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Corso di Geografia - Esame su Dentro la globalizzazione, BAUMAN, Sintesi del corso di Geografia

Appunti perfetti per superare con 30 l'esame di Geografia. Scritto e orale su Dentro la globalizzazione di Bauman.

Tipologia: Sintesi del corso

2011/2012

Caricato il 23/06/2012

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Scarica Corso di Geografia - Esame su Dentro la globalizzazione, BAUMAN e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! 1 Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone Zygmunt Bauman 1. Tempo e spazio L’ultimo quarto del nostro secolo passerà alla storia come la “Grande guerra di indipendenza dallo spazio”; una guerra durante la quale i centri decisionali, insieme alle motivazioni stesse che determinano le decisioni, gli uni e le altre ormai liberi da legami territoriali, hanno preso a distaccarsi, in forma continua ed inesorabile, dai vincoli imposti dai processi di localizzazione. Tra tutti quelli che gestiscono un’impresa, solo gli investitori non sono in alcun modo legati allo spazio: possono sia comprare che vendere, tanto la vicinanza o la lontananza non saranno presi in considerazione. Pertanto, secondo Dunlap, solo a loro appartiene l’impresa, quindi possono decidere di delocalizzare aziende per aumentare i dividendi; chi può abbandonare i luoghi può anche non preoccuparsi delle relative conseguenze: questa è la vittoria più importante nella guerra per lo spazio. La mobilità è diventata il più apprezzato fattore di stratificazione sociale, perché la mobilità acquista investitori: tutto ciò ha fatto svanire i doveri nei confronti dei dipendenti, dei giovani, dei più deboli e delle generazioni future in favore del “capitale fluttuante”, non legato ad un luogo. Il capitale può sempre imboccare la strada di trasferirsi in siti più tranquilli se lo scontro con l’alterità richiede un costoso impiego di risorse o negoziati defatiganti. Perché scontrarsi se basta disimpegnarsi? Le distanze non hanno più importanza, mentre l’idea di confine geografico è sempre più difficile da sostenere nel “mondo reale”; la distanza è un prodotto della società, la sua lunghezza varia a seconda della velocità con cui la si può superare. Con l’implosione del tempo necessario a comunicare, un tempo che si va restringendo alla “misura zero” dell’istante, lo spazio e i fattori spaziali non contano più, almeno per coloro che possono agire con la velocità dei messaggi elettronici: “vicino” è lo spazio all’interno del quale ci si può sentire a casa propria, laddove quasi mai ci si sente sperduti o senza parole; “molto lontano”, invece, è lo spazio in cui si entra assai di rado, dove accadono cose imprevedibili, dove ci sono cose sconosciute: attraversarlo vuol dire travalicare il proprio habitat, stare fuori posto. Il progresso è il risultato della produzione di massa di mezzi di trasporto che ha messo in crisi tutte quelle totalità sociali e culturali che si erano arroccate e radicate in un luogo; costante e rilevante è stata la scoperta dei mezzi di informazione che hanno consentito di viaggiare separatamente dai vettori corporei. Benedikt dice che la flessibilità sociale dipende dalla capacità di dimenticare e da comunicazione a “basso costo”, che vuol dire liberarsi in fretta di un eccesso di informazioni ricevute, perché la comunicazione a basso costo soffoca la memoria e non la nutre. Lo spazio che la tecnica progetta è artificiale, mediato da una strumentazione, non immediato, nazionale ma non locale. Con l’avvento della rete globale dell’informazione è stata imposta una terza dimensione del mondo umano, quella dello spazio virtuale o cyberspazio: ostacoli fisici o distanze temporali non potranno più separare la gente, la distanza tra “qui” e “là” non conta più nulla. Grazie alla nuova incorporeità del potere finanziario, coloro che lo detengono diventano davvero extraterritoriali anche se, con il corpo, continuano a restare “al loro posto”; il loro potere è estraneo al mondo fisico. Nel cyberspazio il corpo non conta, anche se, nella vita dei corpi, conta il cyberspazio, in modo deciso e irrevocabile. Flusty conia alcuni termini per identificare diverse tipologie di spazi: impraticabile, irraggiungibile, spinoso (che non può essere confortevolmente occupato), gli spazi che respingono (sono utilizzati cadendo sotto osservazione), spazi di interdizione (plasmano la extraterritorialità sociale della nuova élite, quest’ultima resa inaccessibile a chiunque non gli sia stato concesso). Le élite hanno scelto l’isolamento e lo pagano generosamente e volentieri; quanti non hanno scelto di stare separati si trovano a vivere passivamente questo fenomeno attuale: il territorio urbano si trasforma nel campo di battaglia di una continua guerra per lo spazio, perché i residenti di aree tagliate fuori, quando sono privati di potere e trascurati, rispondono a loro volta con azioni aggressive e il guaio è che questi tentativi non sono autorizzati e perciò vengono classificati come violazioni della legge o attentati all’ordine pubblico e non per quello che sono realmente: tentativi di rendere visibili le proprie ragioni seguendo anch’essi le nuove regole di questo gioco dello spazio che tutti gli altri stanno giocando con entusiasmo. Gli elementi che continuano a scontrarsi perennemente per la 2 conquista dello spazio, portano inevitabilmente a: nuova frammentazione dello spazio urbano, la scomparsa progressiva degli spazi comuni, il degrado delle comunità urbane, la segregazione e soprattutto l’extraterritorialità delle élites (vissuta come libertà) e la territorialità forzata delle masse (vissuta come prigionia). Gli spazi pubblici sono stati i primi a deterritorializzarsi, a sganciarsi dal territorio; le popolazioni locali sono accozzaglie di entità prive di legami reciproci. Ora, un territorio che viene privato degli spazi pubblici offre scarse possibilità perché le norme della società locale vengano discusse, i valori messi a confronto, perché ci siano scontri e negoziati. Nel processo, espropriano del loro potere etico i locali, privandoli di qualsiasi mezzo atto a limitare i danni. 2. Guerre spaziali: una cronaca. La distanza che oggi tendiamo a definire in termini oggettivi, un tempo invece era misurata dai corpi e dai rapporti umani, poiché il corpo era la misura di tutte le cose. Come ha suggerito Levy Strauss, il divieto dell’incesto, è stato il primo atto culturale, l’atto stesso costitutivo di ciò che chiamiamo cultura; da quel momento avremmo inserito nel mondo naturale divisioni e classificazioni. Il compito affrontato dallo Stato moderno non fu diverso: consisteva nel liberare le distinzioni spaziali da quelle pratiche umane che lo Stato non controllava. Questo significò a tutte le altre, le pratiche amministrative centralizzate dello Stato. Negli stati premoderni, per ottenere il controllo legislativo e per regolare le forme di interazione sociale, lo stato doveva garantirsi la trasparenza dell’ambiente in cui i vari attori sociali erano costretti a muoversi. L’obiettivo della moderna guerra per lo spazio era quello di subordinare lo spazio sociale a una mappa ufficialmente approvata dallo stato. Da questa guerra sarebbe dovuto emergere uno spazio strutturato dal potere dello stato secondo parametri di perfetta leggibilità. L’invenzione della prospettiva pittorica fu una vera svolta nella percezione dello spazio: l’occhio di chi guardava era il punto di origine di qualsiasi prospettiva e rimaneva l’unico punto di riferimento. Ma fu subito evidente che, non occupando tutti lo stesso punto, e quindi non contemplando il mondo tutti dalla stessa posizione, probabilmente non tutte le visuali avrebbero avuto lo stesso valore. Crozier ci ricorda che: la posizione dominante appartiene a quelle unità che rendono la propria situazione oscura e le proprie azioni impenetrabili agli estranei. La manipolazione dell’incertezza è l’essenza nella lotta per avere il potere, soprattutto attraverso la sua forma più radicale, la moderna organizzazione burocratica: gli ospiti sono sempre visibili, laddove invisibili del tutto e sempre sono i supervisori. I supervisori e i controllati sono sempre nello stesso spazi, ma si trovano in situazioni diametralmente opposte: il primo gruppo non ha limiti e ostacoli alla propria visuale; il secondo si trova ad agire su un terreno oscuro e opaco. Il primo compito strategico della moderna guerra per lo spazio fu quello di disegnare lo spazio su mappe che l’amministrazione statale potesse leggere e interpretare facilmente, privando i locali dei mezzi di orientamento di cui avevano piena padronanza, e perciò confondendoli. Le regole urbanistiche cui gli autori rivolgevano un’attenzione instancabile vertevano sugli stessi principi fondamentali: primo, la rigida e dettagliata pianificazione ex ante dello spazio urbano; secondo, la regolarità degli elementi spaziali che circondano gli uffici amministrativi dislocati al centro della città. I dettagli di qualsiasi città da creare dal nulla comportavano la distruzione della città preesistente: il pensiero utopistico era un ponte verso la futura perfezione ordinata, ovvero ordine perfetto. La città perfetta offre uno spazio perfettamente ordinato e liberato da qualsiasi fattore di casualità, privo di qualsiasi elemento che faccia pensare al disordine, a fatti accidentali o ambivalenti (Sevariade – Bazko). Il monopolio, perciò, si ottiene più facilmente se la mappa precede il territorio che essa descrive: la città deve essere una proiezione della mappa sullo spazio. Le Corbusier nel 1933 pubblica La ville radieuse in cui descrive i principi della città moderna: radere al suolo le città ereditate dal passato per costruire nuove città, pianificate in anticipo in ogni dettaglio secondo le regole dell’armonia estetica e della logica impersonale della divisione delle funzioni, perché le funzioni hanno la priorità rispetto allo spazio; l’obiettivo era: ogni funzione richiede uno spazio proprio, mentre ogni spazio deve servire a una e ad una sola funzione. La ville radieuse è rimasto un esercizio cartaceo a cui un architetto urbanista, Oscar Neymeier, ha cercato di 5 consumatori: tutti noi siamo condannati a una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere. La misura che definisce quelli in alto e quelli in basso in una società di consumatori discende dal loro grado di mobilità, cioè dalla libertà di scegliere dove collocarsi. Ci sono due differenze tra quelli in alto e quelli in basso: la prima è che i primi possono lasciare indietro i secondi, ma non viceversa; la seconda, quelli in alto sono convinti di viaggiare attraverso la vita di loro volontà e di scegliere le varie destinazioni in base alle soddisfazioni che offrono, quelli in basso, invece, spesso vengono buttati fuori da dove vorrebbero stare. Un’altra differenza è che: i primi viaggiano quando vogliono e dal viaggio traggono piacere, i secondi viaggiano da clandestini, spesso illegalmente, li si guarda con disprezzo e, se la fortuna non li assiste, vengono arrestati e immediatamente deportati al primo arrivo. La nuova flessibilità ha offerto occasioni meravigliose a economisti e giornalisti e maggior sfruttamento ai lavoratori. Anche il viaggiare per i turisti è un desiderio, ma non tutti si muovono perché preferiscono il moto alla stasi: sono in movimento perché sono stati spinti e non considerano il proprio stato una manifestazione di libertà , piuttosto vagabondi alla deriva. I vagabondi sono i rifiuti del mondo che si è dedicato ai servizi turistici. La globalizzazione soddisfa i sogni e i desideri del turista, ma ha anche un effetto collaterale: trasformare molti altri in vagabondi. Il vagabondo è l’alter ego del turista e in questa prospettiva “il ricco diventa oggetto di universale ammirazione”, perché si adora la ricchezza stessa. Il povero deve vivere nello stesso mondo concepito per i ricchi, e la crescita dell’economia può aggravare la sua povertà, allo stesso modo in cui può farlo la recessione e la non crescita: il potenziale di consumo dei vagabondi è limitato quanto le loro risorse e questo difetto rende precaria la loro posizione sociale. La vita dei turisti non sarebbe affatto gradevole se non ci fossero i vagabondi a mostrare l’alternativa a quella vita, la sola alternativa che la società dei viaggiatori rende realistica. Il fenomeno di ibridazione culturale tipico dei globali può essere un’esperienza creativa, emancipatrice, ma di rado lo è la cancellazione dell’identità culturale dei locali: paradossalmente, questa realtà postmoderna del mondo deregolamentato-privatizzato-consumistico trova solo un riflesso pallido e molto distorto nella narrativa postmodernista. L’era delle compressioni spazio- temporali, del trasferimento senza limiti di informazioni e delle comunicazioni istantanee è anche l’era delle interruzioni quasi completa delle comunicazioni tra le élites colte e il populus. 5. Legge globale, ordini locali. Cosa vuol dire lavoro flessibile? Significa che gli investitori possono non considerarlo come una variabile economica, certi che saranno i propri comportamenti, e solo quelli, a determinarne la condotta. L’idea di flessibilità richiede una ridistribuzione del potere, ma allo stesso tempo contiene in sé l’intenzione di espropriare della capacità di resistenza coloro la cui rigidità sta per essere sopraffatta. Per la “domanda”, flessibilità vuol dire libertà di muoversi dovunque si vedano pascoli più verdi; per l’ “offerta”, il lavoro viene e va, viene spezzettato o sottratto senza preavviso mentre le regole del gioco per le assunzioni cambiano senza preavviso. Per rispondere, quindi, agli standard di flessibilità imposti da quanti fanno e disfanno le regole, la condizione di coloro che offrono lavoro deve essere quanto più rigida e inflessibile possibile, cioè tutt’altro che flessibile: va limitata al massimo la libertà di scegliere, di accettare o rifiutare e, a maggior ragione, quella di imporre regole del gioco proprie. Mobilità e assenza di mobilità sono i due poli contrapposti: il vertice della nuova gerarchia è una condizione di extraterritorialità, dove i livelli inferiori sono vincolati allo spazio. Incarcerare un uomo è la forma estrema e più radicale per limitare il suo spazio: segregare qualcuno nello spazio e confinarlo con la forza è stato un modo viscerale di reagire alla diversità, in particolare a quelle diversità che non si potevano o non si volevano accogliere all’interno dei rapporti sociali. E così, dice Christie, dobbiamo aspettarci che la nostra società tenda ad attribuire caratteri criminosi ad un numero sempre maggiore d’ individui; l’altro viene gettato e tenuto a distanza e gli viene impedito l’accesso a qualsiasi comunicazione. La prigione di Pelican Bay, a Los Angeles, è interamente automatica e perciò i reclusi non hanno alcun contatto con le guardie e gli altri reclusi: questo progetto sembra una versione avanzata del Panopticon, un controllo totale mediante la sorveglianza assoluta. Ma le case di correzione hanno mai riabilitato moralmente e 6 socialmente i reclusi? La risposta è sempre stata molto dubbia e la questione rimane tutt’oggi irrisolta. Secondo Clemmer, la prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, è l’ostacolo maggiore per la strada del reinserimento. In queste condizioni, la restrizione fisica non è né una scuola di avviamento al lavoro né un metodo di ripiego imposto con la forza. Oggi si tende a smantellare l’abitudine ad un lavoro permanente, continuo e regolare, distribuito su orari lunghi: il lavoro può diventare veramente flessibile solo se i lavoratori perdono le abitudini apprese nel lungo addestramento quotidiano al lavoro, il posto fisso e la continuità di rapporti tra i colleghi, solo se si astengono dallo sviluppare capacità professionali inerenti al lavoro attuale e rinunciano ad alimentare morbose fantasie sui diritti e le responsabilità di un lavoro inteso come proprio. In altre parole, sono richieste nuove condizioni che favoriscono abitudini e atteggiamenti del tutto opposti a quelli che l’etica del lavoro preconizzava, a quelli che dovevano promuovere le istituzioni tipo Panopticon inventate per far rispettare quell’etica. Si è osservato che la crescente carcerazione non è fenomeno circoscritto ad un gruppo ristretto di paesi ma si va estendendo quasi a tutti gli altri stati: l’unica preoccupazione palesata dalle parti è di convincere l’elettorato che sarà più decisa e spietata degli avversari nel perseguire la carcerazione dei criminali. In un mondo ancora più insicuro e incerto, siamo fortemente tentati di ritirarci in quella condizione di sicurezza che offre il rifugiarci stesso nella territorialità, e così difendere il territorio diviene la parola d’ordine che campeggia su tutte le porte intorno alla ricerca di una condizione di sicurezza. L’effetto complessivo è che la paura cresce di continuo e le condizioni di sicurezza per la propria persona si levano al di sopra di tutte le altre paure; costruire nuove prigioni, scrivere nuove norme che moltiplicano il numero delle infrazioni da punire con la prigione e fanno aumentare la popolarità dei governi, servono a dimostrare che sono duri, pieni di risorse. La spettacolarità delle operazioni punitive conta più della loro efficacia: tutto ciò dirotta l’attenzione del pubblico sui pericoli dell’attività criminosa e dei criminali, impedendogli invece di riflettere sulle ragioni per cui si continui a sentici insicuri, persi e spaventati come prima. Quando ci si preoccupa prima di tutto a livello locale dell’ambiente sicuro, si fa esattamente ciò che le forze del mercato, ormai globali e quindi extraterritoriali, vogliono che i governi si limitino a fare. Fare della reclusione la strategia centrale nella lotta per la sicurezza dei cittadini vuol dire affrontare la questione con una lingua d’estrema attualità. L’immobilità forzata, l’essere legati ad un luogo e il non potersi trasferire altrove, sembra uno stato abominevole: il divieto di muoversi simbolizza la forma estrema di impotenza, di perdita di facoltà, di pena. Prigione, tuttavia, non vuol dire immobilità, ma anche esclusione. Derubare intere nazioni delle loro risorse si chiama “promozione della libertà commerciale”; privare intere famiglie e comunità dei loro mezzi di sostentamento si chiama taglio dell’occupazione, se non razionalizzazione. Nessuno dei due tipi di azione è mai stato elencato tra i comportamenti criminosi o comunque punibili. I reati al vertice è difficile definirli, ma lo è altrettanto scoprirli, giacché li si perpetra all’interno di circoli chiusi di persone unite da reciproche complicità. Solo in rari casi, ed estremi, i reati economici arrivano in tribunale e si parano alla vista del pubblico. Truffatori ed evasori fiscali hanno l’occasione di raggiungere accordi transattivi in misura ben superiore di quanto accada a rapinatori o borseggiatori: inoltre, per i reati commessi al vertice, la vigilanza del pubblico è nella migliore delle ipotesi discontinua e sporadica, nella peggiore inesistente. La globalità delle élites vuol dire mobilità, che significa capacità di sfuggire, di evadere. Ci sono sempre luoghi in cui i guardiani locali dell’ordine sono disposti a guardare dall’altra parte nel caso di uno scontro. L’intero processo poliziesco-giudiziario che culmina nel carcere è un rituale di rifiuto simbolico e di esclusione fisica, nonché di umiliazione. Il processo di rifiuto-esclusione praticato mediante il sistema carcerario fa parte integrante della produzione sociale del crimine. Il rifiuto stesso genera gli sforzi per circoscrivere le località, così come si faceva per i campi di concentramento, e respingere chi ti respinge innesca il tentativo di trasformare le località in fortezze. Questo intreccio assicura che la frammentazione ed il disadattamento procedano di pari passo con la globalizzazione al vertice.
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