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Corpi, tecnologie e pratiche di cura, parte seconda, Dispense di Sociologia

Riassunto del libro Corpi, tecnologie e pratiche di cura, parte seconda

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 22/03/2022

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Scarica Corpi, tecnologie e pratiche di cura, parte seconda e più Dispense in PDF di Sociologia solo su Docsity! RIASSUNTO DE “CORPI, TECNOLOGIE E PRATICHE DI CURA” DI ROBERTO LUSARDI, PARTE SECONDA (da pag. 65 a pag. 117) 2. Gerarchie di informazioni Le tecnologie disponibili in reparto e nell’ospedale forniscono fondamentali supporti per la diagnosi e il trattamento dei pazienti ricoverati in TI, ma il personale deve sempre mediare il loro impiego con le informazioni e i significati che provengono da altre fonti, tra loro eterogenee: esame obiettivo, cioè osservazione delle manifestazioni corporee della patologia e le informazioni più attinenti alla dimensione interattiva e relazionale. Nella pratica del reparto i diversi tipi di informazione coesistono e devono essere interconnesse attraverso processi negoziali di interpretazione, come emerge dalla trascrizione di pag 66, in cui il dott. Marino e la dott.ssa Bruno stanno discutendo di un paziente con problemi polmonari. I due interlocutori adottano una diversa gerarchia di rilevanza delle informazioni (Gross, 2009) di cui dispongono globalmente, in cui viene messa in pratica una scala di rilevanza di dati. Nella discussione tra i dott. Si può notare la pluralità delle informazioni che concorrono alla definizione del trattamento del paziente e che devono venire gerarchizzate secondo priorità vincolanti: dati strumentali (i volumi di respirazione e la saturazione), osservazione visiva (“tirar su le spalle” è generalmente un segno di affaticamento respiratorio) e auscultazione del corpo (l’ascolto dei rumori respiratori fornisce indicazioni sulla presenza di problemi polmonari). 2.1 Diversi tipi di indizi nella pratica medico-infermieristica Anspach (1997) ha proposto una tassonomia delle informazioni implicate nella pratica medico- infermieristica in TI: ha suggerito che si parli di indizi tecnologici per indicare le info ottenute con tecnologie strumentali, di indizi percettivi, per indicare le info raccolte attraverso la percezione del paziente, tra cui palpazione, osservazione e indizi interattivi, per indicare le informazioni derivanti dalle interazioni comunicative tra personale e pazienti. Nell’episodio di pag 66, la valutazione del dott. Marino tiene conto soprattutto degli indizi tecnologici, ovvero i valori strumentali della saturazione e del volume. Di conseguenza, passano in secondo piano gli indizi percettivi, ovvero i segni corporei di affaticamento (il movimento di alzare le spalle durante la respirazione). La dott.ssa Bruno, al contrario, appare più attenta agli indizi percettivi che segnalano un affaticamento del paziente nonostante i dati rilevati dal display del respiratore e dal monitor indichino un quadro respiratorio entro valori definiti come standard. Gli indizi interattivi sono trascurati da entrambi, in quanto, lo stato cognitivo del paziente era compromesso. La compresenza dei diversi tipi di indizi interviene in ogni attività del reparto, anche in quelle più interventistiche, come a pag 68, in cui un medico sta inserendo un drenaggio nel polmone di un paziente per rimuovere una sacca d’aria (denominata PNX) che vi si era formata ed era stata individuata attraverso la visione della lastra al torace. La decompressione della sacca d’aria (PNX) richiede con ogni evidenza informazioni provenienti da più fonti e dirette ai diversi sensi del medico: il tatto, per l’individuazione precisa del punto in cui penetrare, la vista, per circoscrivere la zona di intervento, l’udito per ascoltare i rumori toracici. Sono gli indizi percettivi a prevalere in questa fase di attività. Il corpo, o meglio, l’interazione corpo del paziente-tecnologia, è interlocutore attivo del medico, mentre questi esegue l’operazione. Le varie fonti di informazioni a cui il medico attinge sono varie durante l’intervento. Nella prima parte, il professionista è attento al codice corporeo, agli indizi percettivi che reperisce attraverso l’osservazione e il contatto diretto col corpo. In un secondo tempo, al termine dell’operazione, l’interazione corpo-macchina diviene centrale: dopo aver perforato il polmone, occorre settare il respiratore meccanico per garantire una buona ossigenazione al paziente, in questa operazione i valori di riferimento sono la saturazione, la frequenza respiratoria, ovvero indizi tecnologici. Nelle parole di Goodwin è l’interazione corpo-macchina ad apparire centrale nell’attività dei professionisti sanitari, interazione che produce un vero e proprio cyborg, essere/artefatto composto da parti umane e tecnologiche. Durante l’intervento il medico si affida unicamente a ciò che rientra nel suo campo visivo, non cerca lo sguardo con il monitor, non ha bisogno di controllare la saturazione o altri valori, per due ragioni: innanzitutto, sa che durante la procedura, il valore della saturazione e la frequenza cardiaca possono momentaneamente alterarsi per l’invasività del trattamento, in secondo luogo, il medico ha un accesso visivo ottimale al corpo del paziente e questo gli permette di monitorare l’andamento dell’operazione. L’insorgere di un problema comporterebbe l’alterazione del ritmo respiratorio e il medico lo rileverebbe immediatamente. In questa fase, gli indizi tecnologici passano in secondo piano, per tornare centrali dopo, nella valutazione dell’esito dell’intervento. Diversa è invece l’organizzazione gerarchica delle informazioni per l’infermiera in addestramento che sta assistendo all’operazione: durante l’intervento presta molta attenzione al monitor delle funzioni vitali per seguirne i cambiamenti, tornando a fissare il paziente solo quando il medico le indica di osservare qualcosa di specifico. Stabilire di volta in volta la gerarchia delle informazioni utili, escludendo quelle che possono essere ritenute superflue, richiede un certo grado di esperienza professionale. La gerarchizzazione delle informazioni diviene particolarmente evidente quando i dati strumentali non siano coerenti con il quadro clinico. Questo richiede la verifica della correttezza del dato. Ad esempio, nel resoconto di pag 70, durante il giro visite del mattino, il primario è scettico sul valore della pressione arteriosa rilevata dal monitor e i suoi dubbi innescano un processo negoziale di interpretazione del dato originario. Nel resoconto emerge come le pratiche di interpretazione intervengano nella definizione del significato dei dati strumentali ovvero nella gerarchizzazione delle informazioni disponibili. In TI sono presenti due modi per misurare la pressione arteriosa: la misurazione manuale con lo sfigmomanometro oppure la misurazione automatizzata attraverso un catetere inserito nell’arteria femorale del paziente collegato al monitor. La differente tecnica di rilevazione comporta valori diversi. La rilevazione attraverso il catetere restituisce sempre un valore più alto. Per stabilire a quale valore affidarsi diviene indispensabile la discrezionalità del personale medico-infermieristico. Una delle prime ricerche effettuate in TI nell’ambito di quel filone di studi che si chiama col nome STS (Science of technology studies) ha indagato l’applicazione pratica dello strumento per la misurazione automatizzata della pressione arteriosa, in sostituzione dello sfigmomanometro manuale (Hartland, 1996). L’autore rileva come l’automatizzazione non abbia comportato una traduzione lineare della procedura manuale attraverso apparecchiature digitali, ma, al contrario, abbia richiesto un vero e proprio processo di trasformazione del modo di rilevare la pressione. La procedura automatizzata necessita di due passaggi aggiuntivi ed essenziali: prima della registrazione, occorre che i dati in ingresso siano selezionati e convertiti in un formato compatibile con l’apparecchiatura, dopo la rilevazione del dato è necessaria la sua presentazione in una forma integrabile nella pratica di reparto. Durante il primo passaggio, sottolinea Hartland, si ha una vera e propria riscrittura delle pratiche in uso in precedenza a seguito dell’introduzione della nuova tecnologia e non un adattamento lineare: i rumori, i battiti, auscultati durante la rilevazione manuale dal personale. Per il personale suoni e battiti percepiti talora divengono sinonimi di procedure imprecise ed esposte al rischio di pericolose interpretazioni soggettive. Questa problematica è ben illustrata nel resoconto di pag. 72, che si riferisce ad un altro giro visite del mattino, in cui il primario sta discutendo con un altro medico l’attendibilità di un parametro (pressione venosa centrale), che potrebbe essere inficiato dalla patologia di base della paziente. La procedura di misurazione della pressione venosa centrale ha una componente universalistica e oggettivante che si realizza nella standardizzazione dei materiali utilizzati per la costruzione degli artefatti. Nella fase di uso concreto, tale componente si confronta con la componente interpretativa legata al contesto locale in cui la tecnologia è inserita, ovvero una ecologia di relazioni di cui fanno parte corpi professionale. Il “poter fare” divine lo stimolo per mantenersi aggiornati, apprendere nuove procedure, studiare i manuali dei diversi strumenti. 1.2 Il coordinamento relazionale tra intensivisti e cardiochirurghi La TI aveva una relazione molto stretta con il reparto di Cardiochirurga poiché 4 posti letto erano destinati a pazienti cardiochirurgici in fase post-operatoria. Tale prossimità funzionale, spesso generava attriti e tensioni, in particolare per le differenti prospettive cliniche e le incomprensioni circa la gerarchia organizzativa. Il dott. Ferrari, uno dei medici che abitualmente segue i pazienti cardiochirurgici, nel resoconto di pag 83 descrive le difficoltà degli intensivisti nelle interazioni con i colleghi dell’altro reparto. Gli intensivisti percepiscono come un sopruso l’intervento diretto dei cardiochirurghi sul paziente anche perché la responsabilità è del medico che firma la cartella clinica e nel caso dei ricoveri in TI è necessariamente un intensivista del reparto. La modalità di coordinamento implicita nelle parole del dott. Ferrari richiama quello che gli studi antropologici hanno definito modello culturale etnocentrico. Secondo la tradizione antropologica, l’etnocentrismo consiste nella convinzione che i propri modelli di comportamento siano sempre normali, naturali, buoni, belli o importanti, e che gli stranieri si conducano secondo schemi di comportamento selvaggi, inumani, disgustosi o irrazionali. L’etnocentrismo esprime una specifica modalità di interazione tra una comunità percepita come la propria, il “noi”, e tutti i gruppi sociali e gli individui che non ne fanno parte, gli altri. 1.3 Etnocentrismo e interazioni professionali Nella pratica quotidiana del reparto, la rappresentazione etnocentrica “chiusa”, condivisa da molti medici, conduce spesso a conflitti accesi, come emerge nella trascrizione che segue, in cui, durante un briefing medico, il dott. Greco riferisce della discussione avuta con uno dei cardiochirurghi riguardo ad una paziente di 80 anni, in stato di coma, con una grave emorragia al cervello. Vedi pag 84. Il conflitto deriva dal fatto che ogni comunità professionale all’interno dell’organizzazione tende a sviluppare una rappresentazione etnocentrica dell’attività del proprio reparto, sedimentata nella cultura del gruppo e incarnata nelle routine quotidiane. Il confronto di tali prospettive, spesso divergenti, può giungere ad interazioni conflittuali tra i professionisti e i diversi reparti. Un simile antagonismo tra intensivisti e chirurghi è stato documentato anche da Cassell (2005) nella TI post- chirurgica nord-americana che ha studiato. L’antropologa attribuisce ai chirurghi uno stile paternalistico che assume i valori e l’esperienza di malattia del paziente nelle decisioni del medico, il quale ha come unico obiettivo evitare la morte del paziente, ad ogni costo, attribuisce agli intensivisti, al contrario, uno stile maternalistico che tende a mettere in primo piano la sofferenza del malato e a rapportare il livello dei trattamenti ai benefici audpicabili. 1.4 Altri autori nel coordinamento relazionale tra gruppi professionali: gli infermieri e la cartella clinca Nella pratica di reparto, al coordinamento relazionale tra il personale medico della TI e i colleghi cardiochirurghi prendevano parte spesso gli infermieri. Era frequente, infatti, che per aggirare il conflitto diretto con gli intensivisti, i cardiochirughi chiedessero agli infermieri di intervenire nella comunicazione quotidiana con i medici del loro reparto, come documentato nel resoconto a fine pag. 85. L’interazione narrata mostra il ruolo del personale infermieristico nel mediare la comunicazione tra il cardiochirurgo e l’intensivista. La mediazione degli infermieri consente di eludere il conflitto diretto tra i professionisti pur mantenendo attiva la circolazione delle informazioni e il coordinamento del trattamento terapeutico. Anche la cartella clinica svolge una importante azione di coordinamento: in assenza di comunicazioni esplicite e della definizione congiunta del piano terapeutico, sono le info riportate su questo documento a consentire al cardiochirurgo di comprendere il tipo di trattamento prescritto dagli intensivisti e l’evoluzione del paziente. Il personale infermieristico che opera sui pazienti cadiologici è consapevole del proprio ruolo nell’interazione tra cardiochirurghi e intensivisti. La tensione tra i due gruppi professionali era tangibile, in particolare tra alcuni medici: poteva succedere, ad esempio, che il medico della cardochirurgia entrasse in reparto, vedesse chi era il medico di turno e si girasse immediatamente per andarsene. La funzione di mediazione comunicativa degli infermieri è stata sottolineata anche da Tomelleri (2008) in una ricerca che ha messo in luce l’interazione con i familiari dei pazienti ricoverati nelle TI. L’infermiere molto spesso opera per adattare le informazioni fornite dai medici alle esigenze e alle aspettative dei familiari. 2. Dimensione intraorganizzativa L’attività della TI è inserita nella più ampia struttura ospedaliera, composta di reparti chirurgici, medici e di area critica, unità diagnostiche e ambulatoriali. Il funzionamento dell’intero apparato è fondato sull’infrastruttura organizzativa, ovvero burocratica-amministrativa, che consente alle diverse strutture di scambiare informazioni sui pazienti. I principali strumenti attraverso cui si articola questo apparato sono le tecnologie informatiche e comunicative (ICT), dalle più comuni, quali fax e telefono, alla complessa rete informatica che registra tutti i pazienti ricoverati nell’ospedale, associando in tempo reale i risultati di molti degli esami che vengono richiesti sugli specifici pazienti. Attraverso questa rete formalizzata si va realizzando la dimensione intraorganizzativa del coordinamento relazionale, ovvero le attività di regolazione e coordinamento, all’interno dell’Ospedale, dei rapporti tra i suoi sottoinsiemi organizzati. La realizzazione di un esame diagnostico quale una TAC o un’ecografia, ad ex, prevede che sia compilato un apposito modulo, specificando l’unità e il medico richiedente, il nome del paziente e la motivazione della richiesta, e che questo modulo sia consegnato a mano o via fax al reparto che dovrà eseguire l’esame. Nel caso di TAC o ecografie, il reparto cui è rivolta la richiesta sarà la Radiologia Diagnostica, oppure, nel caso di esami cardiologici, la Cardiologia. Ma quanto ora descritto non è che la procedura formale di riferimento per il coordinamento intraorganizzativo. 2.1 Richieste formali e pratiche di coordinamento relazionale Nella pratica del reparto accadeva molto spesso che la richiesta effettiva di un esame diagnostico avvenisse telefonicamente, mediante il contatto diretto, e non preventivamente formalizzato, tra il medico della TI, che introduceva il caso e spiegava la necessità dell’esame, e uno dei medici del reparto che avrebbe effettuato l’esame. Solo dopo il contatto telefonico, veniva inviata la richiesta formale. A pag. 89 viene fornito un esempio dello scarto che esiste tra la prassi burocratica e l’attività di coordinamento relazionale necessaria alla richiesta di un esame diagnostico. Dopo aver introdotto il caso, dettagliando l’iter della paziente attraverso il reparto di Cardiochirurgia in cui era stata operata la sospensione della valvola mitrale, il medico si concentra sul racconto dell’iter delle azioni di coordinamento relazionale che sono state necessarie per ottenere l’esame diagnostico. L’importanza del coordinamento relazionale, nel caso ora analizzato è evidente. La situazione della paziente necessita di un particolare esame per chiarire la diagnosi e procedere così alla definizione della terapia, ma la procedura formale di richiesta dell’esame ecocardiografico non ha prodotto esiti, a tre giorni di distanza. Il dott. Greco è scettico a priori circa la procedura formale di richiesta dell’esame. Così, l’intervento personale del medico, contattando direttamente la collega cardiologa, sblocca la situazione, attiva un processo comunicativo informale e riesce ad ottenere in giornata l’esame che l’iter intrapreso dal collega non aveva avviato in tre giorni. 2.2 Coordinamento relazionale e integrazione organizzativa La dimensione burocratica del coordinamento relazionale è rilevante quando è necessaria l’integrazione simultanea di duo o più reparti/servizi ospedalieri per il trattamento del malato, come ad esempio la compresenza di diverse équipe operatorie nella stessa sessione chirurgica. Ogni reparto si caratterizza per una rappresentazione etnocentrica di quella che possiamo definire la mission specifica dell’unità operativa. La pianificazione di qualsiasi attività integrata richiede la presa in carico delle specificità di ordine simbolico-culturale e comunicativo. Nel resoconto di pag. 90, una serie di figure professionali, appartenenti a diversi servizi ospedalieri stanno interagendo per organizzare il trasporto di una paziente ed emerge chiaramente l’intenso lavoro di coordinamento relazionale implicito nella realizzazione fattuale di un’attività esplicitamente regolamentata da una apposita procedura formale. Nel passaggio emerge lo scontro di responsabilità tra i diversi attori istituzionali e professionali coinvolti nella vicenda. Da un lato, l’organizzazione del servizio di pronto soccorso, incarnata nella figura del responsabile, e dall’altra, l’organizzazione interna dell’ospedale, incarnata nella figura della caposala delle sale operatorie. La tensione nasce dal fatto che la procedura formale prevederebbe che nei trasferimenti interospedalieri in urgenza fosse l’ospedale inviante a mettere a disposizione il personale per l’accompagnamento, cosa che nella vicenda descritta crea un problema organizzativo interno. Inoltre, le condizioni della paziente richiedono la presenza di un apparecchio tecnologico, il monitor portatile, di cui solo alcuni reparti, come la TI, dispongono. La situazione si sblocca nel momento in cui, dopo una lunga discussione che ha coinvolto soprattutto i due coordinatori infermieristici e i medici di turno in TI (Ricci e Ferrai), si stabilisce che, inviando l’infermiere dalla sala operatoria con conseguente scopertura dell’urgenza, nel caso di urgenze concomitanti si sarebbe attivato un ordine di intervento per cui la seconda emergenza avrebbe avuto luogo al termine di quella in corso. Il coordinamento, anche in questo caso, si realizza nella forma di una mediazione informale tra le esigenze formali, eterogenee e contrastanti, delle diverse organizzazioni coinvolte. Un fenomeno analogo si riscontra nell’allestimento di interventi chirurgici “in combinata”, in cui durante la stessa sessione operatoria intervengono équipe differenti per trattare problemi differenti. Questa procedura condensa in un unico intervento – con un solo trattamento anestetico, una sola fase postoperatoria, etc- più operazioni, ognuna delle quali richiederebbe le stesse procedure di anestesia e risveglio. I vantaggi sono di duplice natura: da un lato, per il paziente, poiché viene sottoposto ad un numero minori di trattamenti pre o postoperatori, dall’altro, per l’organizzazione, poiché si ha un impiego più efficiente delle risorse ospedaliere. L’ostacolo principale sembra risiedere nel fatto che le specifiche organizzazioni sanitarie, le categorie professionali e le comunità di pratiche tengono a rappresentare la propria attività secondo compartimenti stagni. Quel tratto culturale che abbiamo sopra definito etnocentrismo sembra pervadere molti aspetti della vita quotidiana dell’organizzazione sanitaria, e i processi di coordinamento relazionale divengono essenziali per dirimere conflitti e per trattare problematiche che spesso sono a un tempo culturali e organizzative. 5. Motivazione: potenza e futilità della medicina in Terapia intensiva Un importante aspetto di cui non vi è traccia nei resoconti EBM riguarda la componente emotiva e motivazionale che accompagna le pratiche dei professionisti della TI, spesso situate sul confine tra la vita e la morte. richiede la presenza di un religioso. La somministrazione del sacramento avviene meccanicamente, in quanto parte di un protocollo operativo che lo prevede e che riguarda i pazienti morenti nel reparto. La traiettoria di questa paziente riproduce fedelmente il processo descritto da Seymur (2001) durante la propria etnografia in TI: l’interruzione dei trattamenti di sostentamento vitale sopraggiunge nel momento in cui viene raggiunto l’allineamento dei segni corporei della morte imminente (morte corporea) con le indicazioni strumentali del rapido deterioramento delle funzionalità biologiche (morte tecnica). Il risultato di questo processo è il bilanciamento delle responsabilità della morte tra i diversi elementi coinvolti con l’intento di riprodurre un processo culturalmente ritenuto “naturale” di morte. C’è un fine vita connesso all’urgenza, l’esito infausto di un processo di rianimazione, ma possono esserci anche situazioni terminali dopo periodi di degenza in TI. Sono soprattutto anziani, con patologie cliniche di base e situazioni generali molto compromesse. Dal momento del ricovero, principalmente per crisi respiratorie o arresti cardiaci, anche la traiettoria di questi pazienti all’interno del reparto di cronicizza, a causa di legame rapporto simbiotico che sviluppano con il respiratore meccanico che li aiuta a respirare. Il prolungarsi della degenza, indotta dalla dipendenza dal respiratore, può comportare complicanze quali piaghe da decubito, infezioni o il peggioramento della patologia di base. Per il personale, questi pazienti assumono un aspetto specifico. Il corpo affondato nel letto, i muscoli atrofizzati, gli occhi semichiusi e lo sguardo assente o chiusi completamente, al mandibola che cade leggermente a lato: sono alcuni dei segni che si potevano notare sui corpi dei pazienti che venivano indicati in fine vita. Medici e infermieri avevano una chiara consapevolezza del loro destino e spesso si arrivava ad un momento in cui tale consapevolezza si tramutava nella decisione di interrompere i trattamenti di sostentamento vitale. Nella trascrizione di pag 106-107, Rocco Giovannini, un infermiere con 6 anni di esperienza in TI, descrive le condizioni del paziente che sta assistendo, un uomo di 87 anni, ricoverato tre giorni prima per una crisi respiratoria. Intubato e rianimato con farmaci vasoattivi per sostenere la circolazione sanguigna, dal momento del ricovero non ha mai ripreso conoscenza. Nel caso di questo paziente, anche l’assenza di coscienza è un indicatore importante per stabilire il limite oltre il quale non può essere lecito spingersi, con i trattamenti. Il quadro di un paziente anziano, incapace di respirare autonomamente, mantenuto in vita dai farmaci che sostengono il cuore si deteriora ulteriormente di fronte al danno cerebrale. Giovannini ha intuito la decisione che era stata presa sul paziente dalla diminuzione delle amine rispetto al giorno precedente. Mentre l’èquipe medica non condivide una posizione omogenea in merito al ricovero e al trattamento di pazienti in fine vita, il personale infermieristico ha una visione più uniforme del fine vita e dell’interruzione dei trattamenti, sebbene esista una forte discriminante in relazione all’età del paziente. Se da un lato, l’esito infausto di un processo di rianimazione di una persona giovane è vissuto negativamente ma riesce comunque ad essere visto come un evento connaturato alla situazione di grave urgenza che ha portato al ricovero, dall’altro, il decesso di pazienti di giovane o mezz’èta al termine di una degenza TI che ha comportato l’investimento di notevoli energie e risorse, viene percepito dal personale come un profondo insuccesso. L’insuccesso nel caso descritto a pag 108 è legato alla drammatica condizione della paziente, una giovane donna, con una grave forma di disabilità e una patologia molto dolorosa. In questo racconto, la morte non riesce ad essere vista come elemento liberatorio positivo. Ad incidere in modo radicale su senso di futilità è il decesso al termine di un lungo trattamento intensivo in un paziente giovane: questo sembra essere il quadro che maggiormente destabilizza il reparto e risulta più difficile da elaborare psicologicamente per il personale. Conclusioni Le trasformazioni demografiche, sociali e tecnologiche degli ultimi decenni hanno radicalmente mutato la scena della cura in cui i professionisti sanitari, da un lato e i pazienti dall’altro, si muovono. La ricerca etnografica discussa in questo volume ha investigato in modo approfondito le pratiche del personale del reparto di TI per cercare di fornire un’analisi dettagliata di come tali trasformazioni si concretizzano nella vita quotidiana dei professionisti sanitari. L’analisi delle osservazioni etnografiche ha evidenziato quattro tipologie di processi interattivi tra loro intrecciati coinvolti nella produzione quotidiana delle pratiche di cura: - Il processo di adattamento, essenziale per il raggiungimento di quella condizione di adeguatezza all’unicità e alla particolarità del contesto, o universalità locale, che ogni tecnologia richiede per poter essere efficace, - Il processo di interpretazione, che serve per includere la moltitudine eterogenea di dati che le tecnologie biomediche presenti in reparto rendono disponibili in tempo reale in set di informazioni integrate tra loro; - Il processo di coordinamento relazionale che accompagna sia i rapporti interprofessionali sia la componente relazionale associata alle procedure amministrative connesse alle pratiche di cura; - Il processo motivazionale, situato su un asse ai cui estremi si trovano, da un lato, il forte pathos delle pratiche rianimatorie e dall’altro il vissuto di forte futilità e inefficacia. Porre l’accento su queste tipologie di processi consente di formulare una definizione inedita di “pratiche di cura”,in cui le dimensioni organizzativa e burocratica non possono più essere considerate come semplici accessori. Tali aspetti divengono parte integrante delle pratiche di cura poiché queste si realizzano necessariamente in concrete organizzazioni, in specifiche configurazioni dei servizi sanitari, attraverso individui reali e unici. Lo scenario che si va così delineando appare dissimile dalle rappresentazioni delle pratiche di medici e infermieri di TI comunemente proposte dai manuali di scienze mediche e infermieristiche. La peculiarità di tale scenario consiste nel fornire uno sguardo sulle pratiche fortemente ancorato dal basso, alle azioni e interazioni concrete di chi ogni giorno vive il reparto come proprio ambiente di lavoro. I risultati dello studio possono essere sintetizzati attorno a due nuclei tematici. Il primo tema coinvolge la rappresentazione che questi reparti hanno all’esterno delle organizzazioni ospedaliere e le aspettative collettive, incarnate in speranze individuali, verso le cure intensive. La prospettiva etnografica mostra come la quotidianità della TI si fondi su una continua attività di negoziazione tra i molti elementi coinvolti a diverso titolo nelle pratiche di cura e assistenza, distante dell’ideale di potenza che spesso si incarna nell’immaginario collettivo. Il personale medico-infermieristico si trova a dover mediare la complessità degli elementi clinici, professionali, organizzativi e sociali coinvolti nelle concrete pratiche, individuando soluzioni a contraddizioni sistemiche. Il secondo tema riguarda le competenze sociali e relazionali che i professionisti del reparto utilizzano nelle loro attività quotidiane. Tali competenze, difficilmente divengono patrimonio culturale, a causa dell’assenza di riconoscimento della loro rilevanza. Una forte resistenza a ciò proviene dal paradigma EBM stesso, che, adottando una visione degli oggetti tecno scientifici come black box (LATOUR, 1987), auto evidenti e oggettivanti, vorrebbe rimuovere ogni aspetto individuale e sociale delle pratiche. 1 Soluzioni locali a contraddizioni sistemiche Dallo studio etnografico emerge chiaramente come le pratiche di cura dei professionisti sanitari siano al centro di una complessa articolazione di elementi riconducibili a tre livelli sociali distinti e interconnessi: - Livello macro: le aspettative collettive verso la medicina allopatica occidentali e verso le tecnologie biomediche, la congiuntura economica internazionale, e i cambiamenti demografici che negli ultimi decenni hanno interessato i paesi occidentali, - Livello meso: la cornice giuridica e le policy sanitarie a livello regionale e distrettuale; - Livello micro: le culture organizzative locali, le biografie personali dei professionisti sanitari e dei malati, congiuntamente alle caratteristiche delle loro reti familiari. Un esempio di tali soluzioni locali lo si può rinvenire nella compresenza in TI di due elementi contrapposti che provengono da domini sociali differenti, entrambi relativi al livello macrosociale: da un lato, le politiche sanitarie nazionali che puntano al contenimento della spesa pubblica attraverso l’accentramento dei servizi specializzati e, dall’altro, l’invecchiamento progressivo della popolazione e la cronicizzazione di patologie fino a pochi decenni fa letali, come molte neoplasie. A questo si sommano le aspettative collettive di ordine salvifico rivolte verso la scienza e le tecnologie mediche, spesso alimentate dalle istituzioni sanitarie stesse per legittimarsi e raccogliere consensi simbolici e risorse materiali. Si è visto come tale tensione si incorpora nelle pratiche di ammissione dei pazienti messe in atto per valutare l’appropriatezza o meno dei ricoveri in reparto. Se le aspettative salvifiche riposte nelle tecnologie biomediche spingono verso una crescente richiesta di ricoveri, le indicazioni internazionali circa l’ammissione dei pazienti e le risorse sanitarie locali intendono limitare la disponibilità delle cure intensive ad un numero circoscritto e ben definito di tipologie di malati. Ad essere problematizzate sono le linee guida e le indicazioni operative emanate dalle comunità scientifiche degli intensi visti, le quali mirano a circoscrivere il ricovero in TI ai pazienti in fase acuta cn ampio margine di recupero. Spostandoci a livello meso, entro i confini nazionali si è osservato come la sfera giuridica intervenga sensibilmente nelle pratiche lavorative dei sanitari e incida sulle traiettorie dei pazienti. Più a ridosso delle specifiche organizzazioni, relativamente alla dimensione micro sociale, si è osservato come la biografia personale dei professionisti e il loro universo valoriale e relazionale possano incidere sulle traiettorie di cura. Può accadere così che il credo religioso del professionista possa sovrapporsi ai criteri clinici di ammissione dei pazienti o intervenire nel processo di decision making circa l’interruzione di trattamenti si sostentamento vitale, palesando un conflitto tra la posizione personale del professionista. Seguendo la prospettiva illustrata nel volume, le pratiche di cura cessano di essere un processo lineare, legato alla volontà di un attore specifico per divenire il luogo in cui forti tensioni sociali trovano una soluzione locale concreta. 2 Competenza sociali e pratiche situate in un ambiente tecnologicamente denso Nei capitoli precedenti si è mostrato come la medicina non sia composta unicamente da tessuti, organi e apparati, da farmaci e strumenti diagnostici , ma, al contrario, le pratiche di cura risultano come un ininterrotto processo di negoziazione tra i diversi elementi che prendono parte al lavoro di cura. Tale processo implica competenze sociali che nella formazione alla professione sanitaria e nelle aspettative più spontanee dei professionisti rimangono largamente implicite. Si è visto come i processi di interpretazione rappresentano una componente fondamentale della vita del reparto e, in particolare, dell’interazione tra i professionisti e le tecnologie. Osservando la quotidianità del reparto appare evidente come le pratiche della TI siano il risultato dell’interazione ininterrotta tra attori umani ed elementi materiali con un elevato contenuto tecnologico. Se si intende analizzare come concretamente si realizzano le pratiche nel reparto, non si può prescindere dal legame tra la componente umana e quella materiale. L’inclusione delle tecnologie in un processo diagnostico-terapeutico può modificare la finalità stessa delle cure, sovrapponendo “obiettivi tecnologici” (ad esempio produrre documentazione sul percorso del malato attraverso referti strumentali) ad obiettivi di salute. Il rischio di rincorrere i dati è molto elevato, in TI, per la proliferazione delle informazioni ottenibili. In questo senso, l’expertise specifica e l’utilizzo reiterato di conoscenze acquisite nello specifico contesto sociale di utilizzo stimolano una maggiore capacità di lettura critica e di disambiguazione delle informazioni
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