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Corso di psicologia dello sviluppo, A.E. Berti, A.S. Bombi, Quarta edizione, Sintesi del corso di Psicologia dello Sviluppo

Riassunto dettagliato del libro Corso di psicologia dello sviluppo

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 31/07/2020

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Scarica Corso di psicologia dello sviluppo, A.E. Berti, A.S. Bombi, Quarta edizione e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia dello Sviluppo solo su Docsity! Corso di psicologia dello sviluppo Introduzione Gli psicologi hanno cercato di individuare delle tappe nello sviluppo attraverso: 1. Quadri normativi: insieme di abilità, comportamenti, disposizioni che si ritrovano in una certa età (Gessel). 2. Individuazione di stadi: teorizzando delle discontinuità evolutive. Stadi e fasi costituiscono uno strumento importante perché permettono di comparare lo sviluppo del singolo bambino con uno standard. Ordinare lo sviluppo in stadi permette inoltre di inquadrare e dare senso a comportamenti che altrimenti risultano poco comprensibili e permette di prevederne altri che di solito si associano ad un determinato comportamento. Inoltre è avvenuto un dibattito sulla continuità o discontinuità dello sviluppo. Le tappe che vengono studiate sono quattro: - Infanzia (da 0 a 2 anni circa); - Prima fanciullezza (da 2 a 6 anni); - Media fanciullezza (da 6 a 11 anni); - Preadolescenza e adolescenza (dagli 11 anni in poi). Il dibattito su continuità\discontinuità si incontra con quello di universalità del processo di sviluppo. Alcuni come Piaget, sostengono che il cambiamento sia un percorso universalmente valido; altri come Vigotskji sostengono che ci possono essere diversi sviluppi in relazione alle situazioni socio-culturali; altri ancora sostengono che i diversi sviluppi si determinano per effetto di modellamenti (comportamentismo). Dibattito sul carattere olistico (unitario) o pluralistico dello sviluppo. Alcuni cercano di individuare uno sviluppo unitario tenendo presente le cose che i bambini sanno fare ad una certa età in ambiti diversi. Ma questo modo di approcciare è difficile. Così si accetta oggi l’idea che esistano processi mentali specifici per dominio, relativi quindi all’uno o all’altro ambito di conoscenza. Questi processi si affiancano ad abilità generali per il dominio e lo studioso deve individuare come queste abilità concorrano a rendere possibili conoscenze e comportamenti in ambiti diversi. Inoltre bisogna prendere in considerazione la distinzione tra fenomeni descritti e le loro cause. Molti associano all’idea universale dello sviluppo, quella che i cambiamenti derivino da una base maturativa (maturazionisti), da una maturazione fisiologica. Differentemente i comportamentisti sostengono che lo sviluppo ha un carattere continuo e può dipendere dalle diverse esperienze individuali. Ma i cambiamenti di tipo continuo non possono essere ricondotti solo ad una maturazione fisiologica o all’opportunità di compiere certe esperienze, sono piuttosto il frutto di interazioni tra ambiente e individuo. Natura e cultura si intrecciano così in modo inestricabile nello sviluppo umano. I cambiamenti derivano da fattori biologici o da norme sociali e possono essere considerati come influenze normative secondo l’età. Altre influenze sono normative storicamente: accomunano le persone che hanno condiviso un’esperienza particolare in un dato momento storico. Anche in questo caso il meccanismo causale può avere una componente biologica o essere socialmente determinato. Ci sono però anche influenze non normative che possono alterare lo sviluppo individuale (lesioni cerebrali, divorzio dei genitori). 1 Parte prima: la prima infanzia (0-2 anni). Prima degli anni ’60, si pensava che le più basilari capacità cognitive fossero assenti alla nascita e venissero gradualmente costruite nel corso dello sviluppo. Poi si scoprì che il neonato è competente e che le capacità di apprendimento e memoria sono in azione prima della nascita. Capitolo primo Lo sviluppo percettivo e motorio 1.Dal concepimento alla nascita. 1.1 Sviluppo prenatale. La formazione dell’organismo comincia con il concepimento. Lo sviluppo prenatale si divide in tre periodi: -Germinale (o dello zigote); - Embrionale; - Fetale. Il periodo germinale inizia con la fecondazione e termina due settimane dopo. All’inizio c’è una piccola massa di cellule (blastocisti), che si forma con la duplicazione dello zigote e si impianta nelle pareti dell’utero. La prima duplicazione avviene tra 24 e 36 ore dalla fecondazione. Se le cellule si separano, si sviluppano due individui: gemelli identici o monozigotici. Quando invece due spermatozoi fecondano due ovuli distinti si hanno i gemelli fraterni o dizigotici. Le successive duplicazioni avvengono rapidamente e nel giro di quattro giorni lo zigote è diventato una blastocisti, nella quale sono distinguibili due parti: 1- disco embrionico: da cui si forma l’embrione. 2- trofoblasto: sfera cava da cui si formano i tessuti predisposti alla protezione e al nutrimento. Si forma poi la placenta che collega la circolazione sanguigna dell’embrione, poi del feto, con quella della madre. Con l’annidamento delle blastocisti dentro l’utero termina il periodo germinale. Il periodo embrionale si ha dalla seconda all’ottava settimana di gestazione. In questo periodo avviene la differenziazione dei tessuti, formazione di organi, delineazione della struttura del corpo. Successivamente all’annidamento, si differenziano tre strati di cellule: Ectoderma: futuro sistema nervoso, pelle, capelli, unghie; Endoderma: sistema digestivo e respiratorio; Mesoderma: muscoli, scheletro, sistema circolatorio. Prima si sviluppano gli organi essenziali (cervello, cuore, apparato digestivo, scheletro e i muscoli), poi arti e dita, poi i dettagli. Alla fine del secondo mese il corpo del futuro bambino ha una forma umana e il cuore e il sistema nervoso sono già in funzione. Questo è il periodo in cui si possono originare maggiori difetti congeniti sia per anomalie genetiche, sia per cause esterne. Il periodo fetale invece inizia con il terzo mese di gravidanza. Ora l’organismo deve crescere e perfezionarsi. Iniziano a formarsi gli organi sessuali; le gonadi inizialmente sono uguali nel maschio e nella femmina. Nel maschio, quasi subito, uno o più geni del cromosoma Y provocano la trasformazione delle gonadi in testicoli. Nel quarto mese il corpo, che prima era raggomitolato, si distende e la madre inizia a percepire i movimenti del feto. Nel sesto mese il feto supera il limite minimo di sopravvivenza in caso di nascita prematura. Infine negli ultimi tre mesi, crescono le probabilità di sopravvivenza; L’attività durante la vita fetale, come dimostrano diversi studi, è molto importante per lo sviluppo successivo. 1.2 Lo sviluppo del cervello e del sistema nervoso Lo sviluppo del sistema nervoso inizia nel periodo embrionale. Nella terza settimana l’ectoderma si piega dando origine al tubo neurale, da cui si sviluppano cervello e midollo spinale. Una delle estremità del tubo si ingrossa, formando cervello e occhi rudimentali. Poi inizia la produzione di nuove cellule, i neuroni, e la 2 Quella inattiva costituisce la fase in cui il neonato o l’infante è maggiormente in grado di apprendere e di porsi in rapporto con gli altri; attiva in cui il bambino esercita le sue abilità motorie e recepisce maggiori stimolazioni ambientali. 4. Il neonato competente Il periodo neonatale e i primi anni di vita sono il momento migliore per verificare l’esistenza o meno di abilità innate e per esaminare i primi processi di apprendimento. Grazie alle innovazioni metodologiche i sostenitori dell' approccio innatista hanno potuto portare notevoli prove a sostegno delle proprie tesi, ribaltando, negli ultimi decenni, la visione del neonato. Dall'immagine di un essere inetto e passivo, in attesa di essere plasmato dagli agenti socializzatori, oppure di un organismo attivo e ricco di potenzialità generali ma non ancora dotato di competenze specifiche, disegnato da Piaget, si è passati a quella di un neonato dotato di un ricco repertorio di capacità specializzate, grazie alle quali può interagire in modo differenziato con i vari aspetti dell’ambiente. Si tratta di capacità percettive che consentono di esplorare l’ambiente e di organizzare le informazioni ottenute; di modalità primitive di azione; di capacità di apprendimento. Più di recente queste capacità sono state collegate con la presenza, già nei neonati, di bisogni psicologici, cioè bisogni distinti da quelli fisici. Ai bisogni psicologici si collegano delle predisposizioni (preferenze per certi stimoli) e delle emozioni, provate in seguito alla loro soddisfazione o mancata soddisfazione. Di recente Carol Dweck, una psicologa dello sviluppo, ha proposto una sintesi e rielaborazione delle teorie precedenti riguardanti la catalogazione di bisogni psicologici basilari o fondamentali (cioè non riconducibili ad altri bisogni). A differenza di quanto fatto in passato la psicologa per condurre i propri studi analizza i bisogni basilari già alla nascita o nei primi mesi di vita e sottolinea l'importanza della loro soddisfazione per il benessere a breve e a lungo termine dei bambini. Dweck ha identificato tre bisogni psicologici basilari. 1. Accettazione: consiste nel bisogno di partecipare a un’interazione sociale dalla quale ricevere sostegno. la sua presenza è attestata già nei neonati da loro interesse per gli stimoli provenienti dalle altre persone; 2. Prevedibilità: bisogno di capire le tra oggetti ed eventi, di farti delle rappresentazioni attendibili del funzionamento del mondo fisico e sociale (è un bisogno di tipo cognitivo); la sua presenza negli infanti è attestata dall'interesse con cui essi osservano, ascoltano, esplorano gli oggetti che popolano il loro ambiente; 3. Competenza: riguarda l'acquisizione di abilità per agire con efficacia. A partire da questi bisogni, già nei primi anni di vita se ne formano altri quattro: fiducia, controllo, autostima/status e coesione del Sé. 5. Le capacità comportamentali dei neonati Alla nascita il neonato ha un repertorio di schemi comportamentali attraverso cui si interagisce con l’ambiente: riflessi, azioni congenitamente organizzate, stereotipie ritmiche. I riflessi sono reazioni automatiche e stereotipate a particolari stimoli. Uno di questi è il rooting (già osservato e studiato nel feto: a una leggera stimolazione della guancia, l’infante volge la testa verso la fonte di stimolazione e apre la bocca). Alcuni sono permanenti (riflesso pupillare, sbadiglio), altri scompaiono dopo i primi mesi di vita e vengono chiamati riflessi neonatali. Questi non funzionano in mono del tutto meccanico. Ad esempio il rooting non si manifesta facilmente se il bambino è sazio. I riflessi neonatali sono importanti per la psicologia perché la loro presenza alla nascita e la loro successiva scomparsa, indicano un normale sviluppo neurologico. Inoltre alcuni costituiscono il fondamento per lo sviluppo di schemi di comportamento volontario. Azioni congenitamente organizzate: a differenza dei riflessi, esse sono spontanee, non vengono sollecitate da stimoli identificabili e variano con il variare delle condizioni ambientali. Così i bambini non solo reagiscono all’ambiente, ma prendono anche iniziativa verso di esso: piangere, succhiare, guardare. Stereotipie ritmiche: sequenze ripetute di movimento eseguite senza ragione apparente, con cui gli infanti tengono in esercizio muscoli, tendini e nervi. (es. strofinare i piedi, scuotere la testa). Tali attività verranno poi integrate in movimenti volontari. La loro permanenza oltre l’infanzia è indice di qualche patologia dello sviluppo. Alcuni riflessi neonatali: 1. Prensione: l’infante afferra qualsisia cosa venga premuta contro il palmo della sua mano. (preparazione 5 della prensione volontaria) 2. Marcia automatica: se sorretto verticalmente mentre i piedi toccano una superficie, l’infante muove le gambe facendo dei passi (preparazione alla deambulazione volontaria) 3. Nuoto: se immerso nell’acqua, l’infante trattiene il respiro e nuota muovendo gambe e braccia (aiuta a non affogare se l’infante cade in acqua). 6. Le capacità di apprendimento dei neonati L’apprendimento è un cambiamento nel comportamento o nelle strutture mentali per effetto dell’esperienza (acquisizione di nuove risposte e modificazione di quelle già esistenti). Diversi studi hanno dimostrato che i neonati sono già capaci di semplici forme di apprendimento. Tipi di apprendimento: - Condizionamento classico: i neonati sono sensibili a forme di condizionamento, solo se la nuova associazione ha valore adattivo, e soprattutto de è legata alla nutrizione (si può associare un determinato tipo di stimolo alla conseguente nutrizione e così instaurare l’idea di stimolo e conseguenza allo stimolo). Le reazioni difensive, invece, sono difficili da far apprendere ai neonati poiché dipendono dalla protezione parentale; Quado l’autonomia dell’infante si accresce diviene possibile indurre comportamenti di fuga o paura. - Condizionamento operante: consente di consolidare comportamenti spontanei (es. succhiare in maniera più vigorosa se la suzione è rinforzata in modo chiaro e pronto). Anche il riflesso del rooting può costituire la base per un apprendimento tramite condizionamento operante: alcuni studiosi sono riusciti a far aumentare la frequenza di questa risposta in neonati di appena mezz’ora di vita dando loro un po’ d’acqua zuccherata ogni volta che si voltavano dopo la stimolazione di una guancia. Quando l’infante cresce, altri comportamenti emergono e si sostituiscono ai riflessi, così si può condizionare una gamma più ampia di azioni. Il modo diverso in cui i neonati reagiscono al condizionamento può essere considerato come indicazione della natura attiva del bambino che infatti recepisce gli stimoli ambientali (dapprima secondo le sue disposizioni innate e poi in accordo con i vari livelli di sviluppo); - Abituazione: indica il graduale attenuarsi dell’intensità, durata e frequenza di una risposta fisiologica (es: aumento del battito cardiaco) o comportamentale (es: volgere il capo verso uno stimolo acustico) alla ripetuta presentazione di uno stimolo. Così le informazioni sullo stimolo vengono immagazzinate in memoria e l’infante distoglie per questo l’attenzione da esso. Il processo opposto è la disabituazione (interesse verso uno stimolo nuovo, diverso da quello a cui si è abituato, che permette di distinguere due stimoli). Questi due processi sono legati con le abilità cognitive del bambino; - Imitazione: si intende la riproduzione (movimenti, atteggiamenti o più complessi aspetti) di un modello. Ad esempio è tramite imitazione delle parole udite che i bambini acquisiscono il vocabolario della lingua materna. Diversi teorici hanno ritenuto l’imitazione come un meccanismo centrale per lo sviluppo mentale e per l’interazione con gli altri. Forme meno esplicite di imitazione contribuiscono all'acquisizione di comportamenti appropriati al sesso dei bambini e alla cultura del loro ambiente e permangono per tutta la vita, senza che ce ne accorgiamo, in molti dei nostri comportamenti. In effetti diversi teorici hanno ritenuto che l'imitazione costituisse un meccanismo centrale sia nello sviluppo mentale sia nell'interazione sociale punto le divergenze riguardano il momento in cui l’imitazione comincia ad operare. Secondo Piaget l’imitazione è assente alla nascita e si sviluppa gradualmente; secondo Moore e Meltzoff è presente alla nascita, scompare nelle settimane successive, per poi riapparire in forme più complesse. L’imitazione di un movimento richiede la traduzione di informazioni visive in programmi motori e, alcuni decenni fa, si riteneva che questo potesse accadere solo attraverso l'esperienza è l'associazione tra aree sensoriali e motorie del cervello. Tuttavia negli anni 90 un gruppo di neuroscienziati dell'università di Parma ha gettato una luce nuova sull'imitazione: esistono in diverse aree del cervello dei neuroni che codificano specifici comportamenti motori e che vengono attivati non solo quando lì si esegue o si sta per farlo, ma anche quando si osserva qualcuno che esegue questi comportamenti punto questi neuroni sono stati chiamati neuroni specchio. Secondo alcuni i movimenti osservati nei bambini sono semplicemente riflessi; secondo altri invece i movimenti derivano da sforzi per imitare ciò che hanno visto e sono dunque intenzionali. 7. Metodi per lo studio della percezione degli infanti Chi studia la percezione negli adulti o in bambini abbastanza grandi si basa sulle loro capacità di comprendere e produrre espressioni linguistiche di agire volontariamente. Entrambe queste capacità sono 6 assenti nei neonati e scarsamente presenti nel primo anno di vita. I primi studiosi si sono basati su metodi verbali esaminando solo l'età in cui ciò era possibile. Oltre a rendere impossibile lo studio dai bambini più piccoli, questo metodo fu ritenuto inadatto è poco attendibile. Alla fine dell'800 James Mark Baldwin suggeriva un metodo diverso, basato sull'osservazione dei movimenti. Quelli più facilmente osservabili negli infanti sono i movimenti delle mani. Ma Baldwin ha suggerito che ti potrebbero studiare gli infanti ancora più piccoli valutando un altro tipo di movimento: il dilatarsi o restringersi della pupilla. 7.1 Tecniche comportamentali e fisiologiche Vi sono: - Tecniche psicofisiologiche: consistono nella registrazione dell’attività elettrica del sistema nervoso centrale, oppure della risposta del sistema nervoso autonomo (es. cambiamenti nella frequenza cardiaca, del respiro, della suzione); - Tecniche comportamentali: registrazione di comportamenti (es. osservare più o meno a lungo, ruotare la testa, muovere gli occhi); Una tecnica comportamentale è ad esempio il precipizio visivo, ideato da Gibson e Walk 1960). Il precipizio visivo consiste nel porre i bambini sopra un tavolo per metà coperto con un telo e per l’altra metà trasparente. Sotto la parte trasparente, per terra, è posto un telo uguale a quello presente sul tavolo. Si nota che i bambini gattonando si fermano fino al punto in cui percepiscono il “precipizio”, rifiutandosi di continuare. Questa tecnica però può essere usata solo con bambini abbastanza grandi da saper gattonare. sostituendo il blocco della locomozione con altre misure, fisiologiche (il cambiamento della frequenza cardiaca) e comportamentali (movimenti degli occhi), alcuni autori l'hanno adattata a infanti tra i 2 e i 4 mesi. 7.2 Tipi di tecniche comportamentali 1. Registrazione dei movimenti oculari: questa tecnica, registrando i movimenti degli occhi, serve per rilevare se e come il bambino esplora uno stimolo; 2. Preferenza: consiste nel confrontare il tempo complessivo dedicato all'osservazione degli stimoli presentati ripetutamente in coppia (alternando la loro disposizione a destra e a sinistra). Questa tecnica è anche alla base di una procedura per misurare l'acuità visiva degli infanti, cioè la finezza con cui distinguono i dettagli (agli adulti l'acuità viene misurata, dall'ottico o dall'oculista, facendo leggere lettere dell'alfabeto di diversa dimensione). 3. Risposta condizionata: la capacità di apprendere mediante il condizionamento operante è stata sfruttata soprattutto per studiare la percezione uditiva; all’infante viene fatto sentire un suono e, se gira il capo nella sua direzione, gli viene somministrato un rinforzo positivo. Se il condizionamento ha successo vuol dire che l'infante ha percepito il suono. 4. Abituazione e disabituazione: viene presentato il suono A, quando il bambino si abitua al suono, viene presentato il suono B. Se l’infante manifesta attenzione verso questo nuovo suono, significa che B è percepito come diverso da A; altrimenti se non c’è attenzione questa differenza non viene percepita. 8. Le capacità percettive dei neonati e alla nascita Le tecniche sopra descritte hanno messo in luce la presenza di notevoli capacità percettive negli infanti e nei neonati, ribaltando una visione diffusa fin dall'origine della psicologia. Notevoli capacità sensoriali sono presenti anche durante il periodo fetale. le prime a comparire (8 sett) sono quelle tattili, che il feto manifesta girando la testa se viene toccato sulle labbra o su una guancia. Tra le 24 e le 28 settimane sentono, seppur attutiti, suoni provenienti dall'esterno al punto da preferire, già dopo poco la nascita, la voce della madre. Ciò chi cambia con la nascita è che al Piccolo Mondo dell’utero ne subentra uno enormemente più vasto e ricco di stimoli. Alla nascita: Udito: sensibilità acustica inferiore agli adulti; generale capacità discriminativa dei suoni e di localizzazione; Gusto: cambiano espressione in base a sapori dolci (che preferiscono), salati, aspri, amari; Olfatto: cambiano espressione in base agli odori, evitano quelli penetranti; Tatto: sensibilità tattile precoce ed elevata; 7 La teoria di Jean Piaget. Piaget è uno dei più importanti psicologi del 900. Oltre alle funzioni cognitive Piaget ha preso in considerazione emozioni, valori e sentimenti. Per diversi anni la teoria di Piaget ha goduto di un primato incontrastato e molte delle teorie successive si sono rifatte alla sua. È una teoria stadiale e universale, secondo cui la maturazione è il motore dello sviluppo. La conoscenza, secondo Piaget, non deriva da una passiva ricezione di stimoli, ma dall’azione. Le azioni sono motorie (movimenti del corpo; ad esempio quelli coinvolti nella manipolazione e nell’esplorazione degli oggetti) e mentali (riproduzione di eventi o oggetti con il pensiero). Fino a 18 mesi sono solo motorie, poi diventano mentali. Anche se questi cambiamenti sono continui, è possibile identificare quattro stadi distinti: 1. Stadio sensomotorio (0-24 mesi): i bambini non sono ancora capaci di evocare mentalmente oggetti ed eventi, e le loro interazioni con l’ambiente si limitano a percezioni e azioni motorie guidate da schemi sensomotori; (= piani d’azione che collegano percezioni e movimenti). Schemi d’azione all’inizio molto elementari, poi si complicano complessivamente. 2. Stadio preoperatorio (2-7 anni): attraverso l’interiorizzazione delle azioni si formano schemi mentali che consentono di rappresentare mentalmente oggetti ed eventi (infatti in questo periodo compare il linguaggio); tuttavia il pensiero dei bambini e la loro capacità di cooperare con gli altri ha dei limiti, derivanti dall’egocentrismo intellettuale (incapacità di differenziare il proprio punto di vista da quello degli altri) 3. Stadio operatorio concreto (7-11 anni): molti limiti dello stadio precedente superati grazie alla coordinazione degli schemi mentali in strutture d’insieme. Nell’interazione con i coetanei i bambini sanno cooperare in giochi che richiedono il rispetto di diverse regole. Risoluzione problemi concreti e non quelli verbali; 4. Stadio operatorio formale (dopo gli 11-12 anni): risoluzione di problemi anche verbali e astratti (es: algebra). Ogni stadio si costituisce sulle basi di quello precedente. Secondo Piaget è il soggetto che costituisce le sue conoscenze e alla base dei progressi cognitivi ci sono gli invarianti funzionali, ossia funzioni che caratterizzano la vita stessa essendo presenti in tutti gli esseri viventi. Essi sono organizzazione e adattamento. - L’organizzazione riguarda la relazione tra un organismo e le sue parti, e si concretizza nella tendenza a formare totalità costituite da un numero crescente di parti differenti e interconnesse. - L’adattamento riguarda la relazione tra organismo e ambiente e si divide in: Assimilazione: azione dell’organismo sull’ambiente e consiste nell’incorporare qualcosa materialmente (come avviene quando si mangia) o cognitivamente (come considerare l’oggetto come appartenente ad una classe). Accomodamento: azione con cui l’ambiente costringe l’organismo a modificare le azioni ad esso indirizzate (es: cambiare modo di masticare in base alla consistenza del cibo che si sta mangiando). Affinché ci sia adattamento, assimilazione e accomodamento devono essere in equilibrio e nessuno deve dominare sull’altro. Con le nozioni di assimilazione e accomodamento Piaget fornisce una visione dei bambini come attivi costruttori delle proprie conoscenze: gli invarianti funzionali spingono a una spontanea e continua ricerca di informazioni. Molto importante nello sviluppo cognitivo è l’interazione sociale, il suo contributo consiste nel costringere i bambini a confrontarsi con desideri e credenze diversi dai propri e quindi a prendere coscienza delle differenze tra il loro punto di vista e quello degli altri, uscendo così dall’egocentrismo intellettuale. Questo confronto avviene più facilmente tra pari. 1. Il periodo sensomotorio secondo Piaget Durante i primi 18 mesi i bambini interagiscono con il mondo solo grazie a percezioni e azioni, poiché non sono ancora in grado di evocare oggetti o eventi. Riescono solo ad utilizzare schemi riflessi, ovvero coordinazioni neuromuscolari innate che si modificano man mano che vengono esercitate (a differenza di altri riflessi che rimangono o scompaiono nei primi mesi di vita). Fino a 4 mesi i bambini non differenziano tra sé e mondo esterno e non considerano le proprie percezioni attraverso le categorie di oggetto, tempo, causa e spazio (che secondo Piaget non sono innate ma si costruiscono gradualmente proprio nel periodo sensomotorio grazie alla coordinazione delle azioni e al conseguente collegamento delle percezioni). 10 La nozione di oggetto consiste essenzialmente nella tacita credenza che le nostre percezioni siano originate da entità fuori di noi, dotate di esistenza propria, che si muovono in uno spazio in cui anche noi siamo inseriti e danno origine a percezioni diverse (tattili, visive, uditive) a seconda dell'organo di senso coinvolto. Secondo Piaget, nel neonato tutto ciò non avviene. Fino ai 4 mesi non differenzia affatto tra te e la realtà esterna e non considera le proprie percezioni come indici dell'esistenza di cose nel mondo circostante. Dalla vista, dall’udito, dal tatto ecc. l’infante recepisce dei quadri percettivi, ciascuno relativo a una diversa modalità sensoriale, inizialmente privi di connessioni con gli altri quadri e con qualcosa al di fuori di essi, ma impregnati di sensazioni soggettive. L’infante di pochi mesi considera l'immagine che osserva come l'estensione, se non il prodotto, del suo sforzo di vedere. Questo stato Piaget lo definisce egocentrismo assoluto o integrale. Man mano che gli schemi si coordinano si instaura anche un collegamento tra i quadri percettivi offerti da ognuno di essi. Coordinando schemi visivi, tattili, uditivi ecc. i bambini giungono Insomma gradualmente a riconoscere tutti gli oggetti come cose a sé stanti, indipendenti dalle proprie azioni e percezioni. Si supera l’egocentrismo assoluto e si passa alla fase di costruzione della realtà, che consiste nel riconoscimento dell’esistenza di oggetti stabili al di fuori di noi insieme alla consapevolezza di sé come centro di attività e percezioni, e come corpo che esiste nello spazio e che interagisce con gli oggetti. Invece di recepire i rapporti di cause e effetto (categorie fondamentali che si devono ancora formare) gli infanti avvertono un senso di efficacia, cioè che i loro sforzi producono ciò che osservano, la quale si fonda sul fenomenismo, cioè l’impressione che se due eventi sono contigui nel tempo, uno causi l’altro. La costruzione di categorie termina nel VI stadio del periodo sensomotorio, dove gli infanti hanno il senso della propria soggettività e possiedono la permanenza dell’oggetto, cioè la nozione di una realtà esterna fatta di oggetti che esistono anche quando non vengono visti e che si trovano, insieme al soggetto, collocai nello stesso spazio. Efficacia e fenomenismo si distaccano e differenziano dando origine a due concetti: a. Casualità psicologica: deriva dall’efficacia e spiega le azioni umane sulla base delle volizioni e dei pensieri che inducono a compierle; b. Causalità fisica (o meccanica): deriva dal fenomenismo e spiega come gli oggetti inanimati interagiscono comunicandosi il movimento attraverso il contatto. Alla base di queste trasformazioni vi sono gli invarianti funzionali (accomodamento e assimilazione prima sono indifferenziati, poi si coordinano tra di loro). Durante il periodo sensomotorio gli invarianti possono entrare in azione attraverso la reazione circolare, ossia ripetizione di azioni casuali che hanno portato a conseguenze piacevoli e grazie alla quale si consolidano gli schemi. Piaget distingue 3 tipi di reazioni circolari: 1°. Primarie: compaiono nel II sottostadio e consistono nella ripetizione di movimenti incentrati su sé stessi; 2°. Secondarie: compaiono nel III sottostadio e sono volte alla produzione di risultati che riguardano l’ambiente; 3°. Terziarie: compaiono nel V sottostadio e si caratterizzano per l’introduzione di variazioni di azioni ripetute così da poterne osservare l’effetto sugli oggetti. 2. Gli stadi del periodo sensomotorio secondo Piaget ✓ I stadio (0-1 mesi): esercizio dei riflessi. Gli infanti si limitano a esercitare separatamente gli schemi riflessi. Non esiste ancora la coordinazione intermodale. L'esercizio degli schemi riflessi produce in questo sottostadio solo dei lievi cambiamenti. Ad esempio, la soluzione coinvolge movimenti diversi a seconda che l'oggetto assimilato sia un capezzolo o un biberon. Gli schemi destinati ad ulteriore sviluppo sono prensione, visione, fonazione, audizione e suzione. Gli infanti non sono in grado di coordinare né questi schemi, né le percezioni fornite dagli organi di senso. ✓ II stadio (1-4 mesi): primi adattamenti acquisiti. Consolidamento degli schemi riflessi e acquisizione di nuovi grazie alle reazioni circolari primarie; Ad esempio, mentre sta smettendo di piangere, rimane colpito da uno dei suoni che sta producendo e cerca di ripeterlo. L’infante cerca anche di seguire con lo sguardo gli oggetti luminosi in movimento e di fissare con attenzione quelli immobili. Questo esercizio dello sguardo costituisce una reazione circolare primaria perché i bambini non sono interessati ai quadri visivi in quanto tali, ma all'attività di guardare. in questo 11 stadio inizia anche la coordinazione di vari schemi gli uni con gli altri (es: l’infante gira il capo per guardare nella direzione da cui proviene un suono coordinando visione e audizione); infine l'infante arriva gradualmente a coordinare la visione e la prensione (es: guardare le proprie mani mentre si muovono) ✓ III stadio (4-8 mesi): reazioni circolari secondarie I progressi ottenuti del II stadio aprono le porte alle reazioni circolari secondarie, dando così origine a schemi secondari (es: l’infante può notare il suono prodotto agitando un sonaglio e ripetere i movimenti per risentire il suono). In questo modo l’infante può conoscere meglio gli oggetti. L’infante non comprende però i nessi causali; ciò lo induce a ripetere le azioni che in certi casi hanno avuto successo, anche quando di fatto non sono appropriate. Ad esempio, quando il bambino vede che interrompi un'azione che gli suscita interesse, esegue uno dopo l'altro tutti gli schemi secondari del suo repertorio per farti continuare. Anche se inefficaci, questi comportamenti indicano che gli schemi secondari stanno acquisendo una proprietà che diventerà sempre più accentuata è importante negli stadi successivi: la mobilità, cioè la possibilità di essere usati anche in situazioni diverse da quelle in cui si erano originariamente formati e di combinarsi con altri schemi. ✓ IV stadio (8-12 mesi): coordinazione degli schemi secondari e applicazione a situazioni nuove Grazie alla crescente mobilità, gli schemi secondari si possono combinare tra loro dando origine a delle sequenze in cui uno costituisce il fine e l’altro il mezzo (es: per prendere un giocattolo che si trova vicino ai suoi piedi ma lontano dalle mani, linfante lo avvicina con un piede fino a che non riesce ad afferrarlo). Secondo Piaget è solo a questo stadio che il comportamento del bambino può essere definito intenzionale, poiché lo scopo è chiaramente distinto dal mezzo. Ed E in questo stadio che i comportamenti degli infanti rivelano che le categorie di spazio, tempo, oggetto, causa cominciano a costituirsi. Spazio: i bambini si divertono a nascondere un oggetto dietro o sotto un altro per poi ritrovarlo; è in questo modo, secondo Piaget, che i bambini acquisiscono la costanza della dimensione e della forma di cui invece le ricerche più recenti rivelano la presenza già nei neonati. Oggetto: Piaget ha studiato le reazioni dei figli alla scomparsa di un giocattolo che essi stavano usando Ho osservando. nei primi tre sotto stati ciò non suscita alcuna ricerca, come se l'oggetto non più visibile avesse cessato di esistere. Nel IV stadio i bambini iniziano a cercare un oggetto quando qualcuno l'ha nascosto sotto i loro occhi, ma la comprensione della permanenza dell'oggetto è tuttavia ancora limitata. Infatti se si torna a nascondere l'oggetto in un altro posto, eseguendo questo spostamento davanti agli occhi delle Infante, questi continua a cercarlo dove lo aveva trovato la prima volta, compiendo un errore che nella letteratura è stato chiamato errore “A non B”. Secondo Piaget, questo tipo di comportamento indica che per gli infanti del IV stadio l'oggetto non è del tutto permanente, è ancora in parte vincolato al contesto. ✓ V stadio (12-18 mesi): scoperta di mezzi nuovi tramite sperimentazione attiva Nel IV stadio una sequenza mezzo-fine viene costruita solo quando l’azione che funge da mezzo è già presente nel repertorio dell’infante. In questo stadio, invece, i bambini si impegnano attivamente nella ricerca di nuovi mezzi per ottenere gli effetti desiderati (es. attraverso vari tentativi, scoprono che un oggetto può essere avvicinato in vari modi ad esempio tirando il supporto sopra il quale esso si trova). Anche quando non hanno di fronte un problema i bambini cercano di scoprire nuovi aspetti delle azioni e degli oggetti mediante le reazioni circolari terziarie, che nascono appunto in questo stadio (es. fanno continuamente cadere per terra le cose più svariate modificando ogni volta il movimento del polso o la posizione del braccio, in modo da osservare come cambia la traiettoria della caduta). In questo modo i bambini comprendono le relazioni spaziali e causali: scoprono i diversi effetti delle loro azioni e l’esistenza di cause indipendenti dalle loro azioni. Si ha una causalità obiettiva ed esteriorizzata. In questo stadio si differenziano anche la causalità psicologica e quella fisica: i bambini non considerano più le persone come oggetti, ma interagiscono con loro comunicando i loro desideri. Inoltre c’è la completa permanenza dell’oggetto e quindi non commettono più l’errore “A non B”: cercano l’oggetto direttamente nel secondo nascondiglio, a patto che sia giunto lì attraverso degli spostamenti visibili. Di conseguenza non sono ancora in grado di rappresentare mentalmente gli spostamenti che non possono vedere. ✓ VI stadio (18-24 mesi): scoperta dei mezzi nuovi mediante sperimentazione mentale In questo stadio vi è un approccio del tutto nuovo alla risoluzione dei problemi: di fronte a problemi nuovi i bambini trovano subito o quasi la soluzione, magari dopo un primo errore, ma senza mettere in atto i vari tentativi tipici dello stadio precedente (ad esempio scoprono come far entrare un bastone attraverso le 12 5. Lo sviluppo cognitivo secondo l’approccio dell’elaborazione dell’informazione (HIP) Le ricerche successive a Piaget ridimensionano il ruolo dell'attività motoria nello sviluppo cognitivo perché considerano le prestazioni dei bambini come il frutto di abilità e conoscenze specifiche per dominio, anziché di abilità generali. La focalizzazione su abilità specifiche caratterizza anche le ricerche più direttamente riconducibili all’approccio dell'elaborazione dell'informazione fondato sull'analogia tra computer e mente. A concetti generali e spesso vagamente definiti (come assimilazione e accomodamento di Piaget) vengono preferiti modelli precisi e diversificati dei processi. Nell’ambito della prima infanzia, questo approccio ha ispirato ricerche su diversi aspetti: attenzione, a memoria, categorizzazione, soluzione dei problemi. HIP (Human information processing): L'espressione Human Information Processing (HIP) significa elaborazione delle informazioni nell'uomo. La caratteristica principale di questo approccio (nato degli anni 60) è quella di considerare il computer e il modo in cui elabora i dati come un modello per studiare i processi cognitivi nell'uomo e dunque anche nel bambino. Molti studiosi paragonano i processi cognitivi a un'elaborazione di dati ottenuti sul momento dagli organi di senso, o recuperati dalla memoria, che avviene seguendo le istruzioni di diversi programmi. La spiegazione di una certa prestazione cognitiva (es: risolvere un problema) consiste perciò nell'individuazione del programma seguito nel realizzarla. L’approccio HIP ha anche richiamato l'attenzione sui diversi magazzini di memoria che conservano le informazioni per diversi lassi di tempo (molto brevi o molto lunghi). Riguardo a quest’ultimi, viene formulato il modello Atkinson e Shiffrin nel 1968: Risposta in entrata I riquadri rappresentano i vari magazzini entro cui le informazioni transitano per brevi periodi (registro sensoriale e MBT) o vengono conservate per sempre (MLT). Le frecce indicano i percorsi compiuti dalle informazioni. I programmi elencati sotto servono alla raccolta, alla processazione e all’immagazzinamento delle informazioni. Questi programmi si trovano nella Memoria a lungo termine (MLT) e per poter essere utilizzati vengono posti nella Memoria a breve termine (MBT). Per poter essere utilizzati questi programmi devono essere attivati. In alcuni casi ciò avviene ponendoli nel MBT. I registri sensoriali sono associati ad organi di senso e conservano un’immagine corretta dello stimolo per pochissimo tempo. Il magazzino a breve termine conserva le informazioni per una breve durata (10 secondi) dopodiché scompaiono. Ha due funzioni: - Stazione di transito per le informazioni provenienti dall’ambiente, prima che si trasformino in informazioni permanenti nella MLT; - Contiene informazioni, ricavate dalla MLT, che devono interagire con quelle provenienti dall’ambiente per poter risolvere problemi. Funziona quindi come una memoria di servizio o di lavoro. 15 MAGAZZINO A LUNGO TERMINE (Banca di memoria non soggetta a decadimento Generatore di risposta Buffer di reiterazione MAGAZZINO A BREVE TERMINE (Banca di memoria soggetta a rapido decadimento) REGISTRO SENSORIALE Processi di controllo  Programmi analizzatori dello stimolo  Modificare distorsioni dei canali sensoriali  Attivare il meccanismo di reiterazione  Modificare il flusso di informazioni dal registro sensoriale al magazzino a breve termine  Codificare e trasferire informazioni dal magazzino a breve termine a quello a lungo termine  Iniziare o modificare la ricerca del magazzino a lungo termine  Operazioni euristiche sulle informazioni immagazzinate  Stabilire i criteri di decisione  Avviare il generatore di r sposta Nelle successive elaborazioni di questo modello la memoria a breve termine viene sostituita con la memoria di lavoro, più complessa. Secondo i neopiagettiani alla base delle differenze tra bambini di diverse età messe in luce da Piaget, c’è la diversa capacità della memoria di lavoro. Nei più piccoli possono essere immagazzinati pochi dati e programmi composti da semplici unità, quindi possono effettuare solo azioni motorie. Con l’aumento della capacità della memoria di lavoro, aumenta anche la complessità delle loro azioni e dei ragionamenti che possono eseguire. 5.1 Attenzione Inizialmente si parla di attenzione selettiva (cioè la capacità di selezionare solo alcuni tra gli stimoli offerti dall’ambiente): prima sui contorni, poi sulle parti interne degli oggetti, già verso il secondo mese di vita. Tra i 6 e i 9 mesi compare l’attenzione sostenuta, la capacità di resistere agli stimoli che potrebbero distogliere da un compito. A 9 mesi l’attenzione sostenuta è abbastanza consolidata da correlare positivamente con le capacità di autocontrollo che i bambini manifestano a 22 mesi. Alla base di questi cambiamenti vi sono: sviluppo del controllo inibitorio, la maturazione delle strutture cerebrali, sviluppo cognitivo e lo sviluppo di interessi (anche il comportamento dei genitori, che devono invitare il bambino a restare concentrato su una sola cosa, è importante). 5.2 Memoria Il fatto che i bambini reagiscono alla lingua materna, dimostra che la memoria è già presente nel feto. Alcuni studi sulla memoria si sono basati su tecniche di abituazione e disabituazione che consentono di verificare la durata del ricordo di uno stimolo visivo o acustico : 1. Il neonato riconosce una parola udita 24 ore prima; 2. Un breve evento vissuto a 6 mesi può essere ricordato per più di due anni; 3. Ricordano in maniera dettagliata una situazione stimolo, includendo particolari irrilevanti. Queste tre ricerche dimostrano la presenza di una memoria implicita in età precoce. La memoria implicita si manifesta nel comportamento o nella familiarità senza che il contenuto sia accessibile alla coscienza. La memoria esplicita è invece una rievocazione (riproduzione di uno stimolo mediante disegni, descrizioni e denominazione) cosciente, che è più difficile da indagare nei bambini piccoli: secondo Piaget emerge solo nel IV stadio con la capacità di produrre l’imitazione differita. Nuovi studi dimostrano però che l’imitazione differita è già presente ai 6 mesi, arrivando dunque ad affermare che sia la memoria implicita sia quella esplicita sono già presenti nei bambini di circa un anno di vita. 5.3 Categorizzazione e suo sviluppo Le conoscenze che la nostra memoria contiene non riguardano solo oggetti o eventi singoli, ma riguardano soprattutto le categorie, ovvero insiemi di entità che condividono aspetti comuni. A categorie si riferiscono la maggior parte di concetti. Le categorie presentano vari gradi di generalità e sono organizzate gerarchicamente. Molti concetti, denominati concetti lessicali, forniscono il significato a singole parole (come mela,cane, rosso etc.); molti altri invece non corrispondono a una parola singola e richiedono, se vogliamo esprimerli verbalmente, una descrizione più o meno lunga (es: gli studenti di psicologia immatricolati all'Università di Padova nel 1984). La connessione tra parole, concetti e categorie ha fatto ritenere da alcuni studiosi che l'acquisizione dei concetti coincidesse con l'apprendimento dei significati delle parole e che cominciasse solo dal secondo anno di vita. I quesiti da cui partono le ricerche più recenti sono: I bambini fino ai 2 o 3 anni si rappresentano solo singole entità o categorie? Quali categorie si rappresentano? Su quali informazioni si basano per individuare una categoria e distinguerla dalle altre? Qual è l’ordine in cui le categorie generali e specifiche emergono nei bambini? I risultati di queste ricerche indicano che la capacità di categorizzazione è molto precoce e i bambini rappresentano categorie sia globali che specifiche. Ciò testimonia che l’infante è dotato di un apparato percettivo simile a quello dell’adulto e predisposto a strutturare l’esperienza allo stesso modo. Infatti già a 3 mesi distinguono cani da leoni, cani da gatti; tra i 9 e i 12 mesi si rappresentano categorie di oggetti animati e inanimati: cibi, veicoli, uomo, donna. Le informazioni su cui si basano sono sia di tipo statico (forma, colore) che dinamico (muoversi o rimanere immobili); a volte è un singolo elemento a distinguere la 16 categoria, in altre per la compresenza di varie caratteristiche. Secondo alcuni studiosi lo sviluppo dei concetti parte dalle categorie percettive che si formano quando gli infanti distinguono due tipi di entità di cui però sanno poco (es:cani da gatti). Queste categorie progressivamente si arricchiscono grazie alle informazioni provenienti dall’esperienza diretta. Così si costituiscono sia categorie intermedie che generali a seconda degli attributi di cui il bambino dispone. Secondo altri invece le categorie intermedie e quelle generali derivano da processi diversi. Le prime sono frutto di un processo di schematizzazione, che consiste nel rilevare caratteristiche comuni a più stimoli, si cerca cosa è simile da cosa non lo è. All’inizio le categorie intermedie non hanno significato, quelle globali invece lo hanno. Queste ultime infatti sono il frutto di processi di astrazione concettuali e hanno significato perché riguardano la natura delle cose. 5.4 Soluzione dei problemi Per porsi un problema il bambino deve attivare due rappresentazioni: quella della situazione presente e quella della situazione che si vorrebbe realizzare. Per risolverlo deve disporre di adeguate strategie o costruirle sul momento per trasformare la situazione data in quella che costituisce l’obiettivo. Secondo Piaget dal III stadio del periodo sensomotorio (4-8 mesi) i bambini sviluppano la capacità di porsi un obiettivo e risolvere un problema, dunque non ha considerato la capacità di porsi un obiettivo come innata. Secondo il neopiagettiano Robbie Case i bambini sono solutori di problemi fin dalla nascita. Ogni comportamento sarebbe guidato da strutture di controllo esecutivo che comprendono: la rappresentazione di uno stato esistente, la rappresentazione dello stato desiderato e una strategia che indica la serie di passi da effettuare per conseguire il secondo. Queste strutture sarebbero l’equivalente degli “schemi” di Piaget, ma gli strumenti e il linguaggio offerti dall’elaborazione dell’informazione consentono una trattazione molto più esplicita e precisa. Con lo sviluppo queste strategie diventano sempre più complesse e lunghe in ciascuna loro componente: analisi situazione, obiettivo e strategia. Il grado di complessità delle strategie dipende dalla MBT. Case articola lo stadio sensomotorio in stadi (come Piaget): Sottostadio 0: esercitare strutture, modificandole lievemente, già presenti alla nascita; Sottostadio 1: due di queste strutture già presenti, prima indipendenti, si coordinano in una nuova quando per farlo basta porre l’attenzione a un solo aspetto della situazione (mettere in bocca il ciuccio); Sottostadio 2: realizzazione e coordinazione anche quando è necessario spostare l’attenzione da un oggetto a due contemporaneamente (es: portare un cucchiaio alla bocca senza rovesciarne il contenuto); Sottostadio 3: inserimento di un’altra azione (immerge il cucchiaio nel piatto e poi lo porta alla bocca). Per Case lo stadio sensomotorio termina a 18 mesi, mentre per Piaget a 24. Capitolo terzo Lo sviluppo del linguaggio 1. Orientamenti teorici nello studio dello sviluppo del linguaggio La comunicazione verbale richiede l’intreccio di numerose competenze diverse che possono essere raggruppate in due gruppi: 2. Competenza linguistica: abilità necessarie a comprendere e produrre frasi significative e ben formate. 1. Competenza comunicativa: abilità grazie alla quale le frasi possono essere usate in modo appropriato in vari contesti e interazioni sociali; La lingua è un sistema formato da poche decine di unità minime prive di significato (fonemi), la cui combinazione dà origine a decine di migliaia di unità più grandi fornite di significato (le parole e i morfemi di cui esse sono costituite). Morfemi e parole possono essere combinati seguendo un insieme finito di regole (morfologiche o sintattiche) in modo da generare frasi che possono essere combinate in discorsi e testi. I bambini già a 4-5 anni conoscono un migliaio di parole, hanno un dizionario (o lessico) mentale e per poter parlare devono anche possedere necessariamente una sintassi (dunque sono già in grado, nel momento in cui sentono una frase, di distinguere le diverse parole che la compongono). Questo vuol dire che i bambini possiedono un dizionario (o lessico) mentale che contiene l'elenco di innumerevoli parole. Inoltre, per parlare i bambini devono possedere una sintassi, cioè un insieme di regole che presiedono alla costruzione delle frasi. 17 3) Comunicazione linguistica: Compare verso i 12 mesi con le prime parole. In questa fase, oltre alla richiesta e alla dichiarazione, compaiono domande (es: il bambino indica un oggetto e ne dice il nome con tono interrogativo per sapere se si chiama proprio così), risposte (es: un bambino dice il nome di un oggetto se qualcuno chiede cos'è) e il saluto, fatto quoten do la mano o dicendo ciao. 3.3 Il contributo degli adulti Il bambino diventa una persona e un partner intelligente nella comunicazione intersoggettiva proprio perché l’adulto lo tratta come un interlocutore competente. L’adulto contribuisce allo sviluppo del linguaggio del bambino non solo rispondendo in maniera appropriata al suo comportamento, ma spianando la strada alla comunicazione vera e propria: utilizzando un linguaggio semplice e comprensibile (motherese o baby talk) e ripetendo ed espandendo le espressioni del bambino. Secondo Bruner gli adulti svolgono una funzione di sistema di supporto per l’acquisizione del linguaggio, senza il quale non sarebbe possibile l’attivazione dei processi interni postulati dal Chomsky. 4. Lo sviluppo del lessico 4.1 Le prime parole A partire dai 6 mesi, i bambini riconoscono alcune parole e le collegano a dei significati, e a 10 mesi riconoscono una decina di parole. È solo però verso i 12 mesi che i bambini utilizzano una sequenza di suoni in modo coerente: ad esempio dicono “amam” quando i genitori portano da mangiare; queste sequenze vengono chiamate protoparole, in modo da conservare il termine “parole” a quelle che riproducono, seppure con deformazioni, i vocaboli usati dagli adulti. Ci sono grandi differenze individuali nell'età di comparsa delle prime parole e nella ricchezza del lessico prodotto è compreso a una certa età. Un bambino di solito capisce molte più parole di quelle che dice, ma non c'è correlazione tra le due cose: un bambino che ne capisce più di un altro potrebbe dirmi di meno. C'è invece una correlazione positiva tra le parole comprese a una certa età e quelle prodotte a un'età successiva. Questo suggerisce che la comprensione e la produzione, pur sviluppandosi con ritmi diversi, siano connesse, e la prima piani la strada alla seconda. In un primo periodo (fase del lessico emergente) l’accrescimento del lessico avviene piuttosto lentamente, per manifestare poi, verso i 18 mesi, un’esplosione del vocabolario. Ci sono molte differenze individuali nell’età di comparsa e nella ricchezza del lessico prodotto. Le prime parole apprese sono quelle necessarie all’interazione con gli altri (no, ciao, su etc.) e quelle che indicano oggetti della vita quotidiana (pappa, palla etc.) o persone con cui i bambini sono a contatto (mamma, papà, nonna etc.). Le parole in questo periodo sono soprattutto nomi, accompagnati da gesti. Secondo la Nelson questa selezione avviene perché i bambini selezionano quegli aspetti dell’ambiente che sono più coinvolti nelle loro attività. Secondo Gentner i nomi sono più frequenti dei verbi perché i primi possono essere abbinati più facilmente alle conoscenze sugli oggetti acquisite tramite percezione. Dalla contestualizzazione alla decontestualizzazione Le prime parole vengono riferite a specifici contesti o ad azioni in corso. Non vengono usate per riferirsi ad oggetti o a situazioni non presenti e per questo si parla di contestualizzazione e sembra che i bambini non siano capaci di un uso referenziale delle parole, quindi di riferirsi a categorie di oggetti e in assenza di questi. La decontestualizzazione e l’uso referenziale delle parole avviene in relazione allo sviluppo della funzione simbolica. Ci sono 4 livelli di decontestualizzazione: Parole che accompagnano schemi d’azione; Parole che ricordano e anticipano tali schemi d’azione; Parole che designano gli schemi (es. parola “papà” usata per chiamare il padre); Parole usate per categorizzare nuove persone, oggetti e eventi (es. chiamare “papà” varie persone di sesso maschile). 4.2 Significati delle prime parole Le prime parole che i bambini usano sono molto legate a specifici contesti. Ad esempio un bambino potrebbe dire “qua-qua” mentre gioca con le forchette di plastica durante il bagnetto ma non quando gioca con esse fuori dal bagno. Gradualmente i bambini estendono il significato delle parole. Un’altra caratteristica delle prime parole è di fare parte integrante delle azioni in corso: i bambini le usano per indicare quello che sta succedendo, o per esprimere un desiderio, e non ancora per riferirsi a oggetti o situazioni non presenti. 20 Queste due caratteristiche suggeriscono che i bambini non abbiano ancora capito che le parole possono essere usate per riferirsi a categorie di oggetti e che tale riferimento può avvenire anche quando gli oggetti non sono presenti. Tale comprensione emerge progressivamente nel corso del secondo anno. Dapprima le parole denotano un livello di categorizzazione che è stato definito “di base” (es: i bambini imparano a dire “gatto” prima di “animale”, categoria superordinata, o “siamese”, categoria subordinata). Le categorie di base sono quelle che corrispondono alle differenze percettive più evidenti. Anche i referenti dei termini a volte non coincidono con quelli intesi dai parlanti più grandi. Qualcuno viene usato per riferirsi a un insieme di oggetti molto più ampio, sulla base di somiglianze percettive o funzionali: ad esempio, “papà” per indicare tutti i maschi adulti. Si parla in questo caso di fenomeno di sovraestensione. Mentre la sovraestensione si rivela anche all'osservazione occasionale, la sottoestensione, il fenomeno opposto, può essere mascherato; ma studi recenti dimostrano che la sottoestensione è molto più diffusa della sovraestensione. 4.3 L’esplosione del vocabolario Quando si sente una nuova parola occorre fare delle ipotesi sul suo significato è verificarle; ma verificare tutte le ipotesi richiederebbe un'infinità di tempo. In realtà questo non succede: quando sentiamo una parola nuova le ipotesi che formuliamo sono in numero molto limitato e altrettanto fanno i bambini, altrimenti non potrebbero imparare tante parole in poco tempo. Le ipotesi sono guidate da principi, ovvero da vincoli che limitano le possibilità di scelta rispetto a quelle logicamente possibili. secondo Ellen Markman tre sono i vincoli particolarmente importanti per il bambino: quello dell'oggetto intero, quello tassonomico e quello dell'esclusione reciproca. 1. Il vincolo dell'oggetto intero stabilisce che una parola si riferisce a un oggetto nella sua totalità, e non alle sue parti o attributi (“cane” denota l'entità scodinzolante, e non la coda, il colore o il latrato) 2. Il vincolo tassonomico stabilisce che una parola denota una categoria, non un singolo oggetto nè un raggruppamento tematico (il bambino che hai imparato la parola “cane” la userà di nuovo incontrando Qualcosa che assomiglia al referente a cui era stata collegata la prima volta) 3. Il vincolo dell'esclusione reciproca, stabilisce che ogni cosa ha un nome solo. Esso consente ai bambini di delimitare il significato di Termini precedentemente sovraestesi: se una bambina chiamava “cani” tutti i quadrupedi sentendo “mucca” in presenza di un tale animale da quel momento in poi lo chiamerà così. 5. Lo sviluppo morfosintattico Verso i 18 mesi i bambini iniziano a pronunciare due o tre parole alla volta. Dapprima nonna si tratta ancora di vere e proprie frasi, poiché le parole sono separate da uno stacco e mancano di intonazione comune. Le parole che compaiono in queste prime espressioni non derivano da scelte casuali: i bambini infatti usano “parole di contenuto”, come sostantivi, aggettivi e (in grado minore) verbi. Questo tipo di linguaggio può essere definito “telegrafico”. I bambini italiani non possono acquisire il lessico senza assimilare contemporaneamente qualche elemento di morfologia; nella nostra lingua le parole non compaiono quasi mai in forma di semplici radici (es: “bambin”), ma contengono dei suffissi che indicano il genere e il numero oppure, nel caso dei verbi, il tempo, il modo e la persona. I suffissi che indicano genere e numero compaiono già nelle prime espressioni dei bambini. Le espressioni telegrafiche, più che dà regole sintattiche, sono guidate da relazioni semantiche. Prima i bambini riescono a esprimere le relazioni tra due elementi e poi costruiscono espressioni nuove e più lunghe. Tra i 2 e i 3 anni gli enunciati di 2 parole diventano sempre più frequenti, mentre diminuiscono parallelamente quelli di una sola parola e compaiono preposizioni, articoli, congiunzioni, avverbi, cosicché, verso i 3 anni, i bambini cominciano a pronunciare frasi di tre parole ed entro i 3 anni e mezzo quasi tutti i bambini sanno ripetere correttamente delle frasi pronunciate da un adulto senza ometterne delle parti. Con l'uso più frequente dei verbi cominciano a comparire dei nuclei frasali, ovvero espressioni composte da un verbo assieme a uno o più nomi ed eventualmente aggettivi che vengono progressivamente completati con avverbi, articoli, preposizioni, pronomi personali. Dapprima i bambini usano i nuclei frasali da soli o in successione; successivamente cominciano a collegarli subordinando una proposizione a un'altra. Le prime a comparire sono le subordinate argomentali implicite, in cui la proposizione subordinata è all'infinito e quella principale contiene verbi come volere. Successivamente compaiono subordinate argomentali 21 esplicite, in cui la subordinata non è più all'infinito. Le prime espressioni di questo tipo che i bambini iniziano a usare contengono nella proposizione principale verbi che esprimono relazioni psicologiche (sapere, vedere, guardare, dire). Fra i 3 e i 6 anni si verificano molti altri progressi; tra questi, la capacità di comprendere e usare i pronomi dimostrativi quando si riferiscono a una persona o oggetto che non sono presenti e di Trasformare le frasi nelle corrispondenti forme negative e passive. Mentre all'inizio i bambini si limitano a brevi enunciati, verso i 4 anni e mezzo gli scambi linguistici sono costituiti da sequenze di frasi accomunate da un tema, prodotte tutte da uno stesso parlante (testi) muta due interlocutori (discorso). 6. La spiegazione dello sviluppo linguistico L’acquisizione del linguaggio è un’impresa complessa, in cui convergono abilità distinte, alcune appartenenti al dominio linguistico, altre ad altri domini. Ad esempio quando si parla per comunicare, le abilità linguistiche si intrecciano con quelle sociali. Le interazioni con gli adulti facilitano i compiti dei bambini e sono in parte alla base della comprensione che ogni cosa ha un nome e del vincolo dell’oggetto intero: quando già l'attenzione di entrambi i partecipanti ad un'interazione e puntata su un oggetto, è difficile pensare che la parola che uno dice non si riferisca adesso, ma a una sua parte o combinazione di parti. Anche lo sviluppo della memoria di lavoro contribuisce all’acquisizione del linguaggio. Infatti non solo attraverso la sua crescita, ma anche attraverso i suoi limiti, la memoria di lavoro può aiutare all’acquisizione del linguaggio. Secondo Newport il motivo per cui i bambini imparano le lingue con più facilità rispetto agli adolescenti o agli adulti, è dovuto proprio dalla minore capacità della memoria di lavoro che li costringe a prestare attenzione solo a sequenze brevi e perciò facili da analizzare, focalizzandosi quindi su singole parole. I ragazzi e gli adulti invece prestano attenzione ad unità più lunghe, non riuscendo ad analizzare bene le parti di cui sono composte. Le conoscenze sul mondo che i bambini acquisiscono attraverso le azioni (Piaget) e la percezione (ricerche più recenti) danno un forte aiuto allo sviluppo del linguaggio: Solo queste a costituire i significati delle parole e a venire a propria volta arricchite e modificate da esse. Ma oltre all'ovvio contributo della conoscenza lessicale, queste conoscenze potrebbero fornire un altro supporto, più decisivo, all'acquisizione del linguaggio, costituendo Il trampolino di lancio per lo sviluppo della sintassi. Infine, c'è l'aiuto che una certa acquisizione linguistica può dare alle altre. Ad esempio, lo sviluppo fonologico e la capacità di distinguere le configurazioni melodiche di frasi sentite aiutano i bambini a segmentare il flusso di suoni identificando le parole di cui è composto. 7. Gli effetti del linguaggio su altre funzioni psichiche 7.1. Il linguaggio come strumento di pensiero e autoregolazione Il linguaggio non è solo un potente strumento di comunicazione con le altre persone ma, come aveva sottolineato lo psicologo sovietico Lev S. Vygotskij, anche lo strumento più avanzato per comunicare con se stessi parlando tra sé e sé a voce o solo con il pensiero. I passaggi attraverso cui il linguaggio diventa uno strumento di autoregolazione e viene interiorizzato sono stati descritti da Vygotskij partendo dalla messa in discussione della nozione di linguaggio egocentrico formulata da Piaget. Secondo Piaget, ascoltando i bambini parlare è possibile distinguere due gruppi di fasi, che assolvono a funzioni diverse: il linguaggio egocentrico e quello socializzato. Linguaggio egocentrico: il bambino non si preoccupa di sapere né a chi parla né di essere ascoltato, il bambino parla solo per sé, egli non Cerca in alcun modo di porsi dal punto di vista dell'interlocutore. comprende ripetizioni di parole o sillabe e monologhi. Linguaggio socializzato: comprende le locuzioni volte a scambiare il proprio pensiero con gli altri, a chiedere e fornire informazioni, o a influire sul comportamento altrui. Il bambino questa volta parla dal punto di vista dell'interlocutore. Un punto di vista completamente diverso è stato formulato dallo psicologo sovietico Vygotskij (anni 60). Lo psicologo sostiene che il linguaggio egocentrico influisce sul comportamento dei bambini e svolge funzioni importanti, a differenza di Piaget che sosteneva che questo tipo di linguaggio Non svolgesse alcuna funzione oggettivamente importante. Vygotskij afferma che il linguaggio egocentrico serve, invece, di 22 trasmettono attraverso la comunicazione verbale e non. I sentimenti rivolti al Sé sono un riflesso di quelli che ci vengono comunicati dagli altri. L’autostima si sviluppa grazie alla percezione e alla considerazione altrui. Si parla quindi di un sé riflessivo. Questo approccio viene denominato interazionismo simbolico. Le due teorie non sono in opposizione, mettono a fuoco aspetti diversi del Sé. Susan Harper ha cercato di realizzare una sintesi dei due approcci, esaminando il ruolo che nella costruzione del Sé svolgono sia l’esperienza diretta che ognuno ha di sé stesso, sia i messaggi verbali e non che riceva dagli altri. Se volessimo identificare il Sé, potremmo definirlo in base alle sue funzioni come l’istanza psicologica che consente di integrare le proprie esperienze, sia tracciando un confine tra ciò che appartiene all’individuo e ciò che appartiene al resto del mondo; sia assicurando la continuità tra esperienze che avvengono in momenti diversi, condizione necessaria per l’identità individuale. Così il sé ci consente di definire noi stessi e la realtà esterna. 1.1. Il Sé presimbolico È presente già alla nascita ed è sede dell’esperienza percettiva ed emotiva e dei processi autoregolatori con cui l’organismo reagisce alle variazioni ambientali. È la base per l’emergere della coscienza di sé e rappresenta il principio unificatore delle attività orientate verso le altre persone. Le informazioni che consentono agli infanti di distinguere sé stessi dagli oggetti esterni sono quelle che derivano dall’esplorazione del proprio corpo e dall'attenzione prestata ai propri movimenti. L’infante sente la mano che tocca il viso e il viso che è toccato dalla mano, sente le mani che si muovono e le vede agitarsi davanti ai suoi occhi. Questi invarianti intermodali vengono colti anche dai neonati: a poco più di un giorno dalla nascita essi mostrano di accorgersi se vengono toccati sulla guancia da movimenti casuali delle loro stesse mani, oppure da un'altra persona, perché nel primo caso rispondono con il riflesso del rooting con una frequenza nettamente inferiore che nel secondo. Il riconoscimento del proprio corpo da parte degli infanti implica la presenza di un sé corporeo. La capacità di cogliere invarianti intermodali è alla base del sé come agente, che si sviluppa negli infanti parallelamente alla conoscenza implicita del Sé corporeo, grazie alla percezione della contemporaneità dei loro movimenti e di eventi visivi o sonori che coinvolgono entità diverse dalle Sé. La precoce presenza nei bambini di un senso di sé come agente è suggerita da diverse caratteristiche delle loro azioni e reazioni: i bambini calibrano i loro movimenti agli oggetti e alle circostanze. Un aspetto assai poco studiato della scoperta di se negli infanti è costituito dalla conoscenza dei propri organi sessuali. Gli stimoli che si originano dal contatto con le mani dei genitori nel corso delle normali cure possono provocare delle risposte genitali riflesse già Ha pochi giorni di vita. Già nell'infanzia I bambini hanno esperienze di piacere legate a quelle parti del corpo che Freud ha definito “zone erogene” (bocca, mucosa anale, genitali esterni). Le esplorazioni del proprio corpo e del mondo fisico circostante Rendono possibile una prima tappa essenziale nella costruzione del Sé. Questo Sé si con completa con lo sviluppo di un Sé interpersonale grazie alle interazioni con le altre persone e la condivisione di esperienze e di emozioni (già dal secondo mese con il primo sorriso sociale). La presenza di una persona adulta che si prende cura del bambino è indispensabile per assicurare la continuità del Sé presimbolico. È chi ne fa le veci che fa in modo che le esperienze costitutive del suo Sé presimbolico non risultino intensamente frammentarie. Verso la fine del primo anno di vita il significato sociale del sé si delinea in modo più chiaro, via via che il bambino inizia ad attribuire menti ad altri corpi. 1.2. La coscienza di sé I primi indizi di un Sé consapevole (Me) sono il riconoscimento del proprio aspetto fisico, l’uso del pronome “Io” e degli aggettivi possessivi, il riconoscimento delle proprie cose, la determinazione (nel far valere la propria volontà) e l’autocontrollo (resistere ai propri impulsi per agire in conformità con i genitori). I rapidi progressi nello sviluppo del linguaggio offrono altri strumenti per manifestare la coscienza di sé. Quest’ultima ha anche manifestazioni meno dirette: la gamma di emozioni che il bambino può sperimentare si arricchisce con la comparsa di emozioni autocoscienti. 2. La comparsa dei bisogni psicologici composti Già nel primo anno di vita comincia la formazione dei bisogni psicologici composti grazie alla combinazione dei bisogni basilari, già presenti alla nascita (competenza, prevedibilità, accettazione, vedi cap. 1 par.4). I bisogni psicologici composti si distinguono da quelli basilari per il fatto di emergere in momenti successivi 25 perché richiedono abilità e conoscenze che non sono ancora presenti nei primi mesi di vita. La comparsa di ciascuno di essi determina sia vulnerabilità sia opportunità, e può essere facilitata ostacolata dalle esperienze vissute dai bambini nel periodo in cui si sta formando. Il primo a comparire (dopo i sei mesi) è il bisogno di fiducia che deriva dalla congiunzione dei bisogni di prevedibilità e accettazione. Quando una persona offre prevedibilità e accettazione, l’infante prova fiducia nei suoi confronti; se un bambino vive in un ambiente che non consente di soddisfare questo bisogno ci saranno gravi conseguenze sul suo sviluppo. Altri bisogni composti compaiono più tardi, perché richiedono ulteriori requisiti. Verso I 18 mesi dalla congiunzione dei bisogni basilari di prevedibilità e competenza emerge il bisogno di controllo: I bambini cominciano a voler fare le cose da soli. È importante consentire che i bambini soddisfino questo bisogno, pur vigilando, perché la loro frustrazione, quando si lascia loro poca autonomia, può sfociare in disturbi d'ansia è scarsa capacità di autoregolazione. Un po' più tardi, dalla congiunzione dei bisogni di accettazione e competenza emerge il bisogno di autostima/status, cioè di apprezzarsi e sentirsi apprezzati dagli altri. Perché si formi questo bisogno Non basta la consapevolezza di sé, ma occorre anche la conoscenza di regole ed i criteri con cui valutare le proprie azioni e i loro risultati. Queste conoscenze compaiono nel terzo anno di vita e si rivelano nelle emozioni di orgoglio e vergogna e senso di colpa che a quest'età i bambini cominciano a manifestare quando sperimentano successi e insuccessi. Se un bambino non ha modo di sentirsi apprezzato e di apprezzarsi, si formano le premesse per disturbi di tipo depressivo. Il bisogno di coesione del Sé, ovvero di sentirsi integri e radicati, emerge (sicuramente a un anno) dalla congiunzione di altri bisogni e la sua mancata soddisfazione dà origine ha un sentimento di mancanza di integrazione. Una componente della coesione del Sé è l'identità, cioè l'insieme delle risposte alle domande su sé stessi. L'identità può essere minacciata dalla perdita o dalla modificazione negativa di un ruolo: per un bambino può avvenire con la nascita di un fratellino, per un adulto con il fallimento di un matrimonio. 3. Lo sviluppo emotivo Esibire emozioni, averne la consapevolezza e la capacità di regolarle, comprendere quelle altrui ed agire di conseguenza, è una competenza di grande importanza, cruciale per lo sviluppo individuale e sociale. Il bambino durante il primo anno di vita esibisce varie emozioni (gioia, tristezza, sorpresa, disgusto, paura e rabbia) e mostra di comprendere quelle degli altri. Il repertorio emozionale (imbarazzo, invidia, empatia, senso di colpa e vergogna) si amplia con la comparsa della coscienza di sé e della capacità di riflettere su sé stessi. Teorie dello sviluppo emotivo Esistono diverse teorie sulle emozioni e il loro sviluppo e tutte hanno in comune i seguenti punti: - Le emozioni sono dei processi che hanno inizio con degli eventi che facilitano o ostacolano la soddisfazione dei bisogni o la realizzazione dei desideri; - Il processo emotivo ha inizio con una valutazione, cioè un confronto tra l’evento e i nostri obiettivi; - Alla valutazione seguono un’attivazione fisiologica (es: la paura ci provoca batticuore) e una predisposizione ad agire in certi modi (es: fuggire se siamo spaventati); - Influiscono sui nostri processi cognitivi; C’è invece un notevole disaccordo sul modo in cui le emozioni si sviluppano. A questo riguardo si possono individuare due punti di vista principali: Teoria della differenziazione: i neonati provano solo una generica eccitazione. Le emozioni distinte emergono successivamente, man mano che si presenta nei bambini uno sviluppo cognitivo e sociale. Dunque lo sviluppo emotivo è subordinato a quello cognitivo. Teoria differenziale: distingue due tipi di emozioni, quelle fondamentali e quelle complesse. Le emozioni fondamentali (primarie o basiche) sono presenti anche negli animali, esistono già alla nascita o compaiono nel primo anno di vita; le emozioni complesse (secondarie o sociali) invece compaiono successivamente e sono presenti solo negli esseri umani. Secondo alcuni studiosi derivano dalle combinazioni di emozioni primarie, secondo altri hanno come base la coscienza di sé e per questo le chiamano autocoscienti. Mentre la teoria della differenziazione subordina lo sviluppo emotivo a quello cognitivo, la teoria differenziale contempla la possibilità di relazioni reciproche, o addirittura assegna un primato alle emozioni. Di recente è stato proposto l’approccio funzionale o organizzazionale che è una sintesi dei precedenti e che 26 sostiene che l’organizzazione generale delle emozioni è presente in forma rudimentale dopo la nascita, ma che tutte le sue componenti si sviluppano grazie a dei processi simili a quelli dello sviluppo cognitivo. 3.1. La comparsa delle emozioni fondamentali Tutte le teorie concordano sull'età in cui le espressioni delle emozioni compaiono nei bambini. Nelle prime settimane di vita gli infanti sorridono durante il sonno REM oppure in seguito a lievi carezze. Verso un mese sorridono alla vista di un viso in movimento o di un giocattolo. Tra il secondo e il terzo mese compare il sorriso sociale, un'espressione più piena, che coinvolge anche gli occhi, quando interagiscono con una persona, dando vita agli pseudo- dialoghi (cap. 3). La paura è la rabbia si manifestano Chiaramente dopo i sei mesi. Verso i 7/8 mesi, quando si è formato un attaccamento vero e proprio nei confronti di una persona, il bambino o la bambina cominciano a reagire con apprensione e pianto se questo si allontana. Questa reazione viene definita angoscia da separazione. Quest'ultima svolge un'importante funzione adattiva: impedisce che i bambini si allontanino per propria iniziativa dalle figure di attaccamento. 3.2. La comparsa di emozioni sociali o autocoscienti Durante il secondo anno di vita si modificano le situazioni in cui i bambini sperimentano le emozioni fondamentali (rabbia, gioia, paura, tristezza, disgusto, sorpresa). Man mano che si sviluppa la capacità di prevedere o ricordare, compaiono quelle emozioni che richiedono un confronto tra una situazione presente e una rievocata o prevista. La gioia, ad esempio, viene sperimentata sempre più spesso quando i bambini portano a termine con successo un'azione intrapresa. Alla gioia della riuscita fanno da contrappunto il dispiacere è la frustrazione del fallimento. Queste reazioni indicano che i bambini confrontano la propria prestazione con un obiettivo, che deve perciò essere evocato mentalmente. Questi cambiamenti aprono la strada alle emozioni sociali; ma perché queste emozioni possano manifestarsi Deve prima essere conseguita una consapevolezza di sé. Questa consapevolezza rende possibile una prima serie di emozioni sociali, quelle che Michael Lewis chiama emozioni esposte, perché richiedono che si rivolga l'attenzione su sé stessi. Esse sono presenti a partire dai 2 anni di vita e comprendono imbarazzo, invidia e gelosia, ed empatia. Un altro importante gruppo di emozioni sociali è costituito da orgoglio, senso di colpa, vergogna, che possono essere definiti emozioni autocoscienti valutative, perché originate da un confronto tra un proprio comportamento e delle norme sociali. Le emozioni autovalutative e i comportamenti di autoregolazione (come inibire un'azione desiderata ma proibita, accorgendosi di essere osservati) compaiono nella maggior parte dei bambini dopo la capacità di riconoscersi e di descriversi, e hanno uno sviluppo più lento (verso i due anni e mezzo). 3.3. La regolazione delle emozioni Nel primo anno di vita la regolazione delle emozioni viene effettuata soprattutto dai genitori. Il loro intervento è importante: evitando che i bambini arrivino a provare emozioni troppo forti (es: calmare i bambini quando iniziano a piangere), li aiutano ad acquisire la capacità di regolare le proprie emozioni prima che queste raggiungano picchi sui quali è difficile intervenire con successo. Esiste comunque una rudimentale capacità del bambino di liberarsi da stimoli spiacevoli e di calmarsi (es: suzione non nutritiva: regola la frequenza cardiaca producendo uno stato di quiete). La capacità di autoregolazione migliora in parallelo con lo sviluppo di capacità che consentono ai bambini un controllo attivo sugli stimoli. L’aumento dell’attenzione, va di pari passo con l’attenuarsi delle reazioni di dolore e le reazioni di dolore sono più brevi nei bambini la cui memoria è più efficiente. Inoltre l’acquisizione del linguaggio consente loro di parlare delle loro emozioni (2°\3° anno di vita). Inizia così una comunicazione sulle emozioni che aiuterà i bambini a comprendere meglio cosa le provoca e come fronteggiarle. Sulla regolazione delle emozioni influiscono le esperienze di attaccamento che il bambino e la bambina hanno vissuto e stanno vivendo; infatti l'esperienza di aver ricevuto conforto favorisce lo sviluppo della capacità di dare conforto a sé stessi. 3.4. La comprensione delle emozioni Comprendere le emozioni altrui è una componente fondamentale della competenza sociale, necessaria per interagire con gli altri, comprendere i loro desideri e obiettivi e evitare di ferirli e farli arrabbiare e suscitare interesse e gioia. Già dal primo anno di vita gli infanti comprendono le espressioni delle emozioni altrui e ne sono influenzati. 27 temperamento influisce sullo sviluppo: Il temperamento contribuisce a definire il colore delle lenti attraverso cui guardiamo il mondo (es: per un bambino “lento a scaldarsi” un ambiente colmo di novità può costituire una difficile sfida, mentre può sembrare piacevole ed eccitante ad un bambino “facile”; di conseguenza, il primo consoliderà la sua tendenziale prudenza, mentre il secondo imparerà a gestire agevolmente molte situazioni diverse. I meccanismi fin qui descritti possono agire già nella prima infanzia, Ma ve ne sono altri che presuppongono un maggiore grado di sviluppo cognitivo. La crescente capacità di autoregolazione e il consolidarsi del concetto del sé permetteranno a fanciulli e adolescenti di scegliere e anche manipolare attivamente il proprio ambiente (es: scelta di amici che corrispondono alle disposizioni e alle preferenze personali e che a loro volta le consolidano). Questi meccanismi strutturano la personalità in modi congruenti alla dotazione temperamentale di base: Questo non significa che non vi siano cambiamenti nella personalità nei che quest'ultima sia predeterminata dal temperamento. Al contrario, si possono registrare vari tipi di cambiamenti, sia normativi sia non normativi. Capitolo quinto Lo sviluppo sociale 1. La teoria dell’attaccamento. Nel primo anno di vita le relazioni più importanti che si formano sono tra infanti e persone più grandi di loro, in particolare la madre. I bambini hanno poche possibilità di incontrare i coetanei e anche se lo fanno, hanno comunque fragili capacità di interazione. John Bowlby negli anni ’60 sviluppò la teoria dell’attaccamento, che gode oggi del più vasto seguito tra le teorie sullo sviluppo dei legami affettivi. Bowlby ha una formazione psicoanalitica, ma ha cominciato a sentirsi insoddisfatto di molti aspetti di essa. Propone una differente chiave di lettura della natura umana e delle condotte legate ai primi legami tra il bambino e gli adulti, distaccandosi dal punto di vista allora dominante (“teoria dell’amore interessato”), secondo il quale il legame tra bambini e genitore deriva dal fatto che per il loro tramite vengono soddisfatti dei loro bisogni primari (mangiare). Bowbly, invece, sostiene che la propensione a stringere relazioni affettive intime è una componente della natura umana, già presente in forma germinale nel neonato ed è considerata una delle caratteristiche principali per un funzionamento efficace della personalità e della salute mentale. Inoltre Bowlby afferma che i legami con i genitori vengono ricercati perché danno protezione e conforto e contribuiscono a creare quel legame che avrà una funzione cruciale nel corso della vita. I legami quindi non vengono considerati come subordinati né derivanti dal cibo e dal sesso (come sostenevano comportamentisti e freudiani). Bowlby fa riferimento 30 all’etologia da cui riprende i concetti di comportamento specie-specifico o innato. Inoltre fa riferimento alla psicologia cognitiva (sistema comportamentale). Dalle ricerche sugli animali (ricerche di Harry Harlow) e dai dati clinici sui bambini, Bowlby giunge alla conclusione che esiste un sistema comportamentale dell’attaccamento indipendente da quelli dell’alimentazioni e del sesso, rivolto alla ricerca e al mantenimento della vicinanza di uno o più individui ed è all’origine dei legami affettivi. Secondo Bowlby il bambino ha una “predisposizione biologica” a sviluppare un legame di attaccamento nei confronti della persona che si prende cura di lui. Tale predisposizione è geneticamente determinata e filogeneticamente trasmessa perché funzionale alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Il comportamento di attaccamento del bambino trova un corrispettivo nell’adulto. Al pari di quello dell’infante, il comportamento di attaccamento dell’adulto è un comportamento evoluto, biologicamente predisposto e può essere attivato dai sistemi di segnalazione. Nel corso dell’interazione il comportamento del bambino e quello dell’adulto finiscono per diventare sincronizzati in un sistema comportamentale di attaccamento. Ciascun membro impara con il tempo ad aspettarsi che l’altro risponda al suo comportamento in un certo modo. La “teoria dell’amore interessato” Nel comportamentismo c’è una distinzione tra pulsioni primarie (fame, sete, bisogno di dormire) che riflettono la costituzione del nostro organismo e il suo modo di funzionare; e pulsioni secondarie derivate da esse. La soddisfazione di un bisogno primario, costituisce un rinforzo primario e gli eventi ad esso associati diventano dei rinforzi secondari, grazie al condizionamento classico. Ad esempio la fame è una pulsione primaria, il cibo è un rinforzo primario; poiché i bambini piccoli ricevono nutrimento dal genitore (quasi sempre dalla madre), questo diventa per loro un rinforzo secondario e il bisogno della sua vicinanza una pulsione secondaria. Allo stesso modo i comportamentisti spiegano le relazioni sentimentali tra adulti (rinforzo primario: sesso; rinforzo secondario: semplice presenza del partner). Alla base di vari comportamenti infantili, come la ricerca di attenzione su di sé, il desiderio di vicinanza e contatto fisico, la paura di essere soli, c’è la motivazione secondaria della dipendenza. Una volta sviluppata nei confronti della madre, la dipendenza viene generalizzata ad altre persone. La psicoanalisi freudiana propone delle tesi molto simili a quelle comportamentiste, facendo derivare il legame affettivo con la madre dal fatto che essa assicura ai figli la soddisfazione di bisogni a cui essi non sono in grado di provvedere da sé. Inoltre attraverso il nutrimento, la madre fornisce anche una soddisfazione di tipo sessuale: “I rapporti del bambino con la persona che ha cura di lui sono per lui una fonte inesauribile di eccitamento e di soddisfazione sessuale a partire dalle zone erogene”. Secondo la psicoanalisi classica, l’infante si trova inizialmente in una fase di narcisismo primario, in cui il suo essere è concentrato sul suo corpo; so che spinge il bambino a rivolgersi verso le altre persone è l'esperienza della soddisfazione che esse gli procurano. Le ricerche di Harry Harlow Una forte scissione alla teoria secondo cui il legame con la madre derivi dal fatto che è lei a fornire nutrimento è stata data, negli anni 50, da una serie di ricerche dirette da Harry Harlow, che ha studiato le conseguenze della deprivazione di cure materne in piccole scimmie. Queste venivano allevate in una gabbia in cui erano collocati due pupazzi (madri surrogate), uno ricoperto da un tessuto morbido e l’altro di metallo ma che fungeva da supporto al biberon. Fu osservato come le scimmie passavano la maggior parte del tempo aggrappate a quello morbido, mentre si avvicinavano all’altro solo per mangiare. La tendenza a cercare vicinanza e contatto sembra quindi essere indipendente dalla nutrizione e dalle soddisfazioni che ne derivano. Hanno anche dimostrato che quando nella gabbia veniva inserito un oggetto spaventoso, se era presente il pupazzo morbido questo attenuava la paura; se invece era presente solo quello di metallo, le scimmie rimanevano bloccate dalla paura. 2. Le fasi di sviluppo del comportamento di attaccamento Perché ci sia un comportamento di attaccamento i bambini distinguono le persone intorno a loro e mostrano una preferenza. Attuano dei comportamenti di segnalazione per far avvicinare e mantenersi vicine alla persona preferita (pianto, sorriso, lallazione); e dei comportamenti di avvicinamento per avvicinarsi essi stessi (andare a gattoni, muoversi, aggrapparsi). L’immaturità motoria limita i comportamenti di avvicinamento nei primi mesi di vita. Il legame di attaccamento si instaura gradualmente attraverso varie fasi: 1. Preattaccamento (0-3 mesi): interesse per la voce e per il volto umano, senza distinguere una persona 31 dall’altra. Il bambino mette in atto comportamenti di richiamo che avvicinano la persona (pianto) e mantengono la vicinanza (sorriso, vocalizzi); 2. Attaccamento in formazione (3-8 mesi): interesse per le persone e piacere nell’interagire con esse, ma ora queste reazioni sono più intense nei confronti della madre e di altre persone familiari. Tra i 5 e i 7 mesi trova conforto solo tra le braccia della madre. Ancora non è comparsa la “”protesta da separazione” e il bambino prova ansia solo perché è lasciato solo, non perché la madre va via; 3. Attaccamento vero e proprio (8 mesi-2,3 anni): con la locomozione il bambino inizia ad esplorare l’ambiente e può mantenere il rapporto di vicinanza con la madre, che, quando è presente, viene vista come base sicura. Ci sono quindi i primi comportamenti di avvicinamento. Inizia a comparire l’ansia da separazione e anche la “paura dell’estraneo”; 4. Formazione di un rapporto reciproco (dai 3 anni in poi): i progressi nella sfera cognitiva e linguistica consentono ai bambini di arricchire le proprie figure di attaccamento e migliorano le possibilità di mantenere la vicinanza. Il bimbo si adatta alla mamma, è più disposto ad aspettarla e la separazione è meno dolorosa (tolleranza). Con il tempo diminuisce anche la paura dell’estraneo. 3. Diversi tipi di attaccamento e loro effetti sulla persona Tre punti sui quali Bowlby ha effettuato una virata rispetto alla psicoanalisi: 1. Le relazioni affettive si basano su sistemi comportamentali indipendenti dal sesso e dall’alimentazione; 2. Abbandono della nozione di “narcisismo”, secondo cui l’interesse del bambino è tutto rivolto al suo corpo; 3. Rigetto delle fasi di sviluppo psicosessuale di Freud, secondo il quale esiste uno sviluppo universale, nel quale le differenze individuali consistono nel fermarsi in una certa fase (fissazione) o tornare indietro (regressione). Bowlby ipotizzava che molti dei disturbi investigati dalla psicoanalisi (in particolare l'ansia) e l'eccessiva ricerca di attenzione derivassero da un attaccamento ansioso, provocato da ripetute esperienze di separazione o perdita (malattie, morte, abbandono), dal comportamento poco affidabile della persona a cui l'attaccamento era rivolto (es: un genitore che minaccia di andarsene, di uccidersi, o di non volere più bene i figli). In questa prospettiva, la capacità di affrontare le sfide della vita senza soccombere all'ansia e alla paura deriva, a ogni età, da un attaccamento sicuro. Bowlby ha formulato queste tesi in tre proposizioni: 1- un individuo fiducioso che la sua figura di attaccamento gli sarà disponibile tutte le volte che egli lo desidera sarà molto meno propenso ad avere una paura intensa e cronica; 2- la convinzione della disponibilità o della mancanza delle figure di attaccamento si va costruendo lentamente durante gli anni della immaturità - prima infanzia, fanciullezza e adolescenza - che tutte le aspettative che si sviluppano in tali anni tendono a persistere relativamente immutate per il resto della vita; 3- le diverse aspettative circa l'accessibilità e la disposizione a rispondere in modo appropriato delle figure di attaccamento sono dei riflessi abbastanza esatti delle esperienze effettivamente avute da quegli individui. Comportamento, sistema, legame di attaccamento Nella teoria dell’attaccamento si parla di: - Comportamento di attaccamento: è qualcosa di osservabile, qualcosa che una persona fa per ottenere o mantenere la vicinanza; è quindi un’espressione osservativa (es: chiamare, avvicinarsi a gattoni, mandare dei fiori, piangere, a seconda dell’età); - Sistema comportamentale dell’attaccamento: è qualcosa che non possiamo osservare, ma la cui esistenza è postulata per poter spiegare ciò che vediamo e cioè i comportamenti di attaccamento. È un sistema di controllo all’interno del sistema nervoso, con circuiti neurali non ancora individuati, che stabilisce la meta di mantenere la vicinanza con certi individui e organizza a questo scopo vari comportamenti; - Legame di attaccamento o legame affettivo: indica una relazione durevole, emotivamente significativa con una persona specifica che ci spinge a far di essa l’oggetto dei nostri comportamenti di attaccamento. I due partecipanti tendono a mantenere la vicinanza e ogni tentativo di dividere la coppia viene ostacolato. I legami affettivi sono stati di intensa emozione e le più intense emozioni umane si hanno durante la formazione, il mantenimento, la distruzione e il rinnovarsi di un legame affettivo. 3.1. I modelli operativi interni Man mano che il bambino cresce, i legami di attaccamento non dipendono più dalla vicinanza, ma dalle qualità astratte del rapporto che vengono interiorizzate. Secondo Bowlby, l’influenza delle prime relazioni di attaccamento sulle relazioni successive e sulla vita affettiva e sociale è mediata dal fatto che vengono 32 trascorso con il bambino, ma la prontezza nel rispondere ai suoi richiami e la sua disponibilità a interagire sorridendo, giocando, coccolando. Molti autori hanno esaminato il rapporto tra il bambino o la bambina e il padre alla luce della teoria di attaccamento e ne hanno dedotto che anche il padre può essere la figura principale di attaccamento. Le ricerche di Michael Lamb sulla “gerarchia di attaccamento, ossia il fatto che, pur non mostrando una chiara preferenza per l'uno o per l'altro genitore in situazioni ordinarie, molti piccoli tendono a rivolgersi alla madre nei momenti di crisi. Lamb ha però suggerito che la relazione con ciascun genitore è unica e svolge funzioni diverse nello sviluppo. Gli studi hanno mostrato che, di regola, i bambini con attaccamento sicuro alla madre hanno un attaccamento altrettanto positivo nei confronti del padre e viceversa se l'attaccamento è insicuro. Esistono tuttavia delle eccezioni. Non è quindi vero che, come un tempo si pensava, una positiva relazione tra bambino e padre possa formarsi so secondo momento, appoggiando, per così dire, sul rapporto originario tra il bambino e la madre. La ricerca del Terzo Millennio, Infine, si è concentrata sulle modalità di interazione padre-bambino: mentre la madre rappresenta per il bambino colei che predice la sicurezza dell'attaccamento a 6 - 10 anni, per il padre il miglior predittore è la sensibilità nelle interazioni giocose con il bambino nel secondo anno di vita. Uno studio di Craig e Mullan, basato su ampie statistiche sull'uso del tempo in campioni rappresentativi delle popolazioni considerate, ha comprato la quota della giornata dedicata alla cura dei figli da madri e padri in quattro paesi industrializzati (Italia, Francia, Danimarca e Australia). In tutti i paesi considerati la variabile che maggiormente incide sul tempo speso nelle routine di cura è il sesso del genitore, e sono molto più le madri a gestire questo aspetto della vita dei figli. L’ l'idea che almeno i compagni di lavoratrici a tempo pieno siano più impegnati nei compiti di routine trova conferma in Australia in Danimarca ma non in Francia è in Italia. Lo scarso desiderio di accollarsi dei comportamenti di cura, abbandonando piccoli privilegi domestici che la nostra cultura continua a riservare ai maschi, non coincide comunque con il disimpegno emotivo dei padri nei confronti dei figli. Per esempio, i padri giocano più con i figli rispetto alle madri, prediligendo attività fisiche e giochi che implicano il contatto diretto. Tuttavia le differenze nel comportamento materno e paterno non sono così rigide come pretendevano alcune teorie sociologiche. In definitiva, vi sono preferenze di genere, legate anche alla cultura di appartenenza, nel modo in cui ciascun genitore interagisce con il figlio, ma i ruoli di padre e madre sono almeno in parte intercambiabili. Infatti la famiglia è un’unità funzionale i membri si influenzano l'un l'altro in modi complessi. 5.2. Figure educative extrafamiliari Moltissime donne lavorano fuori casa, e numerose ricerche hanno esaminato gli effetti che può avere sullo sviluppo dei figli la minore presenza della madre in casa (considerando che i padri, secondo le ricerche appena viste, dedicano meno tempo alla cura dei figli). Nel complesso non si rilevano effetti significativi del lavoro materno sullo sviluppo cognitivo dei bambini e sulla presenza o meno di problemi di comportamento. Emergono però, seppur di piccola entità, differenze significative: il lavoro delle madri nel primo anno di vita dei bambini, Specie se a tempo pieno, influisce negativamente sul loro sviluppo cognitivo; l'influenza È invece positiva se la madre lavora nel secondo e terzo anno di vita. Il lavoro materno ha degli effetti positivi sui bambini soprattutto nelle famiglie monoparentali, probabilmente Perché esso assicura un tenore di vita migliore rispetto a quello consentito dalla assistenza pubblica. Tra i fattori di contesto in grado di contrastare i possibili effetti negativi della minore presenza materna durante il giorno, è importante non solo il contributo del padre (di cui abbiamo visto i limiti), ma anche la disponibilità e la quantità dei servizi per l'infanzia. Si è sviluppato, sin dagli anni 70, un dibattito molto acceso sulla validità dell'inserimento al nido, visto un tempo come una struttura assistenziale di ripiego. La tesi secondo cui il nido potrebbe invece costituire una scelta preferenziale, per offrire ai bambini “qualcosa in più” e non solo per farli costruire da qualcuno in mancanza di meglio, è stata molto dibattuta anche in Italia. Per esempio nel 2017 è comparsa su un quotidiano nazionale un’indagine secondo la quale frequentare il nido prima dei due anni potrebbe tradursi in una diminuzione del QI, misurato in età scolare, ma solo nei soggetti provenienti da famiglie benestanti e specialmente nelle bambine. Se si cerca di affrontare razionalmente il problema, la prima domanda da porsi riguarda la relazione tra l'infante e le educatrici (vi è solo una piccola minoranza di educatori maschi): con queste figure si può 35 stabilire una relazione veramente significativa? Andare al nido minaccia l'attaccamento alla madre? Una serie di studi ha dimostrato che sembra possibile per il bambino stabilire relazioni di attaccamento all'interno del nido, a patto che non vi sia un ricambio sconsideratamente frequente di figure di riferimento, cosa che risulta particolarmente negativa al di sotto dei 24 mesi; inoltre queste relazioni, più che porti in contrapposizione con quelle familiari, sembrano svolgere un ruolo diverso e complementare. È questa la ragione per cui le educatrici possono svolgere un ruolo compensatorio importante, riuscendo a fornire risorse affettive aggiuntive ai bambini con attaccamento materno insicuro; perché questo sia possibile tuttavia necessario che prolungate e ripetute esperienze di interazioni positive entro il nido permettono al bambino di riporre fiducia in tutte le figure che vi fanno parte. La qualità del nido, oltre che della singola educatrice, è dunque cruciale per consentire il formarsi di legami significativi. Per quanto riguarda l'impatto del nido sullo sviluppo, secondo alcune indagini riferite da Dario Varin frequentare un nido di buona qualità non solo non intacca lo sviluppo linguistico e cognitivo dei bambini, ma aiuta addirittura a compensare lo svantaggio culturale di quelli che provengono da ambienti deprivati. Secondo Varin, tuttavia, gli effetti del nido sullo sviluppo sociale sono ancora controversi: a fronte di studi che dimostrano una cresciuta competenza nelle interazioni con i coetanei, viene sono altri secondo cui all'ingresso nella scuola dell'infanzia i bambini con esperienza di nido risultano meno obbedienti, e secondo alcuni, addirittura più aggressivi. In cerca di una spiegazione per i rischi, molti autori si sono chiesti se le difficoltà relazionali si possono spiegare con l'effetto cumulativo del tempo passato al nido, sia in termini di precocità è durata dell'inserimento, sia in termini di durata della presenza giornaliera. Nei bambini che stanno molte ore al nido si è trovato, nelle ore pomeridiane, un aumento del cortisolo, un ormone la cui concentrazione si eleva in presenza di stress, e che non si rileva nei bambini che restano a casa. Tuttavia, il fatto che lo stesso sia stato rilevato solo in un sottogruppo di bambini di 2 anni socialmente poco competenti e quindi più esposti a interazioni conflittuali ha riportato l'attenzione degli studiosi sul diverso impatto che il nido può avere a seconda delle caratteristiche personali dei piccoli ea seconda della professionalità del personale adulto nel gestire le attività collettive. L’effetto delle esperienze extrafamiliari precoci dipende in definitiva dalla possibilità dei genitori di scegliere a ragion veduta una struttura di alta qualità e, in molti casi, di pagarne il costo. 6. I rapporti con gli altri bambini Solo in casi eccezionali i bambini formano legami di attaccamento con i coetanei. Un caso celebre è quello riferito da Anna Freud, di sei orfani ebrei che avevano passato i primi anni di vita in un lager nazista. Avevano sviluppato un saldissimo attaccamento reciproco, tanto che rifiutavano qualsiasi rapporto con gli adulti e gli altri bambini. Numerose ricerche hanno permesso di dimostrare che le relazioni tra i bambini, anche quando non sono così rilevanti, sono tendenzialmente positive. Fino al sesto mese, l’interesse per gli altri bambini è assimilabile a quello per gli oggetti inanimati. Tra i 6 e i 9 mesi appaiono gesti più specificatamente sociali; all’azione del primo bambino però non corrisponde ancora un’azione del secondo (es: bambino non prende quello che l’altro gli tende). Dopo i 12 mesi iniziano le interazioni reciproche. Interagire con un bambino è però difficile per il bambino stesso: mentre nelle interazioni con l’adulto, questo adotta comportamenti che facilitano l’interazione; un coetaneo presenta gli stessi limiti e incapacità. Nel secondo anno di vita la competenza interattiva cresce rapidamente: capacità di imitare, interazioni complementari e reciproche, si fanno i primi giochi assieme. Inizia a comparire anche la preferenza sociale. L’alba dei giochi sociali. Si può parlare di gioco sociale solo se vengono soddisfatte due condizioni: i due bambini devono condividere l’idea che si tratti di un gioco e devono riuscire a portarlo avanti coordinando le loro azioni, rispettando un turno. 36 Parte seconda: La prima fanciullezza (2-6 anni) Capitolo sesto Lo sviluppo cognitivo 1. La fioritura della funzione simbolica La prima fanciullezza è il periodo compreso tra i 2 e i 6 anni e viene chiamata “età prescolare” o “età del gioco”. Per Piaget corrisponde al periodo preoperatorio, caratterizzato sia dalla presenza della funzione simbolica (enorme progresso rispetto all’intelligenza puramente sensomotoria dello stadio precedente), sia da numerosi limiti rispetto allo stadio successivo (operatorio concreto). Egli indaga principalmente su soggetti tra i 4-5 anni e 6-7 anni. Il motivo per cui Piaget non ha studiato in modo sistematico questo periodo risiede nei metodi di indagine da lui utilizzati, che si basano su scambi verbali: il colloquio clinico, che prevede una serie di punti da toccare con tutti i bambini, ma non una formulazione esatta delle domande in modo da poterle adattare al linguaggio di ogni bambino; e il metodo critico che consiste nel porre i bambini di fronte a materiali concreti che essi devono osservare e manipolare, prendendo in considerazione aspetti diversi del loro pensiero. Poiché entrambi i metodi richiedono ai bambini di impegnarsi in una conversazione senza divagare, essi sono poco adatti ad età inferiori ai 4-5 anni. I dati e le informazioni teoriche che riguardano questo periodo, oltre a essere dispersi in un grande numero di volumi e articoli, sono dunque più numerosi, eterogenei e difficili da sintetizzare rispetto a quelli relativi al periodo sensomotorio. Come abbiamo visto (cap.2), le ricerche più recenti suggeriscono che la funzione simbolica sia presente più precocemente di quanto sostenuto da Piaget (forse addirittura alla nascita). Ciò che è in dubbio è che sia proprio nella prima fanciullezza che i bambini dedicano una grande parte del loro tempo alle attività in cui essa è coinvolta, e cioè la comunicazione verbale (cap.3), il gioco simbolico e il disegno. Lo sviluppo del linguaggio in età prescolare. Fra i 2 e i 3 anni i bambini creano frasi con un numero crescente di parole, si ha l’esplosione della grammatica. Le frasi si fanno sempre più complesse e ricche di componenti diverse, si parla di nucleari incomplete, nucleari complete e nucleari ampliate. Fra i 3 e i 6 anni avviene la trasformazione delle frasi nelle corrispondenti forme negative, passive e imperative. Sempre a partire dai 3 anni c’è uno sviluppo della lunghezza e dell’organizzazione delle sequenze di frasi che i bambini sono in grado di produrre. Verso i 4 anni e mezzo iniziano gli scambi linguistici costituiti da una sequenza di frasi prodotte o dallo stesso parlante (testi) o da due interlocutori (discorso). La complessità del linguaggio usata dal bambino presenta una variabilità individuale e viene profondamente influenzata dall’ambiente. Funzione del linguaggio. Secondo Piaget ci sono due tipi di linguaggio: 1. Linguaggio egocentrico: il bambino parla solo per sé, sia quando si trova da solo (monologo), sia quando è con altri, senza curarsi di essere ascoltato e di ricevere risposta (monologo a due e collettivo). È una manifestazione del pensiero egocentrico; 2. Linguaggio socializzato: si fa ascoltare dall’interlocutore e agisce su di lui. Comprende l’informazione adattata, cioè comprensibile a chi ascolta. Scambia il proprio pensiero con gli altri, chiede e fornisce informazioni o influisce sul comportamento altrui. Funzione: comunicare con gli altri. Dai 3 ai 7 anni il linguaggio egocentrico lascia spazio a quello socializzato. Tale andamento temporale è legato al pensiero egocentrico che diminuisce con l’aumentare dell’età. Il superamento del linguaggio egocentrico è legato anche al tipo di interlocutore: con l’adulto il bambino utilizza maggiormente il linguaggio egocentrico, perché non viene interrotto; mentre con i coetanei viene interrotto da domande. Per Piaget il linguaggio egocentrico è semplicemente una manifestazione dell’egocentrismo intellettuale e non ha alcuna specifica funzione. Per Vygotskij tale linguaggio si presenta soprattutto in situazioni problematiche e serve a comprendere la situazione, a cercare di risolverla e pianificare il comportamento da attuare (soluzione dei problemi). Il linguaggio egocentrico è quindi una specie di pensiero ad alta voce che poi si interiorizza e diventa il linguaggio interiore delle età successive. Secondo Vygotskij al linguaggio egocentrico si applica la 37 eseguendo un confronto per volta, ovvero individuando il più piccolo o il più grande e procedendo di conseguenza. I bambini dai 7 8 anni invece erano in grado di prendere bastoncini a caso ma collocarli al punto giusto, ciò permette anche di inserire correttamente dei bastoncini aggiuntivi senza dover disfare tutta la fila. Anche la seriazione moltiplicativa consiste nell’ordinare degli oggetti o degli eventi, ma questa volta tenendo conto di due relazioni alla volta, che possono riguardare lo stesso insieme di oggetti o due o più insieme distinti. Es: ordinare dei bicchieri che differiscono in altezza e larghezza e disporli in una tabella a doppia entrata (file orizzontali: variazione di larghezza; file verticali: variazione dell'altezza). Anche questi compiti vengono superati dai bambini solo verso 7-8 anni. 2.4. Irreversibilità L’incapacità dei bambini in età prescolare di affrontare con successo compiti di classificazione, può essere definita irreversibilità. Ossia l’impossibilità di annullare, invertire o compensare un certo risultato (sottrazione e addizione); ma anche nell’incapacità di rovesciare la prospettiva da cui la si considera (moltiplicazione). 2.5. La mancanza di conservazione L’irreversibilità si manifesta anche nei compiti di conservazione: se un oggetto viene trasformato o manipolato, i bambini di età prescolare non riescono a compensare il cambiamento che ha luogo in una dimensione con quello che avviene nell’altra (esempio: due palline di plastilina identiche, una delle due viene trasformata in salsiccia: i bambini ritengono che in quella a forma di salsiccia ci sia più pasta perché è più lunga anche se hanno visto che fino a pochi momenti prima avevano la stessa quantità di pasta). L’attenzione è centrata su una sola caratteristica alla volta, considerano gli stati anziché le trasformazioni che li hanno provocati. 2.6. Egocentrismo intellettuale È la caratteristica più generale del pensiero preoperatorio, da cui derivano tutte le altre. Consiste nella tendenza a prendere il proprio punto di vista momentaneo come assoluto, senza considerare le possibilità che ne possono esistere altri. Diversamente dall’egocentrismo integrale (periodo sensomotorio, in cui non si distingue realtà interna da esterna), qui i bambini sanno che esiste una realtà interna ed una esterna; ma credono che tutti gli altri abbiano le loro stesse percezioni. La conseguenza, secondo Piaget, è che, non solo fanno confusione tra il loro punto di vista e quello altrui, ma anche tra le loro attività e il movimento degli oggetti inanimati, tra il mondo psichico e quello fisico. 3. Le idee dei bambini in età prescolare secondo Piaget Per vedere se i bambini distinguono tra il mondo esterno e quello interno, soggettivo, o se invece li confondono, attribuendo all'uno caratteristiche proprie dell'altro, Piaget ha intervistato centinaia di bambini tra i 4 e i 14 anni su entrambi gli argomenti con la tecnica del colloquio clinico. La conclusione che piange ha ricavato da questi studi è che i bambini inizialmente confondono il mondo esterno, materiale, con quello inferiore, psichico. Questa confusione si manifesta in una materializzazione dei prodotti dell'attività psichica, ai quali i bambini attribuiscono caratteri propri degli oggetti fisici, e in una sorta di umanizzazione degli oggetti fisici, ai quali i bambini attribuiscono alcune caratteristiche come coscienza, sensibilità e intenzionalità, che essi sperimentano su di sé e che fanno parte del mondo psichico. Questa confusione, presente soprattutto in età prescolare, viene superata in modo graduale e scompare del tutto solo nella preadolescenza. Prendiamo come esempio le idee che i bambini hanno espresso sul sogno: i più piccoli lo hanno descritto come una scena reale, che entra nella camera da letto e può essere vista non solo dal sognatore, ma da chiunque si trovi lì; verso i 7-8 anni c'è una iniziale ma incompleta distinzione degli eventi reali: l'origine del sogno è interiore ma è presente nella stanza e anche la mamma, se è li, può vederlo; solo i ragazzi di 11-12 anni hanno affermato che i sogni sono nel pensiero. Nelle concezioni sul mondo fisico la confusione tra realtà esterna, oggettiva, e realtà psichica, soggettiva, si manifesta, secondo Piaget, attraverso tre tendenze: animismo, artificialismo e finalismo. 1. Animismo: tendenza a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzioni (bici, tavolo, luna, sole). Per i bambini di 4-6\7 anni era vivo e dotato di intenzionalità ogni corpo coinvolto in un’azione. Durante l’età scolare questa tendenza di attenua, fino ad arrivare ai 11-12 anni, quando la vita viene associata solo a persone, animali e persone, e la coscienza solo ad animali e persone; 2. Artificialismo: tendenza a considerare le cose come il prodotto dell’attività umana. Si manifesta quando i 40 bambini si pongono le prime domande sull’origine delle cose (5-6 anni) e affermano, ad esempio, che sono stati gli uomini ad accendere il sole o a scavare i letti dei fiumi e a riempirli; Viene superato gradualmente fino ad arrivare, verso i 9-10 anni, ad abolirlo del tutto, differenziando l’attività umana da un mondo che esiste indipendentemente da essa. 3. Finalismo: Secondo Piaget, fino ai 7-8 anni, quando prevalgono concezioni di tipo animistico e artificiali stico, i bambini spiegano l'azione delle entità naturali attribuendola a obblighi o a intenzioni, allo stesso modo in cui spiegherebbero un comportamento umano, dimostrando così di non distinguere tra causazione fisica e causazione psicologica. I bambini percepiscono il mondo naturale come una comunità di esseri intelligenti, che operano per il bene dell'uomo, perché Dio vuole così (obbligo morale), oppure perché sono essi stessi ben intenzionati e benevoli (es: il sole è acceso per scaldarci, la luna illumina la notte per i cacciatori). Tutto che risulta in qualche modo utile all'uomo esiste o accade grazie a queste utilità. Piaget ha chiamato finalismo la tendenza a spiegare gli eventi individuando il fine che essi consentono all'uomo di realizzare. Quindi animismo, artificialismo e finalismo sono forme di spiegazione precausale e rispecchiano l’egocentrismo intellettuale. Solo con il suo superamento si arriva ad una concezione di realtà materiale e mentale simile a quella degli adulti. 4. Critiche a Piaget e punti di vista alternativi 1. La prestazione del bambino (ovvero quando affronta un problema) è influenzata da molti fattori, non solo dalla competenza, come l’attenzione, la memoria, l’interesse etc. Piaget considera la prestazione come indice del processo di pensiero sottostante senza tenere conto di memoria, attenzione, interesse, idea che si fanno del compito, non familiarità di questo e dei suoi contenuti; 2. Visione olistica di Piaget contrapposta da quella pluralistica dall’approccio HIP. Questo approccio vede la mente come un computer che riceve o cerca informazioni manipolandole e memorizzandole. Questi studiosi hanno presentato ai bambini di età prescolare versioni semplificate di compiti piagetiani che non ponevano eccessive richieste di conoscenze e memoria. I risultati mostrano che anche bambini di età più piccola di quanto indicato da Piaget (ma non prima dei 5 anni) riescono a risolvere i problemi (seriare, conservare, classificare) e che quindi sono in possesso di molte più abilità rispetto a quelle individuate da Piaget. Le ricerche hanno anche mostrato quanto siano eterogene le abilità dei bambini: la riuscita di un compito non assicura un pari successo in un altro compito apparentemente simile. La dimostrazione di precoci conoscenze e abilità nei bambini ha anche contribuito a rafforzare l'approccio innatista. È all'interno di questo approccio che è stato formulato un diverso punto di vista sullo sviluppo cognitivo, ovvero che i bambini sono dei teorici in erba. 4.1. I bambini come teorici in erba L'idea che le concezioni, tanto negli adulti quanto nei bambini, possono essere considerate vere e proprie teorie, è stata proposta in particolare da Susan Carey. Carey ha proposto un punto di vista alternativo sia a quello olistico di Piaget, sia a quello fin troppo pluralistico dell’approccio HIP. Si parla della teoria della mente. Secondo questo punto di vista, le teorie possedute dai bambini condividono delle proprietà con quelle elaborate dagli scienziati: impiegano concetti che si riferiscono a entità non osservabili, sono coese (formate da una rete di proposizioni interconnesse) e si appellano a delle strutture causali sottostanti. Le loro funzioni sono quelle di predire, interpretare, spiegare. Inoltre, come alle teorie scientifiche, anche a quelle ingenue dei bambini e degli adulti non scienziati è possibile applicare la distinzione tra teorie cornice (definiscono una serie di entità e processi fondamentali) e teorie specifiche (si servono di queste entità e processi per spiegare fenomeni più delimitati). Le teorie ingenue e quelle scientifiche condividono proprietà dinamiche, che riguardano i processi attraverso cui avviene il loro cambiamento. In entrambi i casi si tratta di processi nei quali l'esperienza ha un ruolo importante. Susan Carey sviluppa anche un'altra tesi (più difficile da accettare), connessa alla prima, che consiste nel sostenere che i bambini vengono al mondo già dotati di alcune teorie rudimentali (una fisica e una psicologica ingenue è una teoria dei numeri). Queste teorie innate consentono agli infanti di collegare e interpretare le informazioni che ricevono dall'ambiente e dalle proprie azioni, e rendono possibili i progressi. Questi ultimi avvengono man mano che i bambini incontrano dei dati che le teorie di cui sono in possesso non consentono di interpretare, e che possono venire formulati soltanto come generalizzazioni empiriche. L’accumularsi di generalizzazioni che la teoria non è in grado di spiegare, o che addirittura la 41 contraddicono, spinge i bambini ad arricchirla e revisionarla, fino a generare una nuova teoria, dotata di un campo di applicazione più basso. Teorie, moduli, generalizzazioni empiriche Le teorie sono solo uno dei vari tipi di strutture cognitive presenti nella memoria lungo termine. Un altro tipo di strutture riguarda, come le teorie, la conoscenza del mondo. Si tratta delle generalizzazioni empiriche o conoscenze di fatti, costituite da formulazioni di tipo generale (es: i cigni sono bianchi) che sintetizzano informazioni ricavate dall' esperienza. Alcune generalizzazioni empiriche descrivono la struttura di eventi ricorrenti (es: fare colazione), altre descrivono sequenze temporali di azioni e gli stati mentali che le accompagnano. Le generalizzazioni empiriche si distinguono dalle teorie per il fatto di riferirsi a entità e processi visibili. Per poter spiegare la regolarità che esse descrivono, bisogna fare ricorso a delle teorie: ad esempio, la generalizzazione che i cigni sono bianchi ci consente di prevedere che il cigno in cui aspettiamo di imbattersi sarà bianco, ma non di spiegare perché i cigni sono proprio di questo colore. Le generalizzazioni empiriche possono Codificare informazioni che non si riescono a collegare con una teoria ingenua perché non se ne vedono le connessioni, o perché contrastano con essa, e possono costituire Il punto di partenza per la revisione di una teoria o la costruzione di una teoria nuova. Tutti i psicologi sono convinti che accanto a processi generali per dominio esistono dei sistemi specializzati, i moduli, che operano solo su certi tipi di stimoli. I moduli fanno Dunque parte della dotazione innata, sono associati a deficit caratteristici (es: pazienti cerebrolesi) e si sviluppano secondo schemi specifici. 4.2. La conoscenza della vita mentale Lo sviluppo della conoscenza del mondo mentale viene indagato anche secondo altri approcci che hanno avuto inizio in anni diversi e si propongono varie finalità applicative. - metacognizione (anni 70): convinzione che il mondo in cui i bambini (ma non solo) si rappresentano processi cognitivi influisca sulle strategie che si impiegano quando devono imparare qualcosa (cap.9, par.2.3); - studio del sé e della motivazione: convinzione che i modi in cui i bambini rappresentano se stessi rispecchino le loro concezioni più Generali sulle caratteristiche o sui tratti di personalità che differenziano le persone, e che queste concezioni orientino il modo in cui essi affrontano i compiti cognitivi e sociali (cap.7); - studio dello sviluppo emotivo: I ricercatori hanno esaminato come cambia con l'età di conoscenza delle diverse emozioni, dei modi in cui vanno manifestate a seconda dei contesti in cui ci si trova, e delle strategie da usare per evitare o attenuare quelle spiacevoli. Questo insieme di conoscenze costituisce la competenza emotiva, che influisce sia sulle emozioni che una persona vive in prima persona, sia sulla capacità di comprendere quelle degli altri; 4.3. Origine e sviluppo della psicologia ingenua (teoria della mente) Secondo Alison Gopnik e Andrew Meltzoff l'iniziale teoria della mente di cui gli infanti sono dotati alla nascita è costituita dalla consapevolezza di essere simili alle altre persone e da una rappresentazione astratta del corpo, che consente loro di tradurre immediatamente in un programma motorio le azioni che vedono fare a un altro ed eseguirle a propria volta mostrando sorprendenti capacità di imitazione. All’inizio i bambini sperimentano su se stessi e attribuiscono agli altri solo sensazioni cinestetiche ed emozioni. Man mano che le loro azioni si fanno più complesse i bambini sviluppano la nozione di intenzione e la usano anche per interpretare e prevedere il comportamento altrui. Accanto a queste conoscenze se ne formano delle altre, che non sono ancora incorporate nella teoria ma costituiscono delle semplici generalizzazioni empiriche (che dunque produrranno però nuovi concetti). I primi discorsi spontanei dei bambini, che contengono verbi come “volere” o “piacere”, indicano che già a 18 mesi è presente la nozione di desiderio (capiscono che i desideri sono diversi dalla realtà materiale). A 3 anni appaiono termini che si riferiscono al pensare, credere, sapere. Basandosi su questi e altri dati, alcuni studiosi affermano che la teoria della mente dei bambini di 2 anni ha come fulcro la nozione di desiderio; solo verso i 4 anni compare quella di credenza, che consente una spiegazione più complessa dei comportamenti. Le prime indagini sulla teoria della mente erano giunte alla conclusione che sono verso i 4 anni i bambini comprendono che le persone possono avere delle false credenze che non corrispondono alla realtà. Abbiamo visto però, nel capitolo 2, che la conoscenza delle false credenze è già presente nei bambini di 15 mesi. 42 2. Teoria incrementale: le persone possiedono delle potenzialità su cui influisce l’ambiente e che possono essere modificate dall’impegno personale. Questa dicotomia è stata studiata soprattutto in relazione all’intelligenza. I bambini in età prescolare infatti non distinguono l’intelligenza dallo sforzo, poiché sono convinti che l’impegno assicuri il successo. L’intelligenza non rientra nei parametri utilizzati dai bambini per valutare sé stessi; tuttavia essi usano parametri diversi da quelli degli adulti come la cattiveria e la bontà. Secondo la teoria entitaria bontà e cattiveria sono caratteristiche che uno possiede stabilmente; secondo quella incrementale non ci sono bambini stabilmente buoni o cattivi. 2. Lo sviluppo emotivo Durante la fanciullezza si sviluppano le emozioni autocoscienti, che iniziano ad emergere nel secondo e terzo anno di vita. Tra queste ci sono senso di colpa e vergogna, le più studiate assieme all’empatia. Inoltre i bambini nutrono dei sentimenti anche nei propri confronti, provano quindi autostima. 2.1. Senso di colpa e vergogna Il senso di colpa è l’emozione più studiata poiché le viene attribuito un ruolo importante sia nello sviluppo della moralità, che nella genesi di vari disturbi mentali. Una cattiva divulgazione delle tesi freudiane ha a lungo screditato il senso di colpa, suggerendo che impedisca la spontaneità e la crescita personale e sostenendo che potesse sfociare in esiti patologici. Gli studiosi contemporanei, invece, sono convinti che, salvo casi particolari, sia un’emozione positiva. Il senso di colpa è suscitato dalle azioni che provocano sofferenze agli altri. La capacità di provarlo è necessaria per lo sviluppo di una condotta socialmente responsabile e per la formazione di relazioni interpersonali durature. Una delle ragioni per cui in passato veniva attribuita una cattiva fama al senso di colpa è che esso non veniva adeguatamente distinto dalla vergogna. Gli studi e le ricerche più recenti ne sottolineano invece le differenze. Il senso di colpa è il giudizio sfavorevole che riguarda una specifica azione. Alla base c’è l’empatia, nella quale l’attenzione è concentrata sulla persona sofferente (Lewis). La vergogna è un’emozione negativa indirizzata alla nostra intera persona, alla base c’è l’imbarazzo e quindi l’attenzione è focalizzata su di sé. Mentre il senso di colpa spinge a riparare al malfatto, la vergogna spinge a nascondersi, senza rimediare. Le differenze tra senso di colpa e vergogna si traducono in differenze individuali nella predisposizione a sperimentare in prevalenza l’una o l’altra quando si fallisce un compito, si viola una norma o si danneggia qualcuno. Queste differenze si riscontrano a tutte le età e sono dovute sia al temperamento, sia al comportamento degli adulti e quindi dalle pratiche educative. Un temperamento difficile comporta più frequentemente vergogna; genitori e insegnanti che abituano i bambini a ricevere valutazioni globali positive o negative, li predispongono a valutare sé stessi in maniera globale e quindi a provare più vergogna che senso di colpa quando falliscono o si comportano male. In età prescolare i bambini provano vergogna, senso di colpa e orgoglio soprattutto in presenza di un adulto che li osserva. Man mano che il bambino cresce, con l’interiorizzazione di regole standard di comportamento, l’emozione compare indipendentemente dalla presenza dell’adulto. Quando il senso di colpa diviene patologico L’idea che il senso di colpa abbia degli effetti positivi si è affermata di recente ed entra in contrasto con l’idea, formulata da Freud ma ancora sostenuta ad oggi da alcuni, che il senso di colpa sia alla base della depressione e di altri disturbi. La contraddizione può essere risolta individuando due tipi diversi di senso di colpa: uno benefico e uno patogeno. Si parla quindi, con la dovuta distinzione del senso di colpa dalla vergogna, di: - Senso di colpa predisposizionale: tendenza a provare senso di colpa in circostanze appropriate, favorito da manchevolezze o azioni negative che si può provare a riparare; - Senso di colpa cronico: tendenza a sentirsi sempre in colpa indipendentemente dalle circostanze. A questo tipo di senso di colpa sono associati i disturbi mentali. 2.2. La conoscenza delle emozioni Sulla base di numerosi studi Francisco Pons e Paul Harris hanno costruito nel 2000 un test per valutare tutte le principali componenti della conoscenza emotiva nell'arco di età compresa fra i 3 e gli 11 anni. Si tratta del Test di comprensione delle emozioni (TEC), che chiede ai bambini di associare delle situazioni descritte verbalmente e illustrate con disegni, a emozioni fondamentali (gioia, paura, tristezza, rabbia) o all'assenza di emozioni. Sulla base dei risultati hanno distinto tre periodi, nel corso dei quali aumenta il numero di 45 componenti comprese. In un primo periodo (5 anni), esterno, i bambini riconoscono le espressioni delle emozioni fondamentali e gli eventi che tipicamente le suscitano. Nel periodo mentale (7 anni) capiscono che l'intensità delle emozioni diminuisce nel tempo. Nel periodo riflessivo (9-11 anni) comprendono la possibilità di regolare le emozioni attraverso processi mentali E capiscono anche che un individuo può riflettere su una situazione da diversi punti di vista e che può perciò provare emozioni diverse e anche in conflitto le une con le altre, come avviene nelle emozioni ambivalenti e in quelle prodotte da giudizi morali. 2.3. Le regole di esibizione Non sempre le emozioni che una persona manifesta con le parole o con l’espressione corrispondono a quello che prova. A volte vengono nascoste o dissimulate in conformità alle regole di esibizione, che stabiliscono entro una data cultura quali stati d’animo manifestare in una certa situazione e nei confronti di certe persone; oppure vengono celate per evitare di essere presi in giro. In altri casi le espressioni possono essere amplificate o simulate per ottenere un vantaggio. I bambini cominciano molto presto controllare il proprio comportamento espressivo; già nel secondo anno di vita possono esagerare un'espressione allo scopo di attirare l'attenzione di qualcuno. A 3-4 anni i bambini sanno anche assumere un'espressione che non corrisponde a quello che provano allo scopo di ingannare qualcuno, e sanno nascondere sia emozioni negative che positive. Questi comportamenti indicano che i bambini hanno una conoscenza pratica del fatto che le espressioni non sempre corrispondono a quello che una persona prova. Nell’età scolare i bambini hanno una notevole comprensione delle regole di esibizione e delle loro ragioni. Tuttavia essi non ritengono che tutte le emozioni che possono ferire gli altri debbano essere nascoste o dissimulate. 2.4. La regolazione delle emozioni Le osservazioni del comportamento dei bambini e le loro risposte indicando un repertorio di strategie applicate dai bambini (già nella prima fanciullezza) nella regolazione delle emozioni: - Restrizione degli input: ottenuta ad esempio coprendosi gli occhi o tappandosi le orecchie se si ha paura; - Richiesta esplicita di aiuto e conforto e verbalizzazioni con cui i bambini cercano di minimizzare la portata di un evento; - Gioco: mezzo molto importante per regolare le emozioni perché è un’attività di puro piacere che suscita emozioni positive e distrae da quelle negative. A 5-6 anni i bambini riescono a spiegare verbalmente come si può far passare un’emozione spiacevole (farsi coccolare dalla mamma o darsi ad un’attività piacevole). Solo a 9-10 anni sono in grado di verbalizzare i processi psicologici implicati nella dissimulazione dell’emozione (distrarsi, dimenticare, riparare il danno). Funzioni emotive del gioco Vari studiosi hanno cercato di evidenziare le svariate funzioni del gioco nella vita dei bambini e di capire come mai essi vi dedichino tanto tempo. I punti di vista principali sono: Spencer: il gioco è un mezzo con cui l’uomo si libera del surplus di energia che rimane dopo aver eseguito le azioni necessarie alla sopravvivenza (oggi noi diciamo che i bambini con il gioco si “sfogano”); Lazarus: il gioco serve al rilassamento essendo un’attività libera da costrizioni e vincoli; Hall: i giochi nelle diverse età sono visti come una ricapitolazione della storia dell’uomo; Gross: è un pre-esercizio delle abilità adulte; Freud: manifestazione simbolica di bisogni profondi; Vygotskij: permette di realizzare desideri insoddisfatti; Piaget: il gioco come una palestra di sviluppo in cui, ripetendo più volte le azioni per piacere funzionale, per soddisfazione, i bambini perfezionano gli schemi acquisiti. Piaget dedica molta attenzione al gioco simbolico distinguendo tre modi in cui esso può avvenire: 1. Compensazione: il bambino “corregge la realtà”, fingendo di fare qualcosa di proibito o difficile oppure dando un lieto fine ad un evento in realtà finito male; 2. Liquidazione: riproduzione di un evento sgradevole per poi dominarlo; 3. Anticipazione: anticipare ciò che si teme o si desidera. 3. Lo sviluppo morale Lo sviluppo morale è un processo di cui si possono identificare varie componenti: la conoscenza e l’osservanza delle regole di comportamento; la capacità di resistere alle tentazioni; la capacità di giudicare autonomamente cosa sia bene e cosa sia male nelle varie situazioni; provare senso di colpa e 46 partecipazione empatica. C’è dunque una stretta connessione tra sviluppo morale, cognitivo, sociale ed emotivo. 3.1. Punti di vista sulla moralità Nello studio della moralità, gli psicologi hanno ripreso alcuni punti di vista proposti dalla filosofia morale del Seicento e del Settecento: - Locke, Saggio sull’intelletto umano (1688): non esistono principi innati alla base della moralità. I bambini acquisiscono i principi che gli vengono inculcati da piccoli e si convincono di averli sempre posseduti. Sostiene quindi che siano il relativismo culturale e il ruolo della socializzazione a sostenere lo sviluppo morale. Le sue tesi sono alla base delle ricerche dei comportamentisti; - Kant, Critica della ragion pura (1788): la moralità deriva da tendenze innate. La moralità è fondata su dei principi che consentono di guidare e giudicare le azioni. A questa tradizione si richiama Piaget; - Hume (1771-1776), Smith (1723-1790) e Rousseau (1712-1778): la moralità ha un fondamento innato, ma non è collocato nei principi, bensì nelle emozioni e nei sentimenti morali che ci spingono a dare aiuto agli altri o ci trattengono dall’arrecare loro danno. A tale tradizione si richiama Hoffman, secondo il quale i bambini sono precocemente capaci di sentimenti empatici e su di essi poggiano la moralità e lo sviluppo; Lo stato dell’arte: Turiel (1998) sostiene che oggi si assiste ad una contrapposizione tra una visione che vede la moralità come prodotto culturale e una che ne ricerca i fondamenti in aspetti universali dell’animo umano. Nessun approccio tra quelli proposti riesce a spiegare internamente la complessità dello sviluppo morale: ciascuno accentra aspetti ben diversi ma importanti. 3.2. Moralità ed empatia Le emozioni concorrono in vari modi alla genesi e allo sviluppo della moralità. La capacità di rilevare e comprendere le emozioni altrui consente di osservare gli effetti materiali delle proprie azioni e le reazioni che esse suscitano negli altri. A partire dalle ricerche di Hoffman, molti studiosi hanno sostenuto che i fondamenti veri e propri della moralità si trovano nelle emozioni empatiche, in particolar modo nella simpatia (agire positivamente verso gli altri dando aiuto e conforto); quando una persona ritiene di aver danneggiato un’altra, il dispiacere empatico dà origine al senso di colpa che induce a riparare il danno o a prevenirlo. L’empatia è quindi alla base di comportamenti altruistici e prosociali. La comprensione degli effetti delle proprie azioni e delle emozioni che queste suscitano negli altri, getta le basi della moralità: le emozioni delle persone significative incanalano il bambino verso il mondo delle regole sociali. Hoffman ritiene che il dispiacere empatico si sviluppi attraverso quattro stadi, strettamente connessi allo sviluppo della consapevolezza del sé. Anche la consapevolezza del sé è caratterizzata da quattro fasi: 1. Differenziazione sé-altro ancora vaga 2. Consapevolezza di sé e degli altri come entità fisiche distinte: grazie allo sviluppo del sé presimbolico (12 mesi) si entra in questa nuova fase; 3. Consapevolezza che il sé e gli altri hanno stati interni indipendenti (desideri, pensieri, bisogni): si manifesta poco dopo il riconoscimento di sé allo specchio; 4. Il sé e gli altri dotati di un’identità e di una storia: stadio che si raggiunge tra i 5 e gli 8 anni. Il dispiacere empatico si sviluppa attraverso le seguenti fasi: 1. Dispiacere empatico egocentrico: nel primo anno di vita il dispiacere empatico si traduce soltanto in manifestazioni di disagio o azioni volte ad attenuarlo. Non ci sono tentativi di alleviare la sofferenza altrui, poiché non c’è una chiara distinzione tra sé e gli altri; 2. Dispiacere empatico quasi egocentrico: nel secondo anno di vita i bambini distinguono il sé dagli altri, ciò rende possibile il passaggio dal contagio empatico ad una vera e propria simpatia per gli altri; ma non comprendono ancora le cause che suscitano la sofferenza e non hanno ancora compreso che gli altri hanno stati mentali diversi dai loro. La capacità di differenziare sé dall’altro corre parallelamente alla capacità di dare conforto e aiuto in modo appropriato alle esigenze altrui; 3. Dispiacere empatico veridico: a 2-3 anni, tra i fattori che inducono ad agire alla sofferenza altrui con simpatia c’è la comprensione delle cause che suscitano tale sofferenza e la differenziazione dei propri stati d’animo da quelli degli altri, accrescendo così la capacità di confortare ed aiutare in maniera appropriata; 4. Empatia per la vita di una persona: tra gli 8 e i 12 anni i bambini comprendono che alcune situazioni determinano per certi individui delle condizioni di sofferenza continuativa. Nell’adolescenza e nell’età adulta compare anche l’empatia per un gruppo sofferente, dovuta alla capacità di rappresentarsi gruppi 47 Secondo la Kochanska, l'ubbidienza convinta porta i bambini a costruire un'immagine di sé come bravi bambini, e questo a propria volta li spinge a obbedire anche quando non c'è nessuno che li controlla. Per rendere possibile l'autocontrollo i bambini devono imparare a inibire gli impulsi che spingerebbero a compiere azioni più gratificanti, cedendo alla tentazione. Questa capacità viene studiata nel paradigma sperimentale di differimento della gratificazione, ideato da Walter Mischel. Esso consiste nel mettere in tentazione il bambino dopo aver pattuito una regola; si è visto così la capacità di resistere alla tentazione è un lungo processo, che inizia nell'età prescolare, ma prosegue nel corso della media fanciullezza grazie alle crescenti abilità strategiche. Metcalfe e Mischel hanno proposto un modello generale dell'autocontrollo, che include due ordini di processi che coinvolgono due distinti sistemi: uno “caldo”: fattori emotivi e motivazionali che si sviluppano precocemente; e uno freddo: che si sviluppa più lentamente ed è legato a fattori cognitivi e legati alle conoscenze, tra cui cruciali sono quelli legati al sé. Il progresso dell'obbedienza va di pari passo con quello della disobbedienza. Inizialmente i bambini (tra 2 e 5) sono semplicemente in grado di resistere e dire “no” (rifiuto semplice), poi passano alla capacità di sfidare l'adulto direttamente, e infine a strategie sempre più complesse di negoziazione. 3.6. Il giudizio morale Secondo la psicoanalisi freudiana e il comportamentismo, la moralità deriva da un processo di interiorizzazione e pongono quindi l’accento sul ruolo degli adulti nella trasmissione di regole e nella loro acquisizione. A questo punto di vista si contrappone quello piagetiano che identifica due forme di moralità: 1. Moralità eteronoma: tipica dei bambini in età prescolare e che si fonda sul giudizio degli adulti. Piaget la studia a partire dalla valutazione dei bambini di due storie proposte in coppie, confrontando i comportamenti descritti. Ha individuato che fino agli 8-9 anni i bambini identificano la moralità rigorosamente con l’obbedienza, accettando quindi tutte le regole proposte dagli adulti, anche se non sempre gliene sono chiare le ragioni; 2. Morale autonoma: comincia ad affermarsi verso i 9 anni e viene intravista anche nei bambini intervistati da Piaget. Essa è costituita dal bisogno di trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati e da un ideale di giustizia indipendente da ogni pressione esterna. Questa morale quindi è composta da principi, da norme di condotta, che consentono di valutare le azioni sulla base delle intenzioni benevole o malevole e non sugli effetti. Secondo Piaget la nozione che esprime la morale autonoma (dato che essa non consiste, a differenza di quella eteronoma, in una serie di regole) è la giustizia che egli analizza in due accezioni: 1. Retributiva: è relativa al rapporto tra colpa e punizione. Studiata da Piaget chiedendo ai bambini di indicare quale tra varie punizioni, era per loro la più giusta da utilizzare per il protagonista di una storia. Alla morale eteronoma corrisponde l’idea che ad ogni infrazione deve corrispondere una severa punizione; alla morale autonoma che un’infrazione deve essere seguita da reazioni adeguate alla sua portata; 2. Distributiva: è relativa all’uguaglianza tra le persone nella spartizione delle risorse o nella divisione dei compiti. Piaget ha mostrato ai bambini storie in cui i problemi riguardavano la distribuzione di compiti e possedimenti. Egli ha rilevato tre periodi: nel primo (7-8 anni) è giusto tutto quello che stabilisce l’adulto, anche se può comportare ineguaglianze; nel secondo (8-11 anni) fanno coincidere la giustizia con l’uguaglianza, affermando che bisogna dare a tutti la stessa quantità di beni; nel terzo (11-12 anni) i ragazzi temperano l’uguaglianza con l’equità che tiene quindi conto delle differenze individuali e della circostanza. Damon ha esteso anche ai bambini di 4-5 anni le ricerche piagetiane sul giudizio morale, semplificandole. Individuando le stesse fasi piagetiane: prima fase (4-5 anni) non seguono un criterio morale, ma scelte che privilegiano loro stessi; seconda fase (6-8 anni) criteri unilaterali tra cui prevale l’egualitarismo perché evita discussione; terza fase (9 anni in poi) si rendono conto del conflitto tra vari criteri e coordinano vari elementi della situazione, per realizzare una distribuzione equa e non rigidamente egualitaria. Si individua un passaggio da un orientamento egoistico e pre-morale, ad un orientamento morale rigido ed infine ad un orientamento morale più flessibile. 3.7. La revisione della prospettiva piagetiana Le ricerche più recenti (in particolare quelle di Turiel, Nucci e Smetana) hanno modificato il quadro di Piaget mostrando che già a partire dai 3 anni i bambini distinguono le regole morali, che riguardano il benessere e i diritti delle persone e che hanno carattere universale (es: non rubare), da quelle convenzionali che 50 riguardano i modi di condurre certe attività (es: non parlare con la bocca piena), decisi dalle autorità o dai partecipanti a seconda dei contesti. La distinzione tra i due tipi di regole è resa possibile dal modo in cui vengono introdotte e dalle reazioni suscitate dalle loro infrazioni. Nella prima fanciullezza questo compito è effettuato dai genitori e dagli insegnanti che mostrano ai bambini le azioni cattive che vanno evitate assolutamente e quelle che invece sono di poco conto. Importante in questo senso è anche la reazione dei coetanei: mentre la violazione di regole convenzionali di solito passa inosservata, nella violazione di regole morali i bambini reagiscono intensamente, difendendosi o mettendosi a piangere. Infine compare precocemente anche l’idea che ci siano delle attività che non incidono sul benessere di nessuno e sulle quali non esistono regole. Esse costituiscono una sfera personale, sulla quale si esercita l’autonomia del singolo. Già a 3 anni bambini affermano che un genitore non deve costringere un bambino a indossare un abito che non gli piace. L’idea di una sfera personale, oltre a cosa costituire una fonte di conflitti e negoziazioni tra genitori e figli, è il punto di partenza per la formazione di una nozione di primaria importanza nella vita degli adulti: quella di libertà, intesa come ambito di scelte sulle quali le autorità politiche non devono intervenire. Capitolo ottavo Lo sviluppo sociale Uno degli aspetti del processo di socializzazione nella prima fanciullezza è l’ampliarsi dello spazio di vita. La nozione di spazio di vita (o spazio vitale) è stata introdotta da Kurt Lewin e indica l’insieme di luoghi, situazioni e interazioni della persona in uno specifico momento della sua vita. Secondo Lewin lo spazio di vita si amplia con lo sviluppo anche per la crescente abilità nel distinguere tra sé e il mondo esterno e tra reale e irreale. 1. La teoria dei sistemi ecologici La teoria dei sistemi ecologici di Urie Bronfenbrenner ci aiuta a comprendere meglio i diversi aspetti dell'ambiente che hanno rilevanza per lo sviluppo umano. Rifacendosi alla teoria di campo di Kurt Lewin, Bronfenbrenner lo sviluppo; l'ambiente psicologico è quello che è a seconda del modo in cui il soggetto lo percepisce e le vive, e poiché l'essere umano è in costante evoluzione nel corso del tempo, anche l'ambiente cambia. Come Lewin, egli sostiene che l’ambiente psicologico non corrisponde a ciò che “sta fuori” dall’individuo; Tuttavia gli eventi di natura fisica, biologica o sociologica lo influenzano contribuendo a definire l’ecologia psicologica, ossia quell’insieme di condizioni esterne in grado di influire sullo spazio di vita ad un dato momento. Bronfenbrenner definisce anche le nicchie ecologiche, ovvero le regioni dell’ambiente che risultano essere favorevoli o sfavorevoli per lo sviluppo, in relazione alle caratteristiche del bambino. Bronfenbrenner ha elaborato una concezione più articolata di quella lewiniana individuando diverse condizioni che formano l’ambiente ecologico, il quale può essere concettualizzato in gradi diversi di astrazione, ciascuno dei quali corrisponde a diversi scenari o strutture ambientali (matrioske). È organizzato quindi secondo una gerarchia di sistemi: 51 - Microsistema: è il livello centrale entro il quale le unità interpersonali minime costituite da diadi si rapportano al loro interno e hanno interazioni dirette con altre diadi. È quindi un insieme di relazioni interpersonali, attività, ruoli e regole che si svolgono entro luoghi definiti (es: famiglia, scuola etc.); - Mesosistema: è un sistema di microsistemi. Si riferisce a due o più contesti immediati in cui il soggetto partecipa direttamente e alle loro interconnessioni. È costituito da più microsistemi e dalle loro relazioni. Ad esempio famiglia e asilo formano un mesosistema, ciò che avviene in uno di questi contesti influisce sul modo in cui il bambino vive l’altro contesto; - Esosistema: è costituito da un’interconnessione tra due o più contesti sociali, almeno uno dei quali è esterno all’azione diretta del bambino. Ad esempio vita familiare e lavoro dei genitori: anche se il bambino non partecipa attivamente al lavoro dei genitori, questo ha delle conseguenze sulla sua vita (benessere economico, tempo a disposizione per stare con i suoi etc.); - Macrosistema: è il maggior livello di generalità e astrazione che comprende le istituzioni politiche ed economiche, i valori della società e la cultura. 2. L’ampliamento del microsistema familiare Crescendo, il bambino partecipa in modo diretto ad un maggior numero di microsistemi e, all’interno di ciascun microsistema, il bambino è esposto a cambiamenti importanti (ampliarsi dei rapporti all’interno del sistema familiare grazie ai nonni e fratelli). 2.1. I fratelli Statisticamente, è nel corso della prima fanciullezza che molti bambini sperimentano l'arrivo di un fratello di una sorella. Il sistema di relazioni familiari cambia profondamente con la nascita di un secondo bambino. Può condurre, per la madre, a una diminuzione quantitativa e qualitativa della relazione con il primogenito, che a volte intensifica la ricerca del padre. A mano a mano che il piccolo inizia a interagire in modo significativo anche con il padre e il fratello maggiore, nel giro di due anni, si delineano entro la famiglia due sottosistemi: 1. Sottosistema (o coppia) parentale: formato dagli adulti; 2. Sottosistema fraterno: membri della giovane generazione. Questa transizione non è sempre facile. Talvolta i genitori si sentono rivolgere la richiesta di mandare via l'intruso; altre volte la gelosia si esprime in capricci o in temporanee regressioni; queste reazioni sono tanto più forti quanto più difficile è Il temperamento del primogenito. Tuttavia la possibilità di superare questa fase di turbamento non dipende tanto dall'intensità delle reazioni immediate del bambino, quanto dal contesto familiare e ambientale nel suo insieme (es: stato emotivo dei genitori le loro abilità nel preparare il primogenito all'arrivo del neonato etc.). Le interazioni tra fratelli, benché difficili, sono un’occasione di apprendimento e una palestra relazionale. I fratelli, pur essendo geneticamente affini e pur adottando comportamenti imitatori (da parte soprattutto del più piccolo), hanno più probabilità di essere diversi l’uno dall’altro. I genitori infatti tendono a comportarsi diversamente con ciascun figlio contribuendo a creare per i fratelli influenze ambientali non condivise. I fattori che incidono sulle differenze sono: Ordine di genitura: il diverso trattamento risponde alle specificità temperamentali, e alle diverse età. Infatti i primogeniti guadagnano in famiglia una posizione speciale, sperimentando per un lasso di tempo la situazione di figlio unico; mentre ai bambini successivi viene richiesto di adattarsi all’ambiente familiare con regole già stabilite e a condividere da subito le cure genitoriali. Si pensa questo possa influire sulla personalità: i primogeniti sono più autoritari, ambiziosi e più rivolti verso la famiglia, esercitando un ruolo protettivo nei confronti dei fratelli minori; gli ultimogeniti benché non debbano sperimentare l’arrivo di un rivale più giovane, possono provare sentimenti di inferiorità, sfiducia, minore autostima e minor attaccamento alla famiglia; Numerosità della fratria; Omogeneità o disomogeneità di sesso; Distanza d’età. I bambini sono consapevoli molto precocemente di queste differenze che possono generare rivalità. La relazione fraterna è caratterizzata da un coinvolgimento ambivalente per cui molto spesso alla condivisione positiva di giochi, si affianca il conflitto e la lite (una conflittualità eccessiva può predisporre comportamenti devianti, difficoltà scolastiche, sintomi ansiosi o depressivi e in alcuni casi può sfociare in una vera e propria vittimizzazione, soprattutto di un fratellino o una sorellina da parte di un maschio di età 52 amicizia si fa più appropriata per le relazioni che si creano nella scuola d’infanzia. Infatti l'amicizia, per esistere, dipende da qualcosa che “sta dentro di noi” e in particolare dal riconoscersi amico e dal riconoscere l'altro come tale punto lo sviluppo dell'amicizia come tipo di rapporto interpersonale si intreccia quindi con il crescere della consapevolezza su di essa. Già a 5 anni i bambini mostrano una preferenza unilaterale verso altri bambini e nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte a scelte reciproche. Inoltre a quest’età sanno già differenziare tra amici e conoscenti. Nello spiegare le proprie preferenze, la maggior parte dei bambini mette in primo piano gli aspetti esteriori dell’amico e il possesso di beni (“è mio amico perché ha un Superman gigante”: competenze esplicite); non sono ancora in grado di esplicitare gli aspetti più psicologici dell’amicizia, come la lealtà, la confidenza etc. Ciononostante anche a quest’età i bambini tengono conto dello stato d’animo dei loro amici, consolandoli ad esempio quando sono tristi o condividendo momenti di gioia con loro (competenze implicite). Il compagno immaginario Il compagno immaginario è frutto della fantasia del bambino, è di solito una persona umana, ma può anche essere un oggetto personificato. La caratteristica principale di questo amico e di essere visibile solo dal suo inventore, che però interagisce con la sua creazione come se fosse reale. Il controllo sul partner, senza rischio di conflitti, costituisce una delle differenze principali con le relazioni reali, e fa sì che gli amici immaginari assumano caratteristiche idealizzate, adattandosi alle diverse esigenze del bambino. Questi personaggi sono stati a lungo considerati indizi di difficoltà psicologiche, di carenze di quantità e qualità delle relazioni interpersonali in quanto prodotti da bambini insicuri che compensano l’assenza di amicizie reali. Degli studi hanno poi ridimensionato il carattere patologico considerandolo parte del normale sviluppo psichico e sottolineando che è un fenomeno molto diffuso (71% dei bambini). Analizzando soprattutto l'ipotesi della funzione compensatoria (ho un amico immaginario perché non ho amici nella realtà), si è visto che ad avere un comportamento immaginario sono più spesso i figli unici. Ciò nonostante, questi bambini non mostrano carenze nelle abilità relazionali. Al con sembrano ricevere beneficio a vari livelli: sono più collaborazione e vivono le loro relazioni di amicizia con più intensità e intimità. Sembra Dunque rafforzarsi l'ipotesi, già avanzata da Piaget, che il compagno immaginario sia una specie di “prova”, uno scenario di fantasia in cui il bambino può esercitare e affinare le proprie competenze relazionali senza mettere a repentaglio la propria autostima e immagine di sé. 3.3. Gradi di coinvolgimento sociale Nonostante l’esistenza di un gruppo di coetanei implica l’esistenza di interazioni sociali, se si osserva un gruppo di bambini all’asilo ci si accorge che ciascuno di essi, prima o poi, mette in atto dei comportamenti non sociali (giocare da soli, bighellonare senza fare nulla etc.). Secondo Mildred Parten, che ha messo a punto la classificazione delle attività infantili in base al grado di partecipazione sociale, la frequenza delle azioni non sociali declina rapidamente superati i due anni. Ricerche più recenti però sostengono che essi siano ancora presenti a 3-4 anni. Secondo la classificazione della Parten vi sono tre gradi di coinvolgimento sociale: 1. Gioco parallelo: i bambini giocano indipendentemente l’uno dall’altro ma in circostanze che li accomunano, senza influenzare l’attività di chi gli sta accanto; 2. Gioco associativo: i bambini svolgono attività uguali o simili tra loro, rivolgendo particolare interesse al carattere comune dell’azione. Conversano, si scambiano oggetti, anche se la partecipazione di ognuno non è fondamentale; 3. Gioco cooperativo: un gioco organizzato in cui i partecipanti rivestono ruoli diversi, necessari alla realizzazione dell’attività, di una drammatizzazione, di una gara. In queste situazioni è necessario che ciascuno svolga il proprio compito. È proprio in relazione al gioco finalizzato che nasce la figura del leader che stabilisce il gioco. Secondo Howes e Matheson questi gradi individuati da Parten sono corretti, ma non si pongono in forma stadiale (i giochi paralleli continuano ad esserci anche quando si presenta quello associativo). Alcuni studiosi, rifacendosi a teorie piagetiane, hanno visto il gioco parallelo come manifestazione dell’egocentrismo infantile, in quanto il bambino è poco sensibile alla presenza degli altri. Tuttavia studi recenti hanno messo in luce che il gioco parallelo è seguito quasi sempre da gioco associativo o 55 cooperativo. Infine la preoccupazione degli insegnati e dei genitori di fronte ad un bambino che ama giocare da solo è giustificata solo se il bambino vaga senza scopo e cerca inutilmente di aggregarsi agli altri; mentre è semplicemente propensione individuale se si impegna costruttivamente in attività indipendenti. I giocattoli e l’ambiente di gioco Benché i bambini con l’emergere della funzione simbolica trasformino qualunque cosa fantasticamente (quindi il gioco è possibile senza oggetti appositi o anche immaginando giocattoli, la disponibilità dei giocattoli è un invito al gioco, e ne influenza le modalità. Nella nostra società il gioco viene invece facilitato dai giocattoli, scelti in maniera appropriata in relazione all’età e ai gusti del bambino. Talvolta gli oggetti (orsacchiotto) sostituiscono la figura materna e si chiamano oggetti transazionali. Molti studi hanno determinato che vi sono dei giocattoli più adatti per il gioco individuale (disegno, lettura), altri per il gioco collettivo sia di esercizio che sociodrammatico (utensili da cucina, costruzioni, stoffe). Inoltre si ritiene che giocattoli molto specifici (macchinine, bambole) siano meno utili allo sviluppo perché stimolano meno la fantasia rispetto a materiali generici. 4. Gioco e socializzazione Quasi tutte le azioni di un bambino, con i più vari oggetti e situazioni, possono assumere carattere giocoso. Molti autori ritengono il gioco un insieme di disposizioni, applicabili a qualunque azione e non una classe di comportamenti a sé stanti. Possiamo riconoscere questa serie di comportamenti giocosi secondo dei criteri di valutazione forniti da Burghardt (es: azioni non del tutto funzionali al contesto, ha inizio in assenza di un disagio acuto o cronico). Analizzando il periodo senso-motorio, Piaget ha affermato che il bambino che gioca è libero dallo sforzo di adeguare la sua condotta alle richieste della realtà esterna e può fare quello che più gli piace (assimilazione prevale sul l'accomodamento). Grazie a questa proprietà il gioco assolve sia funzioni psicologiche, ma anche fisiche e sociali. Herbert Mead parla, nell’ambito della psicologia sociale, di interazionismo simbolico. Gli scambi sociali sono possibili perché gli individui condividono dei significati e per interagire efficacemente, devono prevedere il significato che le proprie azioni avranno per l’altro e comprendere cosa l’altro intende con le sue. Secondo Mead questo scambio è reso possibile grazie all’istanza psicologica chiamata altro generalizzato, che opera come uno spettatore interno e controllore delle azioni dell’individuo. Secondo Mead, l’assunzione del punto di vista altrui (role-taking) viene appresa attraverso: • Scambi interpersonali dove il bambino sperimenta numerose tipologie di azioni-reazioni: inizialmente sono esperienze concrete; poi il bambino arriva a sistematizzare gli elementi costitutivi dei vari scambi in forma astratta e generalizzata; In questo modo giunge a mettersi non solo nei panni di specifiche persone (qui e ora), ma anche ad anticipare in termini Generali il significato sociale delle proprie azioni; • Giochi di finzione o simbolici in cui il bambino svolge più ruoli e gli permettono di identificarsi in personaggi per lui rilevanti. Questa è la forma più semplice dell'essere un altro nei confronti del proprio “Sé” (es: si rivolge a se stesso come fosse un insegnante e poi si risponde, ti finge un poliziotto per ammonire un pupazzo, vende e compra etc.). 4.1. Il gioco sociodrammatico Il tipo di giochi cui fa riferimento Mead è il culmine di un lungo processo di sviluppo del gioco simbolico. La valenza sociale del gioco simbolico è presente già nella prima infanzia (evidente il carattere fittizio dell’azione). Verso i 3 anni acquisiscono maggiori capacità cognitive riuscendo a rispondere all’immaginazione di un coetaneo: nasce il gioco sociodrammatico, cioè il gioco in cui partecipano più bambini. In questo gioco il bambino svolge di solito una parte sola, ma per farla bene deve conoscere anche i ruoli che eseguono gli altri. Per questo può essere considerato una commedia di cui i bambini sono contemporaneamente autori, registi e attori. Essi devono attribuirsi delle parti, stabilire cosa si deve fare ed eseguirlo. Di rado il copione è già stabilito dall’inizio, per questo i bambini entrano ed escono dal ruolo (es: quando una bambina che finge di fare la mamma dice al compagno che impersona il figlio “tu adesso piangi perché non vuoi mangiare”, esce temporaneamente dal gioco). Queste “uscite” indicano una maggior consapevolezza della distinzione tra realtà e finzione. Il gioco sociodrammatico sembra utile a rafforzare numerose abilità cognitive: attenzione ragionamento logico, memoria, creatività, oltre che a favorire l'assunzione di ruoli messa in luce da Mead; non a caso i bambini che si impegnano a lungo in questo tipo di gioco sono valutati dai loro insegnanti come più competenti socialmente. 56 4.2. Differenze di genere nel gioco La libertà d'azione che caratterizza il gioco evidenzia le differenze individuali in base alle singole scelte di gioco la parte dei bambini. Tra le differenze individuali che hanno richiamato l'attenzione degli studiosi vi sono quelle legate al genere. È innegabile infatti che i due sessi sviluppino, proprio nel corso della prima fanciullezza culture del gioco notevolmente diverse. Uno studio di Reiner Banse e colleghi ha dimostrato che la scelta di giocattoli conformi al genere è indipendente dal livello di flessibilità degli stereotipi, quindi l'adesione ai modelli stereotipici resta alta, anche se i bambini comprendono che agire diversamente possibile. In una recente ricerca (Baumgartner, 2002) si sono evidenziate le differenze tra tre scuole di Roma nell’ambito della quantità e qualità dei giochi. Nonostante le differenze ascrivibili a caratteristiche dell’ambiente, in tutte le scuole si è riscontrata una separazione degli alunni per genere e una diversità nei passatempi scelti (anche se alcuni giochi, come la corsa, sono scelti da entrambi i generi). Molti studiosi hanno cercato di risalire alle origini di questo processo. 5. Lo sviluppo delle differenze di genere Nella scuola dell'infanzia si osserva il crearsi di un mondo maschile è un mondo femminile. Alcuni insegnanti cercano di contrastare questi fenomeni privilegiando attività comuni a tutta la classe, o proponendo giochi “dell’altro sesso” ai maschi o alle femmine; ma accade ancora molto spesso che gli insegnanti accettino o senza volere rinforzino la segregazione di genere, ad esempio rivolgendosi alla classe con frasi che contrappongono “voi bambini” o “voi bambine”. La divisione in gruppi omogenei per sesso e al tempo stesso conseguenza è causa delle diversità di interessi e comportamenti tra maschi e femmine. Infatti la somiglianza e la condivisione di interessi porta ad interagire più volentieri con queste persone e inoltre l’appartenenza al gruppo incrementa l’omogeneità tra i membri del gruppo e la diversità dagli altri. 5.1. Componenti della tipizzazione sessuale Bambini e bambine cominciano a mostrare chiari segni di tipizzazione di genere Ben prima di andare alla scuola dell'infanzia. Per tipizzazione di genere si intende l'assunzione di modi di comportamento e preferenze concordanti con quelli ritenuti generalmente appropriati al proprio sesso biologico e anagrafico; è un processo psicologico lungo che, secondo una classificazione proposta da Aletha Huston negli anni 80, si manifesta in almeno sei ambiti, mediante almeno 4 tipi di punti di vista psicologici. 57 comprensione è il punto di arrivo di una sequenza di livelli, che vanno di pari passo lo sviluppo cognitivo individuato da Piaget e in particolare con la capacità di conservazione: 1. Primo livello: (3 anni). I bambini raggiungono l’identità di genere, caratterizzato dalla capacità di indicare correttamente il proprio sesso e quello delle altre persone, senza aver capito che il sesso non cambia con l’età; 2. Secondo livello: (5 anni). I bambini raggiungono la stabilità di genere. Sanno che il loro sesso non cambierà, ma credono che possa essere modificato da comportamenti del sesso opposto (es: per un maschio mettere lo smalto); 3. Terzo livello: (6-7 anni). Si raggiunge la permanenza di genere. Comprendono che il sesso è una caratteristica immodificabile, che non dipende da aspetti superficiali, come l’abbigliamento o specifici comportamenti. È solo a questo punto che i bambini tendono ad imitare preferenzialmente persone del loro stesso sesso. Vari studi hanno confermato le tesi di Kohlberg e la sua sequenza stadiale, riducendo però le età in cui si presentano tali livelli. Una ricerca longitudinale ha evidenziato che I bambini che raggiungono per primi il livello dell’identità sessuale manifestano comportamenti tipizzati e hanno maggiori conoscenze sugli stereotipi. E dunque il semplice riconoscimento del proprio sesso a promuovere l'attenzione per le informazioni su di esso è la motivazione a eseguire le norme che lo riguardano. L’effetto della permanenza di genere è invece quello di una visione meno rigida degli stereotipi sessuali, accettando anche comportamenti atipici: ad esempio, i bambini di questo livello sono disposti più degli altri ad affermare che non è sbagliato per un maschietto Mettersi lo smalto sulle unghie e a dichiarare la propria disponibilità a fare amicizia con lui. La permanenza del genere si associa inoltre ha una diminuzione della paura di cambiare sesso adottando comportamenti appropriati al sesso opposto. Alcuni aspetti di queste concezioni classiche dello sviluppo dell'identità di genere sono stati ripresi dalla teoria dello schema sessuale, nel quadro di un approccio HIP. Secondo questa teoria i bambini iniziano presto a riconoscere la presenza di differenze tra individui dei due sessi e ad organizzarle in schemi che permettono loro di interpretare la realtà sociale intorno a sé. Durante la prima fanciullezza i bambini utilizzano questi schemi per individuare comportamenti appropriati a se: una bambina che deve scegliere un giocattolo tende a preferire una bambola; ma non solo: se un giocattolo nuovo e “neutro” (non marcato in precedenza) viene etichettato durante un esperimento come “un gioco per le femmine” i bambini di quattro o cinque anni partecipanti tenderanno a scartarlo anche se In un primo momento l'avevano trovato molto attraente. Gli schemi funzionano Insomma da filtri nella lettura della realtà al punto tale che se si presentano a dei bambini delle immagini o dei filmati in cui i maschi femmine effettuano azioni non convenzionali per il loro sesso, i soggetti le immagazzinano in memoria “correggendo” l'errore: così un infermiere maschio visto in un film viene ricordato come un medico, mentre l'immagine di un bambino intento a cucinare viene ricordata come quella di una bambina. A differenza di Kohlberg non ritengono che il comportamento tipizzato dipende dal processo cognitivo che porta alla costanza di genere; ma che schemi cognitivi e comportamentali congruenti evolvono di pari passo. 5.4. Componenti biologiche nelle differenze di genere Ci si è chiesto se i fattori biologici abbiano un ruolo nelle differenze di genere. È ovvio che la natura fa la sua parte nel momento del concepimento a seconda se l’ovulo sia raggiunto da uno spermatozoo Y (maschio) o X (femmina). Numerosi studi sono stati condotti per valutare quanto sia determinante, la struttura cromosomica. Si sono così studiate tre sindromi: • Sindrome di Klinefelter: uomini presentano una tripletta XXY (al posto che XY) e presentano insoddisfazione per la propria identità di genere; • Sindrome di Turner: donne che presentano una mancanza del cromosoma X (al posto che XX) e che hanno una personalità ultra-femminile. • Sindrome adrenogenitale: eccessiva esposizione agli ormoni androgeni, comporta una mascolinizzazione della personalità delle donne. La correlazione tra comportamento e fattori biologici non implica che questi ne siano l’unica causa. Molti altri fattori possono aggiungersi, tra cui importantissimo è il modo in cui le persone reagiscono a bambini o bambine “diversi”. 60 Tra gli studiosi del comportamento, etologi, sociobiologi e psicologi evoluzionisti sono stati i più inclini a considerare le differenze di genere come radicate nella dotazione biologica innata. Oltre il 90% della storia evoluzionistica della nostra specie si è svolta nel contesto delle società di cacciatori e raccoglitori, nelle quali abilità spaziali, forza fisica e aggressività dei maschi giocavano un ruolo cruciale per la sopravvivenza e la difesa il territorio, mentre le femmine, con la gravidanza e l'allattamento, si specializza vano nell'attività di cura. I ruoli di genere che ancora oggi sopravvivono sono spiegati, in questa prospettiva, dall'investimento parentale, ossia il diverso costo della riproduzione: basso per i maschi alto per le femmine. La tendenza del maschio a controllare la sessualità femminile deriverebbe dalla necessità di assicurarsi che la prole a cui dedica i propri sforzi sia effettivamente sua. Le spiegazioni sociologiche sono state oggetto di dure critiche, soprattutto da parte di studiose statunitensi coinvolte nel l'ideologia femminista; il principale rimprovero è quello di un semplicistico parallelismo tra il comportamento umano è quello animale, e di un'insufficiente considerazione delle componenti valoriali e culturali nelle differenze di genere 5.5. Ruoli sessuali e cultura Sociologi e antropologi culturali sostengono l’esistenza di universali culturali relativi al genere, ossia presenti in tutte le culture. Sostenendo che se il confronto tra culture evidenzia somiglianze tra ruoli maschili e femminili, Allora tali ruoli dovrebbero essere considerati universali culturali, fortemente radicati nelle basi biologiche della specie. Un esempio classico di questo approccio, che attribuisce ai maschi uno status sociale suoeriore, è la ricerca di Parsons e Bales, che distingueva entro la famiglia un ruolo paterno strumentale (volto a fornire supporto materiale, pater familias) e un ruolo materno espressivo (volto verso aspetti emotivi e relazionali). Dagli anni ’80 in poi questa idea è stata messa in crisi da una quantità di dati che evidenziano la complessità e la variabilità dei modi in cui maschi e femmine si spartiscono i compiti, diritti e potere nelle società. Nel contesto attuale infatti, la visione del pater familias individuata da Parson e Bales non è corretta, poiché i ruoli familiari sono più intercambiabili e sono diversi da cultura a cultura. Parte terza: la media fanciullezza Capitolo nono Lo sviluppo cognitivo La media fanciullezza corrisponde al periodo che va dai 6 agli 11 anni e coincide con la frequenza della scuola elementare. A scuola si ha l’occasione di frequentare i propri coetanei uscendo dall’ambito familiare e permette di apprendere delle abilità e conoscenze basilari come la scrittura, la lettura, la storia ecc. Tutto questo ha un grande impatto sullo sviluppo cognitivo e sociale. La media fanciullezza corrisponde al III stadio della teoria di Piaget, quello operatorio concreto, che è lo sviluppo successivo di quello preoperatorio nel quale Piaget aveva individuato grandi limiti. Trasformando questi limiti nei loro opposti, si individuano le caratteristiche dello stadio delle operazioni concrete: il pensiero è reversibile e quindi si supera l’egocentrismo intellettuale, si può compiere vari tipi di operazione, tra cui seriazioni e classificazioni, si riproducono rapporti geometrici, si acquisiscono nozioni temporali. Tuttavia secondo Piaget, queste operazioni si riescono solo ad applicare a materiali concreti e non ancora a formulazioni verbali. L’approccio HIP ha in parte revisionato il quadro di Piaget, sottolineando il carattere eterogeneo delle abilità cognitive e il ruolo della memoria a breve termine. 1. Il punto di vista piagetiano Secondo Piaget, durante lo stadio delle operazioni concrete emergono due vasti insiemi di operazioni mentali: quelle logico-aritmetiche e quelle spazio-temporali o infralogiche. 1.1. Le operazioni spazio-temporali (infralogiche) Le operazioni logico-aritmetiche sono quelle di classificazione e seriazione (cap. 6): riguardano le somiglianze e le differenze tra oggetti distinti, indipendentemente dalle loro vicinanze spazio-temporali (Babilonia e New York appartengono entrambe alla classe delle città, anche se i loro siti distano migliaia di chilometri è la prima non esiste più da molti secoli); Le operazioni spazio-temporali riguardano rapporti spaziali e temporali (come interno-esterno, sopra- sotto, prima-dopo etc.). Si differenziano dalle prime per contenuto ma non per forma: si organizzano in 61 raggruppamenti del tutto uguali a quelle logico-aritmetiche. Infatti c’è sia addizione di relazioni temporali o spaziali, ossia quando si ordinano eventi in una successione oppure quando si comprende la transitività di relazioni spaziali; sia moltiplicazione, ossia quando si mettono in relazione una serie temporale e una spaziale. Inoltre esistono delle operazioni di partizione che vengono effettuate su un’unica totalità (come un oggetto o un evento). Quindi un’entità spaziale (oggetto) o temporale (evento), può essere dissociata in pezzi sempre più piccoli per poi essere ricostruita, esattamente come può avvenire per una qualsiasi classificazione adattiva. 1.2. Lo sviluppo delle nozioni spaziali: i rapporti topologici ed euclidei Per mettere in luce la comprensione dei rapporti spaziali nei bambini, Piaget e Inhelder hanno ideato vari compiti. Uno tra questi consiste nel chiedere ai bambini di ricopiare delle forme indicate. Questo compito chiama in causa sia le abilità percettive che la concezione dei rapporti spaziali. È stato visto come sotto i 2 anni e mezzo i bambini eseguono solo degli scarabocchi; dai 2 anni e mezzo ai 4 invece i bambini riescono a tener conto del modello distinguendo innanzitutto le forme aperte da quelle chiuse per poi introdurre altre proprietà (intersezione o inclusione). Queste proprietà sono studiate dalla “topologia”. I rapporti topologici sono quei rapporti spaziali che vengono presentati per primi nel corso dello sviluppo (2 anni e mezzo - 4): sono rapporti che rimangono immutati quando una figura viene deformata modificando la distanza tra i punti senza però interromperne il contorno. Tra i 4 e i 7 anni i bambini iniziano a tener conto della presenza di lati e angoli e iniziano quindi a riprodurre le proprietà euclidee (inclinazione, punti di congiunzione), compito più complesso rispetto a quello di individuare e riprodurre rapporti topologici. Dopo e 7 anni infine i bambini sono in grado di riprodurre figure ancor più complicate. La rappresentazione dei rapporti proiettivi: secondo Piaget la scoperta dei rapporti euclidei va di pari passo con la scoperta dei rapporti proiettivi, ossia rapporti che riguardano le variazioni apparenti di forma e proporzione cambiando il punto di vista dell’osservazione. Il compito più noto è quello delle tre montagne, in cui ai bambini viene chiesto di identificare tra delle immagini quella che rappresenta un plastico di tre montagne. Sotto i 7-8 anni i bambini scelgono la foto nella quale appare ciò che loro vedono; a partire dai 7-8 anni iniziano a rendersi conto che a seconda del punto di osservazione cambiano i rapporti, ma ne riconoscono solo alcuni; infine verso gli 11-12 anni tutte le trasformazioni vengono identificate. 1.3. Lo sviluppo delle nozioni temporali Secondo Piaget la nozione di tempo nei bambini in età prescolare si forma dalla percezione dell’ordine di eventi (prima, dopo, contemporaneamente) e dalle valutazioni soggettive delle durate. Per quanto riguarda l’ordine degli eventi, i bambini riescono ad identificare brevi successioni temporali mentre le osservano o le ricostruiscono mentalmente, basandosi su percezioni o immagini mentali. Spesso sbagliano nel coordinare le relazioni temporali quando si tratta invece di ricostruire l’ordine di una sequenza insolita o lunga, o a collegare due sequenze di eventi distinti (es: azioni compiute da due persone diverse). La valutazione soggettiva delle durate costituisce anch’essa una fonte di errori: i bambini infatti la effettuano basandosi sui risultati delle azioni compiute in un dato intervallo di tempo o sull’impressione del proprio sforzo. È per evitare gli errori derivanti da una valutazione soggettiva che gli esseri umani si basano su indici esterni della durata. Le operazioni attraverso cui avviene la misurazione del tempo sono perciò delle seriazioni moltiplicative e i bambini riescono a compierle solo nello stadio delle operazioni concrete. La nozione di età: per quanto riguarda la nozione di età, i bambini più piccoli non considerano le differenze di età uguali nel corso della vita, ma pensano che esse possano cambiare. Questo avviene perché l’età è confusa con le dimensioni del corpo. Quindi un bambino vede sé stesso cambiare nel tempo e diventare più vecchio, mentre vede le persone adulte sempre uguali. Successivamente iniziano a mettere in relazione la differenza di età con l’ordine delle nascite, ma hanno ancora dubbi sulla permanenza di queste differenze: possono pensare che crescendo possano raggiungere un fratello più grande. Solo verso gli 8 anni capiscono che le differenze di età dipendono solamente dall’ordine di nascita. 1.4. La conservazione e la comprensione di quantità continue e discontinue Durante lo stadio delle operazioni concrete i bambini comprendono che molti aspetti quantitativi di singoli oggetti (massa o sostanza, peso, volume, numero) non cambiano anche se questi oggetti subiscono delle trasformazioni. Si parla quindi di nozione di conservazione e di comprensione di quantità. Un compito di Piaget è il seguente: ci sono due oggetti di cui il bambino ammette un’iniziale uguaglianza quantitativa, uno dei due oggetti viene modificato, e la domanda sulla quantità viene ripetuta. Il superamento di questo 62 2.3. La metamemoria e il suo sviluppo Le espressioni come metamemoria, metacognizione, metattenzione etc., vengono utilizzate con due significati distinti: 1. Processi metacognitivi di controllo: si riferisce ad una attività mentale consistente nello scegliere tra i processi di base, quelli che sembrano più adatti a svolgere un certo compito, valutandone i risultati. Questi processi vengono detti direttivi poiché si trovano ad un livello superiore rispetto a quelli che vengono eseguiti. 2. Conoscenze metacognitive: si riferisce alle conoscenze su cui tali attività metacognitive si basano. Tra queste conoscenze metacognitive rientra la conoscenza della metamemoria. Secondo Flavell la metamemoria ha due componenti principali: - La prima consiste nel distinguere la memoria dalle situazioni che coinvolgono altri tipi di attività mentali, tanto che i bambini capiscono e utilizzano le espressioni come “ricordo” e “memoria”, rendendosi conto che in certe situazioni è necessario compiere uno sforzo pianificato per acquisire e recuperare le informazioni; - La seconda è costituita dalla conoscenza di fattori che rendono un compito più o meno difficile. Questi fattori possono essere distinti in tre gruppi: I. Caratteristiche della persona; II. Caratteristiche del compito; III. Caratteristiche del materiale. Tra le caratteristiche della persona vi rientrano sia quelle generali, proprie di tutti gli esseri umani (come l’avere una memoria illimitata e immediata), sia le caratteristiche peculiari che differenziano gli individui gli uni dagli altri (qualcuno ricorda meglio i nomi, altri i volti). Con il procedere dell’età i bambini acquisiscono una conoscenza sempre maggiore sui limiti della loro memoria. In uno studio venne chiesto a dei bambini e a degli adulti, dopo aver presentato loro delle figure, se pensavano di poterne riferire i nomi. Vi era così una misura dello span previsto confrontato con uno span reale. A 4 anni il divario tra i due era molto accentuato, diminuendo poi con l’aumentare dell’età fino a sparire. I bambini piccoli quindi hanno uno span più basso, ma credono di averlo più alto. Questo secondo Yussen e Levy diminuisce quando ai bambini vengono fatte confrontare le loro previsioni con le prestazioni reali, facendo poi delle previsioni più realistiche. Risulta essere più facile recuperare ed immagazzinare del materiale organizzato; ma a 9 anni i bambini ancora non si rendono contro che parole accostate casualmente sono più difficili da ricordare rispetto a coppie connesse. Inoltre è più facile riconoscere elementi già visti, piuttosto che rievocarli riproducendone il nome. 2.4. Metamemoria e uso di strategie mnemoniche Delle ricerche sulla metamemoria hanno suggerito che la possibile causa di certe prestazioni inadeguate dei bambini è l’idea errata che si fanno sulle proprie abilità, sul compito da effettuare o sulle condizioni che ne facilitano o ne ostacolano lo svolgimento. Esempio: e si è convinti che leggere un testo una o più volte sia sufficiente per ricordarlo a distanza di tempo, È questa la procedura che si userà quando si deve studiare. Se non si è consapevoli che le distrazioni ostacolano la ricezione e l'elaborazione delle informazioni, ci si metterà a fare i compiti con la radio o la televisione accesa, invece che in un ambiente silenzioso. Si è cercato di verificare se realmente la conoscenza metacognitiva influenza comportamenti cognitivi (I bambini che sanno molte cose sul funzionamento della memoria riescono meglio di altri in compiti di memorizzazione?). Dopo degli esperimenti è stato visto che esiste effettivamente una correlazione positiva, la quale però risulta essere molto bassa, anche perché di fatto sapere cosa sia opportuno fare, non garantisce che verrà fatto. Altri fattori che influenzano i comportamenti cognitivi sono quelli motivazionali. Inoltre si è visto come insegnando a dei bambini delle conoscenze metacognitive si ottengono dei miglioramenti nelle capacità: questo intervento è importante nell’ambito psicopatologico e riabilitativo di persone con problemi mentali o con disturbi nell’apprendimento. Ma aldilà degli effetti positivi che una migliore conoscenza della propria mente può avere sullo svolgimento delle attività scolastiche, molti studiosi sono convinti che essa costituisca un obiettivo valido in sé. 2.5. Lo sviluppo di strategie per la soluzione di problemi: l’enumerazione Cercare di ricordare è solo uno dei compiti cognitivi dei bambini, per questo l’approccio HIP ha stimolato una grande quantità di ricerche sui processi inconsapevoli e sulle strategie deliberate nei bambini. Tra questi di grande importanza è l’enumerazione. Enumerare e contare vuol dire associare dei numeri a degli 65 oggetti, seguendo delle regole precise in modo da determinare la quantità: deve esserci una corrispondenza biunivoca tra numeri e oggetti; i numeri devono essere organizzati secondo un ordine stabile, cioè che rimane identico ogni volta che si conta. Rispettando queste condizioni, l'ultimo numero indica di quanti elementi è composta. Piaget ha dato scarsa importanza all’enumerazione, poiché secondo lui enumerare dà una conoscenza ristretta sulla nozione di numero, perché essa si fonda su classificazione e seriazione adattiva. Con la prima i bambini si rappresentano la successione di numeri come un sistema di classi incluse le une nelle altre (es: il 2 sta nel 3); con la seconda capiscono che ogni numero di una serie è più grande di quello che lo precede. Tuttavia negli studi recenti l’enumerazione ha avuto un ruolo importante. Il neopiagetiano Robbie Case sostiene che verso la fine del secondo anno i bambini sviluppano delle strutture di controllo esecutivo, grazie alla differenziazione e alla coordinazione di quelle presenti alla nascita, che sanno controllare bene. Si conclude così lo stadio sensomotorio e i bambini entrano nello stadio, definito da Case, interrazionale. Durante questo stadio si sviluppano come in quello precedente 4 sottostadi, il cui primo corrisponde con l’ultimo dello stadio precedente senso motorio. Fra i 18 mesi e i 2 anni (consolidamento delle operazioni) le strutture di controllo esecutivo relative all’imitazione di gesti e parole si fanno più complesse. Tra i 2 e i 3 anni (coordinazioni unifocali) queste due strutture vengono integrate e i bambini riescono a contare fino a due oggetti in fila. Verso i tre anni (coordinazioni bifocali) i bambini sono in grado di contare anche 5 oggetti purché messi in fila. Tra i 3 anni e mezzo e i 5 (coordinazioni elaborate) riescono a contare oggetti anche posti in maniera disordinata. Una volta che i bambini riescono a padroneggiare bene queste operazioni, arrivano allo stadio dimensionale, che a sua volta si articola sempre negli stessi 4 sottostadi. Solo che non si tratta più di una enumerazione, contando degli oggetti, ma si prendono in considerazione delle dimensioni. Nello stadio vettoriale infine è presente la capacità di calcolare il rapporto tra due grandezze (18 anni). Un test per misurare l’intelligenza dei bambini: la Wisc-R Un test che fornisce una misura valida del le potenzialità intellettive è il Wisc-R ideato da Wechsler. Questo test valuta il QI ottenendo informazioni anche su abilità specifiche sia sul piano verbale che sul piano di prestazione. La scala comprende 10 subtest, 5 verbali e 5 di prestazione. Quelli verbali misurano le conoscenze generali dei bambini, come la conoscenza del significato di parole, il risolvere problemi aritmetici ecc. La somma dei punteggi costituisce il QI verbale. Se poi si vogliono avere maggiori informazioni sulla memoria, si può somministrare una prova di memoria. Quelli di performance valutano l’abilità di risolvere problemi cognitivi proposti visivamente, come riproduzione disegni geometrici, associare simboli a numeri ecc. Si definisce così il QI di performance. La somministrazione di item inizia da quelli più facili a quelli più complessi e quando un soggetto fallisce in un certo numero di item si considera la prova conclusa per quel subtest. I bambini più sono piccoli più tendono ad arrestarsi prima, quindi le prestazioni saranno migliori con il crescere dell’età. 2.6. Lo sviluppo delle funzioni esecutive e interventi per migliorarle L'uso di strategie di memoria o di soluzione di problemi richiede l'orchestrazione di diverse funzioni esecutive. Negli infanti il controllo inibitorio viene rilevato, nelle ricerche di laboratorio, dalla capacità di focalizzare l'attenzione su uno stimolo resistendo alle distrazioni e dal superamento del compito “A non B”; nei bambini più grandi e negli adulti esso viene valutato con prove che attivano una risposta che è dominante perché sollecitata dallo stimolo stesso o perché è ripetuta più volte, ma le prove, per essere superate, richiedono che essa venga inibita. I risultati dei test indicano che fra i 4 e i 9 anni i bambini hanno difficoltà a esercitare il controllo inibitorio. La flessibilità cognitiva consiste nel guardare le cose da punti di vista diversi, sia in senso spaziale (come nel compito piagetiano delle tre montagne, par. 1.1.), sia nel senso interpersonale cercando di mettersi nei panni di un'altra persona, o nell'usare una regola o un criterio diversi da quelli usati fino a un attimo prima. Data l'importanza delle funzioni esecutive ci sono molte proposte di interventi per potenziare le, alcuni basati su esercizi fisici come lo Yoga (che aumenta le capacità di pianificazione), altri su attività appositamente ideate. Tra i programmi appositamente ideati, alcuni prevedono compiti da eseguire individualmente al computer, altri attività da svolgere in classe. Queste ultime sono le più efficaci. In particolare è risultato molto funzionale un programma per asili nido, scuole dell'infanzia i primi anni della scuola elementare basato sulla teoria di Vygotskij. Il programma prevede l'uso di mediatori esterni, cioè di segnali (come disegni o oggetti) per ricordare ai bambini quello che devono fare, e la partecipazione dell'insegnante alle attività dei 66 bambini nei diversi ruoli di partner, guida, pianificatrice. Esempio 1: in una scuola dell'infanzia in cui alcuni spazi sono organizzati per centri di attività, Bisogna ricordare ai bambini che non possono riunirsi in troppi alla volta in un unico centro. Come mediatore esterno si possono usare dei cartoncini con disegnati delle sedie, posti in una scatola all'ingresso del centro. I bambini che entrano devono prendere un cartoncino e metterlo in un barattolo. Quando non ci sono più cartoncini non sia il permesso di entrare. Esempio 2: nel gioco sociodrammatico l'insegnante suggerisce ai bambini dei temi e li aiuta a svilupparli. Il gioco del dottore, ad esempio, in cui di solito i bambini impersonano solo i ruoli del medico e del paziente, può essere proposto dopo una visita a un ambulatorio o una discussione di gruppo per raccogliere e condividere le conoscenze dei bambini; in questo modo il gioco si arricchisce di altri ruoli come quelli della segretaria che prende o Controlla gli appuntamenti delle persone in sala d'attesa. Capitolo decimo I bambini vanno a scuola L’ingresso nella scuola elementare è una transizione fondamentale nei bambini. La scuola trasmette la lettura, che apre il patrimonio ai testi scritti che contengono informazioni non accessibili attraverso l’esperienza diretta; e la scrittura che estende il raggio della comunicazione includendovi persone non presenti fisicamente e consente forme complesse di ragionamento. Inoltre a scuola si studia l’aritmetica che potenzia e sviluppa le abilità di enumerazione e calcolo emerse durante l’età prescolare. La scuola costituisce anche un importante contesto per lo sviluppo sociale. Infatti è qui che i bambini incontrano coetanei che non fanno parte della famiglia e con i quali sperimentano interazioni più complesse come rapporti amicali e di gruppo. La classe offre anche l’occasione di confrontare le proprie prestazioni con quelle dei compagni, sia per quello che si vede direttamente, sia assistendo a valutazioni: confronto sociale. Quest’ultimo è importante anche per il concetto del sé e convalida o mette in dubbio le capacità dei bambini. La scuola infine è quell’istituzione sociale che è interfaccia tra i bambini e lo Stato: la scuola pubblica fa parte dello Stato e la scuola privata è regolata da esso. Infine è proprio lo Stato che decide le materie da insegnare, che recluta gli insegnanti e che decide l’articolazione e i contenuti dei corsi scolastici. 1. Dal disegno alla scrittura L'ingresso nella scuola elementare segna uno stacco nello stile di vita dei bambini ponendo compiti di sviluppo inediti e offrendo l'occasione per un salto in avanti nel progresso intellettuale e sociale. L’ingresso a scuola, poiché pone uno stacco significativo nella vita dei bambini, deve essere mediato dai genitori ed educatori in modo che ne colgano gli aspetti piacevoli (continuità educativa). Per questo la scuola elementare lascia spazio ad attività con cui i bambini hanno già confidenza, come ad esempio il disegno. 1.1. Lo sviluppo del disegno Luquet analizza a fondo i disegni dei bambini individuando diverse fasi: - Realismo fortuito: nel secondo anno di vita il bambino inizia ad interpretare i suoi prodotti grafici come rappresentativi di un oggetto, in base a delle somiglianze fragili; - Realismo mancato: dai 2 anni e mezzo fino ai 4-5, il bambino si pone più chiaramente degli intenti figurativi, senza però riuscire spesso a raggiungerli. Una delle difficoltà che incontrano in questo periodo è l’incapacità di sintesi, non riescono cioè a coordinare le diverse parti di un disegno e quindi le relazioni spaziali; - Realismo intellettuale: dai 5 agli 8 anni, i bambini diventano molto più abili, arricchiscono i disegni di particolari, rispettano meglio le relazioni spaziali e si preoccupano anche di raffigurare oggetti che di norma non sono visibili; - Realismo visivo: dai 8 anni fino all’adolescenza, tentativi sempre meglio articolati di raffigurare la prospettiva. Per Piaget nell’età prescolare i bambini rispettano e sono guidati solo da alcune relazioni topologiche (fase del realismo mancato); Nel realismo intellettuale vengono rispettati pienamente i rapporti topologici e iniziano a comprendere quelli euclidei e prospettici; nel realismo visivo (operatorio concreto) si rendono conto delle proporzioni tra le parti. Nell’età scolare i bambini sono giunti a degli equivalenti pittorici, cioè a forme atte a rappresentare gli oggetti in modo non ambiguo, guidati dalla somiglianza con modelli figurativi. Nei disegni i bambini seguono delle figure canoniche che risultano essere salienti ed economiche, con forme ricorrenti e riconoscibili (es: casa con tetto a punta). Una caratteristica delle figure canoniche è quella di essere 67 Secondo alcuni studiosi le strategie di Frith non seguono sempre lo stesso ordine. Per quanto riguarda le tecniche di insegnamento, c’è un dibattito su due approcci: - Approccio linguistico fonologico: che va dal particolare al generale e il quale sostiene che bisogna partire dalle abilità di base, partendo quindi da materiali semplici per passare poi a parole e frasi solo quando si è consolidato il collegamento tra grafemi e fonemi. - Approccio linguistico integrale o metodo globale: che va dal generale al particolare che sostiene che per l’acquisizione della lettura occorre offrire ai bambini fin dall’inizio testi di senso compiuto. Secondo alcuni autori invece questi due approcci non sono alternativi, bensì complementari e per questo propongono un approccio integrato che li unisca entrambi. L’apprendimento della lettura e della scrittura infine ha ampie ricadute sui bambini. Offrono loro un altro modo di comunicare, di accedere ad informazioni non derivanti da esperienza diretta e di sviluppare altre funzioni cognitive come studiare e riassumere. 3. Teorie ingenue e apprendimento di materie scolastiche A scuola i bambini imparano anche a confrontare i contenuti di diverse discipline con le loro teorie ingenue. Alcune sono congruenti; altri invece sono in contrasto con esse e di conseguenza la loro acquisizione comporta revisioni, riorganizzazioni e ristrutturazioni radicali delle loro teorie ingenue. Queste revisioni a volte non avvengono perché i bambini rifiutano ciò che non è in sintonia con le loro convinzioni e altre volte tendono a renderlo compatibile. Queste interpretazioni erronee che i bambini fanno dei contenuti, dà origine a delle misconcezioni (concezioni erronee). Il cambiamento di una teoria è il risultato di un processo lungo e laborioso che si scontra con la resistenza al cambiamento. La resistenza al cambiamento è dovuta al fatto che le nuove informazioni interagiscono con una ecologia mentale che comprende varie teorie con vari gradi di generalità. Gli educatori molto spesso non sono consapevoli di questa complessità e quindi capita che i contenuti vengano proposti senza considerare le conoscenze che presuppongono o i fraintendimenti. Per questo le indagini rivolte sull’età scolare hanno confrontato le teorie ingenue con i contenuti dell’insegnamento; formulando proposte per migliorare la sua efficacia. 3.1. Le concezioni astronomiche dei bambini Tra i concetti elaborati durante l’età prescolare che sono compatibili con le nozioni scientifiche c’è quello di vita, connesso con la nascita e la morte, quello di nutrimento ed energia. Tra le teorie ingenue dei bambini che invece si discostano radicalmente da quelle scientifiche e che ne ostacolano l’apprendimento, c’è quella astronomica. I bambini in età prescolare elaborano una astronomia intuitiva sulla base della loro esperienza diretta, secondo la quale la terra è piatta e dove di giorno c’è il sole e di notte le stelle. Queste informazioni sono rette dal principio che le cose sono come sembrano e che tutti gli oggetti non sorretti cadono. I tre modelli successivi sono dei modelli sintetici o misconcezioni che derivano da vari tipi di compromesso tra le informazioni corrette sulla terra e le teorie cornice possedute dai bambini. I bambini più piccoli si limitano ad attribuire una forma rotonda alla terra piatta, raffigurando la con un disco. Diversi bambini dagli 8 agli 11 anni invece pensano alla terra come ha una massa rotondeggiante sospesa nel cielo. La nozione che la terra è sferica è necessaria per comprendere il ciclo giorno-notte è quello delle stagioni, anche se non impedisce di per te che ci siano dei fraintendimenti. La comprensione della sfericità della terra richiede a propria volta la nozione di forza di gravità. Raramente i libri di testo tengono conto di queste priorità quando affrontano questi argomenti. Concezioni economiche dei bambini e insegnamento I bambini già in età prescolare entrano in contatto con i diversi fenomeni economici. Secondo loro procurarsi il denaro non è un problema e sostengono che le persone lavorano perché lo desiderano. La teoria economica inizia a svilupparsi nell’età scolare. Capiscono che per guadagnare dei soldi occorre lavorare, ma ancora non sanno collegare gli scambi di denaro in un’unica rete: sostengono che i capi di un’azienda pagano gli operai per i soldi risparmiati in attività precedenti. È solo a 10 anni che comprendono che le aziende ottengono i soldi grazie alla vendita delle merci e solo a 15-16 anni capiscono le linee essenziali del funzionamento delle banche. Concezioni politiche dei bambini e insegnamento I bambini hanno l’occasione di venire in contatto con le istituzioni politiche sia personalmente che attraverso la televisione. In età prescolare non differenziano i politici da altri personaggi che vedono alla 70 televisione. Tra i 7 e i 10 anni invece comprendono il ruolo politico caratterizzato dall’essere importanti e comandare; tuttavia ancora non sanno distinguere i politici da altri capi e quindi non sanno distinguere tra dipendenti pubblici e privati. Verso i 10-11 anni invece si forma una teoria politica ingenua: i bambini diversificano diverse figure politiche, con poteri diversi e disponendoli in una gerarchia, conoscono l’esistenza dei partiti e distinguono tra dipendenti pubblici e privati. Nell’adolescenza la conoscenza delle istituzioni politiche diventa più ampia e accurata e i bambini capiscono che i partiti sono espressione di interessi diversi a seconda di ceti sociali diversi. Vi sono delle discrepanze tra le nozioni politiche possedute dai bambini e quelle dei programmi scolastici, poiché in terza elementare, quando si inizia a studiare la storia, non hanno ancora sviluppato una politica ingenua. Per questo è necessario un insegnamento esplicito che permetta ai bambini di comprendere meglio la nozione di Stato e quella di legge che serve loro sia per capire la storia studiata, sia gli eventi di cui sentono parlare in tv o in famiglia. 3.2. Condizioni che favoriscono l’apprendimento È compito degli insegnanti stare attenti a non presentare informazioni che contrastano con le teorie degli allievi come se fossero dati di fatto (es: il sole è una stella) perché i bambini a questo punto possono: o aggiungere l’informazione ricevuta alla loro teoria così com’è rendendola incoerente, oppure possono distorcere la nuova informazione per renderla compatibile creando una misconcezione. Per riuscire invece a correggere esattamente la teoria dei bambini, sarà necessario fornire loro più informazioni (prima condizione che favorisce l’apprendimento). Anche le attività didattiche che si svolgono e il modo in cui sono organizzate, possono incidere sul successo dell’insegnamento. Molti studi hanno messo in evidenza che una delle condizioni che permettono agli allievi di prendere consapevolezza della loro concezione e la disponibilità a modificarla, è quella di far sentire gli allievi liberi di esprimersi (senza paura di essere criticati o derisi). In questo modo le loro concezioni vengono espresse e divengono oggetto di riflessione in una discussione collettiva e condivisa in classe (seconda condizione che favorisce l’apprendimento). Secondo infine Vygotskij la classe deve diventare una comunità di apprendimento che si pone degli scopi cognitivi e cerca di realizzarli attraverso la partecipazione e la collaborazione. Sull'apprendimento può avere effetti importanti anche il clima sociale che l'alunno vive fuori dall'aula (ricreazione o entrata-uscita da scuola), momenti dove le interazioni sono meno regolate dalla supervisione dell'insegnante. La condizione di vittima di episodi di bullismo predice un basso rendimento scolastico, escludendo per converso che sia il basso rendimento scolastico a esporre bambini o ragazzi alle prepotenze dei compagni. 4. La relazione con l’insegnante Oltre a trasmettere i contenuti, l’insegnante svolge altre importanti attività: organizza il lavoro, mantiene la disciplina, valuta i risultati ecc. È il modo in cui l’insegnante affronta questi compiti a forgiare il clima che si stabilisce nella classe e in definitiva a creare le opportunità sociali e intellettuali di ciascun alunno. Il clima della classe è stato studiato da Lewin: in un suo esperimento, dei bambini erano stati divisi in gruppi assegnati a tre diversi insegnanti che erano stati istruiti a comportarsi in tre modi: - Autoritario: i bambini lavoravano solo sotto la sorveglianza dell’adulto, verso il quale alternavano passività e ribellione; - Permissivo: erano disorganizzati, inefficienti, annoiati e litigiosi; - Democratico: più produttivi e contenti del rapporto con l’adulto. Principi simili si riscontrano nell’apprendimento cooperativo basato sulla suddivisione del lavoro in gruppi, in cui i bambini esercitano una funzione di sostegno reciproco e partecipano con l'adulto alla responsabilità sul risultato del loro lavoro, piuttosto che essere semplicemente giudicati, o lasciati a sé stessi. Un secondo aspetto in cui l’organizzazione della classe ha conseguenze è la tipizzazione sessuale. Benché la tendenza a formare gruppi distinti tra bambini e bambine è difficilmente contrastabile, la pratica di assegnare a maschi e femmine compiti diversi, favorisce la creazione di ruoli stereotipati: a questo esito porta anche l'aspettativa dell'insegnante circa l'influenza dei maschi e la tranquillità e obbedienza delle femmine; alcuni studi indicano addirittura Una tendenza degli insegnanti a prestare maggiore attenzione ai ragazzi, interrompendoli di meno e lasciandoli parlare più lungo. Inoltre il giudizio degli insegnanti sulle capacità di un singolo alunno tende ad agire come una profezia che si autoavvera. Rosenthal e Jacobson parlano a questo proposito dell’effetto Pigmalione: le aspettative dell’insegnante possono influenzare anche il rendimento effettivo degli alunni. L’effetto Pigmalione può mostrarsi in modi diversi: caldo e incoraggiante verso i bambini che ritiene migliori, dedicando loro più 71 attenzioni. Il diverso rapporto tra i bambini ritenuti bravi e non, cambia anche nella disposizione dei banchi: i bambini con difficoltà accanto all’insegnante, quelli bravi al centro. Il clima della classe può anche facilitare o inibire le richieste d’aiuto. Sembrerebbe ovvio che l'insegnante sia oggetto di molte richieste di aiuto da parte dei bambini: invece raramente così, e paradossalmente gli alunni a basso rendimento scolastico tendono a ridurre sempre più la loro fiducia nel supporto dell'insegnante. I bambini hanno anche loro un punto di vista sulla loro insegnante: quando sono piccoli, 6 anni, si basano sulle caratteristiche periferiche come l’aspetto fisico e gli oggetti posseduti. Più diventano grandi più si basano su caratteristiche centrali come le opinioni, i sentimenti ecc. Si parla di person perception (percezione di altre persone) che aumenta progressivamente nei bambini. Man mano che crescono i bambini tendono ad individuare la figura dell’insegnante in relazione al ruolo educativo (es: spiega bene). Se devono confrontare il proprio insegnante con la figura dell’insegnante ideale i bambini non emettono giudizi drasticamente diversi e tendono a valutare positivamente il maestro con cui passano più tempo. Se invece gli viene chiesto di parlare dell’insegnante reale spesso emettono, soprattutto i bambini più grandi, anche spunti critici. La relazione tra insegnante e alunno può avere momenti di conflitto. Infatti a tutti le età le punizioni per un cattivo comportamento costituiscono fattori per un disagio con l’insegnante che può comportare anche un feedback negativo se ne segue un voto scadente. I momenti invece in cui si vive in armonia non sono necessariamente legati alle prestazioni o agli elogi, ma ad un clima simile a quello dell’infanzia. 5. Teorie ingenue della personalità, delle emozioni e della conoscenza del sé I progressi che avvengono durante la media fanciullezza si traducono in profonde trasformazioni dell'immagine di sé, che a propria volta si riverberano nella vita emotiva. 5.1. Lo sviluppo di una teoria ingenua della personalità Durante la media fanciullezza si assiste anche a una trasformazione dell’immagine di sé. Una conquista cognitiva importante è l’emergere della teoria della personalità, cioè delle caratteristiche durevoli che differenziano le persone. I bambini hanno tuttavia idee diverse sui tratti della personalità: secondo loro la timidezza può attenuarsi con il tempo (come se gli adulti non fossero soggetti a paure o insicurezze), mentre nervosismo no. Le spiegazioni che danno a questi tratti di personalità sono diverse: una minoranza nomina un’origine innata, altri parlano di preferenza (uno si comporta in una cera maniera perché gli piace o perché vuole), altri di fattori ambientali e altri ancora di educazione. Il tratto di personalità più studiato è l’intelligenza. I bambini in età prescolare non distinguono l’intelligenza da altre qualità. A 6 anni invece inizia ad essere sempre più differenziata da una genetica bravura o bontà, e definita in base alla riuscita di compiti cognitivi. I bambini in età prescolare non hanno sviluppato neanche la teoria dell’attribuzione, una teoria ingenua, elaborata da adulti e da bambini più grandi, che riguarda la riuscita di compiti in vari ambiti. Si individuano fattori interni e fattori esterni. I primi sono relativi alla persona e sono capacità permanenti (es: sensibilità, inteligenza), i secondi invece sono ad esempio la fortuna, la difficoltà del compito ecc. Questa teoria non è presente nei bambini perché non riescono ancora a distinguere tra capacità, sforzo e riuscita. Infatti tra i 7 e i 9 anni distinguono tra sforzo e risultato ma non riescono a spiegare come due persone che si impegnano allo stesso modo ottengano risultati diversi. Fino ai 12 anni dove invece si capisce il concetto di capacità. Secondo Dweck ci sono due tipi di intelligenza: una incrementale (in cui lo sforzo ha un ruolo cruciale) e una entitaria (caratteristiche permanenti non modificate dall’impegno). 5.2. Il concetto di sé e i suoi effetti su emozioni e motivazioni I bambini a partire dei 7-8 anni per descrivere sé stessi usano tratti di personalità (es: gentile, egoista, nervoso etc.); questo indica una visione più realistica di sé. Secondo Susan Harter è con la comparsa di queste concezioni che è possibile attribuire ai bambini una diversa concezione del Sé che ha varie componenti: un Sé reale (quello che una persona ritiene di essere), un Sé ideale (abilità che una persona ritiene importanti e che vuole raggiungere, ciò che si vorrebbe essere) e un’autostima globale, sentimento positivo o negativo su ciò che si è. La presenza del Sé ideale può essere sia uno stimolo a crescere e a raggiungere gli obiettivi, ma può anche essere fonte di emozioni negative quando il sé ideale è discrepante da quello reale. Mentre alcuni bambini hanno una visione realistica dei propri pregi e difetti e una genuina autostima, in alcuni comincia a manifestarsi l'autostima contingente, e 72 secondo cui l’aggressione è determinata da un’interferenza con la realizzazione di un obiettivo. Berkowitz sostiene poi invece che prima della risposta aggressiva di fronte una limitazione nella realizzazione di un obiettivo, sorgono dei processi emotivi di collera; • L’etologia e la sociobiologia hanno invece sottolineato la funzione adattiva dell’aggressione. Facendo riferimento agli animali, secondo gli etologi, l’aggressività non si manifesta solo nei confronti di altre specie, ma anche verso la stessa specie per l’accoppiamento e il controllo del territorio. Lorenz inoltre sostiene anche che negli animali è presente un processo inibitorio che limita gli effetti distruttivi nei confronti di animali della stessa specie; • Evoluzionisti: l’aggressività la si può osservare anche in manifestazioni non verbali, come lo stringere i pugni. Inoltre essi associano l’aggressione anche agli ormoni maschili come base biologica della tendenza aggressiva; • Teoria dell’apprendimento sociale: secondo questa teoria i comportamenti aggressivi non sono una disposizione umana, che si manifesta in modo particolarmente forte in alcuni individui, ma sono il frutto di condizioni predisponenti (frustrazione e sovraffollamento) e soprattutto come l'esito di un processo di apprendimento. I bambini imparino ad agire aggressivamente grazie al successo che a volte ottengono con le maniere forti; tuttavia secondo bandura non è necessario sempre un rinforzo per acquisire comportamenti aggressivi: osservare un modello spesso adulto) che agisce in modo violento può essere sufficiente per spingere la persona ad imitarlo. Ampliando la sua riflessione negli anni successivi, bandura ha formulato la teoria socialcognitiva, nella quale ha sottolineato come la pressione dei modelli culturali non deve far perdere di vista l'importanza della capacità umana di agire sulla realtà (agenticità). Una componente centrale della gentilità e l'autoefficacia, ossia la convinzione, basata soprattutto sull'esperienza diretta, di essere in grado di raggiungere uno specifico risultato. L’essere umano può contrastare gli impulsi aggressivi grazie alla sua agenti cecità morale, che permette di trasferire sul piano della condotta i giudizi che ha formulato mentalmente: Ma questo non avviene se l'individuo si sente incapace di fare la cosa giusta. Infine, l'approccio dell'elaborazione delle informazioni sociali ho contribuito a identificare varie distorsioni cognitive che, pur non essendone l’unica determinante, contribuiscono ad alimentare le condotte aggressive. Un bambino può darsi come obiettivo un'azione aggressiva se è coerente con gli schemi sociali che ha a disposizione in memoria (es: famiglia violenta); Oppure può avere l'idea che aggredire è una soluzione che funziona, non essendo capace di andare oltre; o, ancora, la soluzione aggressiva può essere messa in atto per l'incapacità di trovarne una prosociale. 2.2. Problemi metodologici I criteri per classificare i comportamenti aggressivi sono difficili da determinare. Infatti mentre gli etologi individuano delle posture e sequenze di movimenti negli animali nei momenti di lotta, lo stesso non si può fare con gli uomini, perché nell’uomo si manifesta in modi troppo vari. Gli studiosi dell’aggressività si sono concentrati su due aspetti: l’effetto negativo procurato e l’intenzione di nuocere. Ovviamente non basta definire un’azione aggressiva basandosi solo sull’effetto che procura. La definizione maggiormente accreditata è quella che pone l’accetto sull’intenzione dell’aggressore (“comportamento volto a danneggiare o ferire una o più persone), anche se questo approccio crea problemi. In primo luogo perché l’intenzione non si può osservare e non è sempre facile inferirla; in secondo luogo perché, in quest’ottica, non si possono non considerare aggressivi i delitti commessi sotto un impulso momentaneo. Un altro problema è il fatto che aggressività e comportamento antisociale non differiscono molto in definizione, tuttavia questi comportamenti non sono affatto la stessa cosa. I comportamenti negativi si organizzano lungo due dimensioni: il carattere nascosto o manifesto dell’azione e il grado di distruttività. Si vede come mentre i comportamenti aggressivi sono manifesti e distruttivi, quelli antisociali sono più vasti. 2.3. Differenze di età e di genere nell’aggressività Genere: È evidente che c’è una differenza di sesso nell’aggressività: i bambini sono più violenti delle bambine, soprattutto per quello che riguarda l’aggressione diretta, esercitata sul piano fisico. Anche le femmine però sono aggressive per quella che si chiama aggressione relazionale (insulti, esclusione dal gruppo). Il perché vi sia questa differenza di genere, alcuni studiosi l’hanno interpretato in base al livello diverso di ormoni maschili (androgeni); altri invece in base all’acquisizione dei ruoli sessuali e quindi l’aggressione nelle bambine diminuisce quando apprendono i comportamenti “appropriati per le femmine” 75 (tipizzazione), diversi da quelli dei maschi. Età: L’aggressione si manifesta già nei primi anni di vita con manifestazioni di rabbia. Verso i 12 mesi i bambini iniziano ad indirizzare la rabbia verso le persone; a due anni si sviluppa l’aggressione strumentale che intende sopraffare qualcuno che si frappone ad un intento. Nella prima fanciullezza compare l’aggressione ostile, il cui scopo è proprio quello di far male all’altra persona. A quest’età c’è un elevato tasso di conflitti però già a partire dai due anni l’aggressione fisica viene sostituita da quella verbale. Nella media fanciullezza compaiono l’aggressione reattiva, in risposta ad azioni o eventi percepiti come un attacco, e aggressione proattiva, dove la forza viene usata per raggiungere uno scopo. Mentre le forme di aggressione si diversificano aumentando di numero, diminuisce la frequenza con cui vengono messe in atto. Tuttavia è proprio nella media fanciullezza che i bambini iniziano a manifestare problemi di condotta che richiedono l’intervento di esperti. Le ricerche però dimostrano che l’aggressività è uno dei caratteri più stabili della personalità: un bambino aggressivo ha maggiori possibilità di diventare un adulto aggressivo. Nella scuola elementare questo si manifesta con prepotenza e bullismo: sopraffazione di una o più vittime da parte di uno o più compagni, facilitata dall’indifferenza o dall’accettazione degli altri. In alcune subculture addirittura l’aggressività è accettata e apprezzata. Aggressione, conflitto, competizione Molto spesso conflitto e competizione vengono legate al concetto di aggressione; tuttavia entrambi possono implicare azioni non necessariamente aggressive. Un conflitto interpersonale sorge quando due individui sono in disaccordo o in opposizione, ma non è detto che sia negativo, soprattutto se viene gestito nella maniera giusta. Infatti nei bambini ci vogliono almeno tre scambi interattivi prima che si possa parlare di conflitto: un’azione scatenante, una prima opposizione del partner e una mossa oppositiva dell’altro. Gli episodi di aggressione fisica o verbale sono salienti per i bambini, i quali spendono una dose di saggezza per cercare di risolvere la situazione in altro modo. Già a partire dall’età prescolare e poi nella fanciullezza, si formano codici di comportamento tra pari e i bambini che prestano attenzione alle ragioni altrui, avranno meno probabilità di entrare in conflitto (alto role-taking). Per quanto riguarda la competizione o comportamento agonistico, per i sociobiologi erano inevitabilmente legate. Tuttavia nell’uomo la competizione avviene di solito in modi più regolati, anche quando implica la sopraffazione. Inoltre utilizzare delle regole nella competizione significa mitigare la competizione stessa con un principio sovraordinato cooperativo. Quindi competizione e cooperazione non sono esclusive, ma possono intrecciarsi. L’età influisce sul grado di cooperazione e competizione: i bambini sotto i 6 anni incontrano difficoltà nel collaborare e nel competere a causa dell’egocentrismo; dopo invece riescono a fare entrambe le cose. 2.4. Bullismo Il bullismo e la sistematica sopraffazione di una o più “vittime designate” da parte di uno o più compagni, facilitata dall'indifferenza o dall’implicita o esplicita approvazione del resto del gruppo, I cosiddetti “osservatori” o “sostenitori”. Azioni sistematiche di sopraffazione si registrano già nella scuola dell'infanzia, ma sono state studiate in meno estensivamente, a causa delle difficoltà metodologiche: il bullismo Infatti si manifesta proprio in quei luoghi e in quei momenti che maggiormente sfuggono alla vigilanza degli adulti, ed è quindi essenziale, per documentarlo, poter fare affidamento sulla testimonianza diretta dei bambini. E quanto hanno fatto alcune autrici italiane: e così emerso che i piccoli (31-79 mesi) già distinguono correttamente principali ruoli in gioco, e soprattutto quelli aggressivi. Tuttavia è solo della media fanciullezza che i bambini iniziano a comprendere la differenza tra aggressioni strumentali e bullismo; con l'adolescenza, poi, i ragazzi Riescono a cogliere poi forme di prepotenza che non includono aggressioni fisiche. Uno studio italiano con soggetti di 9/10 anni ha riscontrato nei bulli una scarsa propensione a provare empatia e senso di colpa, la tendenza a manipolare e ingannare gli altri, e interesse per il potere. Tra le vittime Olweus ha distinto due tipi: il capro espiatorio, presi di mira perché diversi dagli altri o poco socievoli, e il provocatore, che sono a propria volta aggressivi e irritanti. Nelle ricerche recenti quindi il rischio di vittimizzazione è associato a un unico processo, ossia la scarsa capacità di contribuire alla vita del gruppo. Più di recente l'attenzione degli studiosi si è concentrata sugli osservatori, distinguendo coloro che si limitano a guardare restando passivi da quelli che sentono il bisogno di intervenire (risorsa per prevenire). 76 3. L’amicizia La scelta reciproca da parte di due bambini è stato considerato simbolo di amicizia, mentre i nonamici sono quei bambini che non hanno mostrato alcuna preferenza l’uno per l’altro, oppure che manifestano inimicizia. L’amicizia per essere tale deve essere riconosciuta dalle persone coinvolte, essa infatti non si può identificare in base agli stessi criteri extrapsicologici che si utilizzano per i parenti e non è neanche identificabile sull’osservazione diretta. L’amicizia comporta “regole” diverse nei diversi gruppi e ambienti: ad esempio, invitare gli amici a casa è considerato opportuno nella classe media, mentre nei ceti sociali bassi è una pratica riservata più ai parenti che agli amici. Anche dal punto di vista evolutivo i comportamenti amicali cambiano: se tra ragazzini l’amicizia non esclude una certa dose di aperta conflittualità, questa potrebbe minacciare il rapporto tra amici adulti o anziani. Secondo Lauren e Hartup gli scambi sociali che possiamo osservare tra le persone riflettono delle strutture superficiali dell’amicizia, che variano nel corso dello sviluppo; ma al di sotto delle quali esiste una struttura profonda della relazione che rimane stabile e che ne costituisce il significato sociale. In che cosa consista questa essenza non è tuttavia facile da stabilire. Di fronte a questa complessità, la maggior parte delle ricerche di tipo evolutivo adottato una prospettiva un po' semplificata, per cui si definisce un'amicizia un rapporto diadico selettivo, stabile e reciproco. Definire un rapporto come selettivo sta ad indicare che le persone non scelgono casualmente ma molto spesso diventano amiche di persone del proprio sesso, di età vicina, dello stesso status socioeconomico e gruppo etnico. Secondo alcuni studi vi è anche una certa somiglianza nel grado di socievolezza e nel successo scolastico. Questo dato può essere interpretato in due modi (uno non esclude l’altro): come espressione di omofilia comportamentale, ovvero la preferenza per chi ci assomiglia nel modo di agire, o come risultato dei vincoli ambientali: i bambini incontrano gli amici a scuola o nel quartiere, e non hanno molte occasioni per familiarizzare con soggetti assai diversi. È anche l’amicizia stessa causa di somiglianza: bambini che rimangono amici per tutto l’anno scolastico, alla fine risultano più simili tra di loro che in partenza. 3.1. Lo sviluppo dell’amicizia Durante la media fanciullezza oltre alla condivisione di giochi e risorse, diventa importante la lealtà reciproca e il senso del noi, che prendono a volte la forma dell’esclusione degli altri bambini e del pettegolezzo ai danni degli altri. Parlare degli altri volge la funzione di rinsaldare e rendere “speciale” il rapporto con ‘amico/a. Tra i 6 e gli 11 anni si inizia a comprendere che essere amici significa anche condividere sentimenti e pensieri. Un segno di questo spostamento verso gli aspetti interiori è la distinzione tra amico e migliore amico: quest’ultimo è qualcuno che ci conosce meglio degli altri. Nella media fanciullezza l’amicizia assume il carattere di reciprocità. Youniss evidenziò questo aspetto investigando i rapporti tra coetanei e quelli tra bambini e adulti, notando come tra i primi ci fosse un rapporto di reciprocità, mentre tra i secondi di complementarietà. Infatti mentre con un adulto il bambino è costretto ad accettare regole e decisioni (eteronomia), con i suoi simili si pone su un piano di parità tale che si cerca di restituire simmetricamente i benefici che si ricevono, ma anche, a volte, le ostilità. Youniss dunque conclude che solo la cooperazione permette di ottenere ordine in un contesto sociale paritario. Durante la scuola elementare i bambini hanno bisogno di amicizie durevoli e si impegnano a tale fine. Ma l’aspetto più importante è lo sviluppo di strategie di gestione dei conflitti. A quest’età non si può più risolvere i problemi interrompendo i rapporti amicali come spesso fanno i più piccoli. Inoltre il conflitto nell’amicizia si manifesta in maniera qualitativamente diversa: c’è un impegno a fare pace e una difesa meno ostinata del proprio punto di vista. Tuttavia in situazioni di disparità marcata, il rapporto si può rompere e cadere persino nell’inimicizia. L’amicizia nella media fanciullezza diventa l’occasione per un confronto sociale equilibrato, di cui tutti necessitano per orientare le proprie idee e il proprio comportamento. Un equilibrio negli scambi materiali è necessario nell’amicizia, così come lo sono le cose immateriali come le dimostrazioni d’affetto. C’è il bisogno di equità e sono sgradite le situazioni in cui le risorse scambiate sono troppo difformi l’una dall’altra; per questo si preferirà avere per amici persone simili a noi. Rapporti sentimentali nella fanciullezza Già al di sotto dell’età puberale i bambini spesso agiscono come innamorati e parlano di “fidanzamento”. È stato chiesto a dei bambini tra i 5 e gli 11 anni e tutti conoscevano la differenza tra amici e fidanzati, come 77 nell'immediato, i comportamenti desiderati (es: lodare una bambina di 8 anni che si è ricordata di riporre i giocattoli) o a ridurre quelli negativi (es: evitare il rinforzo a comportamenti inopportuni ho pulendo quelli negativi in, ovviamente con moderazione); una pratica spesso suggerita in questa tradizione di intervento è il time-out, spesso erroneamente interpretato come “mettere in castigo”; il corretto obiettivo è invece quello di interrompere l'azione inopportuna del bambino e nel contempo eliminare i rinforzi positivi per due o tre minuti. - cognitivo-evolutiva: gli studiosi si sono maggiormente preoccupati degli effetti a lungo termine delle pratiche genitoriali; Martin Hoffman (cap. 7, Genesi del senso di colpa) ad istinto tre tipi di interventi disciplinari, ovvero asserzione del potere, ritiro dell'affetto e induzione. L’asserzione del potere può venire verbalmente (ordini, minacce, rimproveri) o fisicamente. Le punizioni fisiche possono avere diversa intensità e gravità: una bastonata non è uguale ad uno schiaffetto, anche se neppure questo è da considerare appropriato (può darsi anche che una sculacciata somministrata con relativa calma a un bambino di 4 anni sia persino utile, mentre non lo è sicuramente se il genitore è fuori di sé dalla rabbia). Anche il ritiro dell'affetto può avere intensità e conseguenze diverse: tenere il muso al figlio adolescente che ha commesso un errore non è come minacciare di spedirlo in collegio per non vederlo mai più. Per contro anche alle tecniche induttive va prestata attenzione: ad esempio, per correggere un bambino piccolo che fa i dispetti sono ideali le spiegazioni chiare, con un bambino di otto o nove anni, però, sono utili anche i commenti più sottili, che sollecitano un ragionamento autonomo. Infine, varie ricerche hanno evidenziato che l'efficacia del ragionamento non è la stessa per tutti: un bambino arrogante lo ignora più facilmente di un sottomesso, così come uno che vive in un ambiente svantaggiato rispetto a un bambino di famiglia colta. Una delle condizioni più importanti per rendere efficace una pratica educativa è la coerenza nell'applicazione. Negli anni 70 Gerard Patterson i suoi collaboratori hanno approfondito Lo studio delle interazioni tra i genitori e bambini aggressivi E, individuando un processo di azioni e reazioni (ciclo di coercizione) con cui senza volere si finisce per addestrare il bambino a disobbedire e a usare la forza per imporsi. Il ciclo di coercizione inizia con del genitore di obbligare il figlio a fare qualcosa (es: andare subito a letto) oppure a smettere di fare ciò che sto facendo (es: capricci per un giocattolo). La seconda fase è costituita dalla reazione negativa del figlio, che non obbedisce e protesta. Cruciale a questo punto è il terzo passaggio: se il genitore cede e smette di esigere obbedienza, il figlio ottiene il risultato cui mirava e impara Così che agire in modo ribelle e aggressivo funziona. Inoltre anche per il genitore cessa il fastidio per le proteste del bambino Dunque entrambi ricevono un rinforzo. I cattivi risultati cui conduce l'incoerenza non devono far dimenticare i rischi associati all'uso ricorrente di punizioni fisiche: una modalità di reazione caratterizzata da ordini Bruschi e non motivati, minacce, punizioni fisiche, può essere una vera e propria scuola di aggressione e costituisce un fattore di rischio per la delinquenza. 5.2. Lo stile educativo Intorno alla metà del 900 Alfred Baldwin fu tra i primi a studiare l'ambiente educativo familiare in termini ampi, proponendo di inquadrare lo stile interattivo dei genitori secondo tre dimensioni: caldo-freddo, democratico-autoritario, coinvolto-non coinvolto. Nello stesso periodo anche altri autori cercano di ricondurre a poche dimensioni fondamentali il comportamento e gli atteggiamenti dei genitori. Nonostante le differenze di impostazioni e di terminologia tutti gli approcci sono accomunati dal l'accento sulla componente emotiva-affettiva, nella quale si esprime la presenza di un rapporto positivo e saldo tra genitore e bambino, e su una componente relativa alla funzione di controllo dei genitori. Un problema comune a tutte queste concettualizzazioni era proprio la natura del controllo, come se i genitori dovessero scegliere di proporsi in modo autoritario per avere bambini rispettosi delle regole sociali. Un con importante è stato offerto da Diana Baumrind, proponendo il controllo come una componente indispensabile della genitorialità, che però può assumere significati profondamente diversi: - responsività: si riferisce a calore affettivo e sostegno all'autonomia (azioni che promuovono individualità e razionalità coinvolgendo i bambini nelle decisioni); - richiestività: si riferisce alla disponibilità del genitore ad affrontare un bambino capriccioso e ad esigere da lui un comportamento maturo e l'obbedienza alle direttive genitoriali. La combinazione di responsività e richiestività dà origine a quattro stili educativi: 1. autorevole: i genitori autorevoli bilanciano le richieste di obbedienza a regole chiare con il sostegno e 80 l'attenzione ai bisogni dei figli; queste modalità educative sono, secondo la Baumrind, le più efficaci nel promuovere l'adattamento sociale; 2. autoritario: i genitori autoritari utilizzano il proprio potere in modo inflessibile, adottano spesso metodi disciplinari duri; 3. permissività: misto di affetto e incoerenza, con uno spazio di libertà per i figli superiore alle loro capacità di autoregolazione; 4. negligente: si manifesta quando i genitori cercano di spendere meno tempo ed energia possibile nel gestire i figli. 5.3. Maltrattamento familiare e sviluppo La condotta della maggior parte dei genitori rientra in uno dei quattro stili descritti o in un loro miscuglio (si può essere indulgenti nell'uso del tempo libero ma autoritari nella scelta del corso di studi). Una minoranza di genitori esce da questo quadro, o si colloca alle estremità degli stili autoritario e negligente, esercitando sui figli un vero e proprio maltrattamento. Il maltrattamento (o abuso) è rappresentato da tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o trattamento negligente nonché sfruttamento sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino. L’abuso affettivo include limitazione dei movimenti, denigrazione, scherno, minacce e intimidazioni, discriminazione, allontanamento. L’incuria si riferisce alla trascuratezza di un genitore nelle occuparsi dello sviluppo del bambino in una o più delle seguenti aree: salute, educazione, sviluppo affettivo, nutrizione, protezione e condizioni di vita sicure. Il maltrattamento, specie se inizia già nei primi anni di vita, costituisce un trauma che ha gravi conseguenze a breve ea lungo termine sullo sviluppo, rendendo i bambini vulnerabili a varie malattie fisiche e disturbi mentali come disturbi d'ansia, disturbo bipolare, depressione maggiore, dipendenza da droghe. Ciò avviene perché il maltrattamento influisce sul modo in cui i bambini elaborano le informazioni sociali e sullo sviluppo dei circuiti cerebrali preposti a tali elaborazioni, attirando l'attenzione su stimoli che rappresentano minacce. I genitori maltrattanti mostrano frequentemente emozioni negative nei confronti dei figli e di altri membri della famiglia. A volte questi genitori tendono anche a isolare la loro famiglia dall'ambiente sociale circostante. In queste circostanze, già a 3 mesi di vita i bambini gravemente maltrattati manifestano non solo tristezza ma anche paura e rabbia (che di solito non si osservano prima dei 7/9 mesi. Questo suggerisce che nei bambini maltrattati i circuiti cerebrali preposti al riconoscimento delle emozioni negative abbiano uno sviluppo accelerato, a spese di quelli preposti alle emozioni positive. In ricerche che misurano l'attività elettrica del cervello di fronte a varie espressioni emotive, e si mostrano un'accentuata sensibilità ai segnali di rabbia è una scarsa attenzione a quelli di altre emozioni: l'espressione di rabbia sembra essere per questi bambini un segnale del pericolo di essere picchiato insultati, o di vedere picchiare o offendere la mamma ho un fratello. Infine, i bambini maltrattati hanno difficoltà a regolare le emozioni negative sia causa della elevata intensità con cui le hanno sperimentate, sia perché non hanno ricevuto dai genitori nei esempi positivi né insegnamenti sul modo di farlo. Pertanto a 4/6 anni Molti bambini una accentuata reattività è una regolazione emotiva insufficiente o eccessiva, e queste difficoltà sul piano emozionale ostacolano lo sviluppo di un Sé autonomo e coeso, la costruzione di legami di attaccamento durevoli, L'intreccio di buoni rapporti con gli altri bambini è una positiva immagine di Sé. La nozione di trauma La nozione di trauma psicologico (prima il termine trauma veniva utilizzato solo per ferite fisiche) compare per la prima volta nella seconda metà dell'800 quando, con la diffusione delle ferrovie, cominciarono a verificarsi degli scontri tra convogli; tra le vittime, una piccola minoranza lamentò dei disturbi comparsi più o meno gradualmente a distanza di tempo è che non era facile media agnostica re ne attribuire agli incidente. Una spiegazione dei nessi tra patologie in atto ed eventi lontani nel tempo fu proposta dai neurologi francesi Charcot e Janet; secondo questi ultimi i sintomi non erano provocati da lesioni del sistema nervoso ma dall'idea del trauma subito, Cioè dalla percezione e dal ricordo dell'esperienza vissuta. Questa spiegazione venne ripresa anche da Freud; In un primo momento egli attribuì al ricordo di traumi psicologici (la seduzione da parte di un adulto, di solito il padre) varie conseguenze psicopatologiche, poi modifico la sua teoria attribuendo i disturbi mentali a traumi immaginari anziché personalmente vissuti. 81 Ai nostri giorni sappiamo invece che i traumi, anche quelli solo psicologici, hanno effetti fisici sia a breve sia lungo termine, influendo sullo sviluppo: - del sistema immunitario: reagisce alle ferite psicologiche, proprio come a quelle fisiche, una risposta infiammatoria; se gli abusi sono ripetuti, tale risposta può diventare cronica e predisporre a malattie fisiche e disturbi mentali. - del sistema endocrino: che risponde allo stress con il rilascio di ormoni, può diventare iperattivo quando lo stress è intenso e questo predispone a disturbi affettivi, come la depressione maggiore; - l’iperattività del sistema endocrino e di quello immunitario a propria volta influisce in modo negativo sullo sviluppo del cervello. 6. La televisione e gli altri schermi Il compagno più assiduo dei bambini è la televisione, il cui uso si intensifica durante la media fanciullezza, durante la quale la tv rimane accesa in media 7 ore al giorno. Anche se non prestano sempre attenzione a ciò che vedono, i bambini si abituano a fare un uso passivo della televisione, uso che rimane stabile nel tempo. Secondo studi internazionali i programmi creati per bambini, prediletti da piccoli, iniziano ad essere sostituiti con film e telefilm. Dagli 11 anni iniziano a destare interesse anche i varietà, e si delineano le preferenze di genere. C’è poco spazio per gli apporti culturali. Il tempo speso davanti alla tv, toglie tempo ad altre attività importanti come lo studio, la lettura ecc; per questo una maggior quantità di tv comporta un minor successo scolastico. Le famiglie devono quindi adottare delle strategie per tutelare i bambini da quest’uso eccessivo della televisione, ad esempio dotandosi di apparecchiature che impediscono la visione in una certa fascia oraria ecc. È infine importante sottolineare come molto spesso c’è correlazione tra violenza nei media e aggressione, nonostante che l’industria televisiva affermi che solo pochi spettatori intraprendono poi carriere delinquenziali. Parte quarta: l’adolescenza Capitolo dodicesimo Lo sviluppo fisico e cognitivo Corrisponde allo stadio “operatorio formale” di Piaget. L’adolescenza è il periodo evolutivo che segna la transizione dalla fanciullezza all’età adulta di cui sono difficili da definire i limiti cronologici. Il suo inizio è dato dalla pubertà: un processo fisiologico universale, ma non uniforme. La sua fine è ancor più difficile da stabilire, perché la maggiore età ha significato solo dal punto di vista legale. Nelle società tradizionali la pubertà è accompagnata da riti di transizione che includono forme di separazione dalla famiglia, istruzioni fornite dai membri adulti della comunità e da cerimonie d’ingresso nel mondo adulto. Transizioni esistono anche nelle società industrializzate (es: il passaggio dall’università al mondo del lavoro, il matrimonio, sono accompagnati da riti). Tuttavia, mentre prima si concretavano in un periodo ristretto, oggi sono raramente sincronizzate. È un periodo molto lungo che per alcuni costituisce una fase a sé stante (postadolescenza o adolescenza prolungata, anche definito “età sospesa”). 82 invece sono più soli di fronte la loro prima eiaculazione spontanea e le informazioni che possiedono derivano più da libri che dai genitori; e, a dispetto della superficiale spavalderia, pochi maschi parlano con i compagni delle prime manifestazione della loro sessualità. 3. Ragazze e ragazzi risentono in modo opposto della precocità o del ritardo nella maturazione sessuale. Le ragazze in caso di precocità si trovano di fronte a situazioni sociali più sfavorevoli o addirittura rischiose. Per esempio sono soggette a commenti sgraditi sul loro aspetto, sono meno popolari, meno fiduciose e sono più a rischio di una gravidanza precoce. Infatti l’età del menarca è il maggior predittore dell’età in cui avverrà il primo rapporto sessuale. Più precocemente vengono intrapresi, maggiore è la possibilità che avvenga senza preservativo, sfociando così in aborti o maternità precoce. Ovviamente non si tratta di una catena causale inevitabile, moltissime ragazze precoci superano completamente il disagio dei primi anni. Studi longitudinali europei hanno evidenziato come la pubertà precoce non incida sulla autostima in ragazze che hanno ricevuto per tempo, attraverso la scuola, una buona educazione sessuale e che provano quindi meno imbarazzo e confusione circa i fenomeni che stanno vivendo. Per quanto riguarda i maschi, si riteneva fino a non molti anni fa che la pubertà precoce costituisce un vantaggio, assicurando popolarità e proteggendo da dubbi e insicurezze circa la propria sessualità. Una rassegna abbastanza recente non conferma però questo dato, e rileva invece effetti negativi, simili a quelli riscontrati nelle ragazze. In sintesi, le variazioni nei tempi dello sviluppo fisico in adolescenza sono ricca di implicazioni psicologiche, legate sia agli stereotipi di genere, sia alle relazioni con il gruppo dei pari; ma il segno lasciato da queste esperienze differisce moltissimo in rapporto alle risorse ambientali e personali. Madri adolescenti: una lezione americana Negli Usa vi sono molte più ragazze che sono a rischio di gravidanze precoci, poiché sono molte quelle che vivono in povertà. Le madri adolescenti si assumono responsabilità genitoriali in condizioni svantaggiate e questo dimezza le possibilità di completare gli studi, hanno meno possibilità di sposarsi e inoltre molte di esse a causa di fumo, alcool danno origine a bambini con basso peso alla nascita. I loro figli risultano essere inferiori nei risultati scolastici e nell’adattamento sociale. Le statistiche italiane sono meno preoccupanti e rivelano che solo lo 0.6% di giovani ha avuto esperienze come l’aborto o la maternità precoce. I programmi di prevenzione nelle scuole possono essere molto importanti. Infatti l’educazione sessuale dà le giuste informazioni sulla contraccezione, su come affrontare la vita sessuale ecc. Per questo secondo molti andrebbe introdotta anche alla scuola media inferiore. 2.3. Pubertà e sessualità negli adolescenti italiani In Italia è stata condotta una ricerca molto importante in questo senso, condotta dall’istituto superiore di sanità in 11 regioni italiane su oltre 6.000 ragazzi e ragazze dei due primi anni di scuola media tramite un questionario. Anzitutto gli intervistati hanno mostrato di possedere una percezione positiva del proprio corpo: il 49% ha sostenuto di essersi trovato attraente almeno qualche volta. Questi pensieri positivi convivono con pensieri negativi, gli intervistati hanno ammesso di aver pesato almeno qualche volta che il loro corpo fosse “meno sviluppato”, “più brutto che in precedenza”, “difficile da accettare” (le preoccupazioni sono apparse più speso nelle femmine). La maggioranza degli intervistati ha riferito di vivere i cambiamenti del proprio corpo con naturalezza (56%), con indifferenza (13%), in senso positivo con curiosità (14%) e con entusiasmo (13%), mentre con senso negativo solo il 5%. Per quanto riguarda le opinioni su mestruazioni e eiaculazioni spontanee, i ragazzi e le ragazze sembrano accettarli ma le domande del questionario erano poste in maniera impersonale e dunque non lasciavano spazio a sentimenti personali. Le ragazze risultano essere meno attive in campo sessuale (47% prive di esperienza); mentre dei ragazzi intervistati il 26% dichiara di non essere attivo. Quasi tutti i partecipanti hanno suggerito che la scuola dovrebbe occuparsi di educazione sessuale ritenuta importante fonte di consapevolezza, anche perché i partecipanti sembravano essere informati su dei rischi legati ai rapporti sessuali (AIDS 98%), ma non in altri (epatite C 58%). Ad ogni modo l’80% ha dichiarato l’intenzione di usare il contraccettivo in caso di rapporto sessuale. L’81% dei ragazzi dichiara di averne fatto realmente uso, mentre per le ragazze solo il 61%. I ragazzi preferiscono parlare dei cambiamenti puberali con gli amici, e in famiglia i più cercati sono i genitori, con notevoli differenze di genere. 2.4. Lo sviluppo celebrale nell’adolescenza Fino a una ventina di anni fa, quando si parlava di sviluppo fisico nell'adolescenza, si intendeva soltanto il 85 complesso di informazioni legate alla pubertà. Laurence Steinberg e B.J. Casey hanno dimostrato che durante questa fase della vita anche la struttura (cioè l’anatomia) il funzionamento del cervello vanno incontro a importanti cambiamenti nelle regioni corticali e subcorticali, e nei loro collegamenti, e questo ha notevoli effetti sull’emotività e sul comportamento degli adolescenti. La ricerca in questo settore è appena agli inizi e ci sono perciò vari punti di vista che si confrontano. Laurence Steinberg. Il comportamento è controllato da due tipi di processi, quelli caldi (che chiama sistema cerebrale socio-emotivo) le cui basi cerebrali si trovano nel sistema limbico, e quelli freddi, corrispondenti alle regioni corticali frontali (sistema cerebrale di controllo cognitivo) che si sviluppano con tempi diversi. Le ricerche mostrano che nel periodo del dell'adolescenza si verificano notevoli cambiamenti nelle regioni corticali prefrontali: - avviene una potatura delle sinapsi: lo sfoltimento si verifica già nei primi anni dell'adolescenza, va di pari passo con un miglioramento delle capacità di ragionamento e delle abilità di base di elaborazione delle informazioni (la memoria di lavoro e fluidità verbale); - avviene una mielinizzazione delle fibre nervose: rende più efficiente la conduzione degli impulsi nervosi entro la corteccia prefrontale, migliorando le funzioni esecutive (pianificazione, controllo degli impulsi, valutazione dei rischi e dei benefici che una certa azione comporta). A questi cambiamenti, che riguardano l'ambito cognitivo, se ne affiancano degli altri che raggiungono il picco nella prima adolescenza e che coinvolgono le aree subcorticali coinvolte nella sfera emotiva e motivazionale. Uno di questi cambiamenti consiste in una ridistribuzione dei recettori della dopamina che si trovano nel sistema limbico e nella corteccia prefrontale. La dopamina ha un ruolo centrale nei circuiti cerebrali dedicati alla ricompensa (percezione in risposta a stimoli piacevoli) di questi cambiamenti aumentano l'intensità delle sensazioni prodotte dagli stimoli piacevoli inducendo a non prestare la dovuta attenzione alle conseguenze negative in certi casi la soddisfazione potrebbe comportare,e aumentando, soprattutto nei maschi, la propensione ai comportamenti rischiosi. Che la propensione al rischio aumenti nell'adolescenza e diminuisca con l'età adulta corrisponde all'esperienza comune ed è confermato da diverse ricerche. I cambiamenti nei recettori della dopamina avvengono contemporaneamente alla maturazione puberale ma non dipendono da essa. Direttamente collegato alla maturazione sessuale è invece un altro cambiamento organizzazione sinaptica: l'aumento degli ormoni sessuali favorisce la proliferazione dei recettori dell'ossitocina, un ormone che agisce anche come neurotrasmettitore e che ha effetti importanti nella formazione di legami affettivi e nel riconoscimento stimoli sociali. Secondo Steinberg, grazie a questi cambiamenti aumenta l'importanza dei rapporti con i pari e il peso dato ai loro giudizi, io ciò favorisce l'adozione di comportamenti simili a quelli del proprio gruppo anche quando sono rischiosi (uso di droghe, sesso non protetto etc.). È stato dimostrato che anche la semplice presenza di coetanei aumenta negli adolescenti la propensione a correre dei rischi. L’ipotesi di Steinberg è che la presenza degli amici attivi anche i circuiti cerebrali del sistema della ricompensa, aumentando la sensibilità nei confronti degli stimoli piacevoli e diminuendo lo quella verso i rischi che bisogna correre per ottenerli. La propensione al rischio diminuisce con l'età adulta man mano che maturano anche le aree preposte alla regolazione cognitiva del comportamento. Secondo Steinberg, dunque, c'è uno sfasamento tra lo sviluppo del sistema cerebrale socio-emotivo, che si completa gli inizi dell'adolescenza, e lo sviluppo del sistema cerebrale di controllo cognitivo, che avviene gradualmente e non è completo fino a circa la metà dei vent'anni. Questo provoca negli adolescenti un aumento della ricerca di ricompense, soprattutto quando sono presenti dei coetanei, è una inclinazione a comportarsi in modo rischioso. B.J. Casey. Il modello più recente proposto da Casey più che un'alternativa costituisce un arricchimento del precedente. Questo modello non ha al centro dei sistemi cerebrali, ma più specifici circuiti neurali E considera le risposte non sono gli stimoli piacevoli, ma anche a quelli paurosi. La conclusione che si propone è che gli adolescenti, oltre a manifestare la cresciuta sensibilità al piacere e alla presenza di coetanei, sottolineata da Steinberg, abbiano un’acuta sensibilità emotiva anche nei confronti dei segnali del pericolo, ma che questo non li induca a fuggire dalle situazioni pericolose. 3. Lo sviluppo intellettuale durante l’adolescenza: il pensiero operatorio formale L’ingresso nella preadolescenza (11-12 anni), secondo Piaget, coincide con l’inizio di un nuovo stadio dello 86 sviluppo cognitivo, quello delle operazioni formali. Emergono in questo periodo una serie di competenze che caratterizzano anche il pensiero adulto. Come per gli altri stadi, le ricerche di Piaget sono state un punto di riferimento per gli studi successivi. Le acquisizioni che caratterizzano lo stadio operatorio formale riguardano sia le operazioni mentali, sia le entità a cui vengono applicate. Nello stadio delle operazioni concrete i bambini erano in grado di applicare le operazioni logiche soltanto a oggetti presenti o raffigurabili mediante immagini mentali; ora invece cominciano a usarle anche con contenuti mentali espressi in termini verbali. 3.1. Caratteristiche del pensiero operatorio formale Il pensiero operatorio formale è caratterizzato anche dall’emergere di nuovi tipi di operazioni, che si aggiungono a quelle di classificazione, partizione e seriazione a cui dite durante lo stadio operatorio concreto. Pensiero interproposizionale: Grazie al pensiero operatorio concreto il bambino può rappresentare correttamente diversi aspetti della realtà: un liquido versato in un contenitore più stretto conserva la propria quantità; la numerosità di un insieme non dipende dalla disposizione dei suoi elementi. Queste proposizioni possono essere messe a confronto con uno stato di cose corrispondenti, e il bambino è in grado di farlo: ad esempio versa di nuovo il liquido nel bicchiere di partenza. Piaget chiama intraproposizionali le operazioni concrete, perché servono per costruire in modo corretto e per verificare il contenuto di singole proposizioni. Due o più proposizioni semplici possono essere collegate mediante vari connettivi logici (come “e”, “o”) per costruire proposizioni complesse (contraddizioni, tautologie, disgiunzioni). Le operazioni interproposizionali che emergono in questo periodo consistono nel ragionare su queste proposizioni complesse. Mentre i bambini riescono solo nelle operazioni intraproposizionali, gli adolescenti riescono ad applicare anche le seconde; infatti gli adolescenti sono in grado di capire se una proposizione complessa è vera o falsa senza controllarne il contenuto con uno stato di cose, ma gli basta esaminarla. Gli adolescenti, a differenza dei bambini, hanno ben chiaro che in certi casi quello che conta è il modo in cui sono collegate certe affermazioni. Proporzioni e analogie: con le analogie si coglie l’uguaglianza tra coppie di relazioni, come quelle che intercorrono tra piume e uccello o tra pelo e cane. Con le proporzioni si coglie una relazione di uguaglianza tra due operazioni (es: 5:7 = 20:28). Piaget ha trovato supporto alla sua tesi verificando che i bambini di 5-6 anni costruiscono coppie fantasiose, senza collegamenti; a 7 anni costruiscono le coppie dopo dei tentativi, ma si lasciano suggestionare dallo sperimentatore; a 11-12 anni procedono in modo sistematico senza influenze. Il pensiero operatorio formale è caratterizzato dalla presenza di operazioni che consentono di mettere in relazione i risultati di altre operazioni (quelle acquisite con il pensiero operatorio concreto). Le operazioni formali sono quindi operazioni su operazioni o pensiero alla seconda potenza; Pensiero ipotetico deduttivo: il pensiero operatorio formale è ipotetito-deduttivo. Grazie alla presenza di operazioni interproposizionali, consente di ricavare delle conclusioni a partire dalle premesse, prendendole inizialmente in considerazione come ipotesi di cui esplorare le conseguenze. La capacità di effettuare dei ragionamenti ipotetico-deduttivi, consente agli adolescenti di accostarsi alla realtà: in presenza di un fenomeno da spiegare, avanzano delle ipotesi, deducono una serie di eventi che dovrebbero avere luogo (conseguenze) e sulla base di una verificano accettano o meno l’ipotesi; Il pensiero ipotetico deduttivo è dunque necessario per poter verificare delle ipotesi, ma non è sufficiente per individuare le ipotesi da mettere alla prova, cioè le possibili spiegazioni di un certo evento, per questo sono necessarie le operazioni di combinazione. Operazioni di combinazione e primato del possibile sul reale: il pensiero ipotetico-deduttivo, non basta per individuare le possibili spiegazioni di un evento. Per far questo sono necessario le operazioni di combinazione che consistono nell’individuare l’insieme delle parti, tutti i sottoinsiemi, in cui l’insieme può essere suddiviso. Secondo Piaget, solo queste operazioni permettono di valutare tutte le possibili soluzioni di un problema, e quindi tutte le ipotesi da mettere alla prova. Si possono identificare le variabili attraverso divisioni logiche, che sono l’opposto delle moltiplicazioni logiche, che poi vengono combinate in tutti i modi possibili, costruendo così tutte le possibili ipotesi. Si costruisce quindi un insieme di possibilità e si afferma quindi il primato del possibile sul reale; Integrazione di due tipi diversi di reversibilità: dato che nel pensiero operatorio formale si ha la capacità di integrare in un unico sistema tipi di operazioni diverse, sarà anche in grado di integrare i diversi tipi di reversibilità che li caratterizzano. 87 (prospettiva sociale morale). Kohlberg inoltre ritiene che lo sviluppo morale sia connesso alle abilità di role- taking, quindi con il tipo di prospettiva che il soggetto assume quando valuta le relazioni con gli altri. 6. Problemi mal strutturati, ragionamento informale e credenze epistemologiche Piaget ha utilizzato per le sue ricerche i problemi ben strutturati o ben definiti. I problemi ben strutturati o ben definiti sono precisi, completi e hanno una soluzione certa, diversamente dai problemi mal strutturati o mal definiti, che presentano caratteristiche opposte. Questi due tipi di problemi, richiedono due diversi tipi di ragionamento: i problemi ben strutturati richiedono un ragionamento formale (uso di procedure che assicurano la soluzione); i problemi mal strutturati richiedono un ragionamento informale (si richiama a conoscenze e principi per la soluzione). Durante il ragionamento informale le persone tendono a rimanere legate alla prima soluzione senza considerare punti di vista alternativi e difficilmente riescono a spiegare perché propongono una certa soluzione, portando delle prove a sostegno della loro conclusione e considerando anche le possibili obiezioni. La capacità di argomentare, ossia di sostenere le proprie conclusioni considerando le possibili obiezioni è risultata correlata alle credenze epistemologiche (idee che i soggetti hanno circa la conoscenza, la sua natura, il grado di certezza). Queste credenze influiscono sullo sviluppo e sulle differenze individuali. Secondo alcuni studiosi ci sono vari livelli di sviluppo: 1. Assolutista: conoscenza è vista come una copia della realtà esterna; 2. Molteplicitista: non esiste una conoscenza certa, tutte le opinioni sono ugualmente valide; 3. Valutativo: le varie asserzioni sono equivalenti ed esistono i criteri per identificare quelle più valide. Molti adolescenti e adulti non vanno oltre le prime due. Capitolo tredicesimo Lo sviluppo sociale Nello sviluppo sociale adolescenziale si parla di esiti evolutivi, termine con cui Grotevant designa l’assetto personale e relazionale in cui sfociano i cambiamenti adolescenziali soprattutto nelle relazioni familiari ed extra-familiari. La pubertà e la crescita cognitiva costituiscono delle determinanti per nuovi bisogni sociali e contribuiscono a modificare gli equilibri preesistenti, in particolare nella famiglia. Tuttavia, come ricorda Grotevant, tra le componenti del modello da lui proposto non vi è una relazione lineare e semplice. Sebbene si sia tentati di pensare ai cambiamenti biologici come causa promovente dei cambiamenti sociali, si stanno accumulando sempre più prove empiriche a dimostrazione del fatto che l'interazione sociale può influire sullo sviluppo biologico. Infine, gli ambiti dello sviluppo sociale sono interconnessi, perché ciò che avviene in uno può avere diretta influenza nell’altro. 1. L’adolescente e i genitori La relazione tra genitori e figli diventa difficile durante l’adolescenza in seguito a diversi fattori. Anzitutto una delle difficoltà è dovuta al gap generazionale, ossia una discontinuità nel modo di comportarsi dei figli rispetto ai genitori, sia attuale (in quanto gli adulti rivestono uno specifico ruolo), che passato (quando erano essi stessi adolescenti). Infatti gli adolescenti, rispetto ai genitori, utilizzano spesso un linguaggio diverso ma anche abiti differenti (a volte anche come atto provocatorio). Altro fattore sono le condizioni economiche complessive, che modificandosi hanno portato gli adolescenti a disporre mediamente di maggior denaro rispetto a quello che avevano i loro genitori alla loro età; e di conseguenza anche maggior cultura (complessivamente) con la possibilità di frequentare le università. Secondo numerosi studi le differenze sono più superficiali che sostanziali: infatti nel campo dei valori e degli atteggiamenti c’è una maggior congruenza tra genitori e figli. Anche la comunicazione non si interrompe, infatti, a parte che nelle famiglie a rischio, la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze reputa facile parlare con la madre delle proprie preoccupazioni (meno con il padre, soprattutto la comunicazione padre-figlia risulta essere complicata). La ricerca adolescenziale di uno stile diverso dai genitori rispecchia sia i cambiamenti strutturali della società, sia il bisogno di appartenenza ad un gruppo, ma al contempo bisogno di autonomia dalla famiglia. Il bisogno di autonomia dalla famiglia è stato riconosciuto come problema centrale di questo periodo ed è stato studiato da teorici diversi: secondo Freud si tratta di un vero distacco che rende possibile direzionare gli impulsi di sessualità verso altre persone; secondo Erikson il bisogno di autonomia è necessario per la formazione di una propria identità; per Piaget è l’acquisizione del pensiero operatorio formale che spinge l’adolescente a considerarsi come l’eguale dell’adulto. Il bisogno di autonomia è un processo multidimensionale che implica la compresenza di attività cognitive, emotivo-affettive e comportamentali. È 90 caratterizzato da una maggiore critica nei confronti delle affermazioni e richieste dei genitori e alla ridimensione delle loro competenze (deidealizzazione). La separazione non va confusa con il distacco, che include sentimenti di sfiducia ed estraniamento. Infatti, se l’adolescente ha fiducia in sé stesso, cresce la possibilità di autoregolazione, riesce quindi a gestire molti aspetti della vita quotidiana di cui prima si occupavano maggiormente i genitori e si amplia così la sfera personale. Petter ritiene che l’adolescenza può essere considerata come un periodo in cui l’individuo volontariamente si allontana e si riavvicina più volte alla famiglia. Questa situazione viene chiamata marginalità psicologica volontaria. La richiesta di essere lasciati liberi è fonte di conflitti che iniziano a manifestarsi dalla pubertà. I conflitti, secondo uno studio di Elvira Cicognati, vertono su: - Regole della casa; - Questioni personali su cui i genitori cercano di conservare la supervisione (scuola); - Tempo libero in cui i genitori sono molto più inclini a lasciare libera scelta (musica, sport); - Vita fuori casa su cui i genitori mantengono a lungo un alto grado di controllo (infatti sono i ragazzi a lamentare di questo tipo di conflitto). Non si deve però pensare che le discussioni sfocino necessariamente nel rancore. Infatti gli adolescenti continuano a riconoscere ai genitori l’ultima parola su questioni con valenza morale o su convenzioni sociali che non influenzano direttamente la sua sfera personale. In sintesi, nel confronto con i propri genitori gli adolescenti sembrano destreggiarsi abbastanza bene tra le contrastanti esigenze di affermare la propria autonomia e di mantenere vivo un rapporto importante; l’immagine di una gioventù in radicale opposizione con la generazione precedente sembra sostenuta più dagli adulti (complici anche i mass media) che dai giovani stessi. 2. I rapporti con i coetanei Discutere le proprie idee (derivate dalle nuove abilità intellettuali) con persone della stessa età può aiutare gli adolescenti ad affrontare questo processo di autonomizzazione dai genitori. Anche le trasformazioni fisiche spingono a cercare un confronto con i coetanei, in questo caso per rassicurarsi circa la generalità di taluni fenomeni. Inoltre la maturazione puberale dà inizio ad un periodo di marginalità sociale (non sei più un bambino ma non sei ancora un adulto), ossia ad un’incerta identità dal punto di vista sociale stringere relazioni con i coetanei aiuta a sentirsi meno spaesati. Il sostegno che l’adolescente cerca nei coetanei si esplica in vari tipi di relazione. Brown parla di tre livelli di aggregazione rilevanti per gli adolescenti: il gruppo allargato (crowd, movimento giovanile, tifoseria sportiva etc.), il piccolo gruppo (compagnia) e la diade amicale o di coppia. 2.1. I gruppi adolescenziali Nel caso del gruppo allargato gli adolescenti si differenziano per ampie classi (es: essere maschio o femmina), ma anche per la corrispondenza a tipi ben definiti, che condividono atteggiamenti e preferenze (es: da molti studi americani emergono dei veri e propri gruppi abbastanza definiti nelle scuole, come i “cervelloni”, “gli sportivi”, “festaioli” etc.). A queste categorie si viene assegnati in base alla reputazione sociale e allo stereotipo cui si corrisponde; ma una volta che ci si identifica in un dato gruppo si tende a relazionarsi più facilmente con altri componenti. Nel secondo caso, quello del piccolo gruppo, l’appartenenza non si definisce solo in termini di similarità, ma implica anche la condivisione di alcune attività. Questo accade sia nei gruppi formali, basati su regole esplicite (associazioni sportive, politiche), sia su gruppi informali, ossia aggregazioni spontanee. La partecipazione a gruppi formali è spesso promossa dagli adulti che esercitano un controllo sugli obiettivi e sulle modalità per raggiungerli, come nel caso di un club sportivo, gli scout ecc. Nell’adolescenza il gruppo più tipico è quello informale. Nella preadolescenza vi sono piccole cricche formate da soli ragazzi o sole ragazze, i due tendono ad evitarsi reciprocamente. Successivamente questi gruppi omogenei per sesso stabiliscono questo rapporto formando compagnie che comprendono partner di sesso diverso, che poi daranno origine anche a sottogruppi. Nella tarda adolescenza la compagnia perde coesione, mentre si formano coppie. Si instaurano quindi nella tarda adolescenza relazioni sentimentali dotate di stabilità e profondità emotiva. Il gruppo presenta una forte attrattiva, ma entrarne a far parte non è sempre facile: bisogna rispettarne delle norme, la cui accettazione determina l’appartenenza. 2.2. Norme di gruppo e scelte personali L’accettazione delle norme del gruppo, più o meno consapevole, determina non solo l'appartenenza, ma 91 anche il grado di soddisfazione personale che se ne ricava e il modo in cui si viene percepiti dagli altri. Da alcune ricerche si evidenzia che le regole più frequentemente nominate dai ragazzi avevano a che fare con la lealtà interpersonale: non tradire la fiducia, non interferire nelle scelte altrui, non giudicare etc. L’adesione alle norme si manifesta in modo plateale nel fenomeno del conformismo: maschi e femmine della stessa compagnia utilizzano abiti, acconciature e modi di fare simili per accentuare una sorta di identità collettiva. Spesso questo fenomeno suscita allarme nei genitori. La loro paura è quella che i figli siano disposti a cedere a qualunque influenza. Altro fenomeno che suscita perplessità negli adulti è quello del favoritismo, per cui il proprio gruppo è considerato migliore e coloro che non vi appartengono sono valutati meno positivamente. Bisogna però tener conto che la svalutazione degli outgroups a vantaggio degli ingroups può manifestarsi a qualsiasi età. Il culmine è raggiunto tra gli 11 e i 15 anni, ma sono tendenze che decrescono nella tarda adolescenza dove diventa più importante saper resistere alle pressioni dei coetanei. Si hanno forme di appartenenza più selettiva, per cui l’adolescente partecipa a quelle situazioni che danno sostegno all’immagine di sé. Il grado di conformismo cambia a seconda del tipo di gruppo: maggiore nei gruppi formale, minore in quelli informali. L’influenza del gruppo è ridimensionata anche grazie al perdurare dell’importanza della famiglia, che resta sempre un punto di riferimento. Infatti mentre gli amici influenzano principalmente gusti e scelta degli amici, per le questioni importanti di solito si rivolgono ai genitori. 2.3. Amicizie e rapporti sentimentali Durante la preadolescenza e l’adolescenza l’amicizia riveste grande importanza. Si utilizzano criteri selettivi per differenziare gli amici dai non amici. Cresce l’intensità delle relazioni, caratterizzate dalla condivisione di attività piacevoli, dalla reciprocità degli scambi e da affinità personale. Analizzare le proprie reazioni emotive (specialmente quelle sentimentali) con una persona di fiducia, è uno degli scopi più importanti dell’amicizia adolescenziale. La rilevanza psicologica dei legami con i coetanei è importante e la funzione dell’amico è paragonabile a quella di uno specchio (paragone di Harry Sullivan) in cui l’adolescente può riflettersi. È possibile che l’intimità nell’amicizia (chi riesce ad aprirmi con un amico/a) influenzi l’adattamento personale e sociale e viceversa. Differenze di personalità sono state riscontrate tra adolescenti con e senza amici: l’espansività, la socievolezza e l’interiorizzazione delle regole morali, comportano una maggior facilità a stringere amicizie. Ci sono anche differenze di genere nelle relazioni, e dunque capacità, amicali. Al di là della socievolezza (necessaria e presente in entrambi i sessi), le doti che permettono ai ragazzi di stringere amicizie sono intraprendenza, stabilità emotiva e spontaneità e le loro relazioni sono dette “fianco a fianco”; le ragazze invece hanno bisogno di espansività, sicurezza di sé e interiorizzazione delle regole morali e i loro rapporti sono “faccia a faccia”. L’amicizia varia durante l’età adulta e nel corso della vita; infatti le donne sembrerebbero superiori nei rapporti amicali rispetto agli uomini, in quanto sono in grado di sé stesse e condividere pensieri intimi. Tuttavia, se un’amicizia tra uomini dura nel tempo, essi sono in grado di parlare dei propri problemi più riposti. Sembra inoltre che gli uomini siano restii ad utilizzare il termine “intimità” per definire i rapporti amicali, in omaggio ad uno stereotipo culturale che considera l’espressione di emozioni come inappropriata al genere maschile. Inoltre con il tempo, per entrambi i sessi, si affievolisce sempre di più il bisogno di amicizie, che ritornano ad essere materiali e superficiali (con alcune eccezioni) poiché si ricerca sempre di più un sostegno familiare e lavorativo. Un fattore che contribuisce a ridimensionare il ruolo dell’amicizia è quello delle relazioni sentimentali. Infatti il matrimonio o una lunga relazione di coppia, soddisfa molti dei bisogni che i ragazzi cercano nelle amicizie. Dagli 11/13 anni vi è una fase di iniziazione legata allo sviluppo puberale (infatuazioni e desiderio), tra i 14 e i 16 anni vi è la fase di esplorazione romantica (storie brevi ma anche più durature). Per quanto siano spesso superficiali emotivamente, Questi rapporti sono importanti perché avere la ragazza o il ragazzo accresce lo status nel gruppo e costituisce una prima opportunità di costruirsi una competenza romantica. Partendo da questo punto di vista, Joanne Davila propone di distinguere tre dimensioni principali rispetto alle abilità cognitive, emotive e comportamentali necessarie a intraprendere e vivere con successo delle relazioni amorose: - mutualità: capacità di tenere conto dei bisogni propri e altrui, bilanciando intimità e autonomia; 92 con cui ciò avviene, non dipendono solo dalla personalità degli adolescenti, ma anche dall'ambiente in cui essi vivono e dalle opportunità di scelta che esso offre (es: nelle società in cui le scelte occupazionali sono molto limitate i ragazzi ricalcano Le orme dei loro genitori: definizione prematura). Esistono relazioni tra stati d’identità e credenze epistemologiche. Gli adolescenti che non sentono il bisogno di esplorare diverse alternative (definizione prematura) sono quelli che aderiscono ad una epistemologia assolutista; quelli che indugiano nella fase di moratoria manifestano un’epistemologia scettica; quelli che hanno conseguito una loro identità manifestano un’epistemologia valutativa. Importante per la definizione dell’identità è il consolidamento dell’identità di genere (intensificazione di genere) secondo cui il ragazzo e la ragazza tendono ad adottare comportamenti più tipizzati, in quanto preoccupati e spinti da agenti esterni ad esibire un aspetto congruente con lo stereotipo di genere. Tuttavia la flessibilità del pensiero adolescenziale, permettono un’interpretazione dei ruoli di genere meno rigida di quella delle età precedenti, questo è dovuto dal primato del possibile sul reale. Moralità e differenze di genere nell’adolescenza Le femmine sembrano essere inferiori rispetto ai maschi nello sviluppo di un giudizio morale. Gilligan ha proposto di considerare la moralità femminile non inferiore, ma diversa, orientata verso la cura delle persone e la salvaguardia delle relazioni interpersonali piuttosto che alla difesa di una giustizia astratta. Più solide sono le differenze di genere nei sentimenti morali e in particolare sul senso di colpa. Fino all’adolescenza, il senso di colpa è maggiore nei maschi, con la pubertà invece diminuisce e quindi nell’adolescenza l’inclinazione verso il senso di colpa è maggiore nelle femmine. Questo può essere spiegato dal fatto che le femmine hanno una sollecitudine verso gli altri che le rende più empatiche e di conseguenza più inclini al senso di colpa. Questi dati sul senso di colpa spiegano anche il contrasto tra il livello di giudizio morale nei maschi e la maggior diffusione di devianza maschile. Infatti l’aggressione fa parte dello stereotipo maschile e come tale gode di accettazione sociale. Identità e omosessualità L'identità di genere include le caratteristiche personali e i ruoli culturalmente attesi per l'uno e per l'altro sesso; tra tali caratteristiche quella che sembra più ovvia è l'orientamento sessuale. Un limite della ricerca sulla relazione tra genere e sesso biologico è la considerazione di quest'ultimo come una caratteristica binaria, assegnata alla nascita in base ai genitali esterni. La ricerca moderna sulle varianti genetiche mostra che sarebbe più corretto considerare la differenza tra i sessi come un continuo con molte posizioni intermedie tra i poli maschile e femminile, ma anche l’orientamento sessuale. Infatti, contrariamente alla credenza popolare, l'attrazione sessuale verso individui dello stesso sesso non implica la non-conformità di genere: In altre parole, un uomo gay può sentirsi perfettamente a suo agio nel proprio corpo maschile e non avere nessun comportamento corrispondente allo stereotipo femminile. Nella nostra cultura l'omosessualità è stata lungo considerata una malattia, con devastanti conseguenze. L’orientamento sessuale e infatti una disposizione individuale che non può essere modificata e che non porterebbe disagi psicologici se non fosse oggetto di stigma. Si noti che, oltre ai comportamenti omofobici degli altri, molte persone “non-eterosessuali” soffrono per una omofobia interiorizzata: l'eterosessualità viene trasmessa come qualcosa di scontato è obbligatorio, così che l'auto percezione della propria diversità finisce per coincidere con un'idea di sé come sbagliato o addirittura malato. Benché l'intuizione della propria omosessualità possa essere precoce, è in adolescenza che il ragazzo o la ragazza affrontano il carattere minoritario della loro identità. Le storie personali oggetto di studio mostrano la difficoltà di uscire allo scoperto persino con i propri genitori due punti e non mancano le famiglie in cui la reazione è di completo rigetto. Il ragazzo o la ragazza, al contrario, avrebbero bisogno di un incondizionato sostegno da parte delle persone care, per confrontarsi con una società in cui i diritti delle persone omosessuali sono ancora poco riconosciuti. La delicatezza, sempre necessaria, deve essere quindi massima nell'aspettare le iniziative dei figli; ma provvede a creare un ambiente accettante, in cui altre persone omosessuali facciano parte delle frequentazioni abituali, in cui le prime relazioni amorose dell’adolescente siano accolte e protette, sono alcune delle linee guida che si possono adottare in famiglia. 5. L’impegno politico e civile Uno dei compiti per costruire una propria identità consiste nel decidere il proprio atteggiamento nei confronti della società e il ruolo che si intende ricoprire. Sono stati identificati, in un’indagine americana degli anni 70, vari tipi di cittadino, a seconda del coinvolgimento politico: - Attivista razionale: elevata conoscenza e partecipazione alla vita pubblica, mediante una serie di attività; 95 - Spettatore: contraddistinto da elevata conoscenza e scarsa partecipazione; - Cittadino passivo: scarsa conoscenza e scarsa partecipazione; - Cittadino mobilitabile: scarsa conoscenza ed elevata partecipazione. Ciascuno di questi si suddivide poi in due sottotipi a seconda dei sentimenti positivi o negativi verso il sistema politico o il governo in carica. Sono pochi gli adolescenti e gli adulti che riescono a sviluppare un’ideologia in senso stretto (di cui parlava Piaget), cioè una visione esplicita, coerente e astratta della società (es: socialismo, comunismo o liberalismo); la maggior parte sviluppa un’ideologia in senso lato. Questa ideologia è un insieme di atteggiamenti e credenze più o meno esplicite sulla libertà individuale, sulle scelte politiche ed economiche e su la tolleranza (es: definirsi di destra o di sinistra, conservatore o progressista). L’impegno politico dei giovani, sia in forme convenzionali (partiti), sia in forme non convenzionali (associazioni), varia in relazione al momento storico (In Italia maggiore negli anni ’60 e ’70, calo negli anni ’80 e ’90, riaumento nel 2000). L’impegno politico varia anche in relazione a fattori sociali: è maggiore nei maschi piuttosto che nelle femmine, nei ragazzi provenienti da famiglie di classe superiore piuttosto che in quelli provenienti da famiglie di operai, al Nord piuttosto che al Sud. Tuttavia in uno studio più recente condotto a Padova non sono emerse differenze di genere. L’educazione alla cittadinanza va affrontata precocemente, già dalla scuola media inferiore, offrendo ai bambini le conoscenze necessarie per capire le istituzioni politiche e lo stimolo a partecipare. 6. Adolescenti di fronte al futuro Il futuro è fondamentale per la propria identità. Al contrario dei bambini della media fanciullezza che non riescono bene ad orientarsi nel futuro lontano, gli adolescenti sanno stimare la durata del tempo futuro e sono in grado di formulare progetti a lungo termine. La prospettiva temporale è la consapevolezza del futuro e la capacità di collegare ad esso scelte e attività. L’ampiezza e la chiarezza svolgono un ruolo importante nella capacità di stabilire obiettivi: infatti chi ha una prospettiva temporale ampia, ad esempio, è maggiormente capace di tener presente la relazione tra il proprio lavoro scolastico quotidiano e le prove finali. La tensione verso il futuro può comunque creare conflitti. Infatti da un lato c’è il contrasto tra l’impegno richiesto dalla realizzazione dei propri progetti e il bisogno di vivere liberamente, dall’altro ci sono le possibili divergenze tra aspirazioni personali e le opportunità reali. 96
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