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Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale Una prospettiva anti-oppressiva, Sintesi del corso di Sociologia della devianza

Riassunto testo di Daniele Scarscelli

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 17/12/2023

Quagliara
Quagliara 🇮🇹

4.8

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Scarica Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale Una prospettiva anti-oppressiva e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia della devianza solo su Docsity! Riassunto: “Controllo e autodeterminazione nel lavoro sociale, una prospettiva anti-oppressiva” Daniele Scarscelli Introduzione: come può l’assistente sociale esercitare il potere nella pratica professionale in una logica anti- oppressiva? come si può esercitare il potere trattando la persona come soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente? Ci si pone di definire i concetti di potere e controllo sociale; si propone di analizzare in che modo i paradigmi influenzano le forme attraverso cui il potere è esercitato (forme che possono favorire o contrastare le pratiche anti oppressive); si propongono spunti teorici e metodologici per gli assistenti sociali che intendono usare un approccio critico al lavoro sociale finalizzato a cambiare le relazioni di potere con gli utenti dei servizi. I cambiamenti avvenuti negli ultimi 40 anni hanno contribuito a creare condizioni istituzionali, strutturali, culturali e ideologiche affinchè approcci correlazionali alla devianza divenissero dominanti nel lavoro sociale. Le condizioni storiche e sociali hanno favorito forme di governance neoliberista (ridurre e razionalizzare l’uso delle risorse pubbliche, adozione di strumenti di indagine e procedure standardizzate per gestire i “devianti”). In questo contesto culturale, politico e istituzionale, potrebbe essere problematico per gli assistenti sociali trovare degli spazi formativi per acquisire strumenti di valutazione orientati verso una pratica professionale critica e anti-oppressiva e non di correzione alla devianza. Si cerca di fornire una cornice interpretativa e spunti metodologici per ritrovare il senso di un lavoro sociale in cui il potere possaLa r essere gestito in una direzione trasformativa coerente con i principi del codice etico. 1- Perché è necessario riflettere sul controllo sociale e sul potere nell’ambito del lavoro sociale? Gli/assistenti sociali nella loro pratica professionale esercitano un potere, poiché essi valutano attraverso specifiche informative, quali cittadini possono accedere ai servizi/prestazioni, controllano che l’uso di tali risorse avvenga con determinate modalità, possono imporre specifiche regole di comportamento ecc  producono effetti intenzionali = potere. Fook (2002) suggerisce che gli assistenti sociali manifestino sentimenti ambivalenti verso il potere: sembrano a disagio di fronte l’idea di avere il potere (a volte di rappresentano come soggetti privi di potere, assumendo che tale potere risieda in altre figure come giudice, dirigente, utente violento ecc.). Questa ambivalenza è probabilmente determinata dal fatto che tali soggetti operano in ambiti in cui devono cercare di rispettare la libertà e l’autodeterminazione delle persone da una parte, e tenere conto dei vincoli esterni e delle responsabilità istituzionali dall’altra. Gli/le assistenti sociali sono professionisti/e che operano all’interno di istituzioni deputate a regolare le condotte di persone che sono considerate devianti. Facendo riferimento a normative e indirizzi di politica sociale essi/e esercitano controllano sociale: quando devono prevenire la devianza di un soggetto individuale o collettivo da una norma di comportamento; quando devono “eliminare” una devianza ottenendo che il soggetto riprenda a comportarsi in conformità alla norma violata; nei casi in cui devono “impedire” che la devianza si estenda ad altri soggetti. Si opera una distinzione tra gli interventi di “sostegno” e di “cura” (fondati sul consenso degli utenti) e quelli definiti di “controllo” (utenti obbligati ad adottare o non determinati comportamenti). Queste espressioni lasciano intendere che il controllo sociale sia esercitato dagli assistenti sociali solo nel secondo caso. Tuttavia anche gli interventi di sostegno e di cura costituiscono una modalità di controllo sociale. La letteratura sociologica individua due modi con i quali si può esercitare il controllo:  modalità “hard” = si obbliga una persona a fare qualcosa che non avrebbe mai fatto minacciando il ricorso di sanzioni, negando l’accesso a risorse o utilizzando forme di coercizione (es. consegnare un figlio ai servizi sociali o seguire un corso di formazione indicato dagli operatori per poter beneficiare di un sussidio);  modalità “soft” = con cui la conformità alle norme viene ottenuta ricorrendo a persuasione o manipolazione (es. il trattamento psicologico costituisce un potente meccanismo di controllo sociale perché può aggirare le resistenze dell’individuo e ne può influenzare la vita interiore e condizionare il comportamento. Gli assistenti sociali però operano non solo in riferimento alle normative e politiche delle istituzioni, ma anche adottando uno specifico Codice etico che fonda la pratica professionale sul rispetto dei diritti della persona, e impegna l’assistente sociale a riconoscere la persona come “soggetto capace di autodeterminarsi e di agire attivamente”, e laddove la capacità fosse limitata lo impegna a promuovere le “condizioni per raggiungere il miglior grafo di autodeterminazione possibile”. Kant  “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Risulta impegnativo e problematico esercitare controllo sociale trattando le persone come soggetti che hanno fini propri e non come oggetti di intervento sociale o strumenti per perseguire gli obiettivi delle istituzioni. 2- La prospettiva teorica del critical social work Si affronta la questione con una specifica prospettiva teorica del lavoro sociale  critical social work: l’obiettivo è quello dell’impegno a perseguire la giustizia sociale. La giustizia sociale dovrebbe costituire uno dei valori fondamentali della pratica professionale. Ciò che caratterizza questo approccio critico al lavoro sociale concerne le modalità con cui la giustizia sociale dovrebbe essere perseguita nella pratica professionale.  Gli assistenti sociali che adottano una prospettiva critica riconoscono la natura strutturale dei problemi sociali e individuali, riconoscono che la struttura sociale ed economica di una società condiziona le esperienze individuali, i corsi di vita delle persone, e le modalità con cui viene esercitato il controllo sociale nella relazione tra operatori e gli utenti dei servizi. Le condizioni di vita degli individui dipendono dalla loro posizione nella struttura sociale (appartenenza di classe), da questo dipende la capacità di far fronte più o meno efficacemente ai propri bisogni (reddito, capitale sociale…).  Un approccio critico mette in discussione quelle pratiche professionali che fondandosi sulla individualizzazione dei problemi sociali, contribuiscono ad alimentare la falsa coscienza (Marx) che la povertà sia una responsabilità dell’individuo, oscurando la relazione tra modi di produzione e bisogni. Adottando una visione dei problemi sociali che tenga conto di quanto la struttura possa facilitare o impedire l’azione degli attori sociali e di quanto l’azione di tali attori possa modificare la struttura, gli assistenti sociali che adottano questa prospettiva si impegnano a creare le condizioni per incentivare l’agency personale e collettiva negli utenti (empowerment), per sviluppare forme di azione collettiva che modifichino le condizioni strutturali che perpetuano oppressione e ingiustizia sociale.  Per promuovere le condizioni che possono favorire la trasformazione delle strutture e dei processi che sostengono l’oppressione e l’ingiustizia sociale, bisogna adottare in approccio critico riflessivo per mettere a fuoco due questioni: quali categorie interpretative gli operatori adottano per orientare i propri interventi (Fook scrive che il Servizio Sociale critico è scettico nei confronti del lavoro sociale basato sulle evidenze e altre visioni positiviste della conoscenza, dove quest’ultima non riflette una realtà esterna ma è attivamente costruita dai ricercatori); e chi detiene il potere nella relazione operatore/utente e come lo usa (l’assistente sociale che adotta una prospettiva critica dovrebbe riflettere sul tipo di controllo sociale che esercita nella relazione con gli utenti, per promuovere pratiche che siano meno oppressive. 3- Controllo sociale e lavoro sociale Per la teoria critica il lavoro sociale dovrebbe perseguire la giustizia sociale, promuovere i diritti umani e stare dalla parte degli oppressi e degli individui esclusi. Per fare questo gli operatori devono focalizzare la valutazione per decidere se prenderli in carico; e che non è detto che accettino la definizione della loro situazione. Nella letteratura del social work esiste un corpo di studi dedicato alle pratiche di intervento con tali utenti: gli involuntary clients  il dilemma che l’operatore deve affrontare tra autodeterminazione delle persone e controllo sociale è più evidente perché essi rappresentano un esempio paradigmatico della questione “autorità versus libertà” in una democrazia liberale. Capitolo 1 – Il controllo sociale come manifestazione di potere nell’ambito del lavoro sociale “Controllo sociale” in letteratura sociologica si riferisce sia ai meccanismi e alle condizioni che rendono stabile una società, sia alle azioni intenzionali che vengono messe in atto per regolare la condotta di quelle persone che sono considerate devianti. Cesareo  il controllo sociale consiste esclusivamente in quelle specifiche manifestazioni di potere (o di potenza) che si configurano come reazioni formali ed informali al comportamento deviante: il controllo sociale è quindi una particolare specie del più ampio genere di potere. Il processo attraverso sui il controllo sociale viene esercitato può essere scomposto analiticamente in quattro “momenti essenziali”:  La definizione normativa della condotta deviante;  La scoperta della devianza;  La presa di decisioni nei confronti del deviante;  L’eventuale attuazione di un provvedimento. Tale operazione concettuale può essere utilizzata per analizzare qualsiasi tipo di presa in carico da parte degli operatori sociali di un soggetto etichettato come deviante. La definizione di Cesareo evidenzia come il controllo sociale dei devianti sia sempre una manifestazione di potere e come non possa essere considerato senza concettualizzare sia il processo di formazione delle norme, sia le modalità con cui vengono categorizzate le persone con le quali gli operatori entrano in contatto per decidere se intervenire o meno. Potere e lavoro sociale: Wrong  il controllo sociale è una manifestazione di potere perché il potere è la capacità di produrre effetti intenzionali. La concettualizzazione del potere in sociologia ha una lunga tradizione. Parsons si vede la società come un’entità stabile e integrata, in cui vi è consenso tra i membri dei vari gruppi sociali sui valori e norme, considerano il potere come una funzione del sistema sociale: il potere è una risorsa utilizzata per raggiungere scopi collettivi, quindi esercitato per il bene di tutti. Altre prospettive teoriche vedono invece la società caratterizzata da un continuo scontro tra diversi gruppi sociali per il conseguimento di risorse strategiche (anche il potere), vedono il potere come strumento tramite cui il gruppo dominante impone la propria visione del mondo e persegue i propri interessi. Per analizzare le dinamiche di potere nel lavoro sociale (involuntary clients) dobbiamo fare riferimento a una definizione “relazionale” di potere: inteso come capacità di produrre effetti intenzionali, come capacità di produrre un effetto causale. Questo è rilevante in quanto l’assistente sociale è un attore sociale che dovrebbe esercitare il potere per produrre un effetto intenzionale: promuovere opportunità per il miglioramento delle condizioni di vita della persona, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle loro diverse aggregazioni sociali, valorizzandone autonomia, soggettività, e capacità di assunzione di responsabilità, sostenendone l’uso delle risorse proprie e della società, per prevenire e affrontare situazioni di bisogno o di disagio e favorire processi di inclusione. Due significati del concetto di potere:  Il potere come abilità di fare qualcosa (power to): fa riferimento alla capacità di un individuo di realizzare un proprio fine. La capacità delle persone di esercitare un controllo sulla propria vita dipende da una serie di fattori come la definizione di sé come soggetto agente capace di perseguire i propri fini e controllare le circostanze, le abilità e le competenze acquisite mel corso della propria vita, il capitale sociale di cui dispone, le opportunità e i vincoli strutturali che possono influenzare l’azione. L’agency si sviluppa nell’interazione sociale con altri significativi: famiglia, gruppo dei pari, scuola, lavoro ecc. sono tutti contesti in cui si può rafforzare o indebolire, la capacità di perseguire le proprie mete. La relazione operatore/utente è quindi un altro ambito in cui tale capacità può essere sviluppata, compromessa o distrutta. Gli altri significativi con cui entra in relazione (anche gli assistenti sociali) possono disporre del potere di rendere reali, le definizioni delle sue capacità: meccanismo della profezia che si auto-adempie (teorema di Thomas) = il soggetto assume progressivamente lo status e l’identità veicolati dalla definizione della sua situazione e della sua persona prodotta da altri significativi, finendo per divenire quello che è stato definito essere. Meccanismo descritto in una ricerca condotta in una scuola elementare americana che intendeva indagare l’interazione tra docenti e allievi. Lo studio dimostrò che il modo con cui i docenti definirono quei bambini produsse degli effetti reali (migliorarono il loro rendimento scolastico). Questo non avvenne secondo i ricercatori perché gli insegnanti investirono più energie nella relazione con questi bambini, ma perché comunicarono le loro aspettative indirettamente attraverso una comunicazione non verbale. In uno studio sulla remissione spontanea e assistita dalla dipendenza di eroina, si sono osservate differenze significative nei modi con cui gli intervistati trattati e quelli non trattati hanno ricostruito le loro carriere morali e definito la loro situazione attuale; i soggetti che non hanno ricorso al trattamento hanno “normalizzato” il loro precedente uso di droghe, mentre i soggetti trattati hanno adottato schemi interpretativi fondati sul paradigma della “patologia” sociale e/o individuale. Numerosi soggetti tra quelli trattati hanno definito sé stessi come persone vulnerabili. Questo si spiega col processo di remissione spontaneo o assistito: coloro che hanno normalizzato sembrano essere in grado di prendere le distanze da un’identificazione di sé come ex tossicodipendente, coloro che sono ricorsi ai servizi mostrano maggiore dipendenza dal precedente ruolo. Ogni trattamento che assegni alla persona un ruolo passivo può promuovere lo sviluppo di un’identità passiva, di vittima, che ostacola il recupero”. La tendenza a spiegare i comportamenti devianti nei termini di una condizione di malattia, di cui il soggetto non è responsabile, e non è neanche in grado di affrontare senza ricorrere agli esperti, rischia di indebolire l’agency delle persone. Il meccanismo della profezia che si auto-adempie ci indica quindi che gli operatori sociali devono essere consapevoli che le loro definizioni dell’agency degli utenti potranno avere conseguenze reali, nel senso che potranno rafforzare/indebolire l’emporwerment di tali utenti.  Il potere inteso come capacità di un individuo di influenzare il comportamento di un altro senza che l’altro sia in grado di fare altrettanto (power over). In questa accezione il potere è la capacità di cui dispone A di far fare qualcosa a B, che B non avrebbe fatto senza l’intervento del primo; quindi A ha il potere ed è in grado di imporre la propria volontà su B. Questa è la forma di potere che si innesca nel controllo sociale, che è un’azione intenzionale messa in atto da specifici attori individuali/istituzionali per condizionare la condotta di altri soggetti. L’assistente sociale che, adottando una prospettiva critica, intenda riflettere sul tipo di controllo sociale che sta esercitando nella relazione con l’utente, deve mettere a fuoco due questioni: in che modo sta esercitando potere, e per quali ragioni la persona obbedisce facendo qualcosa che non avrebbe se non fosse entrata in relazione con l’operatore. Le classificazioni delle forme del potere e delle motivazioni che possono indurre all’obbedienza sono “tipi ideali” (la persona segue il progetto perché concorda con la definizione della sua situazione, o agisce in maniera strategica per ottenere risorse?). Wrong “lo status analitico di ogni tipologia delle forme del potere risulta dalla molteplicità di significati e motivazioni che sono implicati in tutte le azioni umane, includendo quelle condizionate dal superiore potere di altri”. Un attore sociale per rafforzare il proprio potere tenderà a diversificare le forme con cui esercita influenza su altri soggetti. Le forme del potere: Come può A far fare qualcosa a B che prima non avrebbe fatto senza l’intervento di A? Questa situazione è tipica del lavoro sociale con gli involuntary clients (persone che non hanno scelto di entrare in contatto con gli operatori e che non è detto accettino la definizione che gli viene affidata). La capacità di A di indurre a B un determinato comportamento può avvenire attraverso la forza, l’influenza e l’autorità. La forza: Wrong sostiene che quando si usa la forza (o se ne minaccia l’uso), si tratta il soggetto come se non fosse altro che un oggetto fisico, o un organismo biologico vulnerabile al dolore e alla compromissione dei suoi processi vitali. L’ultima forma della forza è la violenza: l’aggressione diretta al corpo di un altro per infliggere dolore, ferita o morte. Nelle democrazie gli attori sociali che possono usare la forza sono “le forze dell’ordine” e le “forze armate”. L’esercizio legittimo della forza da parte dello Stato ha dei limiti: un genitore può ricorrere contro un provvedimento di un magistrato, oppure alla tortura o “crimini di stato” (quegli atti promossi da istituzioni statali che violano leggi nazionali o leggi internazionali. L’influenza: in una relazione di potere A può talvolta ottenere il risultato desiderato indirizzando il modo di pensare di B, modificando le sue mappe cognitive  è una rappresentazione semplificata della realtà che discrimina gli eventi rilevanti e stabilisce tra loro nessi relazionali causali, una sorta di pratica “bussola” mentale. Gli individui costruiscono mappe per dare ordine e un senso al loro ambiente di riferimento anche se, ovviamente, tale attività non è affatto consapevole: infatti una realtà condivisa in seno a un gruppo perde ogni connotato di arbitrarietà e finisce per sembrare oggettiva e imprescindibile. Basta però uscire dal gruppo per scontrarsi con l’altrui costruzione di realtà e avere problemi di comprensione, di comunicazione, di conflitto (Ferrante, Zan). Questo tipo di potere prende il nome di influenza, e può essere esercitato attraverso la persuasione o la manipolazione. L’influenza è la forma di potere disciplinare (Foucault) che adotta tecniche attraverso cui si può esercitare il controllo sociale sulle persone mirando alla loro anima, ricorrendo a narrazioni che consentono ad A di rappresentare la sua definizione della situazione di B come accettabile per B. L’influenza = modalità “soft” del controllo sociale, modifica le mappe cognitive condizionandone il comportamento. Cos’ il controllo sociale non avviene in forma coercitiva, ma attraverso tipologie del sé, forme di auto-disciplina che le persone adottano per il desiderio di conformarsi ai modelli di comportamento che vengono definiti normali, accettabili, da fonti ritenute autorevoli. Persuasione A presenta a B argomenti per un certo tipo di azione che B dovrebbe mettere in atto e B, dopo aver valutato alla luce dei propri criteri e interessi le ragioni di A, orienta il proprio comportamento sulla base delle ragioni presentate da A. Adottando una prospettiva critica, non si può ignorare che le capacità di coloro che vivono una condizione di sfruttamento di riconoscere i propri interessi e conseguentemente di mobilitarsi e agire collettivamente per perseguirli, dipende dalla loro “coscienza di classe”. Nell’ambito del lavoro sociale critico, l’assistente sociale potrebbe essere un attore che favorisce questa presa di coscienza. Manipolazione è il modo più subdolo e sfuggente per esercitare potere, perché B non è consapevole di fare ciò che vuole A essendo convinto di agire in piena libertà e autonomia. Anche la persuasione è una forma di potere, perché nonostante B agisca valutando i propri interessi ì, essa rappresenta un mezzo attraverso cui un attore sociale può influenzare il comportamento di un altro individuo. Gli individui si differenziano per le abilità persuasive di cui dispongono e quindi la persuasione dipende da risorse che non sono distribuite egualmente nella società. La capacità di un attore sociale di influenzare un altro soggetto, secondo la prospettiva teorica che si rifà al pensiero di Foucault non è mai assoluta. Il potere nell’ambito della interazione tra esperto e utente “non è una entità unitaria, ma una relazione strategica che è diffusa ed invisibile”. Le relazioni di potere sono quindi dinamiche e negoziate e ri- negoziate. Gli sviluppi che le persone seguono nell’ambito della loro esperienza con i servizi sociali e sanitari società moderne: il deviante ha l’obbligo di considerare la propria condizione come indesiderabile e di fare il possibile per guarire seguendo le indicazioni dell’esperto; riconoscendo che lui ha un problema e che l’esperto ha le competenze per aiutarlo, il paziente accetta un rapporto di dipendenza. Il lavoro degli esperti non consiste nell’applicazione di conoscenze tecniche ed oggettive ai problemi sociali e individuali; molte indicazioni degli esperti sono intrise di giudizi morali, sono il prodotto di rappresentazioni sociali dei problemi individuali e collettivi storicamente e culturalmente determinate. L’interrogativo che ci si deve porre è in che modo l’esperto possa usare la sua competenza come una risorsa per promuovere l’interesse dell’utente piuttosto che come una maschera ideologica per esercitare il controllo sociale. Una soluzione possibile è quella di mettere l’utente nelle condizioni di entrare nel merito del contenuto della relazione di potere, che dovrebbe passare da relazione di potere fondata sulla competenza imputata, a relazione di potere fondata sulla persuasione, riducendo però, l’asimmetria informativa. Come abbiamo già detto fattori come l’età, la classe sociale ecc. possono influenzare la capacità degli utenti di controllare il potere dell’esperto.  Autorità personale: ci sono situazioni in cui B obbedisce ad A per il desiderio di compiacere o servire A unicamente per le qualità personali (il carisma) di quest’ultimo. Questo tipo di relazione di potere carismatico si fonda sulle qualità personali del potente. L’autorità che si basa sul carisma potrebbe essere considerata come un tipo puro di autorità in cui i comandi vengono impartiti e obbediti senza che colui che ha dato il comando possieda il potere di imporre sanzioni o di trasferire risorse. Anche questo tipo di autorità può combinarsi con altre forme di legittimazione del potere: un esperto può essere carismatico così come lo possono essere un persuasore o un funzionario di un’istituzione pubblica. Le caratteristiche personali di un assistente sociale possono rappresentare un’importante fonte di autorità, e sono uno dei fattori che influenzano le modalità con cui le persone interpretano i diversi ruoli sociali che ricoprono. La capacità di influenzare gli altri può dipendere anche dal grado di autorevolezza dell’operatore agli occhi dell’utente; l’autorevolezza la si ottiene nella misura in cui, in virtù del comportamento adottato nella relazione di potere, si appare come giusti, imparziali, onesti e rispettosi dell’utente (“sa cosa sta provando”). L’uso del potere per aiutare le persone: il potere utilizzato per aiutare le persone può assumere due forme paternalismo e potere trasformativo. Una relazione di potere tra due attori sociali è paternalismo quando l’agente dominante usa il suo potere per procurare un beneficio a un altro attore sociale che non è ritenuto pienamente in grado di autodeterminare il proprio corso di azione; implica un rapporto in cui i subordinati sono definiti come totalmente o parzialmente, temporaneamente o permanentemente, incapaci di riconoscere e difendere i propri interessi, e questi devono quindi essere definiti e portati avanti dai potenti per loro conto. L’operatore sociale “paternalista” assume: 1. Di agire per il bene dell’utente; 2. Di essere qualificato ad imporre la propria volontà in virtù della sua competenza a stabilire che cosa è bene per l’utente, il quale è considerato come una persona che non ha le capacità per individuare la migliore soluzione al suo problema; 3. Di essere legittimato ad interferire nella vita dell’utente dal suo mandato professionale, quello di tutelare il benessere dell’utente stesso. È un tipo di potere che ricorrendo alla scienza come fonte di legittimazione lavora in una direzione anti-democratica, perché i subordinati non sono definiti come in grado di identificare i loro interessi, e quindi non sono legittimati a essere consultati per le decisioni che li riguardano; se sono consultati, il loro coinvolgimento è caratterizzato da una logica tokenista (coinvolgimento superficiale dei cittadini nel processo decisionale per dimostrare che si seguono certe procedure), in quanto il processo attraverso cui essi potrebbero ottenere un maggior controllo sulle loro vite è solo apparentemente superficiale. Una relazione di potere invece è trasformativa quando lo scopo dell’agente dominante non è solo quello di procurare un beneficio al soggetto, ma quello di fare in modo che l’agente subordinato apprenda quelle competenze e acquisisca quelle risorse che gli consentiranno di superare il gap di potere esistente tra lui e l’agente dominante. È un tipo di potere compatibile con una prospettiva critica del lavoro sociale; il potere trasformativo è usato per aiutare un’altra persona ad acquisire capacità di autodeterminarsi (lavora in una direzione democratica). La gestione del potere in una logica trasformativa impone agli assistenti sociali di adottare un approccio riflessivo sul proprio potere di definizione dei problemi e dei bisogni degli utenti. Secondo Smith, le strategie di “reframing” forniscono strumenti pratici per cambiare, in una direzione trasformativa, le relazioni di potere con gli utenti dei servizi (per promuovere efficacemente empowerment non ci si deve concentrare esclusivamente sulla relazione individuale, ma occorre adottare un approccio strutturale). Si è visto come gli operatori forniscano mappe cognitive per definire la situazione dei loro utenti e influenzare i loro comportamenti; se si assume che questi significati siano prodotti attraverso delle “narrazioni”, si tratterebbe di adottare una strategia di “ricostruzione narrativa” che produca nuovi discorsi, attraverso cui i punti di vista degli utenti non siano più messi a tacere; così sarà possibile ridefinire sia le modalità con cui le esigenze degli utenti sono comprese, sia le modalità con cui essi sono coinvolti nei processi di valutazione dei bisogni, nonché nella progettazione e gestione dell’intervento. Mettere gli utenti al centro del processo di definizione del loro problema, fornisce loro potere di proporre le proprie definizioni del problema e le proprie strategie per affrontarlo. Soltanto un approccio metodologico e teorico “comprendente” può favorire una ricostruzione narrativa in cui, dando valore alla prospettiva dell’utente, si mettano in discussione le definizioni degli esperti e quindi una gestione paternalistica del potere. In una logica anti – oppressiva l’operatore dovrebbe cercare di promuovere un potere trasformativo. La resistenza al potere: è errato credere che il potere sia soltanto unidirezionale, dove vi è potere vi è anche la possibilità di resistervi. Foucault = la capacità di un attore sociale di influenzare un altro soggetto non è mai assoluta. Per comprendere in che modo gi utenti dei servizi possono contrastare il potere esercitato su di loro, Smith presenta un continuum di possibili strategie adottabili dagli utenti nella relazione sociale con gli operatori. A un estremo del continuum vi sono forme passive di coinvolgimento (compliance) che non sono per forza espressione di una condivisione del progetto di intervento, mentre all’estremità opposta, ci sono forme di attive di controllo sulle modalità con cui i bisogni sono definiti, i diritti sono esercitati e gli interventi sono determinati. Il controllo sui servizi avviene attraverso forme collettive di azione che promuovono i diritti e gli interessi degli utenti. Vi sono forme di resistenza individuali (non cooperazione = scelta di non ricorrere ai servizi; interrompere la fruizione non ritenendoli utili risorse per affrontare il proprio problema); alla resistenza, cioè il rifiuto di ottemperare alle indicazioni degli operatori tentando di rinegoziare l’esistente relazione con i professionisti, alla sfida cioè il mettere in discussione attraverso una forma più esplicita di resistenza, sia il potere di definizione della situazione proposta, sia la legittimità del potere dell’operatore stesso. Tale abilità di agire strategicamente dipende dalla posizione sociale degli attori in gioco, che può consentire o meno l’accesso alle risorse utili per esercitare/contrastare il potere. (spiegazione dei due casi, donna separata con affidamento della figlia; caso della ragazza in comunità incinta che vuole tornare dalla madre problematica). In entrambi i casi vi sono degli utenti che tentano di contrastare il potere dell’assistente sociale, con strategie e risorse diverse. Nel primo caso si contrasta il potere adottando una strategia legittima (avvocato), nel secondo caso utilizzano illegittimamente una forma di potere, uso della forza, il cui monopolio legittimo spetta esclusivamente allo stato. Nella maggior parte dei casi sfidare o aggredire una persona che minaccia di prendere i nostri figli sarebbe un comportamento appropriato o premiato. Tuttavia quando l’attore è un agente dello stato, essere combattivi è considerato come il riflesso di un difetto della personalità, una caratteristica di chi è incline alla violenza; chi sfida o minaccia un assistente sociale conferma soltanto di essere pericoloso per i propri figli e per gli altri. Controllo sociale della devianza: il processo di formazione delle norme e le conseguenze della relazione sociale sul deviante. Nell’ambito di una prospettiva critica del lavoro sociale, il potere è uno strumento tramite cui il gruppo dominante impone la propria visione del mondo e i propri interessi, per evitare che il potere “protettivo” esercitato dagli assistenti sociali diventi un potere oppressivo, la valutazione delle modalità con cui si esercita il controllo sociale non può prescindere dall’analisi dell’interdipendenza tra il comportamento deviante, il processo di formazione delle norme e le conseguenze della reazione sociale sulle persone etichettate come devianti. Il processo di formazione delle norme: una spiegazione sociologica della devianza, cioè un comportamento che viola determinate norme sociali, deve tenere conto dei processi attraverso cui sono prodotte tali norme. La natura della devianza è relativa, nel senso che non esistono atti intrinsecamente devianti, in quanto la devianza è una qualità che viene conferita a quelle condotte che si ritiene abbiano violato uno specifico sistema normativo e valoriale. Se è vero che normalità e devianza sono concetti dotati di un senso statistico (comportamenti devianti più rari rispetto a quelli convenzionali) è altrettanto vero che la devianza non sia soltanto un’accezione statistica ma abbia anche una connotazione normativa e valoriale (deviante = meno desiderabile). Esiste un ordine morale condiviso dai membri di una società di cui sarebbero espressione le norme sociali? Le prospettive teoriche che vedono la società come un’entità integrata rispondono in modo affermativo. Le prospettive storiche che vedono la società come un aggregato caratterizzato da un continuo scontro tra i gruppi sociali per il conseguimento di risorse strategiche, sostengono invece l’origine conflittuale delle norme. Nel primo caso il deviante è soggetto che non è stato adeguatamente socializzato, perché le norme e i valori che regolano i comportamenti sociali dovrebbero essere condivisi dai membri di una società, in un dato momento storico e contesto sociale. La norma infranta non viene messa in discussione e l’attenzione si focalizza sul comportamento deviante che deve essere corretto: la devianza è quindi un fenomeno “oggettivamente dato”. Es. del bambino che si comporta in modo non conforme alla normalità in ambito scolastico, situazione in cui è il bambino che deve essere medicalizzato attraverso la formulazione di una diagnosi di sindrome “sindrome da deficit di attenzione e iperattività” in modo che possa essere seguito da un insegnante di sostegno. In questa prospettiva teorica, nell’ambito di un contesto trattamentale, il deviante dovrebbe conformarsi alle aspettative del ruolo di malato delegando all’esperto il potere di definire ciò che è “normale” e ciò che è “deviante”. Egli dovrebbe considerare come indesiderabile la “devianza” e desiderabile la “normalità” così come la definisce l’esperto. All’interno di questa logica del controllo sociale, non riconoscere di avere un problema, è sintomo del problema, è sintomo dell’incapacità del deviante si “stare nei limiti” della norma, che non viene messa in discussione poiché si assume che essa sia espressione di un ordine morale condiviso da parte dei membri della società. Nell’ambito di tale prospettiva consensuale, l’obiettivo degli assistenti sociali è quello di definire qual è il limite che non può essere superato, qual è il confine oltre il quale si prevede che un diritto o un interesse sia tutelato nella sfera pubblica. Nel secondo tipo di spiegazione del processo di formazione delle norme, che dovrebbe caratterizzare ogni prospettiva critica al lavoro sociale, quelle “norme poste a tutela del vivere sociale” non sono considerate espressione di un ordine morale della società, ma espressione dell’ordine morale del gruppo sociale dominante. La devianza ha una connotazione politica, perché la definizione di che cosa è deviante e che cosa non lo è riflette gli interessi dei gruppi sociali che detengono il potere. Il controllo sociale in questa visione, è una manifestazione del potere finalizzato a salvaguardare l’ordine morale della classe dominante e l’assistente sociale, come rappresentante dell’istituzione, non tutela il “vivere civile” ma piuttosto gli interessi della classe dominante perché le fonti della sua autorità nella relazione con l’utente si basano sul potere politico ec economico di quella classe. Il comportamento deviante dell’utente non può essere interpretato come un’incapacità di “stare nei limiti”, perché le definizioni di questi confini sono specifiche visione del mondo (ideologie) e di interessi. Adottando la spiegazione conflittuale dell’origine delle norme, l’operatore deve valutare, ad es. quanto lee costruzioni sociali della “maternità normale”, riflettano le visioni del mondo di specifici gruppi sociali, in particolare della classe media a cui appartengono anche gli esperti. Da parte dell’assistente sociale, la consapevolezza del tipo di spiegazione del processo di formazione delle norme, a cui si fa riferimento nella pratica professionale, non solo una questione teorica, perché la spiegazione adottata influenza le modalità con cui si esercita il controllo sociale. Quando scatta la soglia della segnalazione di un caso all’autorità giudiziaria? La normativa lasica ampio margine all’interpretazione agli operatori, ma è in dubbio che con il superamento della soglia, le istituzioni entrano pesantemente nelle combinano analisi di dati raccolti su campioni o che operano una triangolazione di metodi e tecniche di ricerca. Se si adotta una prospettiva del conflitto secondo la quale la devianza è un fenomeno politico, è necessario che l’operatore rilevi la definizione della situazione dell’utente, la sua interpretazione della realtà, e focalizzi l’attenzione sul processo di etichettamento della devianza (chi ha segnalato il genitore quale modello normativo genitoriale ha adottato? Il genitore è in grado di contrastare l’etichettamento?). Tale obiettivo non può essere perseguito se si adottano criteri che si assume siano oggettivi/neutrali perché sono stati ricavati dall’analisi della realtà attraverso rigorose procedure (come se i fatti sono indipendenti dalla cornice teorica che si adotta per raccoglierli). La scelta degli assunti fondamentali che dovrebbero guidare l’attività valutativa degli operatori nell’esercizio del controllo sociale, dipenderà dalla prospettiva teorica del lavoro sociale che si adotta  positivismo – costruttivismo = orientano in modo differente il processo valutativo (ambito tutela dei minori), condizionano le forme attraverso cui il controllo sociale viene esercitato, indirizzando tale controllo verso forme paternalistiche di potere invece che di forme trasformative; si affronteranno 3 questioni:  Questione ontologica  qual è la natura di questi fenomeni;  Questione epistemologica  come si possono conoscere e qual è la natura della relazione tra il ricercatore e ciò che può essere conosciuto circa tali fenomeni;  Questione metodologica  con quale metodo si possono studiare. La questione ontologica: qual è la natura della negligenza o dell’abuso? Sono fenomeni che esistono indipendentemente dall’attività interpretativa del ricercatore? Esistono indipendentemente dall’attività definitoria degli esseri umani? Paradigma positivista: assumono che i fenomeni sociali abbiano un’esistenza indipendente dall’attività conoscitiva degli uomini/donne quindi possano essere osservati empiricamente, misurati, analizzati statisticamente da un ricercatore neutrale. Costruttivisti: sostengono che il mondo sociale è costituito da realtà socialmente costruite che devono essere investigate attraverso l’interpretazione; il ricercatore è considerato come uno degli attori nella situazione oggetto di analisi. Approccio storico: abuso e negligenza sono fenomeni storicamente e culturalmente determinati; da un lato cosa è considerato negligenza o abuso in una società cambia nel tempo; dall’altro che cosa è considerato oggi abuso o negligenza in una società o in un gruppo sociale non necessariamente è considerato tale in altre società o gruppo. Korbin  attività di ricerca antropologica e etnografica; studio sul maltrattamento sui minori nell’ambito di condizioni sociali e culturali diverse da quelle occidentali. Si possono identificare due livelli in cui le considerazioni culturali entrano in gioco nella definizione di abuso e negligenza. 1. Livello del conflitto interculturale : pratiche genitoriali accettate nell’ambito di una determinata cultura sarebbero considerate come abusive e negligenti in un’altra. Le pratiche culturalmente appropriate variano da una società all’altra, si sottolinea l’importanza di valutare i comportamenti dei genitori all’interno del contesto culturale in cui si verificano. Non ci si deve limitare a giudicare l’atto in sé, ma coglierne il significato all’interno della cultura. Occorre quindi considerare quali obiettivi devono essere perseguiti nella socializzazione dei bambini in ogni gruppo culturale, le intenzioni e le convinzioni degli adulti e l’interpretazione che i bambini danno dei modi con cui sono trattati dagli adulti. 2. Livello del conflitto intraculturale : all’interno di una medesima società, possono variare, tra i diversi gruppi sociali, i criteri per identificare i comportamenti di cura dei bambini che sono considerati accettabili. Il conflitto culturale non avviene tra culture, ma all’interno della stessa cultura quando i membri di una società definiscono deviante un comportamento che altri membri della stessa società considerano normale (es. genitori afro-americani nella gestione del comportamento deviante dei figli utilizzano modalità disciplinari più fisiche rispetto ai bianchi della classe media). Nessun studioso può quindi mettere in discussione che ciò che definiamo abuso o negligenza cambi nel tempo, e assuma significati diversi a seconda del contesto socio-culturale a cui facciamo riferimento, e sia correlato a specifici fattori sociali. Ciò che differenzia studiosi e operatori sociali che dovrebbero orientare il loro lavoro sulla base delle “evidenze” scientifiche, è il diverso orientamento verso la natura del sistema normativo e valoriale. Positivisti natura consensuale: negligenza e abuso sono fenomeni storicamente e culturalmente determinati, ma in ogni società vi è un insieme di norme condivise che stabilisce cosa sia abuso e negligenza. Se nella società esiste un modello normativo genitoriale condiviso, abuso e negligenza possono essere studiati come se fossero fenomeni reali: non si mettono in discussione le norme che li regolano, si danno per scontate. Non esistendo norme giuridiche che definiscano chiaramente cosa sia negligenza e abuso, gli studiosi di questo orientamento hanno elaborato definizioni che fanno riferimento a una dimensione normativa che si assume essere condivisa all’interno della società: il genitore negligente o maltrattante è un individuo che sta violando delle aspettative di ruolo collegate a uno specifico modello di parenting (la capacità di un genitore di soddisfare i bisogni fondamentali del proprio figlio, da un punto di vista sia fisico sia psicologico). Ionio le capacità fondamentali su cui valutare la genitorialità sono due: la capacità di rispondere ai bisogni del proprio figlio; la capacità di porre dei limiti. Inoltre la cornice interpretativa del processo di formazione delle norme in cui si colloca la definizione di parenting è quella del consenso (tutte le persone socializzate devono sapere quali sono i bisogni dei propri figli e quali limiti non si possono superare). Programma di Intervento per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione= Lacharitè definizione di negligente: “una carenza significativa o un’assenza di risposte ai bisogni di un bambino, bisogni riconosciuti come fondamentali sulla base delle conoscenze scientifiche attuali e/o dei valori sociali adottati dalla collettività di cui il bambino è parte”. Questa definizione si fonda su due assunzioni: si assume vi sia un consenso tra gli studiosi su quali siano i bisogni fondamentali dei bambini dando per scontato che gli scienziati sociali condividano paradigmi e teorie; si assume che vi siano valori sociali condivisi su quali siano i bisogni fondamentali dei bambini e su come debbano essere soddisfatti = costruzione di strumenti standardizzati per valutare il rischio di negligenza e abuso, che sono rappresentati come “oggettivi”/ “neutrali” perché l’operatore sociale non mette in discussione la natura della negligenza e abuso: convinzione che vi sia un'unica e valido modello normativo di genitorialità a cui si deve far riferimento. Per i costruttivisti invece non si può studiare l’abuso e la negligenza senza considerare il processo attraverso cui determinati comportamenti vengono etichettati come “devianti” (prospettiva del conflitto); analisi spostata dai comportamenti a delle caratteristiche di quelli che infrangono le norme ai processi attraverso i quali certi individui finiscono con l’essere definiti devianti da altri. Questo richiede che lo studioso consideri in termini problematici quanto viene assunto come scontato: il sistema di norme e valori che dovrebbe regolare il comportamento del genitore adeguato. Becker esprime con efficacia la prospettiva costruttivista della devianza: “La devianza è creata dalla società. I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. La devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona ì, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e sanzioni nei confronti di un colpevole. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale”. Abusi e negligenza non possono essere considerati fenomeni “reali” perché sono “costruzioni sociali”: Pfohl la scoperta dell’abuso sui bambini come devianza “non è attribuibile ad alcuna escalation dell’abuso stesso ma alla struttura organizzativa della professione medica” (in questo saggio evidenzia il ruolo dei radiologi in quanto imprenditori morali nella costruzione sociale del child abuse). Radiologi: la loro professione li metteva nella condizione di non avere rapporti diretti coi genitori, che rese più facile ipotizzare la responsabilità delle lezioni fisiche ai genitori; la scoperta dell’abuso offrì loro la possibilità di ottenere un certo prestigio nell’ambito della professione medica; diede loro l’opportunità di una coalizione di interessi con altri segmenti più prestigiosi della medicina organizzata come pediatri, psichiatri. L’impresa morale dei radiologi fu sostenuta dai media che fecero proliferare l’idea che tale comportamento deviante rappresentasse un problema sociale, mentre coloro che rischiavano di essere etichettati come abusanti, appartenenti ai gruppi più svantaggiati socialmente, non furono in grado di opporre resistenza all’etichetta: esistenza di un’ampia distanza sociale tra chi abusa e chi etichetta facilità non solo la probabilità di essere etichettati, ma annulla ogni resistenza organizzata all’etichetta da parte del gruppo deviante stesso. I costruttivisti sono consapevoli che il processo di costruzione della devianza è un’impresa morale non neutrale: le definizioni di abuso e negligenza sono l’espressione della visione del mondo di determinati gruppi sociali. Si deve distinguere tra condizioni sociali che riguardano un certo numero di persone, e la definizione di tali condizioni come un problema sociale. Prospettiva funzionalista (consenso): il problema sociale è un fenomeno “reale” nella misura in cui impedisce il corretto funzionamento del sistema sociale. La problematicità di fenomeni come abuso e negligenza non è socialmente costruita, ma viene a un certo punto della storia riconosciuta. Costruttivisti: il problema sociale non è un tipo di condizione, ma il prodotto di un tipo di attività, è un’impresa morale = il prodotto dell’attività di individui/gruppi finalizzata a stabilire quale sia il corretto funzionamento della società, cosa sia giusto o sbagliato. Pertanto un operatore del sociale consapevole della natura politica della devianza, della selettività e delle conseguenze della reazione sociale, sarà più propensa, rispetto a coloro che abbracciano un approccio del consenso, a utilizzare metodi di ricerca che favoriscano un atteggiamento auto-riflessivo sull’esercizio del potere sulla natura politica della devianza. La questione epistemologica e quella metodologica: come ciò che esiste o che è costruito dall’attività definitoria degli esseri umani, può essere conosciuto? Ciò che esiste si fa “catturare” oggettivamente dalle procedure del metodo? Come si può studiare ciò che è costruito dall’attività definitoria degli esseri umani? Qual è il metodo più adeguato per studiare ciò che può essere conosciuto? Complessità della problematicità della ricerca sulla devianza: i comportamenti devianti per definizione sono oggetti di biasimo, quando vengono scoperti suscitano reazione sociale. Gli autori di tali atti quindi tendono ad adottare strategie per tenerli nascosti; sono più difficili da individuare i soggetti devianti cosiddetti “nascosti”. È più semplice intervistare i devianti che invece hanno subito una reazione sociale formale (persone in trattamento presso servizi sociali e sanitari = “popolazioni cliniche” persone denunciate alle forze dell’ordine, le persone arrestate, ecc. “popolazioni registrate” dalle istituzioni deputate ad esercitare il controllo sociale). Come può essere studiato un fenomeno sociale “nascosto” come la devianza? Due strategie di ricerca: - Si chiede agli intervistati di un campione statisticamente rappresentativo di una determinata popolazione se sono mai state vittime di una serie di condotte devianti; indagando i processi di vittimizzazione; - Si chiede agli intervistati se hanno mai commesso nella loro vita una serie di condotte devianti (auto-confessare). Positivismo: la scienza è considerata un’attività empirica che si fonda sull’osservazione dei dati bruti di realtà, cioè dati che non sono il risultato di operazioni mentali del ricercatore (interpretazioni, giudizi). La scienza si fonda su un linguaggio osservativo teoricamente neutrale. Essi studiano abuso e negligenza come fossero delle realtà fattuali, operazionalizzabili e misurabili, indipendenti dall’attività interpretativa degli attori sociali. Non tutte le ricerche che adottano il paradigma positivista utilizzano la stessa definizione del fenomeno e la stessa operazionalizzazione; la mancanza di una definizione comune è uno dei limiti. In ogni studio viene però data una definizione come se fosse una realtà oggettiva e non morale. I fenomeni sociali e l’esperienza umana possono essere conosciuti adottando metodi che prevedono strumenti di misurazione reato e trascorre una parte della sua vita in carcere. Studiando invece il crimine dei colletti bianchi, ci si rende conto che i criminali non sono soltanto poveri, tossicodipendenti, stranieri irregolari, poco istruiti ecc. (anche i ricchi rubano, imbrogliano e uccidono, motivazioni economiche, i crimini dei ricchi hanno la stessa sistematicità dei reati di strada). Per osservare forme della criminalità dei ricchi occorre basare le osservazioni e i ragionamenti sulle cause del fenomeno criminale su campioni che non siano estratti da popolazioni registrate, e ridefinire il concetto di crimine perché considerando solo il concetto di criminalità predatoria, difficilmente sarà possibile riscontrare tali condotte tra i ricchi. Le forme d’abuso e negligenza associate alle condizioni di vita dei ricchi sono ignote. I dati disponibili indicano che i criminali dal colletto bianco sono più anziani di quelli che commettono reati predatori, non provengono da contesti sociali deprivati, non hanno decifit cognitivi e non sappiamo, se abbiano particolari personalità. Questi studi ci dicono soprattutto delle cose sui genitori “classificati” come devianti e sul processo attraverso cui viene esercitato dalle istituzioni controllo sociale su determinate famiglie. Uno studio etnografico sulla vita familiare di un campione di famiglie americane, stratificato per classe sociale e razza, ha evidenziato come i genitori che utilizzano anche la forza fisica come mezzo disciplinare hanno maggiori probabilità di essere considerati genitori abusanti, rispetto a coloro che usano la violenza verbale per stigmatizzare il comportamento deviante dei propri figli. L’immagine del genitore negligente e abusante è il prodotto di studi che pur rifacendosi al manto della neutralità e oggettività della scienza, sono fondati su un bias (inclinazione) di classe perché da un lato la definizione di tali fenomeni è tutt’altro che oggettiva, dall’altro tali studi sono basati quasi interamente su dati raccolti da persone che appartengono ai gruppi più esposti al controllo sociale. Seconda ragione che rende problematica la generabilità dei risultati delle ricerche sui fattori di rischio dell’abuso e negligenza, è relativa alle caratteristiche del gruppo di controllo. L’approccio positivista si pone come obiettivo quello di evidenziare i diversi fattori che sono associati all’esordio, alla persistenza e alla desistenza da una condotta pregiudizievole, attraverso delle comparazioni tra genitori negligenti con quelli che non lo sono mai stati. Se si trovano differenze si andrà a verificare se le differenze riscontrate nel gruppo dei genitori negligenti sono associate statisticamente in modo significativo con la condotta pregiudizievole. È impossibile escludere che non vi siano nel gruppo di controllo genitori negligenti o abusanti (devianti nascosti). Non si può escludere l’ipotesi che vi possono essere degli intervistati di questo gruppo che non auto-confessino la loro condotta deviante; questo condiziona la possibilità di ottenere stime affidabili degli effetti dei fattori di rischio. In conclusione, è difficilmente sostenibile che gli strumenti di valutazione standardizzati siano strumenti oggettivi finalizzati a ridurre i bias dell’attività interpretativa dell’operatore. Tali check list propongono un elenco di comportamenti che sono indicatori non tanto di un fenomeno reale, ma del fenomeno così come viene registrato dalle istituzioni; oppure sono il prodotto di teorie che studiano l’abuso e la negligenza partendo dalla descrizione astratta di un modello normativo di buona genitorialità. È sempre la teoria che indica al ricercatore cosa cercare nel gruppo dei genitori negligenti, senza una teoria che guida l’osservazione non sarebbe possibile decidere cosa osservare nell’esperimento. I fattori associati alla negligenza e all’abuso non emergono pertanto da una semplice osservazione empirica della realtà ma sono scelti sulla base della teoria che si adotta e quasi sempre osservati in particolari gruppi di genitori non rappresentativi della popolazione generale. Costruttivismo: i fenomeni sociali non possono essere studiati con i metodi delle scienze naturali. Negligenza e abuso non esistono a prescindere dall’interpretazione che ne danno gli attori sociali, e tali interpretazioni non sono condivise nella società: il problema teorico e metodologico non è quello di misurare un fenomeno con strumenti oggettivi utilizzabili per tutti i casi, ma di riflettere sulla normatività delle categorie sociali che si usano, sul senso che gli attori sociali attribuiscono ai propri comportamenti, sulle relazioni di potere tra gli attori in gioco. Il linguaggio dell’azione è connesso con i valori, e cercare di rimuoverli inventando “definizioni operative” che si suppongono “libere dai valori” significa non poter più identificare le azioni e il significato che esse hanno per gli attori sociali. Strumenti diagnostici strutturati (check list – sistema standardizzato di classificazione dei fattori di rischio) spingono l’assistente sociale ad andare a cercare quegli elementi che gli permetteranno di collocare il deviante all’interno di una categoria; in questo modo l’operatore può tralasciare informazioni che potrebbero falsificare la sua ipotesi. Non partendo dai significati che il genitore attribuisce al proprio comportamento in una determinata situazione e contesto, ma muovendo da uno specifico sistema di classificazione dei fattori di rischio, sarà attento a registrare solo quelle informazioni che possono confermare o meno la presenza di tali fattori  tendenza alla conferma è una tipica distorsione del giudizio clinico. Una volta collocato in una categoria, si applica un’etichetta diagnostica che orienterà il successivo intervento volto a modificare il comportamento dell’utente nella direzione indicata dall’operatore (potere paternalistico). Questo approccio non prende in considerazione: il senso dell’azione deviante per il suo autore; la natura “morale” delle categorie utilizzate per definire il confine tra un modello genitoriale “normale” e i modelli etichettati come devianti; la relazione tra agency e struttura sociale. Per fare questo occorre che l’assistente sociale adotti un’ottica che offra delle metodologie per contrastare gli approcci correzionali alla devianza. Per capire il senso che l’utente attribuisce alla propria condotta, l’operatore deve adottare strumenti di valutazione non standardizzati. Si tratta di utilizzare metodi di assesment che si devono fondare su premesse ontologiche diverse rispetto a quelle positiviste: il comportamento deviante è un’azione dotata di senso che deve essere compresa secondo una logica diacronica (carriera deviante) e situata (contesto); non esistono atti intrinsicamente devianti, perché la devianza è una qualità che viene conferita a certi atti dalla reazione sociale di coloro che vengono a contatto con essi; ciò che viene giudicato deviante cambia storicamente (ciò che viene considerato deviante da un gruppo può non esserlo in un altro, e può essere stigmatizzato in una determinata situazione e approvato in un’altra situazione); la reazione sociale, sia quella informale sia quella delle istituzioni di controllo sociale, è selettiva e, avendo delle conseguenze sulle persone che la subiscono, può contribuire a consolidare la carriera deviante stessa. Per valutare una determinata situazione non si possono quindi usare strumenti standardizzati ritenuti oggettivi e neutrali; i fautori dell’utilizzo di tali strumenti spesso precisano che i fattori di rischio devono essere contestualizzati, e tali strumenti devono essere integrati con metodologie qualitative. I metodi di valutazione della negligenza e abuso che si ispirano a una prospettiva costruttivista devono partire dal significato che l’utente attribuisce agli eventi e focalizzare la propria attenzione sui processi di costruzione sociale della devianza in cui l’operatore sta giocando un ruolo. La tradizione di ricerca sui comportamenti devianti, che ha adottato l’approccio di “rivalutazione” della devianza, offre numerosi strumenti che possono essere utilizzati dagli assistenti sociali nella loro attività di assesment per comprendere il punto di vista di coloro che sono etichettati come devianti (tracce di interviste semi-strutturate, storie di vita, metodi etnografici, ecc.). Differenza tra l’approccio comprendente e l’approccio non comprendente nella gestione del controllo sociale l’operatore non parte da una specifica definizione del problema e non deve collocare la persona in una categoria di un sistema di classificazione dei rischi, ma tenta di ricostruire il senso che l’utente attribuisce alla sua situazione. L’interazione parte facendo riferimento alle aspettative di ruolo che l’utente pensa di non essere in grado di soddisfare, non parte quindi al contrario attribuendo una presunta etichetta deviante. Si propone il caso di una visita domiciliare in casa di una donna nigeriana da parte dell’assistente sociale; donna segnalata dalla scuola della figlia. Il problema teorico e metodologico (utilizzato per questo caso) ed etico, non è tanto relativo al fatto che le informazioni raccolte sono parziali, quanto piuttosto che il metodo adottato per raccoglierle non consente all’operatore, per una questione ontologica ed epistemologica, un’analisi autoriflessiva sul proprio potere di definizione della situazione dell’utente. Non consente di cogliere il vissuto emotivo della donna e le sue “buone ragioni” per essere visibilmente arrabbiata e turbata dalla visita domiciliare nonché dalle questioni poste dalle operatrici sulla scelta di chiudere le stanze a chiave e di avere un frigorifero in camera da letto dove dorme con la figlia. La rabbia della donna non viene interpretata all’interno di una cornice che non mette a fuoco il processo di costruzione della devianza della donna; se il comportamento deviante non viene contestualizzato si rischia di adottare spiegazioni che rimandano a caratteristiche di personalità, all’incapacità di rispettare i confini ecc.; a spiegazioni che confermano l’incapacità del soggetto a conformarsi alle aspettative di ruolo. L’approccio distaccato dell’osservatore neutrale favorisce un’attività valutativa di tipo paternalistico: la donna infatti è stata rimandata ad un momento di colloquio programmato ed è stata contenuta verbalmente. Una visita domiciliare che adotta una prospettiva comprendente, dovrebbe essere gestita con un approccio etnografico  in un certo senso è un tentativo di entrare un po' di più nel mondo fisico di un utente del proprio servizio: entro nel mondo sociale dell’utente consapevole che sto invadendo il suo spazio privato con uno specifico mandato (del controllo sociale) e che questo ruolo condizionerà la nostra interazione; devo però tentare di osservare quel mondo con i suoi occhi, comprendere il suo modo di vivere gli spazi, il suo modello normativo = nel resoconto etnografico di una visita domiciliare emergerebbe il punto di vista dell’utente. È necessario che l’operatore nell’assesment utilizzi un approccio che gli consenta di partire da una situazione di ignoranza per essere messo nelle condizioni di ascoltare la persona etichettata come deviante, senza adottare cornici interpretative fondate su rappresentazioni parziali (e classiste) del fenomeno, che lo porterebbero a tralasciare una quantità di informazioni non prese in considerazione dalla letteratura scientifica. Esperimento Rosenhan 1973  evidenzia il tipico meccanismo che caratterizza ogni processo di categorizzazione, quello della spersonalizzazione: le persone internate una volta etichettate come devianti, assumono lo status (malato mentale) collegato alla definizione della situazione e dell’identità che ne dà l’esperto, mentre le altre caratteristiche personali vengono messe in ombra anche quelle che potrebbero confutare l’ipotesi diagnostica. Nella valutazione di una situazione in cui l’assistente sociale deve verificare l’eventuale condotta pregiudizievole di un genitore, adottando una prospettiva critica al lavoro sociale, occorre adottare metodi di indagine che consentano di comprendere quello che sta succedendo all’altro senza partire da un sistema di classificazione precostituito, e di tenere sotto controllo il processo di costruzione sociale della devianza, di cui l’operatore è uno degli attori più potenti. Esempio: quando gli operatori devono valutare se un bambino rom che elemosina si trovi o meno in una condizione pregiudizievole, si devono chiedere cosa comporta quella condizione per il minore e la famiglia rom; si devono porre nella condizione di valutare sia i modelli normativi con cui i genitori rom definiscono la condizione di pregiudizio di un minore, sia i modelli normativi con cui le istituzioni definiscono le condizioni pregiudizievoli dei bambini rom. Questi strumenti utili li può fornire soltanto un approccio costruttivista della devianza. Il fatto che nelle procedure di assesment, in una logica anti – oppressiva, non bisogna utilizzare strumenti standardizzati, non significa che non si debbano tenere conto delle radici strutturali del processo attraverso cui un determinato comportamento sociale viene qualificato come deviante e i fattori sociali che rendono alcune persone incapaci di agire secondo le norme dominanti, perché non si può comprendere la vita dei singoli se non si comprende quella della società e viceversa = “si deve afferrare la relazione tra biografie individuali e storia e struttura sociale per valutare il riflesso dei fatti storici sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane”. Se non si fa questo si rischia di rappresentare il comportamento deviante di un genitore come il prodotto di una patologia individuale o di un deficit nel processo di socializzazione e tale narrazione neo-liberista oscura il modo con cui alcune strutture sociali esercitino una pressione ben definita su certi membri della società, tanto da indurli ad una condotta non conformista anziché una conformista. Valutazione, prevenzione precoce ed etichettamento: se come sostengono i fautori della teoria dell’etichettamento, il controllo sociale non contribuisce necessariamente a proteggere la società dai soggetti devianti ma può essere esso stesso un fattore che contribuisce a strutturare e rafforzare le identità e le carriere devianti, occorre considerare le conseguenze di ogni processo di valutazione sulle persone che sono oggetto della valutazione stessa. Gli interventi di prevenzione, nella misura in cui individuano soggetti potenzialmente devianti che si differenziano da soggetti “non a rischio”, possono generare quei processi di etichettamento e stigmatizzazione che sono ritenuti essere fattori di radicamento delle carriere devianti. Ci si deve chiedere, se si adotta una prospettiva costruttivista della devianza, quale potrebbe essere l’impatto considerare la compromissione dei funzionamenti sociali del soggetto come mero prodotto della malattia del cervello. La letteratura sociologica sulle carriere devianti, in particolare quella che adotta la prospettiva del corso di vita, ha invece evidenziato come tali carriere possano essere comprese meglio se si fa riferimento all’interdipendenza tra le diverse traiettorie, all’interdipendenza tra le persone, e al ruolo della storia e dei fattori sociali nel modellare le carriere. Secondo questa prospettiva teorica, le carriere devianti sono quindi socialmente costruite. Utilizzando il concetto di carriera di una prospettiva sociologica, acquisiscono rilevanza, per la comprensione del percorso di un consumatore di droghe, non solo le proprietà farmacologiche della sostanza e le caratteristiche psicologiche del soggetto, ma anche il contesto sociale in cui egli è collocato nonché il contesto in cui avviene il consumo, le modalità d’uso della sostanza, il tipo di reazione sociale sperimentata dal consumatore, il capitale sociale di cui dispone, lo status giuridico della sostanza ecc. Gli studi sui consumatori hanno dimostrato come le carriere dei consumatori siano socialmente costruite: la compromissione della “funzionalità sociale” di un soggetto non è l’esito inevitabile della sua tossicodipendenza, ma è una costruzione sociale nel senso che i problemi connessi all’uso di sostanze psicoattive, non risiedono nell’individuo ma rimandano all’interazione del soggetto con il suo ambiente di vita. Attraverso l’utilizzo di un sistema di classificazione dei sintomi come il DSM, gli operatori andranno alla ricerca di tutti quegli elementi che consentiranno di collocare il deviante all’interno di una specifica categoria diagnostica; operando così gli operatori corrono il rischio di tralasciare una quantità di informazioni che potrebbero anche falsificare la loro ipotesi diagnostica, poiché essi non partono dai significati che il consumatore attribuisce al proprio comportamento, dalla sua specifica situazione, ma partono dal sistema di classificazione dei sintomi e quindi saranno attenti a registrare soltanto informazioni che possono confermare o meno la presenza di tali sintomi. Attraverso l’utilizzo del DSM un tossicodipendente è già preceduto da un’etichetta diagnostica. Le storie. Paola: 36 anni con due figli. Donna con problemi di tossicodipendenza da età giovane, cresciuta in una famiglia con la madre tossicodipendente e padre dentro e fuori il carcere. Alla seconda gravidanza il bambino nasce in astinenza, gli viene proposta la comunità mamma bambino separando la donna dal compagno. Luisa: 41 anni e un figlio. Tolto il figlio nato in astinenza (ha scoperto di essere incinta al quinto mese). Entrata in comunità, bambino affidato al fratello; il compagno tolto la patria podestà perché non aveva impedito alla compagna di drogarsi; rimanendo solo secondo il punto di vista della donna l’uomo ha ripreso a drogarsi. Analisi delle storie: storie in cui ad entrambe le madri le istituzioni pubbliche hanno sottratto un figlio esercitando un controllo sociale = specifiche manifestazioni di potere finalizzate a regolare i comportamenti devianti. Analizzando le due storie bisogna porsi 3 interrogativi: 1) Riguarda la violazione della norma e la sua spiegazione: quali aspettative di ruolo avrebbero violato le due madri, e perché non sarebbero state in grado di adempiere in modo “adeguato” (punto di vista degli operatori) a tali aspettative di ruolo? 2) Questione di tipo ontologico, epistemologico e metodologico: rimanda al paradigma che ha orientato il processo conoscitivo attraverso cui le assistenti sociali hanno acquisito i dati per decidere come intervenire; 3) Relativa alla relazione tra i paradigmi che orientano il processo di raccolta dati e le forme attraverso cui il potere e il controllo sociale sono esercitati. La storia di Paola: primo interrogativo dal racconto della donna si può notare come la scelta della donna di allontanarsi senza autorizzazione dalla comunità sia stato l’evento che ha portato gli operatori ad allontanare il bambino = violazione delle aspettative collegate al sick role: nell’ambito di una prospettiva del consenso, il deviante deve delegare all’esperto il potere di definire ciò che è normale e ciò che è deviante; in questo caso secondo gli operatori lei avrebbe dovuto intraprendere un percorso terapeutico con il suo bambino interrompendo il legame affettivo con il compagno  non sarebbero stati in grado di affrontare il loro problema insieme? La compromissione delle loro capacità genitoriali sembrerebbe essere stata considerata l’esito quasi inevitabile della loro dipendenza da una droga? Risposta di natura ontologica: cosa è la dipendenza e come si sviluppa la carriera di un tossicodipendente? Nell’ambito della letteratura di orientamento positivista, è rilevante il paradigma “disease” = la dipendenza si configura come l’esito degli effetti della sostanza sul consumatore e della sua vulnerabilità individuale: colui che usa sostanze (es. eroina) perderà il controllo sulla propria vita poiché soggiogato dal potere farmacologico della sostanza (oltre l’effetto della sostanza sul sistema nervoso centrale, anche la vulnerabilità individuale ci sono individui più vulnerabili di altri agli effetti negativi della sostanza sul cervello). La carriera dei consumatori di droghe viene rappresentata come un susseguirsi di fasi che portano l’individuo a compromettere i propri funzionamenti sociali. Nell’ambito della prospettiva costruttivista: lo sviluppo della carriera di consumo è invece concettualizzato come costruzione sociale perché il contesto in cui il soggetto è immerso, le risorse che dispone ed è in grado di attivare, il tipo di reazione sociale sperimentata… sono fattori che influenzano lo sviluppo dei corsi di vita dei consumatori di droghe. La spiegazione della dipendenza basata sul presupposto che il consumo compulsivo sia causato da una malattia celebrale cronica, non considera che i modelli di consumo compulsivi “disfunzionali” (consumatori che compromettono progressivamente i funzionamenti sociali) sono prevalenti in specifici gruppi e contesti sociali. Se questa spiegazione biomedica della dipendenza fosse corretta, ci dovremmo attendere una distribuzione uniforme dei modelli di consumo disfunzionali tra i diversi gruppi sociali; ma questa prevalenza è invece un “fatto sociale”  Acker = la concentrazione di tossicodipendenti tra individui svantaggiati e marginali deve essere vista come un riflesso delle forze che mantengono certi gruppi di popolazione poveri, disoccupati, e scarsamente istruiti, sono queste le condizioni non il potere di una droga che spiegano questi modelli. Vi è l’esistenza di una consistente letteratura sociologica che evidenzia come la maggior parte dei consumatori regolari di droghe illegali non compromette i propri funzionamenti sociali, gli operatori non vedono mai questo tipo di consumatori. Il processo decisionale degli operatori è plausibile sia stato orientato da un paradigma del “disease” = perché il consumo di droghe è considerato un fattore di rischio che può rendere l’abuso o la negligenza molto probabile; il potere della sostanza sarebbe stato così forte da compromettere anche l’esito del percorso terapeutico di coppia quindi avrebbero avrebbe esposto a rischio di abuso il bambino. Quali metodi sono stati utilizzati per raccogliere i dati per decidere come intervenire? Non si hanno sufficienti informazioni specifiche sui metodi e strumenti adottati, ma dalle parole di Paola si può escludere che il processo valutativo sia stato guidato da una metodologia costruttivista perché è lei stessa a sottolineare come gli operatori abbiano ignorato la sua definizione della situazione (es. la donna dice che avrebbero potuto mandarla in una comunità per famiglie invece che separarla dal compagno). Al contrario è probabile che Paola abbia subito un processo di categorizzazione = cioè si sia sentita collocata in una categoria (quando la donna dice che non bisogna trattare tutti allo stesso modo, ma che si sono basati su statistiche standard). L’assistente sociale che adotta un paradigma positivista trascura un aspetto importante: le conseguenze del processo di categorizzazione sulla persona. In questo modo ogni comportamento e bisogno di Paola è stato interpretato alla luce di questa “etichetta”. Paola crede che gli operatori non abbiano preso realmente in considerazione il significato del suo comportamento deviante, i suoi progetti, la sua capacità di gestire l’esperienza con le sostanze psicoattive; per fare questo gli operatori avrebbero dovuto usare strumenti non standardizzati in grado di comprendere sia i significati attribuiti da Paola alle sue azioni, sia la natura socialmente costruita dei problemi connessi all’uso di sostanze. Usano strumenti standard e collocata in una categoria hanno visto solo la tipica madre tossica che non si è conformata alle aspettative del sick role, avrebbe danneggiato il bambino, senza poter raccogliere dati che avrebbero potuto falsificare l’ipotesi diagnostica. Adottando una logica costruttivista, basata su una prospettiva teorica del conflitto, ci si potrebbe chiedere perché gli operatori siano stati così rigidi, creando le condizioni per il “fallimento”? Ciò che si può cogliere dal racconto è che lei non si è sentita compresa e che la scelta degli operatori ha influito pesantemente sulla vita di molte persone. Ultima questione: che tipo di potere è stato esercitato su Paola? Due scenari:  Prima maternità: Paola descrive questa fase come una fase in cui lei poteva esercitare un controllo sul consumo di droghe e poteva contare sul sostegno dei nonni paterni (capitale sociale). In questa fase gli assistenti sociali sono stati percepiti come rappresentanti di un’istituzione in grado di esercitare potere attraverso il ricorso a sanzioni negative nel caso in cui la donna non avesse rispettato determinate aspettative di ruolo. Quando sono sorti problemi di coppia e lei è andata dal fratello lasciando la bimba per paura che gli operatori la portassero via; in questo caso il controllo sociale è stato efficace come forma disciplinare avendo agito nell’anima.  Seconda maternità: Paola si definisce come una persona che aveva perso il controllo sui propri funzionamenti sociali (incinta ma non smette l’uso di sostanze). Nasce il bimbo in astinenza quindi gli assistenti sociali rientrano nella sua vita, ritenendo che Paola dovesse lasciare il compagno ed entrare in comunità con il suo bambino. Punto di vista di Paola ignorato, perché gli assistenti sociali hanno agito sapendo che cosa sarebbe stato meglio per lei: il potere esercitato è quello paternalistico. Dal punto di vista di Paola il potere esercitato è stato vissuto come oppressivo e il rifiuto di accettare la definizione della situazione imposta potrebbe essere interpretato come una strategia di resistenza per gestire la minaccia alla sua autostima e come interferenza nella sua vita familiare. La cornice interpretativa degli operatori non gli ha permesso di interpretare la decisione “deviante” di andare a vedere come stava il compagno, come un atto di resistenza, ma è stata interpretata in una logica paternalistica come l’ennesima conferma della sua irresponsabilità e dell’incapacità di farsi carico in modo adeguato del suo bambino. La storia di Luisa: si analizza la storia sempre con i tre quesiti posti per la storia di Paola. Anche Luisa è una mamma che ha partorito un bambino in astinenza. Questo ha indotto gli operatori a proporre (imporre) l’entrata in comunità col bambino (se vuoi il bambino devi entrare in comunità). Per quanto riguarda la nascita del bambino in astinenza sia un evento grave su cui vi è un consenso generalizzato nella società, una prospettiva comprendente evidenzierebbe il diverso significato che le due donne hanno dato alla cosa: Paola non interrompe l’uso di droghe per sapendo di essere incinta; Luisa interrompe l’uso in gravidanza = diversa capacità di esercitare un controllo sul consumo di droghe. Luisa entra in comunità e affida il bambino al fratello, perde la potestà genitoriale dopo essere stata arrestata; non si sa cosa abbia fatto la donna ma gli assistenti sociali hanno ritenuto che non fosse in grado di esercitare un ruolo genitoriale adeguato. Luisa non voleva entrare in comunità perché riteneva di essere in grado di gestire il proprio ruolo col marito e con la rete familiare e seguiti dal serd; inoltre riteneva di essere in grado di esercitare un controllo sul consumo: quando era rimasta incinta lavorava, aveva il marito, una vita normale, amici che non usavano sostanze, stava bene. Bisogna quindi chiedersi: in una prospettiva comprendente e anti oppressiva, quali sono le ragioni che hanno indotto gli operatori e la neuropsichiatra infantile a ritenere che Luisa non sarebbe stata in grado di essere una madre adeguata se le avessero concesso di andare a casa e seguita dagli operatori del Serd; che il bambino non poteva essere affidato al padre o ai nonni; che i nonni non fossero in grado di prendersi cura del nipote. La risposta è di natura ontologica: cosa è la dipendenza e come si sviluppa la carriera del tossicodipendente? Da entrambe i racconti è probabile che il processo decisionale degli operatori sociali sia orientato dal paradigma del disease: se il consumo di droghe è considerato un fattore di rischio che può rendere l’abuso o la negligenza molto probabile perché i genitori tossicodipendenti non sono in grado di esercitare un controllo sulla sostanza, la priorità dell’intervento diventa la tutela del minore. Questo paradigma è compatibile col modello di intervento verso i minori e famiglie, che viene definito “child protection” = lo scopo è proteggere i bambini dai danni che potrebbero subire nelle loro famiglie. Adottando questa logica gli operatori tendono a focalizzare l’attenzione sulla valutazione dei rischi che bambini i bambini potrebbero correre nelle loro famiglie, diversamente dall’approccio del “child welfare” che colloca la protezione del minore nell’ambito di una prospettiva d’intervento finalizzata a promuovere il benessere del bambino nel suo complesso (tutelare un bambino è anche farlo rimanere con la propria mamma). L’operatore adottando il paradigma del disease non è in grado celato = quando si dà per scontato che l’utente condivida il progetto. È oscurato anche quando l’assistente sociale non riflette sugli effetti che esso può provocare sulle persone che lo subiscono. Il controllo sociale si può svelare e gestire in una logica trasformativa e anti – oppressiva. Questa gestione del controllo sociale richiede di adottare un approccio autoriflessivo sul proprio potere di definizione dei limiti e dei bisogni degli utenti e sulle conseguenze del controllo sulle persone. Soltanto un approccio critico al lavoro sociale può consentire di svelare il potere esercitato nella pratica professionale. La scelta del tipo di paradigma che dovrebbe guidare l’attività valutativa degli assistenti sociali, dipenderà dalla particolare idea di giustizia sociale a cui si fa riferimento per orientare il proprio intervento. L’idea di giustizia sociale di una teoria critica del lavoro sociale dovrebbe, spingere gli operatori a focalizzare l’attenzione sulla natura strutturale dei problemi sociali e individuali e a mettere in discussione quelle pratiche professionali che, fondandosi sull’individuazione dei problemi sociali, contribuiscono ad alimentare la rappresentazione della povertà come condizione di cui è responsabile il povero, oscurando la relazione tra modi di produzione e bisogni. L’azione dell’assistente sociale è situata = il professionista opera all’interno di un contesto organizzativo caratterizzato da risorse limitate, da forme di governance che tentano di controllare e limitare la discrezionalità degli operatori, promuovendo l’adozione di procedure standardizzate che sembrerebbero più orientate a gestire i budget piuttosto che affrontare i bisogni dei clienti. Inoltre siccome le politiche sociali sono sotto finanziate, l’accesso alle risorse pubbliche è sempre meno regolato dal diritto di cittadinanza e sempre più dal “merito” (disponibilità del singolo a sottostare ad un progetto professionale, di formazione, a stare nei limiti). Riflettendo sulla questione della praticabilità di una prospettiva teorico critica del lavoro sociale, si cita il saggio del sociologo della devianza Cohen 1975. Egli ritiene che la prospettiva interazionista dell’etichettamento abbia delle premesse teoriche “abbastanza semplici” che implicano il riconoscimento del diritto dei devianti a presentare la loro definizione della situazione, una umanizzazione del loro supposto processo tramite cui sono divenuti devianti e una sensibilità agli effetti indesiderabili e stigmatizzanti dell’intervento degli agenti di controllo. Propone questa prospettiva come un paradigma per il lavoro sociale. Se è in dubbio che l’azione di un operatore è vincolata da condizioni organizzative, politiche, e strutturali, è altrettanto vero che ogni assistente sociale che voglia abbracciare una logica anti – oppressiva può orientare l’assessment sulla base del paradigma costruttivista. Il paradigma positivista e il paradigma costruttivista: i due paradigmi orientano in modo diverso il processo valutativo nell’ambito del lavoro sociale, condizionando in questo modo le forme attraverso cui il controllo sociale viene esercitato, indirizzandolo verso forme paternalistiche anziché trasformative. Paradigma positivista: i fenomeni sociali esistono indipendentemente dall’attività interpretativa degli attori sociali quindi possono essere osservati empiricamente e misurati da un ricercatore neutrale. La rappresentazione della devianza come fenomeno sociale reale osservabile da un ricercatore neutrale, si fonda su due assunzioni: si assume che vi sia un consenso tra gli studiosi sulle definizioni del comportamento deviante, e che vi sia un sistema normativo e valoriale condiviso, tra i membri adeguatamente socializzati di una società, sui confini tra ciò che si può e ciò che non si può fare. Queste assunzioni rendono possibile la costruzione e l’uso di strumenti standardizzati per studiare la devianza, rappresentati come oggettivi, e neutrali, perché l’operatore non mette in discussione la natura della devianza. Due implicazioni nel trattamento dei devianti: gli interventi devono essere basati sulle evidenze empiriche prodotte da pratiche di ricerca rappresentate come oggettive/ neutrali, e devono avere lo scopo di correggere il deviante facendo in modo che modifichi il proprio comportamento conformandosi al modello normativo condiviso dai membri non devianti della società. Costruttivisti: il mondo sociale è costruito da realtà socialmente costruite che devono essere investigate attraverso l’interpretazione. Il ricercatore è considerato come uno degli attori nella situazione oggetto di analisi. Non si può studiare la devianza ignorando il processo attraverso cui determinati comportamenti vengono etichettati come devianti; ne deriva che il problema teorico e metodologico non è quello di misurare un fenomeno con strumenti oggettivi, ma di riflettere sulla normatività delle categorie sociali che si usano, sul senso che gli attori sociali attribuiscono ai propri comportamenti, sulle relazioni di potere tra gli attori in gioco. Un approccio costruttivista da una parte rivaluta il deviante, dall’altro politicizza la devianza. Attraverso questo approccio l’operatore è in grado di cogliere il punto di vista degli utenti, e cogliere la loro definizione della situazione; è in grado di cogliere il senso situato delle sue azioni. Un approccio positivista consente di raccogliere solo una serie di segni di una probabile devianza. Andando a caccia di segni di abuso (de Montigny) non si coglie la definizione della situazione delle persone e la relazione tra agency e struttura sociale: in questo modo la collezione dei segni della vita quotidiana degli utenti diventa semplicemente la base per legittimare l’intervento degli operatori nella vita delle persone. L’approccio costruttivista politicizza la devianza: evidenziando la sua natura socialmente costruita consente di spiegare lo sviluppo di carriere devianti come esito dell’effetto reciproco dell’agency e della struttura sociale. Chi sono gli utenti seguiti dagli assistenti sociali? Cosa accomuna malati mentali, portatori d’handicap, bambini maltrattati, giovani delinquenti seguiti dai servizi sociali? La loro appartenenza alla stessa classe sociale, l’essere poveri, le loro condizioni materiali di vita. Sono pochi i dubbi che la povertà e le sue conseguenze siano fattori di rischio che espongono le persone al controllo dei servizi sociali. La letteratura scientifica ha evidenziato questa correlazione tra povertà e negligenza: la povertà condiziona la abilità di un genitore di soddisfare adeguatamente i bisogni dei propri figli. L’approccio neoliberista alle politiche sociali si fonda invece sull’idea che i poveri siano responsabili della propria condizione e che i genitori etichettati come negligenti non siano in grado di soddisfare i bisogni dei figli per problemi interiori che non hanno nessun legame con l’ambito sociale. Non tutti i genitori poveri sono etichettati come negligenti: le cause strutturali della povertà incidono in modi complessi sui funzionamenti psicologici e sociali degli individui. Quando si analizza l’impatto della povertà sulla vita di un genitore si deve considerare la relazione tra aspetti materiali, altre forme di disuguaglianza strutturale, disuguaglianza di genere, esperienze emotive. Per contrastare la narrazione neoliberista, è indispensabile adottare un approccio che consenta di afferrare la relazione tra problemi personali e diseguaglianza strutturale. Con tale approccio si potranno creare le condizioni per lo sviluppo di definizioni della situazione che promuovano negli utenti un’agency sia personale che collettiva (empowerment). (guardare schema pag. 167) Ricostruire storie: in che modo si può rendere operativo nella relazione con le persone il paradigma costruttivista? Nell’ambito della mia attività formativa, la prospettiva costruttivista sembra meno traducibile in chiave operativa rispetto a quella positivista, i cui strumenti standardizzati appaiono facilmente utilizzabili nella pratica professionale. Si ritiene che per attivare concretamente l’approccio costruttivista l’assistente sociale debba mettere in atto un processo di ricostruzione critica della propria pratica. Tale processo deve partire da una fase di decostruzione delle prospettive teoriche dominanti che caratterizzano le attuali logiche di intervento dei servizi sociali (es. medicalizzazione della devianza), con lo scopo di analizzare in che modo tali prospettive preservino relazioni di potere oppressivo nell’ambito del lavoro sociale e l’ingiustizia sociale nella vita degli utenti. Una volta che il processo di decostruzione ha messo a fuoco il tipo di controllo sociale che viene esercitato, per l’assistente sociale che vuole usare una prospettiva critica del lavoro sociale, diventa possibile identificare quegli approcci che dovrebbero essere messi in discussione per lavorare in una logica anti – oppressiva. In questa fase nominata “resistenza”, l’operatore è nelle condizioni di scegliere se rifiutare o accettare logiche di intervento oppressive (questa scelta spetta all’operatore, come scelta di responsabilità del singolo professionista). L’adozione di una prospettiva costruttivista può fornire una cornice di interpretazione per riflettere sul proprio potere di definizione dei problemi e dei bisogni degli utenti. Precedentemente si è visto come gli operatori adottino un frames per definire la situazione degli utenti e influenzarne il comportamento. Le strategie di reframing consentono al professionista di interrogarsi su una serie di questioni chiave rispetto alla gestione del potere in una direzione trasformativa. Una serie di interrogativi rispetto alla gestione del controllo sociale, orientano la pratica professionale sia sul piano della relazione con l’utente sia sul piano politico dell’azione collettiva. La risposta a tali interrogativi richiede l’adozione di metodi che permettono di ricostruire il corso di vita della persona, mettendo a fuoco sia le sue definizioni del problema sia le condizioni strutturali del problema stesso, evidenziando in che modo tali questioni di diseguaglianza sociale, di povertà, di genere ecc. non consentono alla persona di realizzare il proprio progetto di vita. La prospettiva del corso di vita: il primo assunto è che il corso di vita di una persona non consiste semplicemente in un continuo flusso di esperienze nel tempo. La vita è strutturata, nel senso che consiste in una sequenza di fasi che sono socialmente costruite e che i membri della società definiscono come differenti l’una dall’altra. Il secondo assunto, è relativo al fatto che la capacità delle persone di esercitare un certo grado di controllo sui propri corsi di vita (agency) è influenzata da una serie di fattori: - Il contesto storico e sociale: le storie delle persone devono sempre essere collocate in specifici contesti e tempi storici; quindi l’agency è influenzato sia dai contesti sociali in cui vivono, sia dai tempi storici. Anche le istituzioni hanno un ruolo nel modellare il corso di vita delle persone: da un lato le politiche pubbliche possono determinare le condizioni di vita; dall’altro il modo in cui le istituzioni affrontano i problemi di alcune persone può condizionare il corso di tali individui. Ricostruire la storia di una persona collocandola in specifici contesti sociali e tempi storici permette anche all’operatore di evidenziare al protagonista della storia che la sua condizione è condivisa da altre persone: questo consente allo stesso di constatare che egli non è responsabile della propria condizione, ma altri condividono il suo problema, e che fattori storici e sociali hanno contribuito a modella re in una certa direzione i corsi di vita di molte altre persone, ed è possibile agire collettivamente per modificare le condizioni di vita (mutamenti macro-sociali) - L’interconnessione delle diverse traiettorie: se le traiettorie del corso di vita sono connesse, è fondamentale ricostruire la carriera deviante dell’utente cogliendo le interdipendenze con altre carriere. Nelle storie delle due madri, potremmo chiederci in che modo le carriere di consumo di droghe illegali hanno influenzato e sono state influenzate dalle altre traiettorie (familiare, formativa, morale). Se adotto la prospettiva secondo cui l’uso di droghe illegali non si può controllare, ricostruirò la carriera di consumo in termini di una carriera “naturale” senza cercare le interdipendenze con le altre traiettorie, perché l’unica variabile indipendente che assumo nel mio modello di spiegazione è l’effetto della sostanza sul sistema nervoso centrale: il soggetto ha una limitata capacità di agency perché è agito dalla droga. Il focus sull’interdipendenza delle traiettorie può fornire degli occhiali con cui osservare tutto ciò che l’utente ha fatto nel corso della sua vita per affrontare, in modo a suo dire adeguato, determinati eventi biografici spiazzanti e cogliere le situazioni nelle quali è stato in grado di attuare efficaci strategie di coping (es. considerare tutto ciò che il genitore in situazione di povertà ed etichettato come negligente fa e ha fatto nel corso della sua vita per tentare di soddisfare i bisogni dei figli). Questo consente all’operatore di decostruire con l’utente la definizione istituzionale del suo problema facendo riferimento a tutte quelle situazioni in cui lui ritiene di aver avuto il controllo sul problema, situazioni che metterebbero in luce il possesso di capacità e risorse che secondo lui gli altri non vedono. Lo scopo della decostruzione del problema non è solo cambiare la definizione del problema degli utenti, ma esplorare la gamma di possibili interpretazioni di ciò che stanno vivendo in modo che possano essere ricostruite e prese in considerazione prospettive alternative nel loro miglior interesse. - L’interdipendenza tra i corsi di vita delle persone: riconoscendo questa interdipendenza, l’operatore può focalizzare la propria attenzione sulle conseguenze che produce sul corso di vita delle persone e sulla loro capacità di agency il fatto di vedersi attribuire dagli altri significativi un’identità sociale svalutante. La vita di ogni persona è intrecciata a quella di altre persone, non solo perché i cambiamenti nella vita delle persone intorno a noi possono avere un impatto sulle nostre vite, ma anche perché secondo la prospettiva dell’interazionismo simbolico, il modo in cui siamo collegati agli altri influenza chi siamo e chi diveniamo. Quando l’assistente sociale ricostruisce una storia non po' ignorare il modo in cui gli operatori siano collegati al corso di vita dell’utente. Per comprendere potere sul comportamento degli utenti. L’assistente sociale che ha scritto questa relazione non si chiede le ragioni del comportamento non collaborativo dei due genitori e non si chiede le ragioni di una motivazione “poco credibile”. Non se lo chiede perché adotta la prospettiva funzionalista del sick role secondo la quale ci si attende che il malato/utente si conformi alle prescrizioni dell’esperto, il quale sa cosa è bene per il paziente (potere correzionale e paternalistico). Il fatto che i genitori non collaborino, cioè non vivano l’educatrice come una risorsa, è uno degli indicatori della loro negligenza. Questa interpretazione cristallizzata della relazione potrà condizionare la decisione del magistrato. Se invece si adotta un approccio critico al lavoro sociale, quel comportamento potrebbe essere letto come una forma di resistenza al potere esercitato dagli assistenti sociali. Il genere, la classe sociale, il livello di istruzione, possono influenzare la capacità degli utenti di negoziare e ri-negoziare la “definizione della situazione” proposta dagli operatori. Gli utenti dei servizi sociali essendo spesso persone di basso status socio economico, difficilmente sono in grado di rinegoziare la propria definizione e far valere la propria narrazione del problema: quando la volontà dell’esperto prevale attraverso forme di coercizione e non attraverso la persuasione o manipolazione) questo tipo di utente resiste a tale imposizione non cooperando, esercitando atti di sfida o di violenza. L’utente che non collabora o che mette in atto gesti di sfida è in grado di esercitare maggior controllo sul proprio percorso assistenziale? Di per sé no, perché dipenderà dalla lettura che ne farà l’operatore: il comportamento non collaborativo dell’utente è l’ennesimo segnale che dimostra che egli non è in grado di rispettare il contratto terapeutico oppure è il degnale che evidenzia che tale contratto potrebbe non avere senso dal punto di vista dell’utente? Se si abbandona l’approccio del sick role, e si adotta la prospettiva critica e comprendente il comportamento non collaborativo dell’utente possa essere assunto dall’assistente sociale come significativo punto di partenza per una gestione del potere in una direzione trasformativa e anti – oppressiva. L’assistente sociale non deve mai dare per scontate che la collaborazione dell’utente sia indicatore di condivisione; le persone sono indotte a fare cose che spontaneamente non farebbero per non incorrere in sanzioni, o per accedere a risorse. Occorre prestare attenzione a tutti quei segnali che potrebbero essere interpretati come un preciso messaggio da parte dell’utente: gli assistenti sociali stanno esercitando un potere coercitivo nei miei confronti. Il comportamento non collaborativo può rappresentare un fatto da cui partire per ragionare con l’utente su ciò che vorrebbe, su come vorrebbe essere considerato, su come vorrebbe essere aiutato ecc.  da qui può iniziare un percorso conoscitivo finalizzato a comprendere quali significati (che devono essere esplicitati) i diversi attori sociali attribuiscono all’intervento delle istituzioni. L’esito della valutazione deve presentare la prospettiva dell’utente in modo rispettoso della sua persona: questo significa che se la persona non è ritenuta collaborativa, si deve rendere conto, nella relazione, delle sue “buone ragioni”. Becker: autore classico della sociologia costruttivista della devianza in un saggio del 1967, sostiene che non è possibile per uno studioso rimanere neutrale, perché la ricerca sociale in particolare quella sui comportamenti devianti non può essere “value free”. Secondo Becker quindi se non si può essere neutrali da che parte stiamo? Questo invito di Becker vale anche per gli assistenti sociali, che dovrebbero esercitare il potere istituzionale impegnandosi a perseguire l’autodeterminazione degli utenti e la giustizia sociale. Per quanto riguarda l’empowerment dei singoli utenti: dovrebbe consentire di esercitare un maggior controllo sulla propria vita, rendere consapevoli delle proprie risorse e metterli nelle condizioni di usarle, aiutare a superare gli ostacoli che incontrano nel soddisfacimento dei propri bisogni e realizzazione delle proprie aspirazioni, facendo in modo che possano esercitare un controllo sui servizi che usano, dovrebbe metterle nelle condizioni di affrontare le ineguaglianze strutturali che condizionano le loro vite. È quindi empowerment: l’azione collettiva di movimenti sociali per l’eguaglianza, la democrazia partecipante, la lotta alla povertà ecc.; l’azione collettiva di movimenti degli utenti per esercitare maggior controllo sui servizi sociali e sanitari che essi usano; il processo tramite cui i singoli utenti ottengono un maggior controllo sulle loro vite. Spesso si spacciano per empowerment delle strategie di coinvolgimento e partecipazione che sono caratterizzate da una logica tokenista in cui il coinvolgimento/ partecipazione, il processo attraverso cui essi potrebbero ottenere maggior controllo sulle loro vite sono apparenti e superficiali; queste strategie non mettono in discussione le narrazioni dominanti sulle cause dei problemi sociali e sulle risposte più adeguate, non rendono possibili azioni collettive finalizzate al cambiamento del sistema sociale e delle modalità di trattamento. Gli assistenti sociali sono uno dei diversi attori coinvolti nei processi di empowerment, e possono concorrere alla realizzazione di tale processo promuovendo nelle loro pratiche professionali narrazioni che conferiscano potere agli utenti favorendo la deindividualizzazione dei problemi sociali nella logica della rivalutazione del deviante: per fare ciò devono scegliere una specifica cornice ontologica, epistemologica e metodologica = quella costruttivista.
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