indulto condizionati è effettuato dal giudice dell'esecuzione nelle forme e con le modalità di cui all’art. 666 c.p.p., che non sono quelle previste per la fase dibattimentale del giudizio di cognizione. Sotto un primo aspetto, dunque, l'assenza, nella fase di cognizione, di un termine minimo che consenta un lasso di tempo ragionevole per l'accertamento della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'amnistia o dell'indulto condizionati, potrebbe determinare la conseguenza dell'esclusione dei benefici, in situazioni che, invece, se trattate in fase esecutiva, condurrebbero all'applicazione dei benefici stessi. Sotto un secondo aspetto, vengono in risalto le enormi differenze tra le modalità di accertamento proprie del giudizio di cognizione, nell'ambito del quale è previsto il principio PAGE 84 121 Cass., 6-07-95, n. 4076, Mastrosanti. 122 Cass., 15-03-94, n.1266, Cellini. In tali ipotesi, deve ritenersi applicabile l'art. 671 c.p.p. che prevede il potere del giudice dell'esecuzione di applicare la disciplina del reato continuato, anche si registrano a tale proposito oscillazioni interpretative127. Posto che il comma 1 del citato art. 671 c.p.p. prevede la clausola di riserva riferita alla disciplina della continuazione: "sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione", si tratta di stabilire entro quali limiti il giudice dell'esecuzione possa ridefinire la pena irrogata originariamente dal giudice della cognizione. Poiché, come si è visto, il limite posto dall'art. 671 c.p.p., opera soltanto nel caso in cui il giudice della cognizione abbia "escluso" la continuazione, si dovrebbe ritenere che il giudice dell'esecuzione possa ridefinire ex novo la pena da applicare a seguito di abolitio criminis di uno dei reati costituenti la continuazione criminosa (sia esso il reato più grave o il reato meno grave). Non sarebbero infatti immaginabili effetti vincolanti nei confronti del giudice dell’esecuzione quanto alla quantificazione della pena espressa dal giudice della cognizione, nel momento in cui quest'ultimo non avesse "escluso", la continuazione, avendola, anzi, ritenuta sussistente. Dunque, in caso di abolitio criminis di un reato unito ad altro reato dal vincolo della continuazione criminosa, il giudice dell'esecuzione dovrebbe avere pieno potere di definire la pena applicabile per i reati per i quali non è avvenuta l'abrogazione o la dichiarazione di illegittimità costituzionale, secondo i normali e consueti parametri previsti dalla legge (cfr. art. 133 c.p.). Naturalmente, lo stesso discorso è estensibile all’ipotesi del concorso formale di reati, per la quale è prevista dall’art. 671 c.p.p. la medesima disciplina della continuazione criminosa. Resta il problema dei limiti del potere di valutazione e di intervento del giudice dell'esecuzione, quando occorra stabilire in concreto se una determinata norma di legge o una determinata sentenza della Corte costituzionale abbiano abrogato o dichiarato illegittima costituzionalmente la norma incriminatrice oppure abbiano, semplicemente, modificato quest'ultima. PAGE 84 127 In caso di abolitio del reato satellite meno grave, si ritiene evidente la competenza del giudice dell’esecuzione di rideterminazione della pena, con riferimento alla pena base stabilita dal giudice della cognizione per il reato più grave (cfr. Cass. pen., 17-10-02, Giusti, in Fisco, 2003, 2154). Nel caso di abolitio del reato più grave l’orientamento giurisprudenziale non è univoco: secondo una prospettiva più rigida, il giudice dell’esecuzione non avrebbe il potere di rideterminare la pena stabilita a titolo di aumento dal giudice della cognizione per i reati concorrenti meno gravi (cfr. Cass. pen., 12-12-95, Migliori, in A. n. proc. pen., 1996, 790); in diversa prospettiva, si ammette invece il potere del giudice dell’esecuzione di rideterminazione dei singoli aumenti a titolo di continuazione per i reati meno gravi (cfr. Cass. pen., 20-01-05, Coffarotto, in CED, n. 230750) È evidente che soltanto nel primo caso si può configurare l'ipotesi dell’abolitio criminis, che consente l'intervento del giudice dell'esecuzione; mentre, nel secondo caso, non è consentita alcuna ridefinizione del trattamento sanzionatorio applicato dal giudice della cognizione. Si tratta, quindi, di stabilire se, nell'esercizio del proprio potere dovere di verifica dell'”impatto" sulla norma incriminatrice di una nuova normativa (o di una sentenza della corte costituzionale) al fine di stabilire se, nel caso specifico, sia intervenuta un’ abolitio criminis oppure una semplice modifica del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, il giudice dell'esecuzione sia vincolato o meno dalle valutazioni del giudice della cognizione. Partendo dall'assunto dell'intangibilità del giudicato, si dovrebbe ritenere che il giudice dell'esecuzione non possa superare le statuizioni del giudice della cognizione. Sicché, il giudice dell'esecuzione potrebbe intervenire a norma dell’art. 673 c.p.p., solo qualora il giudice della cognizione non si sia mai pronunciato (neppure implicitamente) sull'ambito di operatività di una determinata disciplina normativa (o di una determinata sentenza della Corte costituzionale) ai fini della valutazione della sussistenza dell’ abolitio criminis. In tale prospettiva, dunque, il potere ex art. 673 c.p.p. del giudice dell'esecuzione potrebbe esplicarsi, praticamente, nell'unico caso dell'intervento normativo (o della pronuncia di una sentenza della corte costituzionale) successivo all'irrevocabilità della sentenza di condanna. Sennonché, nell'art. 673 c.p.p., non è prevista alcuna limitazione dei poteri di valutazione e di accertamento del giudice dell'esecuzione; così come invece avviene nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 671 e 675 c.p.p. che, espressamente, stabiliscono una riserva in favore delle statuizioni del giudice della cognizione. Dunque, in assenza di una specifica preclusione normativa, si deve ritenere che il giudice dell’esecuzione possa, liberamente, accertare e valutare l'esistenza di una abolitio criminis, ancorché non rilevata dal giudice della cognizione128. 8. Falsità di documenti. L’art. 675 c.p.p. comma 1 attribuisce all’interessato il diritto di richiedere al giudice dell’esecuzione la dichiarazione della falsità di un documento o di un PAGE 84 128 In dottrina e giurisprudenza si ammette la possibilità di declaratoria di abolitio criminis in fase esecutiva, anche quando l’abolitio sia intervenuta prima dell’irrevocabilità della sentenza conclusiva del giudizio di cognizione (cfr., rispettivamente, CORBI, L’esecuzione penale, cit., 333; SCALFATI, La pronuncia di abolitio criminis, cit., 175; Cass. pen. 2-11-95, Magnani, in Cass. pen., 1997, 1420 atto, nel caso in cui tale falsità non sia stata dichiarata nel dispositivo della sentenza emessa dal giudice della cognizione e per questo capo non sia stata proposta impugnazione 129. Nei commi successivi dell’art. 675 c.p.p. sono previste le modalità di restituito in integrum dell’atto o del documento falsificato, mediante le opportune cancellazioni, annotazioni, ripristinazioni, rinnovazioni o riforme. La disciplina citata assegna, dunque, al giudice dell’esecuzione un potere di accertamento e di valutazione in fatto, identico a quello del giudice della cognizione, così come prevedono gli artt. 537 e 425 c.p.p130. Sussistono, ovviamente, differenze in ordine alle modalità dell’accertamento, che si svolge in base a regole diverse, a seconda che la verifica della falsità documentale, si effettui nel giudizio di cognizione o in sede di procedimento di esecuzione. Ma, è indubbio che nello svolgimento del compito di verifica della falsità documentale, il giudice dell’esecuzione, svolge un vero e proprio processo di merito che può avere, tra l’altro, importanza pratica non indifferente, quando, dall’esistenza o dal contenuto di determinati documenti o atti, dipenda l’esito di vicende giudiziarie che coinvolgano interessi rilevanti. Il limite posto all’esercizio di tale potere è l’intervento del giudice della cognizione che si sia già espresso con declaratoria di falsità contenuta nel dispositivo della sentenza o si debba ancora esprimere sul capo della falsità documentale devoluto con apposito mezzo di impugnazione. Dunque, i pieni poteri di merito del giudice dell’esecuzione, nell’accertamento della falsità documentale, possono esplicarsi, sia quando il giudice della cognizione abbia semplicemente considerato (anche esplicitamente) la falsità, senza tuttavia effettuare la dichiarazione nel dispositivo della sentenza, sia quando abbia escluso tale declaratoria, pur dopo un approfondito accertamento di fatto. E’ prevista una disciplina di favore della declaratoria di falsità documentale, ritenuta, evidentemente, di importanza fondamentale all’interno del sistema giuridico, tanto da superare la barriera del giudicato. La ratio della previsione normativa è da ricercarsi nell’esigenza, indubbiamente rilevante e meritevole di tutela, di garantire la genuinità dei mezzi di prova, quali sono certamente i PAGE 84 129 Cfr. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 337; CORBI NUZZO, Guida pratica all’esecuzione penale, cit., 282; CORDERO, Procedura penale, cit., 1164; ID., Codice di procedura penale commentato, cit., 815; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit., 869; NUZZO, Sull’incidente di esecuzione per la dichiarazione di falsità di atti e di documenti, omessa nella sentenza di patteggiamento, in Cass. pen., 2000, 2678; RANALDI, Sub art. 675, in Codice di procedura penale ipertestuale, coordinato da GAITO, Torino, 2006, 2276 130 Cfr. Cass. pen., 30-11-05, Francantonio, in D. giust., 2006, n. 12, 56; Cass. pen., 13-01-06, Fiorella, in A. n. proc. pen., 2007, 104 Innanzitutto, non vi è dubbio che per quanto riguarda le prove documentali assunte nel giudizio di cognizione non esistono limiti all'attivazione del procedimento di esecuzione ex art. 675 c.p.p. Inoltre, mancando in tale articolo il riferimento alla rilevanza penale della falsità documentale, non risulta possibile limitare il giudizio sulla falsità documentale ai soli fatti costituenti reato. Dunque, la valutazione del giudice dell'esecuzione circa la non corrispondenza al vero delle prove documentali assunte nel giudizio di cognizione, sembrerebbe piena e non soggetta ad alcuna limitazione. Per quanto riguarda le prove diverse da quelle strettamente documentali, come ad esempio le prove testimoniali, occorre precisare che certamente la formula dell’art. 675 c.p.p. si riferisce ai soli documenti; anche se, tuttavia, tale riferimento è concepito in senso lato: infatti, la norma distingue, espressamente, il "documento" (in quanto mezzo rappresentativo di fatti dotati di valore probatorio in ordine ai fatti processualmente rilevanti) dall’ ”atto” (in quanto prodotto delle condotte poste in essere all'interno del procedimento dai vari soggetti che intervengono in esso)132. Ebbene, poiché anche l’”atto” processuale confluisce in un "documento" (verbale, annotazione, trascrizione) ne consegue che potrebbe al limite essere suscettibile di valutazione ex art. 675 c.p.p. l'intera documentazione delle attività processuali svoltesi nel procedimento di cognizione. Tanto per immaginare un esempio, si potrebbe attivare il procedimento di esecuzione ex art. 675 c.p.p., per ottenere la declaratoria di falsità (anche semplicemente “oggettiva”, e cioè non scaturita da condotte illecite) del verbale contenente le dichiarazioni di un testimone. Insomma, attraverso il "canale procedimentale" prefigurato nell'art. 675 c.p.p., potrebbe paradossalmente rendersi possibile il superamento della preclusione del giudicato, attraverso l’attivazione, sia pure entro i limiti indicati, di un nuovo giudizio di merito. 9. Altre competenze. L’art. 676 c.p.p. attribuisce al giudice dell’esecuzione competenze funzionali ulteriori in materia di estinzione del reato dopo la sentenza di condanna (quando la stessa non consegue alla liberazione condizionale o all’affidamento in prova – nei quali casi la competenza è del Tribunale di sorveglianza) e in ordine alle pene accessorie, alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate o alla devoluzione allo Stato delle somme di denaro PAGE 84 132 Sulla distinzione tra “atti” e “documenti”, cfr. Rel. prog. prel. c.p.p., 66; CARNELUTTI, voce Documento, in Nss. Dig., VII, Torino, 1960, 86 sequestrate e non reclamate dagli aventi diritto (a norma del comma 3 bis dell’art. 262 c.p.p.)133. Per l’adozione dei menzionati provvedimenti è espressamente richiamata la procedura semplificata (de plano con decreto opponibile) ex art. 667 comma 4 c.p.p. E’ infine specificato che, in caso di controversia sulla proprietà delle cose confiscate, il giudice dell’esecuzione debba provvedere a norma dell’art. 263 comma 3 c.p.p. e il medesimo giudice dichiara d’ufficio l’estinzione del reato o della pena. La norma è ritenuta di natura sussidiaria, diretta ad attribuire al giudice dell’esecuzione tutte le potestà residuali in relazione alle competenze espressamente specificate134. Le ipotizzabili cause di estinzione del reato successivamente alla condanna sono quelle ex art. 556 comma 3 c.p., in tema di estinzione del reato di bigamia per annullamento di matrimonio; ex art. 167 c.p., in tema di positivo decorso del termine di sospensione condizionale; ex art. 445 comma 2 c.p.p., in tema di decorso, in assenza di reiterazione criminosa, del termine quinquennale o biennale successivo al patteggiamento; ex art. 460 c.p.p., in tema di decorso di analogo termine successivamente a decreto penale di condanna divenuto esecutivo135. CAP. III - Titolo esecutivo e esecuzione PAGE 84 133 Cfr. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 336; CORDERO, Procedura penale, cit., 1165; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit., 871; NUZZO, Estinzione del reato per effetto del patteggiamento e declaratoria in executivis, in Cass. pen., 2003, 550; RANALDI, Sequestro probatorio e poteri del giudice dell’esecuzione, in Giur. it., 1999, 372; SERVI, Mutamento del titolo del reato, diritto all’oblazione ed escamotages procedurali, in Cass. pen., 2005, 10; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 820 134 Cfr. NUZZO, Estinzione del reato, cit., 552; ROSSETTO, Sub art. 676, in Commento al codice di procedura penale coordinato da CHIAVARIO, I Aggiornamento, Torino, 1993, 433; in tema di provvedimento di concessione o diniego del nulla osta al passaporto o di altro documento valido per l’espatrio, di cui all’art. 3 lett. l. 21-11-1967, n. 1185, cfr. Cass. pen., 30-09-97, Sansalone, in Cass. pen., 1998, 3346 135 L’estinzione del reato maturata prima del giudicato, non è ritenuta rilevabile ex art. 676 c.p.p., posto che gli errori del giudizio di cognizione, post rem iudicatam, sarebbero rilevabili soltanto in sede di revisione (cfr. Corte cost., 29-10-99, in L. pen., 1999, 1015, con nota QUATTROCOLO); secondo la Cassazione, inoltre, la prescrizione del reato esplicherebbe i propri effetti estintivi solo durante la fase del giudizio di cognizione e dunque anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 676 c.p.p. nel caso di compimento del termine prescrizionale successivamente alla formazione del giudicato: cfr. 6-03-00, Capodanno, in Cass. pen., 2001, 1818; Cass. pen., 22-06-95, Di Rosa, in Riv. pen., 1996, 639 1. L’inizio della fase esecutiva: il giudicato formale. Dal complesso degli artt. 656 c.p.p. e seguenti emerge che l’inizio della vicenda esecutiva scaturisce da un’attività di collazione di documenti attestanti l’esistenza di determinate situazioni giuridiche (ad esempio, l’irrevocabilità della sentenza emessa a conclusione del giudizio di cognizione ex art. 648 c.p.p.) a cura dell’ufficio del pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione e dall’emissione di un ordine (ad esempio di carcerazione) da parte dello stesso magistrato del pubblico ministero titolare dell’azione esecutiva136. In altri termini, è sufficiente che, da un lato, siano completate le necessarie attività di raccolta di informazioni e di formazione della documentazione, e, dall’altro, che il magistrato del pubblico ministero provveda con il proprio ordine di esecuzione, perché si realizzi in concreto il comando contenuto nel provvedimento giurisdizionale “esecutivo” (ad esempio, nel caso della sentenza di condanna a pena detentiva, perché si dia effettiva esecuzione alla pena mediante carcerazione). Questa situazione è caratterizzata dalla mancanza di controllo giurisdizionale e dalla natura meramente “cartolare” della realtà giuridica che prelude all’esecuzione. Risulta infatti evidente che la sola iniziativa dell’organo dell’accusa esplica l’effetto di dare inizio all’esecuzione del provvedimento giurisdizionale, anche quando, in ipotesi, l’iniziativa stessa fosse erronea o invalida137. Qualunque sia il contenuto dell’ordine del magistrato del pubblico ministero, la vicenda esecutiva ha comunque inizio ed ogni eventuale questione che ne possa interrompere o sospendere il corso è necessariamente rimandata ad un intervento giurisdizionale che si svolge successivamente e neppure in tempi rigorosamente definiti, non essendo previsto nemmeno un tempo minimo per l’instaurazione del procedimento ex art. 666 c.p.p.138 Si potrebbe discutere a lungo sulla convenienza di un sistema che appare troppo sbilanciato a favore dell’accusa e che finisce per essere troppo simile al famigerato istituto di stampo inquisitorio della consegna del condannato “al braccio secolare”, ma è certo che, dal punto di vista della presente trattazione, la semplice eventualità del controllo giurisdizionale implica che le situazioni giuridiche che danno origine al titolo esecutivo sono immediatamente efficaci nella loro semplice rappresentazione documentale: è sufficiente cioè, che il PAGE 84 136 Cfr. sul punto specifico della titolarità da parte dell’ufficio del pubblico ministero della titolarità dell’azione esecutiva, DEAN, Ideologie e modelli, cit., 86; LORUSSO, Giudice, pubblico ministero, cit., 111. 137 Si pensi, ad esempio al caso dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti di un omonimo dell’effettivo condannato, considerato nell’art. 667 c.p.p. sotto l’aspetto del dubbio circa l’identità della persona arrestata per esecuzione pena. 138 Il problema della mancata attuazione nella fase esecutiva del principio costituzionale della ragionevole durata, è espressamente sottolineato in GAITO, RANALDI, Esecuzione, 2005, cit., 13. alla distribuzione delle varie funzioni processuali, oggi concentrate nel pubblico ministero, tra i diversi organi operanti all’interno della dinamica processuale, in modo da modellare la figura del pubblico ministero come quella di autentica parte142. Perplessità ulteriori sorgono con riferimento al principio di imparzialità e terzietà del giudice. Si è già in precedenza osservato che la regola generale della determinazione della competenza funzionale a conoscere dell’esecuzione, attribuita al giudice che ha emesso il provvedimento (cfr. art. 655 c.p.p.) appare in contrasto con il principio di “imparzialità” che si riferisce alla posizione istituzionale ed esterna del giudice che non può essere portatore di interessi diversi da quello, astratto e impersonale, dell’esclusiva applicazione della legge: nel caso di specie, il giudice che è autore di un provvedimento, nella valutazione delle questioni concernenti l’esecuzione, potrebbe essere animato da un interesse di tipo “conservativo” del provvedimento stesso per non mettere in discussione il proprio operato143. Dunque, la regola di determinazione del giudice dell’esecuzione non sembra rispettare il principio di imparzialità sancito dall’art.111 Cost. Si pongono evidenti problemi di incostituzionalità anche con riferimento al principio di terzietà del giudice, che, riferendosi alla posizione interna nel processo, indica il dovere del giudice di mantenersi equidistante dalle parti, evitando di assumere funzioni o comportamenti propri di queste ultime144. Infatti, alcune previsioni normative, come quelle ad esempio, in tema di procedimento di esecuzione (artt. 666 comma 5, c.p.p.) o di accertamento del dubbio sull’identità fisica del condannato (art. 667 c.p.p.), attribuiscono al giudice dell’esecuzione poteri di indagine e di decisione, configurando una sorta di moderno inquisitore. In questi casi, è innegabile l’esistenza di un contrasto con il principio di terzietà del giudice, quale previsto dall’art. 111 Cost. Per quanto concerne i principi del giusto processo, specifici per il processo penale, i commi 3 e 4 dell’art. 111 Cost., prevedono il diritto alla prova della “persona accusata di un reato”, inteso come “facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”. PAGE 84 142 Il problema è esaminato da DEAN, Ideologie e modelli, cit., 82 ss. 143 Si tratta di un problema che concerne l’imparzialità del giudice; sul punto, cfr. SAMMARCO, La neutralità del giudice, cit., 97 ss. 144 Con specifico riferimento alla terzietà, cfr. DEAN, I requisiti di terzietà ed imparzialità, cit., 172 ss.; SAMMARCO, La neutralità del giudice, cit., 117 ss. Non vi è dubbio che questa previsione non può riguardare la fase esecutiva, posto che il titolare dei diritti menzionati è, come si è visto, la “persona accusata di un reato”. In pratica, una simile espressione appare difficilmente riferibile al condannato con sentenza definitiva che non può più essere considerato semplicemente come “accusato di un reato”. Se però il “titolo esecutivo” concernesse l’esecuzione di un provvedimento emesso in una fase incidentale del procedimento principale di cognizione pendente nei confronti quindi della “persona accusata di un reato” e cioè dell’imputato, allora quest’ultimo, anche nel procedimento di esecuzione, dovrebbe godere delle garanzie minime sancite nel comma 3 dell’art. 111 Cost. Pertanto, paradossalmente, l’eventuale problema di incostituzionalità con riferimento al mancato rispetto del comma 3 dell’art. 111 Cost., potrebbe porsi per il solo caso dell’incidente di esecuzione instaurato prima della conclusione del processo principale con sentenza definitiva, e non per il caso, ben più rilevante, dell’attivazione dell’incidente di esecuzione, nelle situazioni, drammatiche e complesse, che potrebbero riguardare il condannato con sentenza definitiva. E così resterebbe incomprensibile la ragione per la quale il comma 3 dell’art. 111 Cost., non dovrebbe estendere la propria sfera di applicazione sino a comprendere l’intera esecuzione. Naturalmente, simili difficoltà interpretative nascono dalla mancata considerazione della giurisdizione come un complesso operativo unitario comprensivo tanto della sfera della cognizione, quanto della sfera dell’esecuzione. E’ certamente vero che l’art. 111 Cost. riguardando la giurisdizione in generale riguarda anche la giurisdizione “esecutiva”; ma è altrettanto vero che l’art. 111 Cost. appare modellato sull’unico schema del giudizio di cognizione, senza i necessari riferimenti, al procedimento giurisdizionale di esecuzione. In ogni caso, il comma 4 dell’art. 111 Cost., prevedendo “il contraddittorio nella formazione della prova”, come metodo proprio e specifico del “processo penale”, risulta immediatamente riferibile anche al momento giurisdizionale della fase esecutiva (procedimento di esecuzione ex art. 666 c.p.p.). Eppure, nonostante che il dettato costituzionale dia una chiara indicazione di carattere generale sul contraddittorio, inteso come regola imprescindibile di acquisizione della prova, le disposizioni in tema di accertamento probatorio nel procedimento di esecuzione (art. 666 comma 5 c.p.p.) sono invece, sul punto, estremamente lacunose, prevedendo un semplice “contraddittorio”, affidato all’iniziativa discrezionale del giudice procedente e non legato alla “formazione della prova”. PAGE 84 Sotto questo aspetto, sembrerebbe quindi evidente il contrasto con il comma 4 dell’art. 111 Cost145. 3. Giudice dell’esecuzione. L’art. 665 c.p.p. prevede, come regola generale per l'individuazione del giudice competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento, il giudice che lo ha deliberato (comma 1)146. In caso di appello se il provvedimento è stato confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, è competente il giudice di primo grado; in ogni altro caso è competente il giudice di appello (comma 2). In caso di ricorso per cassazione rigettato o dichiarato inammissibile o quando la corte ha annullato senza rinvio, è competente il giudice di primo grado, se il provvedimento impugnato era inappellabile o se il ricorso era stato proposto ai sensi dell’art. 569 (ricorso per saltum); in ogni altro caso è competente il giudice individuato secondo le regole già indicate (comma 3). Quando l'esecuzione riguardi più provvedimenti emessi da giudici diversi, è competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo (comma 4). Quando si tratti di provvedimenti emessi da giudici ordinari e speciali oppure dal tribunale in composizione monocratica e collegiale, prevalgono, rispettivamente, il giudice ordinario e il giudice collegiale. Come si vede, la regola generale prevista per la determinazione della competenza del giudice dell'esecuzione è ancorata allo svolgimento delle funzioni giurisdizionali nell'ambito del giudizio di cognizione147. Questo criterio è così accentuato nella previsione normativa, che, ai fini dell'attribuzione della competenza per l'esecuzione, è irrilevante persino l'esame della res iudicanda con riferimento all’aspetto della pena, delle misure di sicurezza o delle disposizioni civili: occorre, infatti, una vera e propria conoscenza di merito, approfondita e manifestata in uno dei vari provvedimenti suscettibili di esecuzione. Si tratta di una regola opposta a quella prevista dall'articolo 34 c.p.p. che stabilisce il divieto di esercizio delle funzioni di giudice quando in un grado nel procedimento la stessa persona abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza. PAGE 84 145 Perplessità sulla legittimità costituzionale dell’attuale disciplina del procedimento di esecuzione, sono espresse anche da DEAN, Ideologie e modelli, cit., 95 ss. 146 Cfr. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 186; DALIA, FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit. 860; DEAN, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, cit., 11; GAITO, RANALDI, Esecuzione penale, cit., 9; GIAMBRUNO, Lineamenti di diritto dell’esecuzione penale, cit., 64; TONINI, Manuale di procedura penale, cit., 811 147 Cfr. CORBI, L’esecuzione nel processo penale, cit., 181 L’espressione normativa, infelice, consente dunque un’estrema larghezza di valutazioni. A ciò va aggiunto che in caso di giudice collegiale la competenza per la valutazione preliminare di inammissibilità è del solo presidente del collegio. La dichiarazione di inammissibilità è adottata con decreto motivato ricorribile per cassazione153. Posto che le questioni concernenti la fase esecutiva sono molto spesso di puro fatto, il ricorso per cassazione ha margini ristrettissimi di operatività; sicché la declaratoria di inammissibilità, adottata per motivi puramente discrezionali (se non arbitrari) finisce per divenire, di fatto, insindacabile. D’altra parte, il problema della scarsa operatività del ricorso per cassazione si pone in generale per il procedimento di esecuzione, posto che tale rimedio è l’unico esperibile avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento al termine dell’udienza camerale154. L’udienza si svolge in camera di consiglio con la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero ai quali viene notificato (al difensore e non all’interessato) o comunicato (al p.m.) l’avviso contenente l’indicazione della data. Il termine di comparizione è di dieci giorni, mentre il termine per il deposito di memorie è quello di cinque giorni prima dell’udienza. Il modello dell’udienza dell’incidente di esecuzione è un modello ibrido di un’udienza camerale tipica ex art. 127 c.p.p. con l’aggiunta di alcune caratteristiche che tengono conto della sua natura di momento centrale della fase di cognizione del processo di esecuzione e che tuttavia sono assolutamente insufficienti per garantire il rispetto dei principi basilari della giurisdizione155. Non è previsto il diritto alla prova delle parti ex art. 190 c.p.p., essendo soltanto precisato che: “il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio” (comma 5). L’iniziativa probatoria spetta, dunque, allo stesso giudice che è concepito come organo inquisitorio (cumulando in sé la funzione giudicante e quella inquirente). PAGE 84 153 Si è sottolineato in giurisprudenza che, secondo le regole generali, il ricorso per cassazione avverso il decreto di inammissibilità della richiesta di procedimento di esecuzione esplica l’effetto di sospendere, ex art. 588 comma 1 c.p.p., l’esecuzione del provvedimento fino alla conclusione del giudizio di cassazione, cfr. Cass. pen., 5-07-1994, Bamundo, in Cass. pen., 1995, 2204 154 Cfr. Cass. pen. 4-01-00, Rotondi, in CED, n. 197519 155 Tenuto anche conto del disposto dell’art. 185 disp. att. c.p.p., secondo cui il giudice assume le prove in sede di incidente di esecuzione senza particolari formalità; cfr. DI CHIARA, Il contraddittorio nei riti camerali, cit., 334; GIAMBRUNO, Lineamenti di diritto dell’esecuzione penale, cit., 77 Non sono previste le modalità di acquisizione della prova, anche nei rapporti con le altre autorità; il che comporta il problema dei margini di esperibilità delle procedure coattive di reperimento dei mezzi di prova: si pensi ad esempio alle perquisizioni, ai sequestri, alle intercettazioni telefoniche (mezzi di ricerca della prova); non è previsto se cioè, ed in quale misura il giudice dell’esecuzione possa disporre di tali strumenti istruttori. Il testo della norma sembrerebbe escludere una simile possibilità, anche se si deve ritenere che il giudice dell’esecuzione disponga dei poteri generali di acquisizione di ogni mezzo di prova156. Inoltre, considerando che l’acquisizione della prova deve avvenire in udienza, dovrebbe immaginarsi una “preacquisizione”, non valida ai fini probatori, da parte dello stesso giudice che abbia agito fuori udienza per la ricerca e l’apprensione del mezzo di prova. Per quanto poi concerne il “rispetto del contraddittorio”, è difficile immaginare che debba procedersi con le forme dell’istruzione dibattimentale (ad esempio, se si tratta di testimoni con le forme dell’esame diretto e del controesame), posto che l’unica forma di contraddittorio non è quella prevista per il dibattimento del processo penale e che il comma 5 dell’art. 666 c.p.p., nulla dice circa le modalità di svolgimento del contraddittorio che, così come l’iniziativa istruttoria, dipende dalle decisioni discrezionali del giudice procedente. D’altro canto, la laconica previsione normativa, potrebbe presentare aspetti di contrasto con l’art. 111 Cost. che, espressamente, per il processo penale, prevede il principio del contraddittorio “nella formazione della prova”. La decisione è adottata con ordinanza avverso la quale è proponibile ricorso per cassazione. L’ordinanza che abbia deciso l’incidente di esecuzione, pur, divenendo irrevocabile, dopo il decorso del termine per il ricorso per cassazione o dopo il rigetto dello stesso, non passa in giudicato, poiché le medesime questioni già decise, possono essere nuovamente proposte, purché su “elementi diversi” (arg. ex comma 2). Gli “elementi” che consentono la riproposizione della richiesta di incidente di esecuzione, non devono essere “nuovi” o “sopravvenuti”, essendo sufficiente, appunto che siano differenti da quelli già posti a fondamento di una precedente richiesta rigettata; si distinguono inoltre, dalle “fonti di prova” (sopravvenute o scoperte, ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere ex art. 434 c.p.p.), dalle “prove” (“nuove” che fondano la richiesta di revisione ex art. 630 lettera c, c.p.p.), dalle “esigenze” (di “nuove” investigazione che fondano la richiesta di riapertura delle indagini). PAGE 84 156 In tal senso, cfr. CIANI, Sub art. 666, in Codice di procedura penale annotato con giurisprudenza, coordinato da LATTANZI, Milano, 2005, 311; GAITO, RANALDI, Esecuzione, cit., 195 Deve dunque trattarsi di situazioni, argomenti o dati di fatto che non siano già stati prospettati e che, pur senza giungere autonomamente al rango di “prova” (elemento autosufficiente sul piano dimostrativo), giustifichino tuttavia lo svolgimento dell’incidente di esecuzione157. PAGE 84 157 Cfr. Cass. pen., 15-02-00, Sinibaldi, in CED, n. 215997; Cass. pen., 5-04-96, De Fazio, in Cass. pen., 1997, 1418
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