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Guide e consigli
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Corso personal trainer, Appunti di Diritti Umani

Sport a livello agonistico e preparazione per il personal trainer

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 25/01/2023

DESIREEARNETTA
DESIREEARNETTA 🇮🇹

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Scarica Corso personal trainer e più Appunti in PDF di Diritti Umani solo su Docsity! PROJECT INVICTUS inVictus Academy La Guida del Personal Trainer inVictus Academy Guida Indice – inVictus Trainer | I Indice VOLUME 01 Prefazione XVIII Presentazione XX SEZIONE I L’ecosistema del personal training 3 Introduzione 5 1. Scenari 7 1.1 Il minimo comune denominatore universale 7 1.2 L’esperto del miglioramento sico 9 1.3 Personal training: serve? 9 1.4 Chi può parlare 14 1.5 Il valore dell’esperienza 16 1.6 Studi scientici a€ermano che… 17 1.7 Dalla Bro-Science alla Scienza 18 1.8 La gerarchia delle evidenze 18 1.9 Problemi… 19 1.10 Leggere uno studio 20 1.11 Alcune regole di sopravvivenza 21 1.12 Una mentalità scientica 22 2. Perché fanno tutti 3×6 25 2.1 Novità, sempre novità… 30 2.2 Case study – Gira lo schema 31 2.3 Non è lo schema, è la progressione 34 2.4 Il medical tness 34 2.5 La tecnica 38 2.6 Sport e wellness 39 2.7 Stile e controllo 41 3. Il Metodo inVictus 43 3.1 Costruire dei modelli 44 3.2 Lo scopo del libro 45 3.3 La circolarità del Sapere 46 3.4 Il piano dell’opera 47 3.5 Conclusioni 57 IV | inVictus Trainer – Indice PARTE 2 Biomeccanica degli esercizi in palestra 317 1. Esercizi per le spalle 319 1.1 Esercizi per le spalle: muscoli target e classicazione biomeccanica 319 1.2 Military Press e Lento Avanti 320 1.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 320 1.4 Varianti esecutive 329 1.5 Esecuzione corretta ed errori comuni 336 1.6 Alzate Laterali, Alzate Frontali e Tirata al mento 339 1.7 Analisi biomeccanica e controversie comuni 340 1.8 Esecuzione corretta ed errori comuni 360 1.9 Aperture per il deltoide posteriore 365 1.10 Esecuzione corretta ed errori comuni 367 1.11 Shrug 372 1.12 Esecuzione corretta ed errori comuni 376 1.13 Esercizi per la cuŸa dei rotatori 378 1.14 Esecuzione corretta ed errori comuni 386 2. Esercizi per il gran pettorale 393 2.1 Esercizi per il petto: classicazione biomeccanica 393 2.2 Panca con bilanciere e manubri 394 2.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 394 2.4 Esecuzione corretta ed errori comuni 415 2.5 Croci e Pectoral Machine 422 2.6 Esecuzione corretta ed errori comuni 428 2.7 Dip alle parallele 432 2.8 Analisi biomeccanica e controversie comuni 433 2.9 Esecuzione corretta ed errori comuni 436 3. Esercizi per la schiena 439 3.1 Esercizi per la schiena: classicazione biomeccanica 439 3.2 Trazioni e Lat Machine 440 3.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 441 3.4 Varianti 448 3.5 Prevenzione infortuni e salute dei gomiti 457 3.6 Esecuzione corretta ed errori comuni 462 3.7 Pulley e Rematore 466 3.8 Analisi biomeccanica e controversie comuni 467 3.9 Esecuzione corretta ed errori comuni 471 3.10 Pullover e Pull Down 477 3.11 Analisi biomeccanica e controversie comuni 478 3.12 Esecuzione corretta ed errori comuni 486 4. Esercizi per bicipiti e tricipiti 491 4.1 Esercizi per i bicipiti: classicazione biomeccanica 491 4.2 Curl con spalla in posizione zero 492 4.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 492 Indice – inVictus Trainer | V 4.4 Esecuzione corretta ed errori comuni 499 4.5 Curl con spalla in posizione estesa 503 4.6 Analisi biomeccanica e controversie comuni 504 4.7 Esecuzione corretta ed errori comuni 506 4.8 Curl con spalla in posizione ¡essa 509 4.9 Analisi biomeccanica e controversie comuni 509 4.10 Esecuzione corretta ed errori comuni 513 4.11 Esercizi per i tricipiti: classicazione biomeccanica 519 4.12 Push Down e Kick Back 519 4.13 Analisi biomeccanica e controversie comuni 520 4.14 Esecuzione corretta ed errori comuni 527 4.15 French Press 530 4.16 Analisi biomeccanica e controversie comuni 530 4.17 Esecuzione corretta ed errori comuni 535 4.18 Esercizi multiarticolari con enfasi sul tricipite 539 4.19 Analisi biomeccanica e controversie comuni 540 4.20 Esecuzione corretta ed errori comuni 542 5. Esercizi addominali 547 5.1 Esercizi per i muscoli del tronco: classicazione biomeccanica 547 5.2 Hyperextension 548 5.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 549 5.4 Esecuzione corretta ed errori comuni 552 5.5 Crunch, Sit-up e Leg Raise 554 5.6 Analisi biomeccanica e controversie comuni 554 5.7 Esecuzione corretta ed errori comuni 568 5.8 Crunch incrociati e Torsioni del busto 574 5.9 Analisi biomeccanica e controversie comuni 574 5.10 Esecuzione corretta ed errori comuni 580 5.11 Side Bending e Side Plank 583 5.12 Analisi biomeccanica e controversie comuni 584 5.13 Esecuzione corretta ed errori comuni 586 5.14 Plank, AB Wheel e Dragon Flag 588 5.15 Analisi biomeccanica e controversie comuni 589 5.16 Esecuzione corretta ed errori comuni 594 6. Esercizi per l'arto inferiore 601 6.1 Esercizi per le gambe: classicazione biomeccanica 601 6.2 Squat e Stacco 602 6.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni 603 6.4 Tipologie di Squat e attivazione muscolare 617 6.5 Perché non si riesce a fare Squat? 626 6.6 Tipologie di Stacco 638 6.7 Esecuzione corretta ed errori comuni 642 6.8 Pressa 646 6.9 Analisi biomeccanica e controversie comuni 647 6.10 Esecuzione corretta ed errori comuni 651 6.11 A€ondi, Squat Bulgaro e Step-up 654 6.12 Analisi biomeccanica e controversie comuni 654 6.13 Varianti e attivazione muscolare 662 6.14 Esecuzione corretta ed errori comuni 669 6.15 Hip Thrust e Ponte 675 6.16 Analisi biomeccanica e controversie comuni 676 6.17 Varianti esecutive e attivazione del gluteo 681 VI | inVictus Trainer – Indice 6.18 Esecuzione corretta ed errori comuni 685 6.19 Leg Extension e Leg Curl 687 6.20 Analisi biomeccanica e controversie comuni 688 6.21 Esecuzione corretta ed errori comuni 697 6.22 Stacco a gambe tese e Hyperextension 700 6.23 Analisi biomeccanica e controversie comuni 700 6.24 Varianti con enfasi maggiore sul grande gluteo 703 6.25 Esecuzione corretta ed errori comuni 705 6.26 Slanci e Reverse Hyperextension 708 6.27 Analisi biomeccanica e controversie comuni 708 6.28 Esecuzione corretta ed errori comuni 712 6.29 Abduzioni e adduzioni dell’anca 714 6.30 Analisi biomeccanica e controversie comuni 716 6.31 Esecuzione corretta ed errori comuni 723 6.32 Calf 729 6.33 Analisi biomeccanica e controversie comuni 729 6.34 Esecuzione corretta ed errori comuni 732 PARTE 3 Traumatologia nel fitness 745 Introduzione 747 I.1 Traumatologia per il personal trainer 747 I.2 Personal trainer e gure sanitarie 748 I.3 Personal training e imaging diagnostico 750 I.4 Genesi di un dolore: perché fa male? 753 I.5 Perché ci si fa male in palestra 759 I.6 Perché sono storto? La genesi della postura 767 I.7 “Correggere” la postura: il ruolo del personal trainer 774 1. Traumatologia nel fitness: arto superiore 777 1.1 Il dolore alla spalla 777 1.2 Il dolore alla spalla nel tness 787 1.3 Principi di tness adattato 790 1.4 Lussazione e sublussazione di spalla 797 1.5 Lussazione o sublussazione di spalla nel tness 801 1.6 Il dolore al gomito 807 1.7 Epicondilite 807 1.8 Epitrocleite 811 1.9 Dolore al gomito nel tness 814 2. Traumatologia nel fitness: tronco 823 2.1 Il dolore cervicale 823 2.2 La cervicale nel tness 829 2.3 Alterazioni posturali del rachide toraco-lombare nel tness 833 2.4 Ipercifosi toracica 834 2.5 Scoliosi 843 2.6 Iperlordosi e ipolordosi 853 2.7 Il dolore lombare 861 2.8 Dolore lombare acuto: cosa fare in palestra 868 Indice – inVictus Trainer | IX 6. I disturbi del comportamento alimentare 1069 6.1 Classicazione dei disturbi del comportamento alimentare 1070 6.2 Riconoscere una persona a€etta da DCA in palestra 1077 6.3 I professionisti con i quali collaborare 1081 6.4 Cosa può fare e non fare un personal trainer 1083 6.5 A cosa deve stare attento il personal trainer 1083 SEZIONE V Ricomposizione corporea 1087 Introduzione 1089 1. Il modello di riferimento 1093 1.1 La composizione corporea 1093 1.2 Assimilare e consumare energia 1096 1.3 Il paradigma della ricomposizione corporea 1104 1.4 Tracciare la linea di partenza 1114 1.5 Aderenza e sostenibilità dietetica 1122 1.6 L’acqua 1123 1.7 Caso studio - Sara 1123 2. Ricomposizione corporea “con i macro” 1127 2.1 La fase di cut 1127 2.2 La fase di bulk 1142 2.3 Il consolidamento 1149 3. Ricomposizione “senza macro” 1155 3.1 Le calorie non contano… o contano? 1156 3.2 Mangiare con gli occhi 1157 3.3 I carboidrati non fanno ingrassare 1161 3.4 Iniziare 1164 3.5 La dieta PLG 1165 3.6 Appendice - Ricettario 1174 4. La Reverse Diet 1187 4.1 L’errore di fondo 1188 4.2 La Reverse Diet come potenziale strategia 1189 4.3 La Reverse Diet come unica scelta possibile 1191 4.4 Caso studio - L’homo tness 1194 5. L’attività “cardio” nella ricomposizione corporea 1199 5.1 Il vero problema delle attività “cardio” 1199 5.2 Il consumo calorico della corsa 1201 5.3 Caso studio - Sara 1204 X | inVictus Trainer – Indice 5.4 Il cardiofrequenzimetro 1205 5.5 I miti dell’attività “cardio” 1207 5.6 La corsa sul tapis roulant 1220 5.7 Programmi 1221 5.8 Appendice – Esercizi per i programmi di Interval Training 1234 6. Le attività “metaboliche” in palestra 1243 6.1 Il modello siologico dei circuiti metabolici 1243 6.2 Attività cardio ad alta intensità continue e intervallate 1253 6.3 EPOC 1256 6.4 Conclusioni 1261 7. L’attività cardiovascolare in palestra 1263 7.1 HIIT: la soluzione a ogni problema? 1264 7.2 Vantaggi e limiti dell’allenamento metabolico 1265 7.3 I consumi calorici 1266 7.4 Le tipologie di attività cardiovascolari 1268 8. Allenamenti metabolici su macchine cardio 1273 8.1 I primi allenamenti metabolici continui 1274 8.2 L’utilizzo di altre macchine cardio 1277 8.3 Proseguire nel miglioramento 1279 8.4 Le attività metaboliche intermittenti 1280 8.5 Un protocollo per allenamenti su macchine cardio 1282 8.6 Allenamenti in gruppo 1284 8.7 Conclusioni 1284 9. Allenamenti metabolici con sequenze di esercizi 1287 9.1 Conclusioni - Resistance training e allenamenti metabolici 1303 10. La plicometria: aspetti teorici e pratici per il personal trainer 1307 10.1 Come si esegue la plicometria 1309 10.2 Interpretazione dei dati ottenuti 1313 Indice – inVictus Trainer | XI SEZIONE VI Teoria dell'allenamento 1317 Introduzione 1319 I.1 L’allenamento istintivo 1319 I.2 Il miglioramento come elemento di divertimento 1322 I.3 Scopo della sezione 1323 I.4 Struttura della trattazione 1323 I.5 L’arte dell’allenamento 1324 I.6 Il primo schema di allenamento della Storia 1325 1. La teoria della Supercompensazione 1327 1.1 L’energia adattativa 1327 1.2 Ciò che non ti uccide ti rende più forte? 1332 1.3 La teoria della Supercompensazione 1333 1.4 Conclusioni 1336 2. Le leggi fondamentali dell’allenamento 1339 2.1 Le leggi fondamentali e universali dell’allenamento 1340 2.2 La accommodation law 1341 2.3 Conclusioni 1343 3. Adattamenti 1347 3.1 Reclutamento spaziale muscolare 1349 3.2 Sincronizzazione o reclutamento muscolare temporale 1350 3.3 Coordinazione intermuscolare 1351 3.4 Ipertroa 1353 3.5 L’e€etto macroscopico degli adattamenti 1357 3.6 Doping 1359 3.7 Conclusioni 1360 4. La tecnica 1363 4.1 La tecnica come “saper fare bene” 1364 4.2 La tecnica come canone estetico 1365 4.3 La tecnica come sicurezza per la salute 1366 4.4 L’apprendimento della tecnica nella pratica 1367 4.5 Conclusioni 1369 5. L’allenamento come processo 1371 5.1 Uno schema universale per l’allenamento 1371 5.2 Stesse fasi, più piani 1376 5.3 Conclusioni 1377 XIV | inVictus Trainer – Indice 3. Le aspettative del cliente 1587 3.1 Ciò che il cliente vuole 1589 3.2 Codice di comportamento 1590 3.3 Distorsioni nelle aspettative 1590 3.4 Il vero percorso di miglioramento 1599 3.5 Le principali categorie di clienti 1601 4. Impostare la prima seduta 1613 4.1 La valutazione funzionale del soggetto 1613 4.2 Scopo della prima seduta 1615 4.3 Gli esercizi da svolgere 1617 4.4 Spiegare gli esercizi 1618 4.5 Esempio #1 – Introduzione alla panca piana 1619 4.6 Esempio #2 – Introduzione allo squat 1621 4.7 Tirando le la 1624 4.8 Le prime 2-4 settimane 1626 4.9 E poi? 1629 A. Sicurezza in palestra 1631 Introduzione 1631 A.1 N°1 – Fai attenzione agli altri quando scarichi i pesi 1632 A.2 N°2 – Fai attenzione a te quando scarichi i pesi 1632 A.3 N°3 – Fai attenzione alle macchine 1633 A.4 N°4 – Non forzare le macchine 1634 A.5 N°5 – Fai attenzione quando ti muovi 1635 A.6 N°6 – Blocca sempre i dischi 1636 A.7 N°7 – Controlla la stabilità degli appoggi 1637 A.8 N°8 – Metti sempre in ordine le attrezzature 1638 A.9 N°9 – Fai attenzione alla rastrelliera 1639 A.10 N°10 – Fai attenzione ai tapis roulant 1640 B. I “pesi” sono pericolosi per i ragazzi in via di sviluppo? 1643 C. La valutazione funzionale 1649 C.1 Concetti preliminari 1649 C.2 Test di mobilità passiva 1651 C.3 Test di mobilità attiva 1665 C.4 Test di forza per il personal trainer 1672 Indice – inVictus Trainer | XV SEZIONE VIII Il Metodo inVictus 1681 Introduzione 1683 1. Gli antipodi del mondo del fitness 1687 1.1 Alta intensità con l’8×8 1687 1.2 Il diario di allenamento 1694 1.3 Ipertroa funzionale con il powerlifting 1695 1.4 Perché fanno tutti 3×6 1698 1.5 Il Metodo inVictus 1703 2. Il Metodo inVictus 1707 2.1 Costanza 1710 2.2 Organizzazione del lavoro 1710 2.3 Performance 1712 2.4 Equilibrio stimolo – riposo 1713 2.5 Divertimento 1715 2.6 Tecnica 1716 2.7 Progressioni 1720 2.8 Intensità e volume 1722 2.9 E€ort 1723 2.10 Selezione degli esercizi 1725 3. Le tipologie di stimolo allenante 1729 3.1 Un breve ripasso 1730 3.2 Il cedimento muscolare e l’ipertroa 1732 3.3 I fattori dell’ipertroa muscolare 1734 3.4 Conclusioni 1738 4. I parametri di una scheda di allenamento 1741 4.1 Intensità di carico 1742 4.2 Volume 1744 4.3 Frequenza 1748 4.4 Densità 1749 4.5 E€ort 1750 4.6 Tempo sotto tensione 1751 4.7 Velocità di esecuzione 1752 4.8 Scelta e ordine degli esercizi 1753 5. Bušer e cedimento 1757 5.1 Cedimento sulle basse ripetizioni 1759 5.2 Cedimento su medie ripetizioni 1759 5.3 Cedimento con alte ripetizioni 1759 5.4 Test RM 1760 5.5 Tecniche di intensità 1761 XVI | inVictus Trainer – Indice 6. Le progressioni 1765 6.1 Progressioni di carico 1767 6.2 Progressioni di volume 1769 6.3 Progressione doppia di carico e volume 1770 6.4 Progressioni di densità 1771 6.5 Progressione di intensità percepita 1771 7. Le fondamenta di un programma 1775 7.1 Ciò che fa migliorare 1776 7.2 L’organizzazione del lavoro 1777 7.3 Le principali split di allenamento 1784 7.4 Conclusioni 1787 SEZIONE IX Il Metodo inVictus - I programmi 1789 Introduzione 1791 I.1 I programmi del Metodo inVictus 1791 I.2 I 5 pilastri 1792 I.3 Programmi… per chi? 1793 1. Il Metodo inVictus per gli uomini 1797 1.1 Il principiante senza esperienza 1797 1.2 Il principiante con minima esperienza 1809 1.3 Il soggetto intermedio 1820 1.4 Il soggetto avanzato 1831 2. Il Metodo inVictus per le donne 1851 2.1 Particolarità dell’allenamento femminile 1851 2.2 La principiante senza esperienza 1855 2.3 La principiante con minima esperienza 1862 2.4 Il soggetto intermedio/avanzato 1870 A. Allenamento durante una dieta ipocalorica 1881 8 | Capitolo 1 – Sezione I Perciò: miglioramento, stato sico, impegnarsi a fare qualcosa, conoscenza, esperienza, guida, percorso. Persone completamente diverse che però hanno questi elementi, molti ed importanti, in comune. In pratica, queste persone hanno la comune necessità di… allenarsi! Chiunque entri in una palestra, varchi la soglia di un campo di atletica o da basket o si tuŸ dentro una piscina, prima o poi si pone delle domande che riguardano la denizione di allena- mento, perché è il termine che chiunque associa al miglioramento della propria condizione sica. Li ve llo d i f o rm a fi si ca Adesso Tempo Fra un po’ Allenamento Più avanti verrà proposta una denizione formale di ciò che per adesso è mostrato in figura 1-1 come l’essenza dell’allenamento stesso. Succo del tutto: l’allenamento riguarda il corpo umano, la sua sicità, che non comprende solo i muscoli, le articolazioni, le ossa e il cuore, che sono solo esecutori di ordini, ma anche l’organo che dà gli ordini: il Sistema Nervoso. La sicità, la “forma sica” del soggetto che si allena, identica tutta una serie di parametri anche molto complicati che vanno deniti. Ad esempio: il battito cardiaco a riposo, la pressione arteriosa a riposo, il quantitativo di massa muscolare, la capacità di generare forza in un movi- mento o potenza per una pedalata, parametri biochimici quali i livelli di lattato nel sangue dopo 5’ al 95% del VO2Max, parametri meccanici come i watt sviluppati a un cicloergometro con una data resistenza, ma anche l’abilità di mantenere un mirino centrato su un bersaglio che si sposta. È indubbio che la forma sica sia in qualche modo quanticabile, però è specica per ogni data attività perché è legata ai parametri prestativi di quell’attività. Ed è indubbio anche che esista un livello iniziale: ognuno di noi si trova, nel momento in cui inizia il suo percorso, a un dato livello di forma sica. Bene: scopo dell’allenamento è portare quel livello di forma sica ad un nuovo livello, più elevato. L’allenamento perciò è l’insieme delle attività che conduciamo per migliorare il livello di forma sica iniziale e ottenere un dato livello nale. Per usare un termine un po’ pomposo, l’allenamen- to è così un processo: ha un inizio e una ne, perciò ha una durata; ha un punto di partenza e un punto di arrivo, perciò ha un obiettivo. L’allenamento, pertanto, riguarda l’organizzazione del lavoro che serve per ottenere l’obiettivo che si vuole raggiungere, il miglioramento. Ed è il minimo comune denominatore di tutte le per- sone che sono state menzionate precedentemente. La tipica ri¡essione che sorge a questo punto è: “vero, l’allenamento è l’elemento comune, ma poi ogni persona è diversa, ha esigenze diverse, obiettivi diversi, perciò avrà bisogno di allenamenti diversi”. Lo scopo di questo libro è far capire che… questo non è vero. Che le diversità sono la manifesta- zione particolare di leggi e principi universali; dettagli importanti ma superciali, proprio come le carrozzerie di€erenti di macchine che condividono lo stesso chassis. Non è vero che siamo tutti diversi: siamo tutti uguali, anche se per molti questo può sembrare paradossale. Condividiamo biologia, biochimica, siologia e biomeccanica, non solo con gli altri esseri uma- ni, ma con tutti gli esseri viventi. Perciò condividiamo gli stessi meccanismi di adattamento agli stimoli imposti. Ciò che cambia sono i livelli, i parametri, che caratterizzano ognuno di noi. Tutti respiriamo ossigeno, tutti abbiamo bisogno di dormire, tutti riusciamo a sviluppare una tensione muscolare. Poi c’è chi è capace ad utilizzare meglio l’ossigeno e corre più di altri, può dormire meno e può studiare di più, può generare più tensione muscolare ed essere più forte in una data attività. figura 1-1 L’allenamento nella sua essenza. Sezione I – Capitolo 1 | 9 Ne consegue che esistono delle leggi universali che regolano l’allenamento, e così il miglio- ramento. Ciò che cambia è come queste vengono declinate nel particolare, ma è possibile una trattazione generale. Il compito non è facile, perché l’essere umano è complesso, e complesse saranno così le conoscenze necessarie, ma sapere che esistono dei principi universali è un punto di partenza fondamentale. 1.2 L’esperto del miglioramento fisico Sicuramente la signora Pina o il signor Paolo possono intraprendere un percorso di conoscen- za per apprendere questi principi, ma magari non hanno il tempo e la voglia di farlo. Preferiscono così aŸdarsi a una guida, a un esperto: l’esperto del miglioramento sico. Questa gura professionale può essere associata a un allenatore, a un istruttore di sala, a un tecnico di qualche attività sica, a un personal trainer. Nell’accezione di questo libro l’esperto del miglioramento sico verrà identicato come perso- nal trainer o più brevemente PT. A di€erenza di altri paesi, la gura del PT in Italia non è regola- mentata, c’è assolutamente poca chiarezza e non sono denite né le competenze che deve avere, né i titoli che deve possedere, sebbene esistano dei punti fermi su cosa non può fare e che è bene puntualizzare n da subito: • Non può esercitare trattamenti sanitari su soggetti patologici. • Non può fare anamnesi e diagnosi. • Non può somministrare diete o trattamenti alimentari. Di fatto, ad oggi, chiunque apra una partita IVA può denirsi “allenatore personale” se non inva- de gli ambiti giustamente deniti. Ma questo non è un problema ai ni della gura che si vuole denire in questo libro, dove si identicherà proprio nel personal trainer la gura di esperto del miglioramento sico. Questo perché il PT è la gura professionale a cui si aŸda una persona che vuole intraprendere un percorso personale di miglioramento sico. Il PT è, così, un insegnante. Insegna a muoversi meglio, facendo apprendere “cose motoriamen- te complicate”. La diŸcoltà non è assoluta ma relativa allo stato sico di chi ha davanti. Però un “miglioramento” deve sempre essere presente, perché l’insegnante insegna e l’allievo apprende ciò che prima non conosceva. Per alcuni il miglioramento potrà essere semplicemente alzarsi da una sedia o sollevare un braccio senza dolore, per altri fare 200 kg di squat, ma il miglioramento deve esserci. Se non c’è, non c’è stato apprendimento e di conseguenza l’insegnante ha fallito. È il PT che forza il miglioramento, è il PT che obbliga il cervello della persona che segue ad apprendere cose che non vorrebbe apprendere, è il PT che decide se il doloretto che sente la per- sona è una retrazione muscolare oggettiva oppure semplicemente uno spasmo del corpo che non è abituato a quello che sta facendo, perché deve imparare. Il PT non è un preparatore atletico, perché non ha necessariamente il compito di far migliorare le prestazioni competitive del soggetto (questo può sicuramente accadere, ma è accessorio), né un operatore del servizio socio-sanitario, perché non ha il compito di curare chi è malato (non deve esserlo). Il suo ruolo di insegnante motorio permette a chi si aŸda ai suoi servizi di apprendere come usare al meglio il proprio corpo. 1.3 Personal training: serve? Oggi la sedentarietà crea handicappati motori con tutto quello che ne consegue: individui sani e con parametri biologici nella norma, ma sicamente così scarsi da sviluppare tutta una serie di patologie ormai riconosciute, dal mal di schiena cronico al diabete alimentare. Il benessere cardiovascolare inteso come benessere generale ha dirottato risorse economiche e nanziarie verso ricerche e studi scientici che hanno prodotto risultati eccellenti in tutto quel- lo che è lo “steady state”, lo stato stazionario in cui i soggetti sono sottoposti a sforzi di intensità costante per molti minuti, ed ha di fatto impedito lo studio dell’”intermittent state”, lo stato inter- 10 | Capitolo 1 – Sezione I mittente, in cui l’intensità dello stimolo ha picchi di poche decine di secondi intervallati da riposo. In altre parole, l’e€etto beneco dell’uso dei pesi sul corpo umano non è ben noto come quello dell’attività cardiovascolare. Negli ultimi 20 anni, comunque, evidenze statistiche sempre maggiori mostrano come l’”al- lenamento contro resistenze”, il “resistance training” (RT) colloquialmente detto “fare i pesi”, pro- muova il benessere organico quanto l’attività cardiovascolare e come, anzi, l’accoppiata delle due sia più performante delle singole attività. Il mantenimento della massa muscolare nel tempo permette infatti il controllo ottimale del metabolismo basale e riduce il rischio di patologie diabe- tiche. I muscoli sono gli organi con volume e peso complessivi maggiori nel nostro corpo: il loro stato di salute determina lo stato di salute dell’intero organismo. Appare evidente come la gura dell’esperto del miglioramento sico, cioè del PT nell’accezione descritta, abbia una valenza di primo piano nel preservare il benessere sico delle persone che ad esso si rivolgono. Il problema è: come quanticare l’e€etto delle azioni del personal trainer? Negli Stati Uniti, dove la gura del PT è non solo di€usa da decenni ma anche regolata e de- nita, sono molti gli studi sul tema. Un esperimento interessante è stato svolto in “The in¡uence of direct supervision of resistance training on strength performance” di Mazzetti ed altri per il “Medicine & Science in Sports & Exercise”, del 2000 (si fa notare che queste cose siano studiate oramai da tantissimo tempo): due gruppi omogenei di persone sane ma non allenate sono sotto- poste ad un programma di 12 settimane. Nella prima seduta ad entrambi i gruppi viene spiegato come svolgere gli esercizi, assegnata una scheda da seguire e indicato di riempire una modulistica con il lavoro svolto in ogni seduta; poi, però, al gruppo con PT viene assegnato un personal trainer ogni 4 persone, mentre i soggetti del gruppo senza PT devono arrangiarsi da soli. Voce u.m. Con PT Senza PT Età anni 25,2 ± 1,5 23,8 ± 1,3 Altezza cm 176,4 ± 2,2 177,7 ± 2,5 Peso kg 85,9 ± 4,9 84,5 ± 3,4 % Grasso % 19,7 ± 2,3 18,6 ± 3,0 1RM Squat kg 108,8 ± 9,8 100,2 ± 5,2 1RM Panca kg 93,9 ± 4,6 83,7 ± 5,3 Lo studio permette di prendere condenza con una serie di elementi che verranno poi sviluppa- ti nel libro. Nella tabella 1-1 i dati dei soggetti dello studio, cioè il campione di riferimento. Ragazzi giovani, sicuramente sovrappeso perché 85 kg di peso su 177 cm di altezza determinano un Indice di massa corporea di 27,1 che in soggetti sedentari indica una situazione di evidente sovrappeso. I livelli di forza di fatto sono buoni: uno squat (un esercizio per la parte inferiore del corpo) con un carico massimale (cioè il massimo carico su una ripetizione) in media di 105 kg, vicino a quello della panca (esercizio per la parte superiore del corpo), in media di 90 kg. In pratica sono più forti “con le braccia” che “con le gambe”. Nella tabella 1-2 il protocollo di allenamento che è stato somministrato ai soggetti di entrambi i gruppi, la “scheda di allenamento” che altro non è che il lavoro da svolgere: • Le 12 settimane di lavoro sono suddivise in 4 fasi, ognuna di 2 settimane: preparazione generale, ipertroa, forza, picco. Non è adesso importante il signicato delle fasi, ma solo la loro esistenza. • Ogni fase prevede una frequenza di allenamento pari a 3-4 sedute settimanali. • In ogni seduta si svolgono degli esercizi. • Per ogni fase un dato esercizio va svolto con un dato numero di serie, di ripetizioni per serie e con un dato recupero fra le serie. tabella 1-1 I dati dei soggetti dello studio analizzato. Sezione I – Capitolo 1 | 13 Notiamo come, pertanto, esista una struttura di lavoro dove di fase in fase le ripetizioni per serie vadano a diminuire. Poiché va usata la massima intensità, che in questo caso è il massimo carico possibile, nel proseguimento della lettura impareremo che se le ripetizioni diminuiscono il carico può aumentare. Questo signica che esiste una “progressione”, in questo caso del carico, una delle leggi fondamentali dell’allenamento. Al gruppo senza PT nella prima lezione vengono insegnate le tecniche di base degli esercizi che andranno a svolgere, dando il criterio che dovranno seguire: cercare di incrementare i carichi della panca e dello squat di volta in volta. Al gruppo con PT, invece, viene fornito in aggiunta il supporto del personal training, in cui il PT è sempre lo stesso per ogni soggetto (non 1:1 ma 5:1, però ogni PT segue gli stessi allievi). C ar ic o ( K g ) 0 20 60 80 120 100 40 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 C ar ic o ( K g ) 0 25 75 125 100 50 Con PT Senza PT InizioCon PT FineSenza PT La figura 1-2 mostra come siano variati i carichi nell’allenamento della panca nelle 12 settima- ne: il gruppo con PT ha ottenuto un risultato nettamente superiore, ad indicazione oggettiva che la presenza di un trainer personale sia risultata determinante. Un appunto a questo studio ben fatto è che il gruppo senza PT non è stato veramente abban- donato a se stesso: ha ricevuto una scheda, cioè un’organizzazione del lavoro, ha ricevuto un obiettivo e ha avuto l’obbligo di scrivere ciò che è stato fatto. Tutti elementi che contribuiscono a motivare e a ragionare su quello che si sta facendo. In altri studi questo aspetto è ben evidenziato: i soggetti non allenati che devono decidere auto- nomamente cosa fare nelle attività con i pesi non riescono a selezionare carichi performanti, ma scelgono stimoli sotto la soglia allenante. Questo invece non accade nelle attività cardiovascolari, dove i soggetti liberi di scegliere si settano su intensità percepite che coincidono comunque con intensità oggettive allenanti. Se questo è vero per i soggetti maschili, si è visto che questo si verica anche in donne non allenate di una certa età e che la presenza di un personal trainer determini invece maggiori sforzi e impegni percepiti. Esiste pertanto del materiale scientico che permette di quanticare in maniera oggettiva che la presenza del personal trainer abbia un e€etto positivo rispetto alla sua assenza. L’appunto che può essere fatto a questi studi è che facciano riferimento al Resistance Training (RT), proprio perché è possibile misurare dei parametri e così determinare l’e€etto di quanto proposto. E se il PT tratta con soggetti molto sedentari, che non fanno pesi né vogliono farli, o che hanno esigenze del tutto di€erenti? E poi, non è pericoloso sovraccaricare le loro articolazioni? La rispo- sta è un secco no. Ciò che viene proposto è il PT come professionista del miglioramento tramite l’educazione motoria che porta al benessere motorio: saper compiere movimenti complessi garantisce un figura 1-2 Il risultato nale per la panca. 14 | Capitolo 1 – Sezione I corpo sano. Atti motori complessi che implicano l’uso delle articolazioni e dei muscoli, nel modo corretto. Ma l’apprendimento è un processo faticoso, e, come un insegnante di matematica forza l’allie- vo ad andare oltre i propri limiti mentali, è il personal trainer che forza il suo allievo ad andare oltre i suoi limiti sici. La professionalità del personal trainer è quella di capire che le tensioni che il cliente percepisce non sono retrazioni muscolari ma semplicemente muscoli che non si rilassano perché il movimento è da apprendere. Perciò il personal trainer abile forza il cliente ad andare avanti. Non solo: la complessità motoria è un equilibrio fra capacità di coordinare i movi- menti e carico utilizzato nell’atto motorio stesso. In altre parole, qualsiasi movimento necessita di essere svolto contro una resistenza, perché è questa che determina il livello di diŸcoltà. Questo non va interpretato come un “carica sempre e comunque”, ma come la necessità di quello che è il “giusto carico” per il giusto movimento da somministrare al soggetto. Il giusto carico può essere un bilanciere caricato con 120 kg oppure il solo peso del proprio corpo, o addirittura un carico molto inferiore, ma deve sempre essere presente. E poiché l’apprendimento passa per una serie di nozioni progressivamente più complesse, è necessario che gli stimoli sici siano sempre progressivamente più complessi. Compito del trainer è decidere quando l’allievo sia pronto a un incremento del livello, incremento che però va pianicato in partenza, organizzando il lavoro. La scheda di allenamento dello studio è l’organiz- zazione progressiva del lavoro da svolgere. La professionalità del PT è pertanto quella di insegnare movimenti complessi e capire quando ci sono veri impedimenti articolari oppure è possibile forzare la mano, strutturando un percorso di miglioramento pianicato nel tempo. Questo è ciò che dicono gli studi che sono stati mostrati. C’è un elemento importante che è nascosto in tutte queste tipologie di studi: l’obiettivo che il soggetto vuole raggiungere. In questi studi si dà per scontato che l’obiettivo sia migliorare il carico massimo sollevabile in una serie di esercizi. Non tutti i clienti del PT, anzi una minima parte, vo- gliono necessariamente questo, ma il vero problema è che hanno un’idea di miglioramento che è davvero nebulosa e fumosa: avere meno dolori alle spalle, dimagrire, essere in forma per l’estate, avere la tartaruga, essere più forti e così via. Una delle abilità che deve avere il PT è saper denire degli obiettivi razionali e raggiungibili per chiunque si rivolga a lui, che li sappia quanticare anche se la persona non ha idea di cosa in realtà voglia, e che questi obiettivi siano quelli che la persona vuole. Per quanto possa sembrare complicato, questo è uno degli scopi di questo libro. Ma, indipendentemente dagli obiettivi, ciò che non cambia mai è l’universalità delle leggi e del- le metodiche che verranno proposte per raggiungerli. Per non lasciare il lettore con una sensa- zione di misticismo in tutto questo, qualunque siano i desideri di un cliente questi passano per un’organizzazione del lavoro nella quale esisterà sempre una progressività degli stimoli. 1.4 Chi può parlare Denito che una gura di PT così descritta sia fondamentale per chi vuole intraprendere un percorso di miglioramento, è necessario adesso risolvere una annosa discussione senza tornarci più sopra. La discussione sul tema “chi può parlare”, ovvero chi è che può denirsi competente nel campo del personal training. Questa discussione ha molte varianti, proprio perché in Italia la gura del PT non è regola- mentata: parla il laureato o colui che ha un’esperienza ventennale? Oppure quello che ha avuto risultati su di sé, sul campione o su altri, il grande allenatore? Parla il teorico o parla il pratico? Se da una parte c’è chi sentenzia che Steve Jobs non fosse laureato eppure creò la Apple, e che Arrigo Sacchi sia stato un grandissimo allenatore di calcio senza averlo mai praticato se non a li- vello amatoriale, dall’altra come non rimanere perplessi di fronte a nutrizionisti obesi o medici che fumano e che incarnano il detto “predicare bene e razzolare male”? Qual è, cioè, l’equilibrio nel giudicare il professionista fra il dire di fare qualcosa e il saper fare quel qualcosa ad un certo livello? Riteniamo necessario tracciare una linea, dare una direttiva ed essere chiari su cosa si richiede a colui che viene qui denito come esperto del miglioramento sico. Per farlo utilizzeremo le parole di Mark Rippetoe, un grande allenatore americano e autore del libro “Starting Strength” da cui questo piccolo estratto. Sezione I – Capitolo 1 | 15 “ Allenare, nella sua essenzialità, signica essere capace di spiegare a qualcuno le cose che ha bisogno di sentire per permettergli di fare con il suo corpo la cosa che sta cercando di fare. […] Alcune persone sono brave in questo, altre no. Decisamente interessante, atleti bravi perché dotati spesso sono degli allenatori molto scarsi. Non si sono mai trovati in situazioni in cui non erano capaci di fare bene, e non possono capire come spiegare qualcosa che loro mai si sono trovati ad imparare. I migliori allenatori solitamente erano atleti di modesta levatura. Essi hanno lavorato duro con doti genetiche molto lontane dalla perfezione, e hanno raggiunto i loro risultati attraverso la costanza e le abilità acquisite. Hanno imparato il “come ottenere” nel modo più diŸcile, e hanno guadagnato l’esperienza necessaria per insegnare ad altri le stesse cose. Se anche sono individui comunicativi, sono in grado di trasferire la loro esperienza ad altri. Se sono intelligenti, possono continuare ad analizzare il volume di dati sempre in espansione che viene dalla massa dei novizi, ed ottenere nuove intuizioni su cosa funziona e cosa no. E, se sono quel tipo di persone il cui ego rimane al proprio posto, rimarranno ricettive per imparare da altri allenatori e professionisti con esperienza. Le persone che possiedono tutte queste caratteristiche sono eccezionali – altre sono meno eŸcaci perché una o più di queste componenti è carente. Ci sono due elementi chiave per allenare movimenti complicati: sapere come deve essere il movimento quando è eseguito correttamente, e capire cosa prova l’atleta quando il movimento è fatto correttamente. Il primo è una abilità di osservazione, il mezzo primario con cui l’allenatore ottiene informazioni sull’esecuzione del movimento da parte dell’atleta. Il secondo è acquisito eseguendo il movimento stesso. Questo è il motivo per cui è necessaria una esperienza nello sport insegnato, per insegnarlo. È un punto critico per capire i problemi di un atleta nell’imparare un movimento e fornisce idee su cosa dire per farglielo fare per bene. […] Un bravo allenatore capisce quello che i propri atleti sentono e sperimentano dato che si allena lui stesso, e il solo motivo per cui sa queste cose è che le ha fatte lui stesso, preferibilmente di recente. I migliori allenatori hanno imparato da loro stessi mentre si allenano, e la continua esperienza data dal fare in prima persona è di valore eccezionale nello spiegare agli altri.” Mark Rippetoe, “Starting Strength” Perciò, uno specialista del miglioramento sico, se ama davvero quello che propone alle per- sone che segue e ci crede fermamente, è impossibile che non lo abbia nemmeno mai praticato a livello di piena suŸcienza. Possiamo proporre un circuito o una tecnica di intensicazione con i pesi, impostandoli cor- rettamente perché li abbiamo letti sui libri, ma provare la sensazione di fatica con il cuore a pal- la e i muscoli paralizzati permette poi di comunicare queste sensazioni a chi dovrà svolgere il compito che abbiamo assegnato. Così come aver migliorato il proprio massimale in un esercizio, provando cosa signichi passare dalla fase della coordinazione grezza a quella della coordinazione ne, che verranno spiegate a tempo debito, permette di rassicurare la persona che seguiamo, anzi di anticiparla spiegandole cosa proverà. Per questo motivo possiamo a€ermare che parla colui che, pur non essendo il migliore nei movimenti che propone, si è impegnato per superare i propri limiti. 18 | Capitolo 1 – Sezione I 1.7 Dalla Bro-Science alla Scienza Prima dell’inizio del 2000 la competenza di un professionista era semplicemente data dal poter avere accesso a fonti di conoscenza: libri, studi normalmente introvabili. Questo è stato il periodo della tradizione orale, dove chi sapeva tramandava le conoscenze ai suoi amici e dove il risultato sul campo decretava la scienticità dell’informazione che aveva permesso di conseguire questo risultato. È stato il periodo della Bro-Science, la “scienza del bro(ther)”, la “scienza del fratello” ovvero “cono- sco un amico che ha un cugino che facendo così ha ottenuto…”. Questo era vero in moltissimi ambiti, non solo nella palestra ma anche in molti sport dove l’allenatore era tale perché ex atleta che strut- turava gli allenamenti sulla base di quello che aveva fatto lui, che a sua volta derivava da lavori di altri allenatori che, forse, avevano fatto un corso federale. Se il “bro” era veloce, forte, resistente, abile, quello che faceva lui era automaticamente valido. Nel tempo l’accesso a queste informazioni è diventato sempre più semplice e oggi è possibile per chiunque accedere a qualsiasi fonte informativa. Vi è la falsa illusione che tutti possono co- noscere tutto. Si considerino argomenti quali l’allenamento, l’alimentazione e la biomeccanica e si scrivano tutte le prescrizioni che possono scaturire dagli ultimi cinque anni di studi scientici: è impossi- bile avere indicazioni chiare, perché si leggerà tutto ed il contrario di tutto. Il problema non sono gli studi scientici, ma l’uso che ne viene fatto. Oggi viviamo in un contesto molto più “scientico” di ieri, ma se ieri la diŸcoltà era l’acces- so alle informazioni, oggi è la selezione corretta delle informazioni stesse. Il fenomeno della bro-science continua a persistere, in una variante anche più complicata da “sgamare”. Per prima cosa, va compreso che uno studio scientico è uno strumento della scienza per la scienza, che è l’unica realmente in grado di comprenderne il valore e il signicato. In mani sba- gliate diventa solo oggetto di strumentalizzazione. Una pubblicazione scientica non nasce per convincere. Fa il punto della situazione ed espone un punto di vista, poggiando sulla cultura, preparazione e professionalità di chi la scrive. Ogni a€ermazione ha, o dovrebbe avere, opportuni riferimenti che, per una completa comprensione della questione, vanno via via approfonditi. Il lettore, in tutta libertà, decide quando fermare que- sto processo di apprendimento/approfondimento e dovrebbe autonomamente avere gli strumen- ti per giudicare il valore e il signicato di ciò che trova scritto. E qui nascono i problemi, perché l’accesso alle informazioni non garantisce certamente la ca- pacità di selezionarle, e tipicamente è facile cadere preda del cherry picking, figura 1-5, cioè sele- zionare solo le informazioni a sostegno della propria tesi, non comprendendo il quadro generale in cui si inseriscono quei singoli dati. 1.8 La gerarchia delle evidenze Il problema è che non tutti gli studi hanno lo stesso valore. La figura 1-6 rappresenta la ge- rarchia delle evidenze, cioè mostra le varie tipologie di studi che via via portano a una conoscenza sempre più di qualità. Non entreremo nel merito del commento di ogni livello, ma faremo solo qualche appunto importante. L’opinione dell’esperto è il gradino più basso: questo non signica che non valga nulla, anzi, semplicemente che l’esperto deve sottoporre la sua opinione, importantissima, al vaglio di tutta la catena della conoscenza. Questo è il motivo per cui esperti che fanno a€ermazioni estremamente possibiliste in tele- visione o ad un convegno poi non le riportano nei loro studi: perché non hanno gli elementi, ancora, per dimostrarle reggendo il confronto con il resto del mondo scientico. Come possiamo notare, i casi studio hanno anch’essi un valore molto basso perché costituisco- no dei singoli casi. Saranno molti casi, selezionati secondo certi criteri, che andranno a formare uno studio di coorte, il livello successivo dove un dato risultato viene confermato su un numero di soggetti più elevato. E così via nella risalita della piramide. Pertanto, i nostri riferimenti scientici non possono essere dei singoli studi che, oltre a non avere lo scopo di dimostrare nulla, sono tipicamente molto tecnici. Le fonti da consultare sono le revisioni sistematiche a cura di esperti nel settore, le quali, avendo un ritmo di pubblicazione molto lento, tipicamente di anni, fanno un punto più esauriente sulla questione, riassumendo Sezione I – Capitolo 1 | 19 e commentando molti singoli studi, e hanno un linguaggio tipicamente più accessibile e adatto alla divulgazione. Una review è un punto di vista generale, documentato da moltissimi studi, che esponenti scientici esperti nel campo illustrano riguardo a una determinata questione. Studi caso-controllo, serie di casi, reports Studi di coorte, descrittivi, qualitativi Trials clinici controllati Q ua lit à d el l’i nf o rm az io ne Valutazione critica di singoli articoli Sintesi critiche degli argomenti Revisioni sistematiche Informazioni di base/opinioni degli esperti Informazione non filtrata Informazione filtrata 1.9 Problemi‥ Tutto il materiale che vuole essere pubblicato su una rivista scientica viene analizzato e con- trollato tramite il meccanismo della revisione paritaria, la peer review, dove un gruppo di esperti di quell’argomento “fa le pulci” allo studio stesso che viene loro inviato in forma anonima, senza i nomi degli autori, in modo tale che non vi sia pregiudizio in positivo o in negativo da parte di chi deve giudicare. Così facendo si ha, o si dovrebbe avere, la certezza che le a€ermazioni e i dati riportati nello studio abbiano un controllo da parte di terzi estranei allo studio stesso. Solo dopo aver passato questo duro esame il materiale può essere pubblicato. Se invece gli esperti giudicano lo studio non accettabile possono riutarne la pubblicazione o chiedere approfondimenti o integrazioni. La comunità scientica normalmente non considera valido materiale non soggetto a revisione paritaria, e tutte le riviste accreditate utilizzano questo metodo. Sebbene esso da solo non sia una garanzia assoluta di veridicità, l’assenza di peer reviewing è tipica di pubblicazioni pseudo-scienti- che dove abbondano le “supercazzole”. Il problema nasce dalla necessità, sempre più pressante, dei ricercatori dei vari laboratori e del- le varie università di pubblicare sempre più frequentemente: è il “publish or perish”, “pubblica o muori”, perché nel mondo della Ricerca i fondi e gli incarichi vengono assegnati sulla base delle pubblicazioni che sono state fatte. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un moltiplicarsi di riviste scientiche che, di fatto, accet- tano spesso studi di qualità non eccelsa: basta pagare. Questo complica il quadro complessivo della selezione delle informazioni: non tutti gli studi sono uguali a causa del loro posizionamento all’interno della gerarchia delle evidenze, ma a parità di livello oggi conta anche dove lo studio è stato pubblicato! Esistono infatti parametri per valutare il valore di una rivista, ma risulta chiaro che, a meno di non essere davvero appassionati, vi è una vera e propria diŸcoltà nel selezionare le informazioni corrette. Tutto questo va ricordato quando siamo di fronte a persone che snocciolano studi su studi a sostegno di quanto dicono. figura 1-6 Gerarchia delle evidenze. Sezione II – Introduzione | 61 SEZIONE II INTRODUZIONE Basi di fisiologia del movimento In questa sezione verranno illustrati i principi di base che regolano la siologia, cioè in termini pratici il funzionamento, del corpo umano durante il movimento. Per molti lettori saranno cose trite e ritrite, studiate a scuola o all’università, anche perché no a che il funzionamento intimo del corpo umano non cambierà (e non accadrà ovviamente), nemmeno ciò che si legge sui libri lo farà. Molti altri troveranno gli argomenti troppo semplicati, con intere parti importanti non trattate: il problema, comprensibile, è la complessità di racchiudere in poche ma signicative pa- gine quello che necessiterebbe di migliaia di fogli scritti, pertanto lo sforzo didattico è stato rivolto alla costruzione di un modello estremamente semplicato ma non per questo semplice (in verità, anzi, molto complesso) per potersi limitare a ciò che interessa il Personal Trainer. Il pensiero degli autori è stato, per tutta la stesura del libro: “ma ce la mettiamo questa roba o no?”. La risposta è che non era possibile esimersi dal farlo perché termini come energia, metaboli- smo, anaerobico, aerobico, sono sempre presenti quando si a€ronta il “problema movimento”, ma… sono poi così chiari? È chiaro cosa sia una molecola, uno ione, l’ATP che serve per la contrazione muscolare? E come è possibile che questa accada? Ognuno si crea un certo modello, cioè una visione semplicata della realtà che è utile per comprendere la parte di interesse. Se però persone diverse che parlano hanno in testa modelli diversi, necessariamente si creano incomprensioni. Tipicamente, modelli sbagliati portano alla nascita di miti e leggende, oltre che di molti lm di fantabiologia, fantabiochimica e fantascienza in generale. Questa sezione, pertanto, vuole se non altro fornire una spiegazione dei termini scientici che normalmente vengono utilizzati nel “nostro” contesto di riferimento. La figura i-1 descrive l’estrema sintesi proposta e che verrà di volta in volta dettagliata. Abbiamo: • Tre tipologie di sensori che ricevono informazioni dall’esterno e dall’interno del corpo, e che inviano informazioni: • Gli esterocettori, quali udito e vista, che comunicano al sistema nervoso le informazioni provenienti dall’esterno del corpo; • I propriocettori, quali i fusi neuromuscolari nei muscoli, i recettori del Golgi nei tendini e i recettori capsulari nelle articolazioni, che comunicano le informazioni provenienti dall’in- terno del corpo; • L’apparato vestibolare, che registra la posizione della testa nello spazio. • Dei motori che eseguono dei comandi: i muscoli che fanno muovere le ossa intorno alle relative articolazioni. • Un sistema di elaborazione che processa le informazioni dei sensori e che genera i comandi per i motori: il Sistema Nervoso (SN) che comprende anche la rete di distribuzione delle informazioni, sia verso di esso (terminazioni aŽerenti) che da esso verso la periferia (termi- nazioni eŽerenti). All’interno del SN sono cablati i meccanismi di apprendimento e di memoria, che si in¡uen- zano mutualmente. In questo modello esistono degli elementi comuni fra tutti quelli presenti: l’essere composti da unità di base identiche fra loro, le cellule, e l’energia di cui queste necessitano per svolgere corret- tamente le loro azioni. Per questo motivo vengono presentate, come basi della siologia del movimento, la bioener- getica dei metabolismi responsabili della produzione di ATP e la contrazione muscolare: quando un soggetto si allena, questo si può muovere perché produce energia per far contrarre i propri 96 | Capitolo 2 – Sezione II professionista del miglioramento sico deve conoscerla approfonditamente, per evitare errori classici in cui incappano anche molti laureati. Per prima cosa, si conoscono i corretti signicati dei termini menzionati? Dato che concorrono alla formazione di un modello, il modello che si ha in testa è suŸcientemente chiaro e dettaglia- to? Per adesso consideriamo operativamente il termine metabolismo energetico come un modo di erogare energia, che è il senso che viene dato da coloro che sono nell’ambiente del movimento. Aerobico e anaerobico signicano rispettivamente “in presenza” e “in assenza” di ossigeno, “alatta- cido” e “lattacido” ancora rispettivamente “senza produzione” e “con produzione” di acido lattico, tutti termini che devono e saranno correttamente deniti ma anch’essi di patrimonio comune nell’ambiente di riferimento. Consideriamo adesso la linea verticale a circa 120 secondi: si noti come il metabolismo anaero- bico lattacido e quello aerobico siano al 50% entrambi. Si leggono spesso cose di questo tipo: “se tu fai un’attività di 2 minuti utilizzerai per metà il metabolismo aerobico, per metà quello anaerobico alattacido”. Questo è già un primo errore: il graco indica che il contributo dei due metabolismi è ognuno del 50%, ma solo se l’attività è massimale e continuativa in quei 120 secondi! In altre parole, vale per un’attività cardio al massimo: cyclette, vogatore, tapis roulant, ma non vale per l’attività di resistance training. E, pertanto, nemmeno andare 2’ sul tapis roulant a inten- sità blanda (non al massimo) implica le stesse modalità di erogazione energetica. Il vero problema, fondamentale, di questo graco è che induce a pensare che in caso di attività continuative svolte al massimo le tre diverse tipologie di erogazione dell’energia si susseguano a stadi: no a 10” quello anaerobico alattacido, poi questo si esaurisce e si passa all’anaerobico lattacido per poi passare a quello aerobico, tipo gli stadi di un missile Saturn. Questa è una visione errata dell’erogazione dell’energia perché in realtà questa energia viene fornita contemporaneamente da tutti e tre i metabolismi, solo che ognuno ha una sua inerzia nel mettersi in moto, una sua velocità di fornitura dell’energia stessa, cioè una sua potenza. Questo meccanismo deve essere chiaro al professionista del settore, e comprenderlo non è per nien- te semplice. 2.1 Un modello dei metabolismi La figura 2-2 rappresenta l’interno di una cellula, con una serie di blocchi, G, K ed F, che rap- presentano insiemi di reazioni coordinate: non è scopo della trattazione esplorare il contenuto di ogni blocco, solo fornire una visione d’insieme e del funzionamento globale della sintesi dell’ATP. In alto in gura la membrana plasmatica delimita l’interno della cellula dall’esterno, pertanto tutto quello che è sopra la gura va considerato esterno alla cellula. All’interno è presente il cito- plasma e poi un mitocondrio, con la membrana mitocondriale che lo separa dal citoplasma. In questo modo sono identicati gli ambienti in cui avvengono le reazioni. Immaginiamo di iniziare a correre, i muscoli si contraggono e per farlo consumano ATP: il suo quantitativo va a diminuire ed è necessario reintegrarlo. Consideriamo la catena con i blocchi G, K e F, che ha in ingresso il glucosio, esterno alla cellula e presente nel sangue: • Il glucosio viene captato dalla cellula ed entra nel citoplasma dove avviene un primo blocco di reazioni, identicato con G per glicolisi (da glycos, dolce e come già detto lysis, scissione: letteralmente “scissione del glucosio”). • La glicolisi trasforma il glucosio in una sostanza chiamata piruvato, riportata solo per completezza, e durante questa trasformazione produce ATP, di fatto appunto energia: le “ammelline” a sinistra del blocco G. • Il piruvato entra all’interno del mitocondrio tramite il blocco PDH, che sta per piruvato deidrogenasi: qui il piruvato viene trasformato in Acetil Coenzima A, abbreviato in ACoA, che costituisce la sostanza in ingresso al blocco successivo. • Il blocco K, che riceve l’ACoA, è il ciclo di Krebs, una sequenza di reazioni che a loro volta producono altre sostanze utilizzate dal blocco di reazioni successivo, il blocco F, che sta per fosforilazione ossidativa. Inne, il blocco F, insieme all’ossigeno (O2) prelevato dall’e- sterno, produce ATP, le altre ammelline a destra del blocco F. • Notiamo come il blocco K produca a sua volta anidride carbonica, CO2, che viene rilasciata all’esterno della cellula. Sezione II – Capitolo 2 | 97 CO2 Membrana plasmatica C it o p la sm a Pyr Glicogeno Lac Cr Membrana mitocondriale PG β F L In te rn o d el m it o co nd ri o PDH CoA A CoA A K O2 Glu CR Ph A A A A La respirazione cellulare Questa lunga catena di reazioni prende il glucosio, reagente della catena, dall’esterno o dall’in- terno della cellula e attraverso una serie di passaggi lo disassembla per produrre ATP all’interno della cellula stessa. Per fare questo assorbe anche ossigeno e restituisce anidride carbonica: è la catena della respirazione cellulare, figura 2-3, in similitudine con la respirazione polmonare, dove c’è uno scambio di ossigeno dall’esterno con anidride carbonica dall’interno. E non serve per la massaMa è dicile! Glucosio + Ossigeno Anidride carbonica Acqua + 38 ATP Energia + La respirazione cellulare Idrogeno Ossigeno Carbonio C6H12O6 6O2 6CO2 6H2O + + + figura 2-2 I metabolismi energetici. figura 2-3 La respirazione cellulare. 98 | Capitolo 2 – Sezione II Pertanto, la respirazione cellulare riguarda il metabolismo dei carboidrati. Un punto fonda- mentale per la comprensione della reazione: il processo prevede il disassemblamento di una molecola di glucosio in 6 molecole di anidride carbonica attraverso una serie di passaggi che concorrono, nel complesso, a fornire elementi per la produzione di ATP. È possibile un classico “conto della serva” che fornisce, di fatto, una spiegazione semplice: • Nei vari passaggi del disassemblamento, 6 atomi di carbonio, C, e di ossigeno, O, si legano a un atomo dell’ossigeno molecolare, O2, per formare 6 molecole di anidride carbonica, CO2. • “Avanzano” 6 atomi di ossigeno che si legano ognuno a 2 atomi di idrogeno, H, sempre presenti all’interno della cellula, per formare 6 molecole di acqua, H2O. La reazione è catabolica perché da una molecola complessa se ne sono formate 6 più semplici. Le due respirazioni sono ovviamente legate, perché l’ossigeno proveniente dall’esterno è quel- lo che arriva, tramite il sistema cardiocircolatorio, alle cellule, e viceversa l’anidride carbonica proveniente dalle cellule, sempre tramite il sistema cardiocircolatorio, arriva ai polmoni per es- sere espulsa. Notiamo come la glicolisi non abbia bisogno di ossigeno, mentre le reazioni all’interno dei mitocondri ne necessitino. La glicolisi costituisce pertanto il metabolismo energetico anaerobico perché non ha bisogno di ossigeno per produrre ATP, cioè energia; tutto quello che avviene all’in- terno dei mitocondri costituisce invece il metabolismo energetico aerobico perché ha bisogno di os- sigeno per produrre energia. In figura 2-4 una rappresentazione degli elementi del metabolismo anaerobico, a sinistra, ed aerobico, a destra: in realtà la trattazione è più complessa, in quanto la glicolisi ha una componente aerobica se il quantitativo di ossigeno la permette, ma per il modello proposto è possibile soprassedere. Membrana mitocondriale Membrana plasmatica CO2 GluO2 Glicogeno G F PDH K CoA A CO2 GluO2 Glicogeno G F K Membrana mitocondriale Membrana plasmatica C it o p la sm a In te rn o d el m it o co nd ri o C it o p la sm a CoA A In te rn o d el m it o co nd ri o PDH Pyr Pyr I metabolismi anaerobici Ora, perché due metabolismi? Senza entrare nel merito dei singoli blocchi, la glicolisi, per tut- ta una serie di motivi, è formata da reazioni che si instaurano più velocemente rispetto a quelle che avvengono nei mitocondri, pertanto la glicolisi è più “reattiva” alle richieste repentine di ATP come in uno scatto improvviso o nell’esecuzione di una serie pesante di panca. Nella normalità le velocità della glicolisi e del blocco aerobico sono accoppiate e forniscono entrambe ATP per le attività basali, ma immaginiamo di avere di colpo necessità, nello stesso intervallo di tempo, di molta energia in più. Facendo riferimento sempre alla figura 2-2: figura 2-4 A sinistra il metabolismo anaerobico, a destra il metabolismo aerobico. Sezione II – Capitolo 2 | 101 Attenzione, però, a non confondere la di€erente velocità delle catene di reazioni con l’e€ettiva produzione di ATP nel tempo. In figura 2-6 l’erogazione di ATP per lo stesso esercizio: • Nei primi 6 s si ha una grande erogazione dal metabolismo anaerobico alattacido: il con- sumo di ATP nei muscoli con conseguente diminuzione della sua concentrazione avvia la trasformazione della fosfocreatina in creatina con produzione di ATP. • In maniera non immediata come la precedente reazione, si avvia la glicolisi che fornisce il ¡usso di ATP indicato nel graco. • Si attiva anche la catena mitocondriale, sebbene ancora più lentamente: sebbene quasi tut- to il piruvato sia convertito in lattato, quello che entra nella catena mitocondriale produce comunque più ATP in proporzione a quello prodotto dalla glicolisi: 36 ATP, a di€erenza dei 2 della glicolisi. Questo non cambia! Pertanto il poco piruvato che entra nella catena mitocondriale produce comunque un ¡usso di ATP che è rilevante. Il graco pertanto mostra che in un’attività alla massima potenza il metabolismo aerobico for- nisce n da subito un contributo comunque importante. Man mano che l’attività prosegue e che la catena mitocondriale aumenta la sua velocità, il contributo in valore assoluto del metabolismo aerobico aumenta sempre più, mentre l’ATP prodotto dagli altri due metabolismi va a diminuire: • La fosfocreatina tende a esaurirsi. • Fenomeni di fatica che verranno analizzati successivamente vanno a limitare la produzio- ne di ATP da parte della glicolisi. Ovviamente diminuendo l’ATP erogabile ai muscoli nel tempo, cioè la potenza metabolica, va a di- minuire il lavoro erogato dai muscoli stessi nello stesso tempo sui pedali, cioè la potenza meccanica. t(s) Lattacido 0 2 4 6 20 40 60 80 100 120 W/kg Alattacido Aerobico In figura 2-7 l’erogazione della potenza richiesta nei primi 6 s di uno sprint al cicloergometro: notiamo come anche in questi dati vi sia una fortissima erogazione iniziale del metabolismo anaerobico alattacido, l’intervento immediatamente successivo (e sostenuto) del metabolismo anaerobico lattacido e un contributo minimo (ma comunque presente n da subito) del metabo- lismo aerobico. La β-ossidazione degli acidi grassi Facendo riferimento sempre alla figura 2-2, il blocco β (beta) rappresenta la β-ossidazione degli acidi grassi: gli acidi grassi esterni alla cellula e presenti nel sangue (la catena di lettere A rappre- senta un acido grasso) possono essere captati dai mitocondri dove vengono disassemblati in parti più piccole, le singole A, che possono essere utilizzate dal ciclo di Krebs per produrre ATP. Notiamo che all’uscita del blocco della β-ossidazione si ritrova l’ACoA, una A legata a un ele- figura 2-7 La potenza espressa dai metabolismi energetici nei primi 6 s di uno sprint su cicloergometro alla massima velocità. Sezione III – Parte 1 – Introduzione | 177 SEZIONE III PARTE 1 INTRODUZIONE Anatomia e biomeccanica Leggendo il titolo di questo capitolo, ad alcuni potrebbe sorgere un dubbio: “perché devo stu- diare anatomia se voglio diventare un personal trainer?”. La domanda è in realtà legittima e l’in- tento di questo capitolo è anche quello di far comprendere a chi legge l’importanza di un pro- gramma di anatomia mirato allo scopo di migliorare le competenze dell’aspirante professionista. Ma cosa si intende per “programma mirato”? L’essenza del capitolo orbita proprio intorno a que- sto principio, il cui rispetto permetterà di rendere questo capitolo terreno fertile per far nascere competenze concrete in palestra. Molto spesso i programmi di Anatomia hanno in comune un grande difetto: una scarsa con- nessione tra questa materia e la vita reale del mondo lavorativo. L’anatomia è così troppo spesso relegata a semplice esercizio mnemonico ne a sé stesso, vissuta come un peso sulle spalle no alla convalida del voto all’esame nale. Il risultato di questo tipo di approccio determina due scenari tipici che contraddistinguono il professionista che studia l’anatomia e che, con modalità di€erenti, non rendono l’anatomia un valido alleato sul campo. Il primo scenario è caratterizzato dalla mancata comprensione del “perché ho dovuto studiare anatomia”, dal momento che lo sfor- zo profuso non è apparentemente ripagato da una reale competenza trasportabile in palestra. Si è studiato, si sono imparati un sacco di nomi, ma alla ne, di ciò che si è trovato sul libro, nulla è servito per fare la di€erenza. Il secondo scenario è invece caratterizzato dalla falsa credenza che conoscere l’anatomia equi- valga ad avere competenza tecnica e ad essere un professionista migliore di altri. Spesso accade che ci si identica nella miriade di nomi imparati e nell’enorme tempo dedicato alla loro memo- rizzazione, ma non si è in grado di giudicarne l’e€ettiva utilità ai ni lavorativi, e per orgoglio non si è in grado di ammettere che la conoscenza, quella vera, è garantita da un insieme di nessi, cioè da collegamenti tra nozioni. Il risultato è un professionista incompetente ma allo stesso tempo spocchioso, che “pensa di sapere”, e quindi si trova nella condizione di rimanere per sempre nella sua inconsapevole ignoranza. Questo capitolo nasce proprio da questa realtà, per cambiarla o comunque per cercare di mi- gliorarla. L’anatomia che troverete nelle seguenti pagine è un distillato purissimo di conoscenze che per la gran parte ritroverete nei capitoli successivi e che vi permetteranno di capire a fondo come eseguire un esercizio e come invece non eseguirlo, come preservare la salute articolare e come invece stimolare al meglio un gruppo muscolare. Sarà un’anatomia estremamente più a€ascinante, che farà da fondamenta per la costruzione di un professionista solido. L’anatomia entra in palestra per restarci, per connettersi alla realtà e per far luce su ciò che quotidianamente viene fatto con i pesi in mano. I.1 L’anatomia e la biomeccanica per il personal trainer Questo paragrafo introduttivo è fondamentale per chiarire gli argomenti del capitolo e soprat- tutto per posizionare l’asticella delle aspettative. L’anatomia per il personal trainer è essenzial- mente l’anatomia dell’apparato locomotore applicata al mondo del tness. Non verrà trattata l’a- natomia classica, i vari apparati e la citologia. Questo è un capitolo per un professionista che ha necessità di capire il movimento per poi poterlo padroneggiare al meglio. L’anatomia e la biomeccanica per il personal trainer verranno trattate allo scopo di raggiungere 178 | Introduzione – Parte 1 – Sezione III questi tre obiettivi fondamentali. • Conoscere la struttura di base delle principali articolazioni che utilizziamo in palestra, la forma delle superci articolari e i principali tessuti molli che le circondano. Per intenderci, non verranno trattate l’articolazione temporo-mandibolare o le ossa del cranio, totalmente fuori contesto. Si imparerà invece come sono fatte l’anca, la spalla, la colonna vertebrale, il gomito e tutte le articolazioni che, in un modo o nell’altro, sono coinvolte quando ci si alle- na. La conoscenza della forma delle superci articolari e delle strutture non si concentrerà troppo sui nomi delle singole protuberanze o delle fosse ossee, o di tutti i singoli legamen- ti, ad eccezione di quei concetti utili a comprendere argomenti futuri di traumatologia. • Conoscere i movimenti delle principali articolazioni coinvolte in palestra, per poi saperli “vedere” nel mondo del tness. Sulla base delle caratteristiche delle superci articolari, sarà possibile comprendere le potenzialità di movimento delle singole articolazioni e si potrà poi impostare un linguaggio biomeccanico comune che permetterà di comprendere i dettagli esecutivi degli esercizi. Ogni esercizio, infatti, non è nient’altro che un insieme di movimenti articolari codicati con un nome. Si impareranno i movimenti e si padro- neggerà al meglio i carichi in palestra, comprendendo quali muscoli sono attivi e perché, e quale esecuzione è più eŸcace per un muscolo target. • Conoscere la localizzazione, il decorso e le funzioni dei principali muscoli che andremo ad allenare in palestra. Per intenderci, non verranno trattati i muscoli pterigoidei o i muscoli intrinseci della mano, anche qui totalmente fuori contesto. Si imparerà, invece, origine e inserzione dei muscoli, e di conseguenza la loro capacità di muovere l’articolazione. Un esercizio di rinforzo per un muscolo non è nient’altro che la riproduzione di una o più funzioni di quel muscolo contro un sovraccarico. Allo stesso modo, un esercizio di stretching per un muscolo non è nient’altro che la riproduzione inversa delle funzioni di quel muscolo. Si capisce bene come la conoscenza delle funzioni dei principali muscoli sia condizione necessaria per capire quello che viene fatto nel concreto in palestra e per fare del tness il proprio lavoro. Chiariti gli obiettivi, è arrivato il momento di entrare nel vivo dei singoli argomenti. Per ogni distretto anatomico verrà analizzata la morfologia delle superci articolari, i movimenti possibili e i principali muscoli che li determinano. I.2 Anatomia: le basi da sapere L’anatomia (dal  greco  anatomè  = “dissezione”; formato da anà  = “attraverso” e tèmno  = “ta- gliare”) è una branca della biologia che studia la forma e la struttura degli organismi. In questa trattazione verranno apprese le nozioni utili e applicabili per ciò che concerne l’apparato loco- motore, quell’insieme di strutture che permette il movimento sia fuori che dentro una palestra. Fondamentalmente durante un qualsiasi esercizio vengono coinvolte due grandi categorie anato- miche: le articolazioni e i muscoli (per ragioni di pertinenza e di sintesi si tralasceranno i seppur a€ascinanti meccanismi di reciproca in¡uenza tra il sistema nervoso periferico e i movimenti articolari). Si inizia dal capire cos’è un’articolazione e da quali strutture è composta. Le articolazioni Le ossa del corpo umano sono connesse tra loro allo scopo di garantire il movimento. Un di- spositivo anatomico che mette in contatto due o più ossa è denito articolazione. Ne esistono due grandi famiglie: quelle unite per continuità e quelle unite per contiguità. Le prime vengono chiamate sinartrosi e prendono vita grazie all’interposizione di uno strato di tessuto di varia natura (broso, osseo o cartilagineo) tra le superci ossee in questione (Platzer, 2007). Fanno parte di questa famiglia articolazioni capaci di movimenti nulli o molto ridotti, come la sinsi pubica e le suture delle ossa craniche (figura i-1). Si stia tranquilli, questa categoria non verrà approfondita più di così in quanto poco utile alla comprensione del mondo dei sovraccarichi. Di fondamentale importanza è invece comprendere struttura e funzionamento dell’altra gran- Sezione III – Parte 1 – Capitolo 1 | 197 Articolazione scapolo-toracica: anatomia e movimenti La terza articolazione (falsa) viene a formarsi tra la scapola e il piano di scorrimento osseo della gabbia toracica, tra i quali abbiamo interposti i muscoli dentato anteriore, sottoscapolare ed erettori spinali (Kapandji, 2002). La scapola è un osso piatto caratterizzato da una faccia an- teriore e una posteriore. Sulla faccia anteriore si può notare la fossa sottoscapolare e il processo coracoideo, sede di inserzione di alcuni muscoli e legamenti. Sulla faccia posteriore si può notare la spina della scapola, un processo osseo superiore e orizzontale che suddivide la scapola in una fossa sovraspinata e in una sottospinata (rispettivamente sopra e sotto la spina), anche queste sedi di inserzioni muscolari (figura 1-4). VISTA POSTERIORE VISTA MEDIALE Angolo superiore Fossa sovraspinata Acromion Spina della scapola Fossa infraspinata Faccia dorsale Margine vertebrale Faccia costale Angolo inferiore Faccia dorsale Margine ascellare Tuberosità infraglenoidea Processo coracoideo Acromion Spina della scapola Angolo mediale Fossa sovraspinata Fossa infraspinata Margine vertebrale Angolo inferiore Cavità glenoidea VISTA ANTERIORE VISTA LATERALE Processo coracoideo Cavità glenoidea Acromion Incisura scapolare Tuberosità intraglenoidea Angolo superiore Margine ascellare Cavità glenoidea Angolo inferiore Processo coracoideo Spina della scapola Angolo mediale Margine ascellare Fossa sovraspinata Fossa infraspinata Angolo inferiore Margine vertebrale Linee di inserzione muscolari Faccia costale Faccia costale Faccia dorsale Tuberosità sovraglenoidea Tuberosità sovraglenoidea Acromion La spina della scapola termina con un processo osseo chiamato acromion, come visto una delle superci articolari dell’articolazione acromion-claveare. La scapola è inoltre caratterizzata da un margine laterale e da uno mediale, nonché da un angolo inferiore, uno superiore e uno latera- le. A livello di quest’ultimo si ha la cavità glenoidea o glena, la supercie articolata con la testa dell’omero nell’articolazione gleno-omerale. Superiormente e inferiormente alla glena si hanno rispettivamente il tubercolo sovraglenoideo e infraglenoideo, sede di inserzione del capo lungo del bicipite e del capo lungo del tricipite (Platzer, 2007). figura 1-4 Morfologia della scapola. 198 | Capitolo 1 – Parte 1 – Sezione III La scapola è in grado di eseguire numerosi movimenti lungo tutti e tre i piani (Neumann, 2017; figura 1-5): Tilt anteriore della scapola Elevazione della clavicola Tilt posteriore della scapola Depressione della clavicola Protrazione della clavicola Rotazione interna della scapola Retrazione della clavicola Rotazione esterna della scapola figura 1-5 I movimenti della scapola. In alto, i movimenti di elevazione/ depressione, abduzione/ adduzione, rotazione craniale e caudale. Al centro, i movimenti di tilt anteriore e di tilt posteriore. In basso, i movimenti di rotazione interna e rotazione esterna. Sezione III – Parte 1 – Capitolo 1 | 199 • Elevazione e depressione. • Abduzione (allontanamento dalla colonna) e adduzione (avvicinamento alla colonna). • Rotazione craniale (la glena ruota verso l’alto) e rotazione caudale (la glena ruota verso il basso). • Tilt anteriore e posteriore (movimento di basculamento in visione laterale). • Rotazione interna (scapole alate) e rotazione esterna. In posizione anatomica, la scapola si posiziona secondo coordinate ben precise che vanno conosciute per comprendere alcuni importanti risvolti pratici. Dal suo angolo superiore a quello inferiore si estende dalla seconda alla settima vertebra toracica, col margine mediale lontano circa 6-7 cm dalle spinose , con 5° di rotazione craniale, 10° di tilt anteriore e lungo il cosiddetto piano scapolare, che va a formare un angolo di circa 30° con il piano frontale (Ludewing, 2009; Neumann, 2017; figura 1-6). 30° 40° Articolazione gleno-omerale: anatomia e movimenti La quarta articolazione (vera) è la più famosa, formata dall’incastro tra la glena della scapola e la porzione prossimale dell’omero (figura 1-7). La glena della scapola è una supercie leggermente concava, diretta secondo il piano scapolare in senso antero-laterale, rivolta leggermente verso l’alto ed enormemente più piccola della testa dell’omero, l’altra supercie articolare in esame (Kapandji, 2002). La testa dell’omero è una mezza sfera rivolta medialmente e superiormente secondo un angolo di 135° e torta posteriormente secondo un siologico angolo di retroversione di circa 30° (corrispondente al piano scapolare; Kapandji, 2002). La parte prossimale dell’omero è anche caratterizzata da due protuberanze ossee importanti e sede di inserzione muscolare: il tubercolo maggiore o trochite, posto lateralmente, e il tubercolo minore o trochine, posto ante- riormente. Sotto i due tubercoli si estendono due creste, rispettivamente la cresta del tubercolo maggiore e la cresta del tubercolo minore, e tra i due tubercoli è possibile osservare il solco inter- tubercolare che ospita il tendine del capo lungo del bicipite (Platzer, 2007). La testa dell’omero è molto più estesa della glena e possiede una convessità enormemente maggiore rispetto alla lieve concavità scapolare, caratteristiche queste che nel complesso deter- minano una scarsa congruenza articolare. Ad ovviare a ciò vi è un importante apparato legamen- toso e capsulare, un labbro cartilagineo e un sistema di stabilizzazione attiva chiamato cuŸa dei rotatori. I principali legamenti sono il gleno-omerale, diviso in superiore, medio e inferiore, e il coraco-omerale, esteso dal processo coracoideo all’omero (Kapandji, 2002). Il labbro cartilagineo, chiamato anche cercine, è un dispositivo brocartilagineo circolare posto attorno al bordo della glena scapolare (figura 1-8). È fondamentale per aumentare la concavità e favorire una maggiore congruenza tra le due superci articolari (Howell, 1989). figura 1-6 Allineamento scapolare statico e piano scapolare. 202 | Capitolo 1 – Parte 1 – Sezione III Rotazione interna Rotazione esterna Roll Roll Trazione dell’infraspinato Trazione dell’infraspinato Scapola in dissolvenza Slide Slide Rotazione esterna Spin Spin Rotazione interna Spin Spin • Adduzione lungo il piano trasversale di 140° e abduzione lungo il piano trasversale di 30° (posizione di riferimento con spalla abdotta a 90°; Kapandji, 2002; (figura 1-12). Durante l’adduzione assistiamo a una combinazione di movimenti di rotolamento anteriore e sci- volamento posteriore. Durante l’abduzione assistiamo a una combinazione di movimenti di rotolamento posteriore e scivolamento anteriore. Tipicamente l’adduzione su questo piano è un movimento tipico di esercizi come Panca Piana e Croci, mentre l’abduzione di esercizi come le Aperture per allenare il deltoide posteriore. Abduzione orizzontale Roll Trazione del piccolo rotondo Trazione dell’infraspinato Scapola (in dissolvenza) Trazione del coracobrachiale Slide Slide Roll Adduzione orizzontale figura 1-11 I movimenti di extrarotazione (in alto) e intrarotazione (in basso) e la loro artrocinematica. figura 1-12 I movimenti di adduzione (a sinistra) e abduzione orizzontale (a destra) e la loro artrocinematica. Sezione III – Parte 1 – Capitolo 1 | 203 L’articolazione acromion-omerale La quinta e ultima articolazione (falsa) è in realtà un piano di scorrimento anatomico che fa da apripista per introdurre una nozione fondamentale che ritroveremo nel capitolo di traumatologia (figura 1-13). Acromion e omero non hanno superci articolari ben distinte che li uniscono tra loro, ma stringono tuttavia rapporti intimi attraverso il cosiddetto spazio sub-acromiale. Questo spazio anatomico viene a formarsi grazie a un pavimento osseo, la testa dell’omero, e a un tetto osteo-broso formato dal legamento coraco-acromiale, che unisce appunto il processo coracoideo e l’acromion della scapola formando la volta coraco-acromiale (Kapandji, 2002). Legamento capsulare Clavicola Processo coracoideo Tendine del capo lungo del bicipite brachiale Tendine del capo corto del bicipite brachiale Tendine del sottoscapolare Cavità glenoide Cercine glenoideo Scapola Tendine del piccolo rotondo Tendine del piccolo rotondo Tendine del sovraspinato Spazio subacromiale Acromion Borsa sottoacromiale Sovraspinato Borsa sottodeltoidea Legamento coracoacromiale Legamento coraco-omerale Sottoscapolare Bicipite brachiale Capo breve Capo lungo Sovraspinato Spazio subacromiale All’interno di questo spazio si interpongono alcuni tessuti molli tra cui il muscolo sovraspina- to, la borsa sub-acromiale (un dispositivo anatomico utile a ridurre frizione e attrito a questo livel- lo; Platzer, 2007), il tendine del capo lungo del bicipite e parte della capsula superiore (Neumann, 2017). L’interposizione di questi tessuti fa sì che il cosiddetto “spazio sub-acromiale” diventi uno spazio solo “virtuale” che in realtà è interamente occupato. Si stima che in un individuo sano con le braccia lungo i anchi lo spazio tra l’omero e l’acromion sia di circa 1 cm, con una buona variabilità determinata da molti fattori che vedremo a breve (Tillander, 2002). figura 1-13 Lo spazio sub- acromiale e il suo contenuto da diverse prospettive. 204 | Capitolo 1 – Parte 1 – Sezione III Generalmente una pressione di base creata su questi tessuti durante i movimenti è prevista dalla funzionalità della spalla e ciò non dovrebbe destare particolari preoccupazioni (Giphart, 2012). In presenza di tessuti sani e di un’ottima sincronia di movimento tra omero e scapola lo spazio sub-acromiale si mantiene a un’ampiezza tale da non aumentare troppo la pressione e gli stress tissutali. Diversamente però tale spazio può ridursi e la pressione sui tessuti aumentare ec- cessivamente, creando forze lesive. Ciò può accadere in concomitanza di due di€erenti condizio- ni: un aumento del contenuto dello spazio, come per esempio in caso di degenerazione tendinea, artrosi e inammazione (gonore), oppure una diminuzione del contenitore, in caso di alterato movimento tra omero e scapola, disequilibrio muscolare o attraverso particolari combinazioni di movimenti. L’analisi di queste due condizioni e le modicazioni dello spazio sub-acromiale durante gli esercizi nel tness verranno a€rontate nei successivi capitoli. 1.2 I principali muscoli della spalla Essendo un complesso articolare con un’ampia capacità di movimento e con una sosticata funzionalità, la spalla è caratterizzata dalla presenza di numerosi muscoli aventi numerose fun- zioni anatomiche a diversi livelli. In particolare, in questa sezione, si suddivideranno i muscoli in tre grandi gruppi, per chiarire di ognuno le peculiarità e le funzioni principali di nostro interesse. Muscoli che muovono la scapola I muscoli che muovono la scapola garantiscono sia i movimenti puri scapolari visti in pre- cedenza, sia i movimenti della spalla in toto. Si descrivono i principali analizzandone origine, inserzione e funzione (Platzer, 2007; Neumann, 2017; figura 1-14). • Il muscolo trapezio è suddiviso in tre porzioni, fuse da un punto di vista anatomico ma distinte da quello funzionale. Il trapezio superiore origina dal capo e dal legamento nu- cale per inserirsi a livello del terzo laterale della clavicola. A livello scapolare determina un movimento di elevazione e rotazione craniale. Il trapezio medio origina dalla settima vertebra cervicale alla terza toracica e si inserisce sull’acromion e sulla spina della scapola. A livello scapolare determina un movimento di adduzione e rotazione esterna. Il trapezio inferiore origina dalla terza alla dodicesima vertebra toracica e si inserisce a livello della spina della scapola, vicino al margine mediale. A livello scapolare determina depressione, tilt posteriore, rotazione craniale e rotazione esterna (Platzer, 2007; Neumann, 2017). In tutte le sue porzioni viene attivato in numerosi esercizi tra cui il Lento Avanti, le Alzate Laterali, lo Shrug, il Pulley, le Trazioni e la Lat Machine. Trapezio inferiore Deltoide Trapezio superiore Elevatore della scapola Deltoide Piccolo pettorale Piccolo romboide Grande romboide Trapezio superiore Deltoide Grande pettorale Dentato anteriore • Il muscolo elevatore della scapola origina a livello dell’angolo superiore della scapola e si inserisce sui processi trasversi delle prime quattro vertebre cervicali. A livello scapolare figura 1-14 I muscoli trapezio, romboidi, elevatore della scapola, gran dentato e piccolo pettorale. Sezione III – Parte 1 – Capitolo 1 | 207 Muscoli che muovono la spalla I muscoli che muovono la spalla, intesa come articolazione gleno-omerale, sono tra i più fa- mosi in ambiente tness perché più superciali ed esteticamente in¡uenti. Vediamo i princi- pali analizzandone origine, inserzione e funzione (Kapandji, 2002; Platzer, 2007; figura 1-17 e figura 1-18). Deltoide Capo anteriore Capo medio Capo posteriore Abduzione • Il muscolo deltoide può essere suddiviso in tre porzioni distinte. Il deltoide anteriore ori- gina dalla clavicola, il deltoide intermedio dall’acromion e il deltoide posteriore dalla spina della scapola. Tutte e tre le porzioni si uniscono per inserirsi a livello della tuberosità del- toidea dell’omero. Il deltoide ha la peculiarità di possedere all’interno del suo stesso ventre muscolare fasci di bre con funzioni anche opposte tra loro e strettamente dipendenti dalla loro localizzazione. Il deltoide nella sua totalità è il più potente abduttore della spalla. Il deltoide anteriore ¡ette e intraruota, il deltoide intermedio abduce e il deltoide posterio- re estende, adduce lungo il piano frontale, abduce lungo il piano trasversale ed extraruota la spalla (Platzer, 2007). Un’altra sua peculiarità riguarda il cambiamento delle funzioni anatomiche delle singole porzioni in funzione del posizionamento iniziale dell’omero. Abducendo la spalla in extrarotazione il deltoide anteriore diviene il principale abduttore, mentre abducendo in intrarotazione lo diventa il deltoide posteriore. Tricipite Grande dorsale Capo laterale Capo mediale Capo lungo Grande pettorale Bicipite Capo lungo Capo breve Estensione Flessione Adduzione Adduzione figura 1-17 Il muscolo deltoide e la sua funzione di abduttore di spalla. figura 1-18 I muscoli gran pettorale, gran dorsale, bicipite e tricipite. 208 | Capitolo 1 – Parte 1 – Sezione III • Il muscolo gran pettorale è caratterizzato da un ventre muscolare esteso a ventaglio con origine a livello clavicolare, costale e addominale, e un’inserzione crociata a livello della cresta del tubercolo maggiore. È anch’esso un muscolo diviso in più porzioni, con fasci di bre aventi funzioni anatomiche anche opposte tra loro: la parte più alta è detta clavico- lare e la parte più bassa è detta sterno-costale. Il gran pettorale è un potente intrarotatore e adduttore di spalla lungo il piano frontale e trasversale, ¡ette con i suoi fasci più alti (porzione clavicolare) ed estende dalla posizione di massima ¡essione con quelli più bassi (porzione sterno-costale; Platzer, 2007). • Gran dorsale e grande rotondo sono muscoli aventi localizzazione diversa ma funzioni anatomiche comuni. Il muscolo gran dorsale ha un ventre molto esteso con diversi punti di origine a livello delle vertebre toraciche da T7 a T12, sulla fascia toraco-lombare, sulla cresta iliaca, sulle ultime tre coste e sull’angolo inferiore della scapola. Esso si inserisce sulla cresta del tubercolo minore determinando a livello della spalla movimenti di addu- zione, estensione e intrarotazione. Le stesse funzioni anatomiche sono condivise anche dal muscolo grande rotondo, che origina sul margine laterale della scapola e si inserisce anch’esso sulla cresta del tubercolo minore (Platzer, 2007). • Anche il bicipite brachiale in¡uenza i movimenti della spalla nonostante la sua potente azione di ¡essore del gomito. La sua origine a livello della scapola, con il capo lungo ssato sul tubercolo sovraglenoideo e il capo breve sul processo coracoideo, lo rende un muscolo bi-articolare che garantisce movimenti a livello di spalla e gomito. In particolare, sulla spalla determina la ¡essione con entrambi i capi e l’abduzione con il suo capo lungo (soprattutto quando l’omero parte in extrarotazione; Kapandji, 2002). • Il capo lungo del tricipite risulta l’unica porzione del muscolo tricipite brachiale ad avere in¡uenza sulla spalla. Infatti, con la sua origine a livello del tubercolo sottoglenoideo e la sua inserzione con gli altri due capi a livello dell’olecrano dell’ulna, oltre a determinare l’estensione del gomito, assiste negli ultimi gradi il movimento di estensione e quello di adduzione della spalla (Platzer, 2007). 1.3 Il sollevamento del braccio: biomeccanica avanzata 60° 120° 180° Fin qui si sono a€rontati i movimenti delle singole articolazioni della spalla. Ora è arrivato il momento di mettere insieme le nozioni analizzando un movimento spesso protagonista in palestra: il sollevamento del braccio, componente fondamentale di esercizi famosi come Alzate Laterali, Military Press e Lento Avanti. figura 1-19 Il ritmo scapolo- omerale. Sezione III – Parte 1 – Capitolo 1 | 209 Si inizia col dire che il movimento in questione può essere considerato un’abduzione, una ¡es- sione o un ibrido tra le due, come per esempio l’abduzione lungo il piano scapolare tipica delle attività di tutti i giorni (il braccio sale “leggermente avanti” e non in linea col tronco; Kapandji, 2002). Per portare il braccio sopra la testa e completare l’escursione di movimento siologica è necessario l’intervento simultaneo dell’omero e del cingolo scapolare, inteso come l’insieme di scapola e clavicola. Il contributo al movimento globale dei due protagonisti è regolato dal cosid- detto ritmo scapolo-omerale che, secondo la letteratura scientica, è di circa 2:1, ossia ogni 3° di movimento, 2° sono a carico dell’omero (rotolamento e scivolamento come descritto sopra) e 1° a carico del cingolo scapolare (Inman, 1996). Nei 180° totali di movimento, quindi, si parla di 120° di movimento a carico dell’omero e 60° a carico della scapola (figura 1-19). Per la cronaca, è importante sottolineare come questo rap- porto possa variare da persona a persona, e in e€etti molti studi riportano valori leggermente di€erenti caratterizzati da una discreta variabilità. In particolare, Bagg e Forrest suggeriscono che nei primi 80° di movimento di abduzione il ritmo sia di 3:1 in favore dell’omero, tra 80° e 140° di abduzione sia di 2:1 in favore dell’omero e tra 140° e 170° di abduzione sia di 1:1 (Bagg, 1988). Ad ogni modo, a scopo didattico, non si sbaglia nell’a€ermare che da 0° a 90° si ha un maggiore movimento omerale, e dai 90° ai 180° un maggiore movimento scapolare (Kapandji, 2002). Detto ciò, rimangono da comprendere le caratteristiche intrinseche del movimento di abdu- zione all’interno del ritmo scapolo-omerale. Neumann nel 2017 descrive con dovizia di particolari i meccanismi sottesi che caratterizzano il sollevamento dell’omero (figura 1-20). Nella fattispecie a€erma che (Neumann, 2017): 0-5° Rotazione esterna 35-40° Rotazione esterna gleno- omerale 20° Tilt posteriore 20° Retrazione 60° Rotazione scapolo-toracica verso l’alto 30° Rotazione acromion-clavicolare verso l’alto 25° Rotazione posteriore scapolo-clavicolare 120° Abduzione gleno-omerale Posteriore Trapezio medio Trapezio inferiore Serrato anteriore Rotazione verso l’alto Superiore Trapezio medio Serrato anteriore Rotazione esterna Sagittale Trapezio inferiore Serrato anteriore Tilt posteriore figura 1-20 La biomeccanica dell’abduzione. 320 | Capitolo 1 – Parte 2 – Sezione III Per favorire la didattica e la chiarezza dei contenuti, gli esercizi in questione verranno suddivisi in cinque gruppi sulla base delle loro caratteristiche biomeccaniche e dei muscoli maggiormente enfatizzati. Nella fattispecie i temi saranno analisi biomeccanica, attivazione muscolare e rischio articolare delle seguenti famiglie di esercizi (tabella 1-1): • Military Press e Lento Avanti e in generale tutti gli esercizi che prevedono un movimento di spinta sopra la testa (Arnold Press). • Alzate Laterali, Alzate Frontali e Tirata al mento. • Aperture per il deltoide posteriore. • Shrugs. • Esercizi per la cuŸa dei rotatori (extrarotazioni e intrarotazioni). 1.2 Military Press e Lento Avanti Military Press e Lento Avanti (figura 1-2), da un punto di vista biomeccanico, sono due esercizi multiarticolari che coinvolgono la spalla in un movimento completo di abduzione e il gomito in un movimento di estensione. Tale accoppiata di movimenti si traduce in una distensione sopra la testa (movimento di spinta verticale) che come sovraccarico sfrutta rispettivamente un bilanciere e due manubri. Sulla base di questa analisi preliminare è possibile dire che i muscoli maggior- mente coinvolti sono a più livelli. Essendo il movimento un’abduzione di spalla di 180°, con le braccia che terminano la loro corsa sopra la testa, è possibile dire che i muscoli motori principali sono il deltoide anteriore/intermedio e il sovraspinato sul versante scapolo-omerale, e il gran den- tato e il trapezio superiore sul versante scapolo-toracico. Per quanto riguarda il gomito, invece, il tricipite è il muscolo coinvolto come estensore primario. Entrambi gli esercizi, come si vedrà in seguito, per essere ben eseguiti seguono i principi della siologia dell’abduzione vista nel capitolo di anatomia. Generalmente con la dicitura “Military Press” viene fatto riferimento a un esercizio eseguito con bilanciere dalla posizione eretta (in pie- di), mentre con la dicitura “Lento Avanti” viene fatto riferimento a un esercizio eseguito con due manubri da seduti. Nonostante le di€erenze di sovraccarico utilizzato, gli esercizi sono biomec- canicamente sovrapponibili e seguiranno le medesime indicazioni tecniche. Si inizia analizzando gli aspetti legati all’attivazione muscolare. 1.3 Analisi biomeccanica e controversie comuni Sulla base di quanto è stato analizzato nel paragrafo sulla siologia dell’abduzione, è possibile iniziare a impostare un’esecuzione corretta ed eŸcace dei due esercizi a partire dagli aspetti legati all’attivazione muscolare. Essendo entrambi esercizi che prevedono un movimento completo di abduzione, non è possibile fare altro che aŸdarsi all’applicazione del ritmo scapolo-omerale per dirimere alcune questioni di rilievo. figura 1-2 Military Press e Lento Avanti manubri. Sezione III – Parte 2 – Capitolo 1 | 321 Come visto in precedenza, la recente letteratura sul ritmo scapolo-omerale suggerisce che nei primi 80° di movimento di abduzione il ritmo sia di 3:1 in favore dell’omero, tra 80° e 140° di ab- duzione sia di 2:1 in favore dell’omero e tra 140° e 170° di abduzione sia di 1:1 (figura 1-3). In virtù di ciò è possibile a€ermare che, in un contesto nel quale omero e scapola si muovono sempre in simultanea e in simultanea si contraggono trapezio superiore e deltoide, sicuramente il con- tributo del deltoide nei primi 90° è maggiore (3:1) rispetto al trapezio, che invece aumenta la sua attività a scapito di quella del deltoide a gradi maggiori di abduzione (1:1). 180° 120° 60° < 80° deltoide 80°-140° Deltoide e trapezio 140°-170° Trapezio Sulla base di questa conoscenza, allo scopo di potenziare lo stimolo sul muscolo deltoide, ap- pare sensato consigliare una partenza con l’omero vicino agli 0° di abduzione durante il Lento Avanti con manubri. In altre parole, la spinta deve avvenire con le braccia lungo i anchi per coinvolgere maggiormente il muscolo deltoide (figura 1-4 a sinistra). Tale osservazione cozza molto con la realtà delle palestre, nella quale spesso si vede invece proporre un Lento Avanti con un ROM di abduzione dimezzato che prevede una partenza con i gomiti all’altezza della spalla e gli omeri a 90° di abduzione (figura 1-4 a destra). Sulla base del ritmo scapolo-omerale questa consuetudine è da abbandonare poiché coinvolge il deltoide in un’abduzione da 90° a 180°, che si è visto essere un range di movimento più ad appannaggio del trapezio che del deltoide. figura 1-3 Secondo il ritmo scapolo-omerale il deltoide è il muscolo maggiormente protagonista nei primi 90° circa del movimento di abduzione, mentre successivamente sopra i 90° di abduzione anche il muscolo trapezio diventa protagonista. 322 | Capitolo 1 – Parte 2 – Sezione III Ad avallare questa indicazione ci pensa anche un recente studio di Paoli et al. del 2010 sul Lento Avanti e l’attivazione muscolare a diversi ROM di movimento di abduzione, con diversi carichi (senza peso, con il 30% 1RM e il 70% 1RM). Gli autori hanno registrato in sei sollevatori esperti l’attività elettromiograca di otto muscoli durante l’esecuzione del Lento Avanti con tre di€erenti ROM a partire da 0° di abduzione (omero lungo i anchi): mezza ripetizione, tre quarti di ripeti- zione e ripetizione completa. I risultati dello studio hanno dimostrato una maggiore attivazione di tutti e otto i muscoli coin- volti (tra i quali deltoide e trapezio) durante l’esecuzione a ROM completo rispetto a quella a ROM parziale (gli stessi autori indicano chiaramente come quella a ROM completo debba essere l’e- secuzione in assoluto da preferire sotto tutti i punti di vista; Paoli et al., 2010). Inoltre, gli autori hanno sottolineato che un’esecuzione a ROM parziale, da 0° a 90° di abduzione, attiva in misura maggiore il deltoide se si utilizzano carichi sopra il 70% dell’1RM, condizione che potrebbe essere usata come strategia per un suo maggiore “isolamento” rispetto al trapezio superiore. Alla luce di ciò può essere quindi consigliabile un’esecuzione a ROM completo nel Lento Avanti per una stimolazione maggiore del deltoide (figura 1-5). Tutto ciò comunque rimanendo consapevoli di essere in un contesto nel quale le dinamiche biomeccaniche sono più ni e la muscolatura è funzionalmente “fusa” e contemporaneamente sempre attiva, come gli stessi autori dello studio evidenziano nella discussione dei risultati otte- nuti, dichiarandosi in contrasto con chi in ambiente bodybuilding tende a semplicare parlando di attivazioni muscolari selettive in base al ROM utilizzato (Paoli et al., 2010). Inoltre, consultando uno studio di Alpert del 2000, risulta interessante notare come siano i mu- scoli sovraspinato, sottospinato e sottoscapolare ad attivarsi in maniera signicativa nei primi 30° di abduzione, mentre il picco di attivazione del deltoide nei suoi fasci anteriore e intermedio avviene tra i 60° e i 90° di abduzione. Interpretando tali evidenze potrebbe ancora una volta non essere consigliabile eseguire il Lento Avanti con un ROM di 90°-180° che bypassa completamente il ROM più stimolante per il deltoide (figura 1-6). figura 1-4 A sinistra, partenza corretta durante il Lento Avanti con omeri lungo i anchi e gomiti sotto la linea delle spalle per una stimolazione del deltoide ottimale. A destra, partenza scorretta con spalla abdotta a 90° e gomiti all’altezza delle spalle. figura 1-5 Un’esecuzione a ROM completo durante il Lento Avanti è consigliata poiché riporta un’attivazione maggiore del muscolo deltoide (Paoli, 2010). Sezione III – Parte 2 – Capitolo 1 | 325 errore. Durante Military Press e Lento, l’abduzione per avvenire lungo tutta la sua escursione è necessariamente associata, come visto, a un’extrarotazione di partenza che rende il movimento di per sé ¡uido e privo di forzature. 1 - Estensione toracica… 2 - … maggior rotazione della scapola… 3 - … maggior estensione del braccio Nessuna estensione toracica La spinta deve portare il bilanciere o i manubri n sopra la testa e non davanti. Questa traiet- toria è fondamentale per favorire una buona estensione toracica nale che a sua volta favorirà un movimento scapolare ottimale in rotazione craniale e tilt posteriore (figura 1-10). Viceversa, una spinta che porta il sovraccarico davanti alla testa aumenta il rischio di associare all’abduzione il movimento contrario di tilt anteriore delle scapole. Tale combinazione di movimento, secondo alcuni studi, sembra aumentare lo stress scaricato sui tessuti peri-articolari della spalla, alzando il rischio di inammazioni tendinee (figura 1-10). Inne, soprattutto parlando di Lento Avanti con manubri, la traiettoria in spinta dell’abduzione dovrà seguire il cosiddetto piano scapolare, ossia quel piano siologico dettato dall’orientamento della glena che forma un angolo di circa 30° con il piano frontale puro (figura 1-11). Praticamente il 99,9% dei movimenti di vita quotidiana nei quali il braccio viene sollevato avvengono lungo questo piano, basti pensare a come si porta il cibo alla bocca o a come ci pettiniamo (Kapandji, 2002). Il fatto che il corpo tenda sempre a fare inconsapevolmente rispettare il piano scapolare fa intuire l’importanza che questo può avere al ne di eseguire un’abduzione sicura e siologica. Eseguire un’abduzione con sovraccarico lungo il piano scapolare favorisce così il rispetto di un’importante caratteristica strutturale, elimina possibili forzature e garantisce una totale natura- lezza del gesto (Escamilla, 2009). In particolare, il rispetto del piano scapolare garantisce: figura 1-10 Il movimento corretto di spinta deve portare il carico sopra la testa e non davanti per favorire un ottimale movimento scapolare e ridurre le forzature. figura 1-11 A sinistra, partenza corretta rispettando il piano scapolare. A destra, partenza scorretta con gomiti troppo indietro e spinta più forzata per la spalla. Sezione III – Parte 3 – Introduzione | 747 SEZIONE III PARTE 3 INTRODUZIONE Traumatologia nel fitness Traumatologia e dolore in ambito tness sono due concetti la cui importanza è troppo spesso sottostimata. Presi alla ricerca di esercizi ideali, programmi di allenamento eŸcaci e aspetti nu- trizionali ottimali, infatti, sovente si perde di vista che la continuità dei nostri allenamenti, se non è condizione suŸciente a ottenere risultati, è sicuramente necessaria. E la continuità è essenzial- mente legata a due aspetti: la nostra motivazione e il nostro stato di salute muscolo-scheletrica. Questo capitolo si occuperà proprio di quest’ultima. Se infatti insorge un dolore durante un esercizio o successivamente a una seduta in palestra, e questo dolore tende a non risolversi in poche ore, ecco che potremmo essere in presenza di un ostacolo alla continuità del programma di allenamento e allo stesso tempo all’ottenimento di qualsivoglia risultato estetico o funzionale. Analogamente, in ottica di personal training, il dolore articolare insorto in allenamento è un fattore decisamente a sfavore anche di quel buon passaparola che spesso fa la di€erenza tra un professionista a€ermato e uno poco stimato. Siamo infatti tutti d’accordo nel considerare legittimo il diritto di un cliente ad allenarsi (investendo dei soldi) rimanendo sano, e allo stesso tempo è altrettanto legittimo che, qualora ciò non accadesse e insorgesse una condizione dolorosa, il nostro cliente possa non sentirsi soddisfatto del servizio e possa parlarne male ad altri. Alla luce di ciò, si capisce quanto sia importante per un personal trainer conoscere gli argo- menti di questo capitolo e quanto la loro applicazione possa fare la di€erenza indirettamente anche sul raggiungimento del risultato nale. Questo anche in virtù del fatto che è sempre più comune avere a che fare in palestra con soggetti “funzionalmente non perfetti”, alle prese da sem- pre con saltuari dolori articolari, traumi passati e alterazioni posturali, ma non per questo sco- raggiati dal voler intraprendere un percorso di allenamento. È dovere di un personal trainer che si rispetti conoscere la problematica con la quale l’allenamento dovrà sposarsi, e conoscere tutti i principi per adattare gli esercizi e il programma aŸnché tale condizione non ostacoli il percorso e non peggiori con l’inserimento dei sovraccarichi. Attraverso le conoscenze di questo capitolo, tutto questo potrà essere fatto rispettando le speciche aree di competenza e garantendo terreno fertile per instaurare collaborazioni con gure del settore sanitario, qualora ve ne fosse il bisogno. I.1 Traumatologia per il personal trainer Una delle sde più grandi di questa sezione è sicuramente quella di delineare al meglio il peri- metro di competenze del personal trainer quando questo ha a che fare con un trauma o un dolore muscolo-scheletrico durante la pratica lavorativa. In altre parole, la traumatologia nel tness do- vrà diventare un terreno comune tra personal trainer e gure sanitarie (medici e sioterapisti) nel quale le informazioni possono essere agevolmente scambiate per il bene di chi si allena e all’in- terno del quale ogni professionista sarà chiamato in causa nel momento più idoneo a sfruttare il proprio specico bagaglio di competenze. Il fatto che il terreno sia comune è un dato di fatto, ma non deve essere una giusticazione per sconnare nelle competenze dell’altro, abusando della propria rispettiva posizione. La sezione ha l’obiettivo quindi di creare un ponte professionale, chiarendo chi può fare cosa, ma senza la paura di conoscere almeno sul lato teorico cosa fa l’altro. Le pagine a seguire avranno nello specico lo scopo di creare un bagaglio culturale per il per- sonal trainer mirato al raggiungimento di due obiettivi principali. 748 | Introduzione – Parte 3 – Sezione III 1. Conoscere lo scenario teorico alla base dei principali quadri dolorosi che possono carat- terizzare un cliente in palestra. Per poter gestire al meglio tali condizioni, collaborare con gure sanitarie e adattare la scheda di allenamento non possono prescindere da una conoscenza approfondita delle cause, delle conseguenze e delle dinamiche sottese a una problematica muscolo-scheletrica. 2. Acquisire gli strumenti pratici per poter gestire una condizione dolorosa, post-traumatica o post-riabilitativa, insorta in allenamento o già presente in partenza, tramite un adatta- mento degli esercizi che sappia garantire ove possibile continuità all’allenamento senza andare a peggiorare il quadro funzionale o il dolore. Prima di entrare nel vivo degli argomenti, devono essere chiarite ulteriormente alcune questio- ni importanti per la corretta interpretazione di questo capitolo. I.2 Personal trainer e figure sanitarie Se c’è un argomento dibattuto nel settore del tness è proprio quello della traumatologia, della postura e del dolore. Così come per il mondo della nutrizione, anche per questo argomento la diŸcoltà maggiore sta nel delineare in maniera nitida il recinto di competenze dei vari professio- nisti che potrebbero contribuire alla causa del cliente. Il mondo della traumatologia nel tness, infatti, è una vera e propria terra di mezzo in cui spesso assistiamo a battaglie su “chi può fare cosa” tra personal trainer, sioterapisti e medici specialisti. Se una persona ha mal di schiena, può essere allenata seguita da un personal trainer? E se sì, no a che punto questo può spingersi nel valutare la problematica e nell’attuare contromisure senza sforare nell’abuso di professione? Se un cliente sviluppa un dolore facendo la panca pia- na, cosa deve fare il personal trainer? E come va gestita la situazione? Questo paragrafo nasce proprio per rispondere a questa e a tante altre domande simili, per fare nalmente chiarezza sull’argomento. La prima cosa da fare per costruire un ragionamento lineare è denire le competenze di ognu- no, quando si ha a che fare con problematiche muscolo-scheletriche con o senza dolore. Per rias- sumere “chi può fare cosa”, schematizziamo in due punti gli aspetti salienti. • In presenza di un disturbo che può manifestarsi con dolore e/o alterazioni della funzio- nalità, la diagnosi di una patologia muscolo-scheletrica, la somministrazione di terapie di qualsiasi tipo e la messa in pratica di eventuali trattamenti riabilitativi prescritti è compito esclusivo di gure sanitarie, tra cui il medico specialista e il sioterapista, a loro volta rispettando la propria orbita di competenze e l’iter di somministrazione di una terapia. • In presenza di un disturbo che può manifestarsi con dolore e/o alterazioni della funzio- nalità, qualora la problematica fosse compatibile con l’allenamento, il professionista del tness può e deve adoperarsi per adattare la scheda scegliendo gli esercizi e le esecuzioni degli stessi in modo tale da non evocare dolore, per non peggiorare la sua condizione e supportare la guarigione in maniera indiretta. Ciò avrà come obiettivo nale la continuità degli allenamenti. Tali indicazioni non dovranno in alcun modo rappresentare un tratta- mento diretto della patologia e non dovranno essere il risultato di un ragionamento clinico o di una valutazione mirata a fare diagnosi funzionale. Il professionista del tness potrà altresì scegliere alcuni esercizi con lo scopo di migliorare la funzionalità articolare e pre- venire dolori futuri (prevenzione) qualora individuasse possibili fattori di rischio durante la valutazione e€ettuata con gli strumenti di sua competenza. Proprio la valutazione in questo senso rappresenta uno snodo importante per delineare i con- ni di intervento. Il personal trainer ha il dovere di valutare un soggetto anche per andare a scovare eventuali aspetti disfunzionali che potrebbero essere meritevoli di modiche del piano di allena- mento o di cautele maggiori nella scelta degli esercizi. Il primo passo da compiere è l’anamnesi, intesa come un insieme di domande volte a individuare eventuali criticità. Sezione III – Parte 3 – Introduzione | 759 Conoscere quindi le possibili fonti del dolore non signica riuscire automaticamente a capi- re perché si ha male e soprattutto “cosa posso fare”. Oltretutto in questi casi è anche poco utile e per nulla concreto adoperarsi in tutti i modi per scoprire il colpevole (“ho male perché ho una protrusione L4-L5”, “ho male perché ho un’ernia L5-S1” ecc.). Generalmente, quando si ha un dolore, si è soliti rivolgere l’attenzione principalmente al piano biomedico del problema, al “cosa” si è lesionato. Tuttavia, non è scontato che questo “qualcosa” sia realmente causa del dolore, e cono- scere questo “qualcosa” ci fornisce risposte solo parziali per la gestione pratica, soprattutto nelle situazioni non gravi. Un approccio esclusivo di tipo biomedico, per questo specico contesto (tness e allenamento con i pesi), appare quindi del tutto limitante. Ciò che conta nella maggioranza dei casi è chiarire anche gli aspetti funzionali e disfunzionali sottesi al dolore. Paradossalmente, in casi non gravi come quelli che caratterizzano questo settore, conoscere il disco esatto lesionato o il tendine de- generato appare molto meno utile di quello che si possa pensare: indipendentemente da quale tessuto sia stato colpito nello specico, l’approccio non cambierà e sarà sempre e comunque rivolto alle cause funzionali che hanno portato a questa condizione (gestione del sovraccarico funzionale, performance muscolare, mobilità ecc.). È importante precisare che quanto detto non vuole assolutamente togliere qualcosa all’approc- cio biomedico classico, screditandolo; al contrario, vuole aggiungere un tassello per completar- ne il quadro con un approccio integrato alla materia, che ha come ne ultimo sempre il bene della persona. In particolare, qui di seguito le funzioni fondamentali dell’approccio biomedico (Hengeveld, 2007): • Riconoscere cautele e controindicazioni per qualsiasi tipo di trattamento o esercizio. • Fornire una diagnosi medica di riferimento dalla quale partire solo successivamente con l’esame funzionale. • Stabilire una prognosi, ossia un tempo di recupero stimabile in base alla problematica riscontrata. Approccio biomedico e funzionale determinano insieme l’approccio integrato utile ad a€ron- tare le problematiche trattate in questa sezione. Fermarsi al tessuto leso e all’ipotetica fonte del dolore limita molto, non permettendo di individuare le strategie pratiche e concrete da attuare in palestra per supportare la guarigione e adattare la scheda di allenamento. I.5 Perché ci si fa male in palestra Una volta appresi alcuni aspetti teorici fondamentali riguardo la genesi di un dolore, si arriva agli aspetti più pratici. Perché ci si fa male in palestra? Quali sono le cause che generano una lesione a una struttura anatomica e una conseguente risposta dolorica secondo i meccanismi prima esposti? Per dare una risposta a queste domande si presenta un concetto fondamentale per il mondo del tness: il coeŸciente di rischio articolare. IL COEFFICIENTE DI RISCHIO ARTICOLARE DEFINIZIONE Il coeŸciente di rischio articolare in palestra è un parametro che fornisce informazioni rispetto al grado di rischio di incorrere in problematiche al sistema muscolo-scheletrico nel breve e nel lungo periodo, in risposta all’esecuzione di un esercizio o alla somministrazione di un programma di allenamento. La tendenza nel tness è quella di assegnare un certo grado di rischio articolare a un esercizio solo sulla base di una sua presunta pericolosità di natura biomeccanica. Nascono così esercizi tec- nicamente “sicuri” ed esercizi “pericolosi”, esercizi “giusti” ed esercizi “sbagliati”, esclusivamente sulla base della bontà della tecnica esecutiva. In altri termini, nel tness, l’infortunio e il conse- guente dolore sono spesso eventi ricollegati unicamente al “come” si esegue un esercizio (“se lo fai così ti fai male”). Tuttavia, uno sguardo più ampio sul panorama degli infortuni tipici in palestra obbliga a considerare il dolore come una condizione connessa non solo ad aspetti biomeccanici. 760 | Introduzione – Parte 3 – Sezione III Il coeŸciente di rischio articolare, infatti, mette in relazione tra loro di€erenti aspetti prima di emettere un giudizio così netto rispetto alla sicurezza di un esercizio o di un programma di al- lenamento. Le cause o le concause funzionali di un dolore in palestra (lesione strutturale) sono quindi imputabili a un mix di tre di€erenti fattori concatenati fra loro: 1. Tecnica esecutiva (come si esegue). 2. Dosaggio dell’allenamento (quanto si esegue). 3. Funzionalità articolare (chi esegue). Dolore e tecnica esecutiva Non vi è alcun dubbio che le modalità esecutive di un esercizio siano una delle componenti da curare per ridurre il rischio di dolore. Inoltre, la cura della tecnica può e€ettivamente contribuire alla salute articolare anche attraverso l’applicazione pratica di alcune conoscenze biomeccani- che viste nella parte dedicata agli esercizi. Infatti, esistono alcune combinazioni di movimento sulla carta più rischiose per l’articolazione coinvolta nel sollevamento del carico. Per esempio dell’abduzione con intrarotazione di spalla e del tilt anteriore di scapola (possibile durante eser- cizi come Alzate Laterali, Tirate al mento, Panca Piana, Lento Avanti; Escamilla 2009; de Jongh, 2011; Hughes, 2012; Longo, 2016) o della perdita della curva lombare sotto carico (¡essione lom- bare) che, da un punto di vista meramente biomeccanico, può alzare il rischio di lesione per un aumento delle forze di taglio imposte sul disco (Evangelista, 2011; figura i-10). Qui la domanda però sorge spontanea. Come mai allora si vedono video di soggetti (anche at- leti) che “staccano” o “squattano” senza lordosi e non si fanno male? O ancora, come mai soggetti che non curano al meglio l’assetto scapolare non hanno dolore alla spalla durante la Panca? Ecco che per rispondere a questo enigma viene in soccorso il concetto di coeŸciente di rischio e delle sue altre due componenti che lo determinano. Dolore e sovraccarico funzionale Il dosaggio dell’allenamento e il sovraccarico utilizzato costituiscono fattori determinanti nella prevenzione del dolore in palestra. Il “quanto” della scheda di allenamento prende vita grazie ai parametri allenanti, ossia quell’insieme di valori con i quali si stabilisce quante volte deve essere figura i-10 L’abduzione in completa intrarotazione (a sinistra) e la perdita della curva lombare durante Squat e Stacco (a destra) sono potenziali fattori di rischio biomeccanico. Sezione III – Parte 3 – Introduzione | 761 mosso un certo carico. Serie, ripetizioni, recupero e carico sono cifre da gestire nel modo migliore in base alla persona. Se è pur vero infatti che una modulazione in difetto di questi parametri non permetterà il raggiungimento dei risultati, è altrettanto vero che una modulazione in eccesso non garantisce quella progressione graduale che è necessaria ai tessuti per adattarsi eŸcacemente migliorando la propria tolleranza al carico (Lewis, 2009; Seitz, 2011; Magee, 2014; Dimitrios, 2016). Non solo i muscoli, infatti, sono in grado di adattarsi agli stimoli allenanti. Il miglioramento delle proprietà meccaniche di tessuti chiave come tendini e dischi intervertebrali costituisce un fondamentale adattamento in risposta ai carichi. Eccedere col carico rispetto alla tolleranza di quella struttura anatomica di quello specico soggetto può alzare di molto la probabilità di una lesione al tessuto stesso (figura i-11). Volumi di lavoro spropositati per il soggetto, carichi oltre il reale limite, serie allenanti triplicate da un giorno all’altro sono tutte condizioni che mettono in crisi le strutture anatomiche che generalmente si lesionano nel tness. Bandelletta ileotibiale Bicipite femorale (capo breve) Femore dx Vasto lateraleTrapezio ClavicolaAcromion Tendine del sovraspinato Sottoscapolare Retto del femore Vasto mediale Rotula Tendine (legamento) rotuleo Menisco laterale Menisco mediale Legamento collaterale laterale Perone Tibia Estensore lungo delle dita Peroneo lungo Tibiale anterioreSoleo Coracobrachiale Capo lungo bicipite brachiale Capo breve bicipite brachiale Deltoide anteriore Deltoide posteriore Gran pettorale In particolare, sono cinque i fattori da considerare per capire meglio “quanto” sovraccarico funzionale quello specico soggetto può gestire in quel momento. • L’esperienza di allenamento passata. Soggetti con poca esperienza di allenamento sono considerati più a rischio nelle prime fasi soprattutto se hanno molta fretta di migliorare. Un soggetto più avanzato è generalmente più in grado di gestire volumi maggiori. • L’età. Numerose alterazioni degenerative, come per esempio ernie e protrusioni, hanno un’incidenza direttamente proporzionale all’età del soggetto e possono essere presenti anche in chi non ha alcun dolore. Per questo un occhio di riguardo maggiore dovrà essere dato a soggetti sopra i quarant’anni, specie se privi di esperienza di allenamento. • La storia clinica passata. Soggetti che riferiscono in storia clinica problematiche musco- lo-scheletriche conclamate (ernie, protrusioni, tendinopatia) devono essere considerati maggiormente a rischio quando si programma il volume di una scheda di allenamento. Per esempio, se il soggetto ha so€erto di protrusioni o ernie lombari sintomatiche, sarà necessario valutare meglio il dosaggio di esercizi come Squat e Stacco. Se invece ha so€er- to di una tendinopatia rotulea dovremo, diversamente, valutare il dosaggio di esercizi che prevedano un piegamento profondo sulle gambe, come Squat, Pressa e A€ondi. • L’obiettivo dell’allenamento. Soggetti agonisti avranno un dosaggio di allenamento dif- ferente da soggetti non agonisti semplicemente alla ricerca di una forma sica migliore. Sulla base di queste caratteristiche soggettive, le richieste funzionali sui tessuti vanno adegua- tamente dosate attraverso una gradualità e una progressione razionale. La mancanza di tutto que- sto, spesso causata dalla fretta di ottenere risultati o semplicemente da un contesto agonistico che spinge al limite, sposta tutto in un ambiente di allenamento enormemente più rischioso anche in presenza di una tecnica di esecuzione ottimale e curata. figura i-11 Una degenerazione tendinea (tendinopatia) o discale (discopatia) può insorgere in risposta a un eccessivo dosaggio dell’allenamento (volume e carichi). 764 | Introduzione – Parte 3 – Sezione III Capsula normale Capsula indebolita Articolazione normale Instabilità multidirezionale Sovraspinato Sottoscapolare Infraspinato Sovraspinato Infraspinato Roll Slide Roll Extrarotazione Abduzione Sovraspinato Sovraspinato Sottoscapolare Legamenti gleno-omerali Slide figura i-14 La corretta interazione tra l’azione della cuŸa dei rotatori e l’estensibilità della capsula articolare della spalla è fondamentale per la corretta centralizzazione della testa dell’omero durante i movimenti. Una capsula articolare troppo rigida può ostacolare i movimenti di scivolamento articolare aumentando lo stress sui tessuti e alterando la normale funzionalità della spalla. Anche una capsula troppo ¡essibile può comportare problemi da instabilità articolare (in basso). figura i-15 Tramite una valutazione funzionale accurata è possibile individuare alcuni possibili fattori di rischio funzionali come la retrazione dei tessuti peri- articolari, la scarsa performance di un gruppo muscolare o l’alterazione di uno schema motorio con dominanza muscolare. Sezione III – Parte 3 – Introduzione | 765 Postura e dolore E la postura? La correlazione presunta tra la postura e il dolore articolare, infatti, appare pratica comune in primis nel sentito dire popolare ma anche tra numerosi professionisti. “Ho mal di schiena, ma io ho la scoliosi”, “Per forza ti viene male, guarda che cifosi che hai!”, “Stai seduto dritto che ti viene mal di schiena!”, sono solo alcuni esempi di esclamazioni tipiche che mettono in luce la legittima tentazione che si ha di correlare un dolore al proprio assetto posturale. Il meccanismo mentale è semplice: un’articolazione con un allineamento che si sposta da quello considerato “normale”, quella stessa articolazione duole, di conseguenza il dolore è determinato in parte o del tutto da quel cattivo allineamento che si deve quindi cercare di correggere per guarire. Ma davvero è possibile considerare la cattiva postura o la presenza di un’asimmetria come possibili cause di dolore? Nonostante tale meccanismo risulti ormai una consuetudine consolidata negli anni, recenti studi hanno riesumato la questione cercando di indagarla con maggiore rigore scientico. Le evidenze più recenti sull’argomento hanno tracciato un quadro molto diverso, rimettendo total- mente in discussione l’importanza della postura per l’insorgenza del dolore muscolo-scheletrico. È possibile a€ermare, in altri termini, che la scienza ad oggi considera le alterazioni posturali e il dolore come due elementi appartenenti allo stesso sistema, il corpo umano, ma senza un rappor- to così intimo tra loro. Consultando la letteratura scientica più autorevole, risulta complesso riuscire a correlare di- rettamente il cattivo allineamento di un’articolazione con la presenza di un dolore in quella spe- cica area anatomica. Molti studi sono riusciti a trovare una correlazione mentre tanti altri no (Ettinger, 1994; Nadler, 1998; Levangie, 1999; Fann, 2002; McAviney, 2005; Roijezon, 2008; Hides, 2010; O’sullivan, 2011; Damasceno, 2018; Ingraham, 2018; Khan, 2018; Slater, 2019). Sono riportati infatti soggetti con un perfetto allineamento che sviluppano dolore e persone invece totalmente “storte” che non lo sviluppano, e viceversa. Ciò signica quindi che un’alterazione posturale, anche evidente, non può costituire in maniera chiara una causa diretta di un dolore articolare nell’area stessa dell’alterazione posturale. Per fare alcuni rapidi esempi, l’avere una spalla più alta dell’altra non è una condizione correlabile con un dolore alla spalla, avere un bacino non livel- lato non comporta per forza l’insorgenza del mal di schiena, o ancora, avere un’iperlordosi non signica necessariamente che si svilupperà una lombalgia in futuro (figura i-16). La postura ha quindi meno in¡uenza sul dolore di quello che possiamo ingenuamente pensare. Ognuno di noi presenta, chi più chi meno, delle asimmetrie/alterazioni posturali più o meno evidenti, che si accompagnano o meno a dolore. In tutti i casi, l’invito è a non credere che queste possano essere responsabili di dolori presenti o futuri; di conseguenza, l’invito è quello di non figura i-16 Le asimmetrie posturali sono condizioni siologiche che non possono essere direttamente correlate con un dolore presente o futuro. Per questo la valutazione posturale alla ricerca di asimmetrie risulta una pratica inutile se non contestualizzata. 766 | Introduzione – Parte 3 – Sezione III problematizzare oltremisura un’asimmetria o un disallineamento dipingendo scenari di dolore futuro o giusticandone uno attuale. Alla luce di questa rapida revisione della letteratura recente che tratta l’argomento potrebbe sorgere una domanda spontanea: ma quindi la postura non conta nulla ed è possibile non con- siderare se si è “storti” perché tanto non ha alcuna importanza per la propria salute articolare? Assolutamente no. Quello che è possibile estrapolare da questi studi con equilibrio è che l’asimmetria posturale, non essendo sicuramente una causa diretta di un dolore, potrebbe essere in uno specico caso un fattore contribuente al dolore stesso (ossia un fattore che non causa direttamente il problema ma che può favorire la sua insorgenza o una sua recidiva). Ancora di più è necessario conside- rare un’alterazione posturale sicuramente come un fattore che determina un minore grado di adattamento funzionale durante le attività lavorative e sportive, specie se queste hanno richieste funzionali più alte. In altre parole, per fare un rapido esempio, un’ipercifosi importante non è da considerarsi come causa diretta del mal di schiena o del dolore alla spalla. Ciò è ancora più valido se le richieste funzionali del soggetto nel quotidiano si limitano a una vita sedentaria: in questo caso l’ipercifosi ben si adatta alle richieste funzionali giornaliere. Al contrario, se si richiedono sollevamenti di carichi sopra la testa (richieste funzionali più elevate), la presenza dell’ipercifosi (come verrà mostrato) potrebbe limitare la mobilità della spalla e come conseguenza forzare l’articolazione e creare compensi per esempio alla zona lombare (compenso in estensione per sopperire alla mancanza di mobilità toracica). Ciò, assieme a fattori come il dosaggio non progressivo del carico sui tessuti, potrebbe contribuire a un possibile dolore alla spalla o alla bassa schiena (figura i-17). Si può benissimo essere in presenza di una ipercifosi e, grazie a un buon livello di tness e uno stile di vita sano, non avere mai problemi particolari. Allo stesso modo, in caso di dolore alla schiena associato a ipercifosi, si deve trovare un compromesso di buon senso grazie al qua- le l’ipercifosi non sia l’unica struttura a ricevere attenzioni, ma nemmeno venga dimenticata e non considerata come componente strutturale che può ridurre la capacità di adattamento in contesti specici. Ecco cosa si intende per minor grado di adattamento funzionale e per fattore contribuente al dolore. Ed ecco perché la postura e l’allineamento non possono essere in assoluto dimenticati giusticandosi con la mancanza di evidenze scientiche a supporto (Wilkes, 2017). In conclusione, è fondamentale porre l’accento su alcuni concetti da incastonare bene nella mente per la pratica lavorativa di tutti i giorni. 1. Alla luce di quanto appena visto, partire con l’analisi di un problema da una valutazione posturale risulta una pratica ad oggi ne a se stessa e poco utile, ed eventuali riscontri non potranno essere assolutamente assunti come fattori causa/e€etto di un’eventuale proble- matica (Ingraham, 2018; Slater, 2019). Analogamente, quindi, è possibile asserire che an- che l’analisi posturale come strumento di valutazione non ha alcuna utilità nel prevenire il dolore, e il suo utilizzo dovrà essere ridimensionato (Slater, 2019). figura i-17 L’ipercifosi non può essere considerata causa diretta del dolore ma può diminuire il grado di adattamento funzionale di un soggetto impegnato in un esercizio di spinta sopra la testa. A sinistra, ipercifosi toracica. Al centro e a destra compenso in estensione lombare e forzatura della spalla con ¡essione di mobilità ridotta. 968 | Capitolo 1 – Sezione IV I vari titoli di “coach nutrizionale”, “educatore alimentare” e via dicendo, sono “non titoli” e non abilitano in alcun modo alla prescrizione di diete. Dišerenze tra dietista, biologo e medico Il dietista è un soggetto che ha conseguito una laurea triennale in Dietistica, che abilita alla pro- fessione: può prescrivere diete in autonomia, ma sotto prescrizione e ricetta del medico curante. Il biologo è un soggetto che ha conseguito una laurea quinquennale (o 3+2) e ha superato l’Esame di Stato per iscriversi all’Ordine dei Biologi (in questo caso, Sezione A – Biologo Senior, mentre il laureato triennale in Biologia può essere Biologo Junior) ed essere abilitato alla profes- sione. Il biologo può seguire le persone dal punto di vista nutrizionale in maniera completamen- te autonoma. La di€erenza con il medico è che, appunto, il biologo non deve qualicarsi come medico e, quindi, non può e€ettuare diagnosi mediche e non può prescrivere farmaci poiché commetterebbe abuso di professione medica. Una puntualizzazione Tutti i biologi, e tutti i medici, a prescindere dal loro background culturale e accademico, posso- no prescrivere diete e mettere bocca su questioni nutrizionali. Questo signica che non è neces- sario, per il biologo, aver conseguito una laurea magistrale (biennio) in Scienze della Nutrizione Umana (LM-61), o aver praticato una scuola di specializzazione in nutrizione. Potrebbero occu- parsi di nutrizione, pertanto, anche i biologi marini, i biologi di laboratorio e così via. Allo stesso modo, il laureato in medicina, nel momento in cui diventa medico, può prescrivere diete. Non importa se non abbia dato mezzo esame in nutrizione, e non importa se abbia svolto una specializzazione, né quale tipo di specializzazione, perché un ginecologo può prescrivere diete esattamente come un gastroenterologo, un cardiologo o un neurologo. Il dietologo, invece, è di norma il medico specializzato in nutrizione, e si di€erenzia dal biologo nutrizionista perché può ovviamente prescrivere farmaci o e€ettuare diagnosi (in quanto medico). In tutto questo, “nutrizione clinica” e “nutrizione sportiva”, in Italia, non sono titoli reali e non prevedono gure specializzate di€erenti. Questo signica che ci possono essere dietisti, biologi, medici, più preparati e meno preparati, quando si parla di nutrizione per sportivi o per persone che vanno in palestra per migliorare la composizione corporea. 1.2 Che percorso intraprendere per diventare “esperti” in nutrizione sportiva Per poter elaborare diete bisogna seguire uno di questi 3 percorsi, inevitabilmente: • Laurea triennale in Dietistica > dietista (non completamente autonomo). • Laurea quinquennale nel ramo biologico + Esame di Stato e abilitazione > biologo (autono- mo dal punto di vista nutrizionale, ma non può prescrivere farmaci o e€ettuare diagnosi). • Laurea di 6 anni in Medicina e Chirurgia > medico (autonomo da tutti i punti di vista). Ora, nel decidere quale percorso intraprendere c’è pur sempre un bel po’ di soggettività, in funzione anche delle esigenze e delle intenzioni lavorative future. Il percorso più breve è sicura- mente quello per diventare dietista (triennale). Probabilmente questa laurea, seppur più breve, è anche quella in cui si studia di più, e in maniera più mirata, la nutrizione. Tuttavia, il focus sarà sull’ambito clinico (in ospedale, in collaborazione col medico) e non, generalmente, sull’ambi- to sportivo. Il percorso per diventare biologo necessita di 5 anni + Esame di Stato. Il problema è che il bio- logo può prescrivere diete, ma può fare anche tantissime altre cose. A di€erenza del percorso per diventare dietista, se non si sceglie la magistrale in Scienze della Nutrizione Umana si rischia di studiare realmente nutrizione in 1 o 2 esami. Permette sicuramente un background scientico Sezione IV – Capitolo 1 | 969 elevato, e quindi una base solida dal punto di vista biologico e siologico, per diventare esperti, più avanti, in nutrizione. Il percorso per diventare medico necessita di 6 anni. Anche qui, il medico può prescrivere diete o dare consigli nutrizionali (che è ciò che nel pratico generalmente fanno, nel loro lavoro in privato) ma, poiché possono e devono fare tantissime altre cose, rischiano di non studiare mai nutrizione, e quando lo fanno, si limitano alle basi oppure a speciche prescrizioni dietetiche in riferimento a patologie che vanno gestite o curate anche (o principalmente) con la nutrizione (vedi obesità, diabete e via dicendo). Ovviamente anche il percorso per diventare medico permette un background scientico elevato, e una base solida dal punto di vista biologico e siologico, per diventare esperti, più avanti, in nutrizione. Il consiglio che viene dato dagli autori di questo testo è di indirizzarsi verso il percorso per diventare biologi, perché può essere il più ¡essibile e permettere di orientarsi meglio su specici ambiti. C’è una condizione, però: la laurea magistrale deve essere in Scienze della Nutrizione Umana. Altrimenti si rischia di studiare più di 5 anni, conoscere tante cose, ma non sapere nul- la di nutrizione. In genere ci sono magistrali in Nutrizione (che poi fanno accedere all’Esame di Stato per Biologo) che accettano (a volte con qualche esame di integrazione) anche laureati in Scienze Motorie. La laurea triennale in Scienze Motorie e poi la magistrale in Scienze della Nutrizione Umana potrebbe essere un ibrido che ben si sposa con l’intenzione futura di un individuo che vuole lavorare come PT o preparatore atletico, e occuparsi, secondo legge, anche di nutrizione. Allo stesso modo, può essere un percorso interessante per un biologo che voglia lavorare come “nutrizionista sportivo”. 1.3 Cosa possono fare i PT in ambito nutrizionale? Finora abbiamo detto che il PT, in quanto tale, non può prescrivere diete né dare consigli nu- trizionali. Ma allora perché prevedere una parte di nutrizione in un corso per PT? Cosa possono fare i PT? I PT possono (e devono) avere una competenza generale, e magari anche specica – in base al tipo di percorso e background scientico del professionista – in materia di alimentazione umana. Questo perché, fondamentalmente, il PT, sebbene non abilitato a elaborare diete o a fare dia- gnosi, così come a leggere le analisi ematiche, deve avere la capacità di riconoscere un’eventuale situazione patologica, di comprendere ciò che viene detto o scritto dal medico e di comprendere ciò che viene detto o scritto da un nutrizionista. “Sapere di cosa si sta parlando”, anche in materia di nutrizione, permette al PT di potersi con- frontare e di poter collaborare con un nutrizionista; permette, almeno in parte, di poter valutare un professionista e quindi scegliere coscientemente con quale professionista collaborare, e per- mette di comprendere quali sono i “pro” e i “contro” di un tipo di strategia alimentare che sta seguendo il suo cliente. Il suo compito non è, in quel caso, giudicare o modicare – secondo le proprie conoscenze – la dieta elaborata dai professionisti abilitati a farlo, ma elaborare un programma di allenamento che possa essere compatibile con le necessità della persona e anche con la dieta che sta seguendo. Il ruolo del PT come “educatore alimentare” La maggior parte delle persone “sane” non sono seguite da un nutrizionista, e spesso sono poco seguite anche dal medico, soprattutto dal punto di vista nutrizionale. Spesso capita, quindi, una situazione in cui il PT diventa la gura di riferimento per la persona che va in palestra. Senza chiaramente spacciarsi per biologo o per medico, un PT bravo può comunque essere una risorsa importante, anzi la più importante, perché si trova come “primo baluardo” a indirizzare la persona a professionisti specializzati per il suo eventuale problema, e a educarla dal punto di vista nutri- zionale in base alle linee guida per la popolazione generale. Per fare ciò, è chiaro che il PT debba avere ben presente il background culturale (o almeno ac- cademico) dei professionisti che consiglia, e avere ben chiare le linee guida nutrizionali: in cosa consistono, e qual è il loro razionale. Ecco perché un corso di nutrizione in una certicazione per PT. Un PT può infatti indirizzare la persona a abitudini di vita e alimentari più consone, utili per 970 | Capitolo 1 – Sezione IV la salute e anche per i miglioramenti estetici o di performance sportiva, e può (anzi, dovrebbe) collaborare con il nutrizionista o il medico. 1.4 E allora perché un corso di nutrizione per PT? Il principio è che nel Ventunesimo secolo l’approccio alla persona deve essere olistico, che non signica che una singola persona debba essere “tuttologa”, ma che per il miglior risultato, da qua- lunque punto di vista, è importante che ci sia una collaborazione tra più gure. Ognuna di queste gure, però, per poter collaborare, deve almeno avere delle basi (o essere specializzata) anche in rami giuridicamente non di sua competenza. Altrimenti come fa a consigliare uno specialista? Come fa a collaborare con uno specialista? Come fa a confrontarsi con uno specialista? Al contrario, un biologo che si occupa di nutrizione, sia clinica sia sportiva, deve quindi con- frontarsi spesso sia col medico sia con il PT: non è sua competenza la metodologia dell’allena- mento o la preparazione atletica teorico-pratica, ma è necessario che la conosca, perché altrimenti non sarà in grado di collaborare con il PT o il preparatore atletico, né di applicare strategie nutri- zionali che siano di supporto (o che esaltino, e sicuramente non ostacolino) speciche prepara- zioni siche. Allo stesso modo, non è competenza del biologo nutrizionista la prescrizione di farmaci o la diagnosi. Tuttavia, chi si occupa di nutrizione in ambito gastroenterologico, in particolare per sindromi intestinali e disturbi funzionali (Sindrome dell’Intestino Irritabile in primis), e di nu- trizione nelle malattie metaboliche, deve saper valutare le analisi ematiche, comprendere il senso di una glicemia alta o bassa, sapere come si fa diagnosi di diabete e appunto della Sindrome dell’Intestino Irritabile, e via dicendo. Un PT che collabora con un nutrizionista, un sioterapista o un medico deve conoscere le basi della nutrizione, deve conoscere le basi di sioterapia, non so- stituirsi al medico per la diagnosi ma saper riconoscere la persona che ha eventualmente bisogno di essere indirizzata a uno specialista. Sezione IV – Capitolo 2 | 975 I nutrienti presenti nel cibo da cui possiamo ottenere calorie sono i carboidrati, le bre ali- mentari (che tecnicamente sono anch’esse carboidrati), i grassi, le proteine e l’alcol. I carboidrati apportano all’incirca 4 kcal per grammo, le bre alimentari circa 2 kcal per grammo, i grassi circa 9 kcal per grammo, le proteine circa 4 kcal per grammo e l’alcol circa 7 kcal per grammo, figura 2-3. “Circa” perché in realtà ci possono essere piccole di€erenze in base al tipo di carboi- drato o grasso che assumiamo. Carboidrati 4 kcal/g Proteine 4 kcal/g Grassi 9 kcal/g Acqua 0 kcal/g Alcool 7 kcal/g Fibre alimentari 2 kcal/g 2.3 L’energia in uscita: il dispendio energetico Il dispendio energetico giornaliero totale di un individuo (TDEE, Total Daily Energy Expenditure) indica anche il nostro fabbisogno calorico per mantenere il peso (nessun aumento di massa corpo- rea, nessuna diminuzione). Dunque, il TDEE è composto da più componenti distinte, figura 2-4. La componente più grande, il dispendio energetico a riposo (REE, Resting Energy Expenditure), si riferisce al tasso metabolico basale (BMR, Basal Metabolic Rate) più l’e€etto termico del cibo (TEF, Thermic EŽect of Food). L’altro componente, noto come dispendio energetico non a riposo (NREE, Non-Resting Energy Expenditure), può essere ulteriormente suddiviso in termogenesi dell’attività sica (EAT, Exercise Activity Thermogenesis) e termogenesi dell’attività non da esercizio sico (NEAT, Non-Exercise Activity Thermogenesis), figura 2-4. Per comprendere cosa sia e€ettivamente il NEAT, possiamo dire che questo comprende tutto il dispendio dall’attività sica fatta durante il giorno nel tempo libero e per lavorare, e il dispendio energetico spontaneo, ovvero quello necessario per mantenere una certa postura, per il movimen- to inconscio durante il sonno e via dicendo. TDEE Total Daily Energy Expenditure Dispendio energetico a risposo Resting EE F uo ri d al c o nt ro llo v o lo nt ar io Dispendio energetico non a risposo NonResting EE Volontario Esercizio e sport M et ab o lis m o b as al e B M R - B as al M et ab o lic R at e Spontaneo Atteggiamento, postureSPA NEAT TEA TEF Eetto termico del cibo Sonno Stato di veglia Lavoro e tempo libero figura 2-3 Apporto calorico dei macronutrienti, dell’alcol e dell’acqua. figura 2-4 Componenti del dispendio energetico totale giornaliero (TDEE). 976 | Capitolo 2 – Sezione IV Il dispendio energetico a riposo (Resting EE o REE) Il dispendio energetico a riposo comprende il BMR e il TEF. Il metabolismo basale (BMR) Quando parliamo di metabolismo basale a riposo o di tasso metabolico generalmente ci rife- riamo all’energia necessaria alle nostre cellule, ai nostri tessuti, ai nostri organi, per esercitare quelle funzioni indispensabili per permetterci di sopravvivere in condizioni di riposo, a digiuno, in condizioni di termo-neutralità. In figura 2-5 sono descritti i fattori che concorrono a in¡uen- zare il tasso metabolico basale. Età Con l’invecchiamento diminuisce il BMR 01 03 02 04 Sesso Le donne hanno un BMR inferiore agli uomini Massa corporea La massa magra è il migliore predittore di BMR (muscoli 15 kcal/kg, grasso 5 kcal/kg) Ormoni Leptina e insulina Attività Tiroidea Estrogeni e progesterone Catecolamine Metabolismo Basale Varianza genetica per circa il 15% Con il passare degli anni il tasso metabolico tendenzialmente va a ridursi e ciò è probabilmente dovuto in gran parte a modicazioni siologiche della composizione corporea: un anziano tende ad avere meno massa magra, che è quella metabolicamente più attiva. Tuttavia, oltre a questo, probabilmente conta anche una certa riduzione dell’azione di molti ormoni. Sicuramente poi c’è di€erenza di genere. Le femmine hanno un BMR tendenzialmente mino- re dei maschi, anche a parità di peso. Ciò, ancora una volta, è giusticabile almeno in parte dal fatto che le donne, anche a parità di peso ed età, hanno meno massa magra e più massa grassa delle loro controparti maschili. Tuttavia, anche in questo caso possono fare una piccola di€erenza alcuni ormoni, come quelli sessuali. Inoltre, in base alle varie fasi del ciclo, nella donna può di- minuire o aumentare in maniera rilevante il metabolismo basale (che è quindi, come potete ben intuire, un’entità dinamica e non statica). Poi ci sono gli ormoni, che possono avere un ruolo nell’aumentare o diminuire il tasso metabo- lico. L’attività tiroidea ridotta tende ad abbassare il tasso metabolico, e al contrario vi è un aumen- to del metabolismo in condizioni di ipertiroidismo. Le catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e gli ormoni dello stress, come il cortisolo, possono avere un impatto sul tasso metabolico. La stessa insulina, e così la leptina, possono regolare il tasso metabolico: un loro aumento tende ad alzare il metabolismo, una loro diminuzione ad abbassarlo. In ultimo, ma non per importanza, c’è il peso corporeo. In poche semplici parole: un corpo più pesante tende a consumare più calorie. Ancora più preciso sarebbe considerare specicamente la massa magra. In e€etti, la comunità scientica è concorde nel considerare la massa magra come il maggior predittore del metabolismo basale; per massa magra però non intendiamo solo i muscoli, ma tutti gli organi, tutti i tessuti, meno il grasso che è invece compreso nella massa grassa, ovviamente. Inne faccio notare un importante aspetto, generalmente trascurato ma che è invece molto in- teressante: vi è una varianza di circa il 15% nel BMR che gli studiosi giusticano con l’individuali- tà biochimica e la genetica di base. Quindi, per intenderci, supponendo di stimare con la formula più dettagliata e precisa possibile (che prenda in considerazione il peso, l’altezza, la massa magra, la massa muscolare, l’età, il sesso) un valore di 1.500 kcal per il metabolismo basale, potrei trovar- mi comunque in una situazione in cui vi è una sovrastima o una sottostima del tasso metabolico. figura 2-5 Fattori che in¡uenzano il metabolismo basale. Sezione IV – Capitolo 2 | 977 Correlazione tra massa magra e BMR Si dice sempre che il muscolo sia il tessuto che più concorre al metabolismo basale. Questa è un’a€ermazione un po’ insidiosa. Perché può essere vera, se consideriamo il fatto che il tessuto muscolare è il tessuto più grande del nostro corpo. Pensate a quanti kg di muscoli avete e a quan- to, invece, possono pesare il cervello, i reni o il fegato, presi singolarmente. Ma se parliamo di di- spendio energetico per kg di tessuto, il muscolo non è così interessante dal punto di vista pratico. Infatti, si stima che 1 kg di muscolo consumi circa 13-15 kcal. Una di€erenza comunque im- portante rispetto al grasso, che ad ogni modo ha anch’esso un certo consumo, ma di solo circa 4-6 kcal per kg, tabella 2-1. Ora, sentiamo spesso dire che incrementare la massa muscolare aumenta il nostro metabolismo in maniera rilevante, ma è una bugia. Basta considerare i numeri. Organo o tessuto Tasso metabolico kcal/kg/giorno Grasso 4,5 Muscolo 13 Fegato 200 Cervello 240 Cuore 400 Reni 400 Altro (ossa, pelle, intestino, ghiandole) 12 Dunque, tra un soggetto muscoloso e un soggetto meno muscoloso quanti kg di muscoli pos- sono esserci di di€erenza? C’è una di€erenza di composizione corporea spaventosa, ma il meta- bolismo basale di quanto varia? Vediamolo insieme: un soggetto di 70 kg con il 20% di massa grassa ha 14 kg di grasso e un metabolismo basale di circa 1.500 kcal/die. Un soggetto di 70 kg con il 10% di massa grassa, e quindi molto più muscoloso, ha solo 7 kg di grasso, quindi 35 kcal/die in meno dal grasso, e 7 kg di muscolo in più, quindi 105 kcal in più dal muscolo. In totale, tra un soggetto con lo stesso peso corporeo con il 20% o il 10% di massa grassa, la di€erenza sul metabolismo basale è di circa 70 kcal (105 - 35). Ora, 70 kcal corrispondono a una mela piccola (anzi, meno). Ci sono altri motivi per cui aumentare la massa muscolare migliora la salute metabolica e ci permette di gestire quantità e calorie più elevate, come una migliore sensibilità all’insulina e un miglior partizionamento dei nutrienti e delle calorie nel muscolo piuttosto che in altri organi, o l’aumento di attività sica che un corpo muscoloso può sostenere rispetto a un corpo mingherlino. La termogenesi indotta dalla dieta (TID) o ešetto termico del cibo (TEF) Il TEF comprende l’energia spesa nel processo di ingestione, assorbimento, metabolizzazione e conservazione dei nutrienti ottenuti dal cibo. Circa il 10% del TDEE è attribuito al TEF, con valori che variano in base alla composizione in macronutrienti della dieta figura 2-6.  Il TEF corrisponde all’energia necessaria per la metabolizzazione e l’utilizzo dei nutrienti contenuti nei cibi. Perché dico “metabolizzazione” e “utilizzo”? Proteine 20-25% Carboidrati 5-15% Grassi 1-5% tabella 2-1 Spesa energetica (kcal/kg/giorno) di diversi tessuti / organi. figura 2-6 E€etto termico del cibo riferito a grassi, carboidrati e proteine. 980 | Capitolo 2 – Sezione IV Non siamo costretti a contare le calorie perché abbiamo a disposizione diversi metodi che po- trebbero permettere di instaurare un decit calorico senza aver contato le calorie alimento dopo ali- mento, pasto dopo pasto. Quindi, le “calorie contano”, anche se, a volte, “non si contano”, tabella 2-3. Come funziano alcune diete per la perdita di peso Nome della dieta Breve descrizione Motivi per cui funziona A bassi carboidrati Mangia pochissimi carboidrati e più cibi ricchi di proteine e grassi Creando un decit calorico A bassi carboidrati Non mangiare carboidrati, mangia proteine e principalmente grassi Creando un decit calorico Paleo Mangia solo cibi «paleolitici» minimamente lavorati Creando un decit calorico A bassi grassi Evita cibi ad alto contenuto di grassi e mangia principalmente proteine e carboidrati Creando un decit calorico Digiuno intermittente Limita i tui pasti a solo poche ore al giorno Creando un decit calorico Weight watchers Sistema di alimentazione a punti per mantenere il controllo delle porzioni Creando un decit calorico Dieta a bassissime calorie Mangia quello che vuoi ma limitati a 800 kcal al giorno Creando un decit calorico Juice diet Consuma solo succhi di frutta e verdura e astieniti dal nutrirti con cibo solido Creando un decit calorico Raw foot diet Mangia solo cibi crudi Creando un decit calorico Perché la tua dieta ha o non ha funzionato Nome della dieta Perché ha funzionato Perché non ha funzionato Chetogenica Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Low carb Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Paleo Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Low fat Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Digiuno intermittente Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Weight watchers Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Dieta a bassissime calorie Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Juice diet Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Raw foot diet Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Lacrime degli unicorni Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico Senza glutine Ha creato un decit calorico Non ha creato un decit calorico tabella 2-2 Principali diete commerciali o studiate in letteratura scientica che utilizzano meccanismi diversi tra loro per giungere, però, sempre allo stesso risultato: creazione del decit calorico. tabella 2-3 Perché una dieta funziona e perché non funziona. Sezione IV – Capitolo 2 | 981 Le diete a basso contenuto di carboidrati e le diete chetogeniche Le diete a basso contenuto di carboidrati rappresentano un’ampia categoria di diete caratterizzate dalla grande riduzione o quasi totale eliminazione di tutte le fonti di carboidrati, che sono anche ge- neralmente rappresentate da cibi molto calorici (cereali, bevande zuccherate e via dicendo), lascian- do la possibilità di consumare verdure e piccole quantità di frutta, ovvero i cibi con poche calorie. La riduzione dei carboidrati e l’esclusione dei cibi detti prima, insieme a un aumento dell’ap- porto di proteine da fonti proteiche magre (come petto di pollo, petto di tacchino, albumi, inte- gratori di proteine, pesce magro), permette di aumentare il potenziale saziante e quindi di non eccedere con il consumo di cibo (e calorie). Molto spesso alcune varianti di queste diete non si basano sul conteggio delle kcal, ma non perché le calorie non contino; semplicemente perché, con il meccanismo dell’aumento di sazietà e dell’esclusione dei cibi ricchi di carboidrati, la persona tenderà automaticamente a ridurre l’apporto calorico e quindi a instaurare il decit energetico. Le diete dissociate Le diete dissociate utilizzano il meccanismo della “noia” e della complessità nell’abbinare gli alimenti per spingere la persona a mangiare di meno, e quindi a instaurare il decit calorico. Anche se chi le promuove asserisce che il merito sia dell’artistico abbinamento tra merluzzo e pa- tate, la realtà è che funzionerà solo se permetterà di instaurare il decit energetico. E non è un caso che con questa regola degli abbinamenti non sarà possibile mangiare le lasagne! La dieta Paleo La dieta del paleolitico utilizza come strategia l’eliminazione di una moltitudine di alimenti che generalmente sono inclusi, in grandi quantità, nelle nostre tavole. Eliminando cereali, latticini e formaggi, patate, legumi e altro ancora si riesce abbastanza facilmente a instaurare il decit energetico. Guarda caso, questi sono tutti cibi ricchi di calorie o in genere utilizzati, in abbina- mento ad altri alimenti, nella costruzione di pasti ipercalorici, oppure cucinati spesso in maniera non ottimale (vedi le patate “trasformate” in patatine fritte o utilizzate per fare crocchè). Il digiuno intermittente Il digiuno intermittente comprende una serie di strategie diverse che si focalizzano sull’alter- nare giorni di digiuno o semi-digiuno a giorni “di abbondanza” oppure sul ridurre in poche ore la nestra di alimentazione giornaliera (ad esempio 16 ore di digiuno e 8 ore in cui si può mangiare, oppure 20 ore di digiuno e 4 ore in cui si può mangiare). Inutile dire che nel momento in cui, su 7 giorni, per 3 o 4 giorni facciamo un digiuno o un semi-di- giuno, riusciamo generalmente a creare il decit energetico. Allo stesso modo, quanto più è ristretta la nestra di alimentazione giornaliera tanto maggiore è il rischio di instaurare il decit energetico, perché si riduce il numero di pasti giornalieri e perché si evitano, di fatto, fuori pasto e spuntini vari. La dieta Zona La dieta Zona utilizza il metodo dei blocchi, composti a loro volta da blocchetti, che devono avere una quantità limitata di proteine che vanno rapportate a quantità speciche e non manipo- labili di carboidrati e grassi. Tutto questo trambusto è utile semplicemente a creare diete con un apporto calorico inevitabilmente medio-basso, aumentando le possibilità che la persona instauri il decit energetico anche senza contare esplicitamente le calorie. La dieta gluten free La dieta gluten free non fa dimagrire perché eliminando il glutine stiamo neutralizzando un Sezione IV – Capitolo 2 | 991 Dunque, anche se non è sempre così, i soggetti che presentano un’incapacità di perdere peso nonostante una storia di restrizione calorica possono rappresentare un sottogruppo di persone (molto ampio) che riporta in maniera errata ed estremamente imprecisa l’assunzione di cibo e il livello di attività sica, e che può anche avere anomalie comportamentali o psicologiche che lo distingue da altri gruppi di individui. Questo, oltre all’esperienza professionale sul campo, è frutto della conoscenza scientica. Nel lontano 1992 fu pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine uno studio condotto su 224 soggetti, in cui i ricercatori avevano provato a vedere se c’era discrepanza tra l’as- sunzione calorica reale e quella auto-riportata (ad esempio con diario alimentare) e tra dispendio energetico totale reale (valutato con strumentazione e test gold standard) e TDEE stimato attra- verso le varie formule matematiche semplicate figura 2-9. I risultati di questo studio sono stati interessanti: come è possibile osservare, è stata rilevata una di€erenza di anche 1.000 kcal tra l’assunzione calorica reale (calcolata con attenzione dai ricercatori) e quella riportata dagli individui; a ra€orzare il concetto che le persone tendono a sot- tovalutare quanto mangiano. Celebre la frase: “io mangio poco ma non dimagrisco”. Ora, è chiaro che se una persona, sulla carta, dice di assumere 1.600 kcal, e poi realmente ne assume ben 2.500, questa persona non dimagrirà mai. È importante conoscere questa “tendenza” (anche le applicazioni contacalorie tanto di moda oggi presentano un margine di errore, e spesso sono usate male dalle persone), perché ci permette di avere una consapevolezza diversa di quello che può accadere e che può rovinare i piani vostri e del vostro cliente. Dunque, il basso dispendio energetico è stato escluso come meccanismo di resistenza alla dieta auto-riferito, perché nessun soggetto aveva un dispendio energetico totale o un tasso metabolico a riposo inferiore di oltre il 10-15% rispetto ai valori previsti. Invece, la di€erenza sostanziale tra l’assunzione e€ettiva e l’assunzione riportata (in media, > 1.000 kcal al giorno) implica una grave sottostima come base per la mancata perdita di peso. Per cercare di ridurre questo errore è impor- tante sapere come fare e come leggere un diario alimentare, ed essere consapevoli dei suoi limiti. 2.8 Come valutare l’assunzione alimentare (calorica) Nella pratica, la valutazione dietetica implica la raccolta di informazioni sulle assunzioni ali- mentari e quindi consiste nell’interpretare l’assunzione di cibo o nutrienti (e calorie). La raccolta dei dati sull’assunzione alimentare e l’applicazione appropriata di qualsiasi misura di riferimento della popolazione non è un processo semplice (come può sembrare a un osservatore inesperto), ma che richiede cura, precisione e un alto grado di abilità e conoscenza in tutte le fasi. I limiti dei metodi di raccolta e interpretazione dati sull’assunzione alimentare non sono sem- pre pienamente considerati, e rappresentano anche un argomento spesso poco descritto e discus- so nella pratica. Non abbiamo la presunzione di riuscire a determinare quale metodo di misura- zione dell’introito alimentare sia il più adatto o eŸcace, ma riteniamo importante focalizzarci su alcuni dei principali problemi e limiti che bisognerebbe considerare nell’utilizzare alcuni strumenti di raccolta dati. Esistono sostanzialmente 3 strumenti per la valutazione dell’assunzione alimentare: 1. Il diario alimentare. 2. Il recall delle 24 ore. 3. I questionari sulla frequenza alimentare (FFQ). Recall delle 24 ore Nel recall delle 24 ore, alla persona viene chiesto di ricordare e descrivere le quantità di cibo e bevande consumate nelle 24 ore precedenti (cioè “ieri”) e le domande possono includere in- formazioni sugli orari di pasti e spuntini, sull’ambiente e sulla preparazione dei cibi. Laddove l’assunzione alimentare abituale è irregolare o incoerente, il che non è raro, un recall di 24 ore è utile e costituisce la base per perseguire una più ampia e dettagliata valutazione dell’assunzione dietetica utilizzando questionari sulla frequenza alimentare. 994 | Capitolo 2 – Sezione IV Il diario alimentare I diari alimentari sono gli strumenti principalmente più utilizzati. Sebbene non esista uno strumento veramente accurato per valutare l’assunzione alimentare corrente, se non in ambien- te controllato, un diario alimentare è considerato il metodo più accurato e fattibile. Un diario alimentare comprendente anche le grammature è il gold standard rispetto al quale altri o nuovi metodi di valutazione dell’assunzione alimentare vengono confrontati o convalidati. I diari alimentari, tuttavia, non sono rappresentativi della dieta abituale a meno che non venga- no ripetuti più volte, di solito a 2 o 3 mesi di distanza, utilizzando giorni casuali non consecutivi (compreso il ne settimana) e condotti in diverse stagioni dell’anno. Ora, poiché non possiamo permetterci di far fare il diario alimentare per 3 giorni a un cliente per poi farglielo ripetere dopo 2 mesi e solo successivamente iniziare a lavorare con lui, appare chiaro che dobbiamo prendere in considerazione l’idea che, sebbene possa essere utile, il diario alimentare può fornire dati im- precisi, e quindi è da “prendere con le pinze”. I diari alimentari (self reports) riguardano la pesatura di tutti gli alimenti e le bevande consumate. Se non sono presenti le grammature, si stima la dose utilizzando misure standardizzate (una tazza, un cucchiaio, e via dicendo). Il numero di giorni di raccolta dei dati in¡uisce sulla precisione delle risposte. Periodi più lunghi di 3-4 giorni dei diari alimentari riducono la coerenza e l’accuratezza dei dati raccolti, e hanno un alto tasso di abbandono. Ecco perché diventa controproducente far compilare il diario alimentare per 1-2 settimane alla persona media: questa, dopo il primo o secondo giorno in cui ci mette la sua buona volontà, inizia a riportare la sua assunzione alimentare in maniera imprecisa. I principali svantaggi dei diari alimentari come strumento di ricerca sono che richiedono molto tempo e richiedono che chi lo compili sia abbastanza istruito (dal punto di vista alimentare) e co- operativo. In linea generale, nella pratica (sia clinica sia sportiva), sfortunatamente, l’inesattezza degli intervistati nella descrizione delle porzioni di cibo è elevata e si stima possa variare tra il 20% e il 50% al di sotto del peso reale; quindi una sottovalutazione delle quantità consumate è un problema intrinseco del diario alimentare. Sulla base di studi di validità delle assunzioni energetiche nella popolazione generale, la sot- tostima è generalmente più alta negli adolescenti, nelle donne e nei soggetti in sovrappeso o a€etti da obesità di entrambi i sessi, se coscienti del loro (elevato) peso. Anche negli atleti d’élite preoccupati del peso, o in coloro che hanno bisogno di mantenere la massa muscolare e il peso corporeo per il loro sport, è probabile che la distorsione dell’assunzione di energia sia elevata. Tuttavia, i vantaggi dell’utilizzo di metodi come un diario alimentare sono principalmente volti a: • Aumentare la consapevolezza delle abitudini alimentari. • Fornire un punto di riferimento per valutare la dieta e la consulenza nel follow-up. • Fornire uno strumento di autocontrollo. • Evitare i problemi di “bias di memoria”, del tipo “non ricordo, avrò mangiato 3-4 biscotti tra il pranzo e la cena” (che magari invece erano 2 confezioni intere di Oreo). Consigli pratici nel compilare il diario alimentare Un buon consiglio è quello di compilare 2-3 giornate tipo (diciamo “ideali”) e un giorno tipico di sgarro, magari inserendo i cibi con le relative grammature subito prima di consumarli. Questo nell’ottica di non “rincorrere” il diario alimentare e per evitare di dimenticarsi (in modo più o meno consapevole), compilandolo a ne giornata, alcune assunzioni giornaliere. Un errore frequente è non capire che gli alimenti vadano pesati crudi e scegliere di conseguen- za i valori proposti dall’app contacalorie che si sta utilizzando: c’è chi li pesa cotti e seleziona poi i valori dell’alimento crudo, o viceversa. 2.9 Gli esami del sangue Tende a esserci una correlazione diretta tra salute, performance, composizione corporea ed esami del sangue: una persona normopeso, o una persona muscolosa e con poco grasso corporeo, è atleticamente più performante ed è in salute (certicata dalle analisi del sangue che rientrano nel check-up di base), figura 2-10 a sinistra. C’è una relazione anche tra dieta e salute, e tra alimentazione ed analisi del sangue. In partico- Sezione V – Introduzione | 1089 SEZIONE V INTRODUZIONE La ricomposizione corporea Il tema della ricomposizione corporea, o body recomposition o body recomp come si legge spes- so, è negli ultimi anni diventato centrale per tutti coloro che si a€acciano al mondo del tness. In letteratura con questo termine si intende il processo simultaneo attraverso cui si verica un cambiamento del rapporto massa magra/massa grassa nel corpo di un individuo. Che cosa signi- ca tutto ciò? Semplicemente, che in alcuni determinati soggetti con particolari caratteristiche (specie se obesi o neoti dei pesi) è possibile che in uno stesso momento, con l’ausilio di dieta e allenamento, i livelli di grasso scendano per lasciare il posto al muscolo. Quello stesso individuo al termine del processo si troverà con una composizione corporea completamente di€erente: sul suo corpo è stata fatta una ricomposizione corporea. Certamente, ci vuole molto impegno da parte del soggetto che si sottopone ad un percorso del genere ma è possibile asserire, ormai, che più un soggetto è obeso e più la trasformazione è visibile, quasi “miracolosa”, perché lo sbilanciamento verso una condizione assolutamente non salutare è enorme. Il PT si troverà quasi sempre ad agire in un contesto dove le richieste sono di dimagrimento localizzato ai anchi o sulla pancia, di “tonicazione” delle braccia, di avere il sico o le forme del tale modello o della tale modella. Di fatto, sono tutte richieste di ricomposizione corporea: meno grasso corporeo e più tessuto muscolare, quanto basta per avere uno “chassis” dotato di quelle forme socialmente ritenute “vincenti”, giusto o sbagliato che sia, su cui poi il tessuto sottocutaneo e adiposo potrà appoggiarsi dando l’e€etto voluto. In questo caso è richiesta un’attenzione maggiore a una serie di fasi, una prima in cui si dima- grisce e una seconda in cui l’obiettivo è costruire massa muscolare, descritte di seguito, e il tempo necessario sarà maggiore per ottenere l’e€etto nale: questo perché il soggetto destinatario del programma di ricomposizione è, nella stragrande maggioranza dei casi, semplicemente seden- tario e sovrappeso, magari prigioniero di un’educazione alimentare con comportamenti che lo hanno portato non solo a un corpo esteticamente non di suo gradimento quanto proprio a una condizione non salutare. Al termine del suo percorso, se il programma sarà stato seguito corret- tamente, il soggetto arriverà sempre ad avere più bassi livelli di grasso corporeo e un aumento del comparto muscolare. In questa sezione, dunque, verranno presentate e discusse le diverse strategie, i ragionamenti e il razionale dietro determinate scelte per comprendere gli elementi essenziali, che governano il mondo della ricomposizione corporea. Ancora una volta, dunque, gli argomenti saranno calorie, carboidrati, grassi e proteine e come modularli per arrivare al massimo della performance estetica. Devono pertanto essere ribaditi al- cuni concetti essenziali: come descritto all’inizio della sezione di nutrizione, per legge solo un nu- trizionista o una gura abilitata con un percorso di laurea riconosciuto in tal senso può proporre regimi alimentari. Questo deve essere assolutamente chiaro, ma il PT deve comunque conoscere certe strategie alimentari per poter dialogare e collaborare in tal senso con le gure preposte. Il PT si troverà senza dubbio a lavorare con persone “normali”, “sane” nei termini operativi di “non aventi le più comuni patologie riscontrabili nell’intervista conoscitiva”; amatori o atleti che arriveranno muniti di programma nutrizionale per un obiettivo specico, che sia una fase di ipercalorica o di ipocalorica. Leggerlo e interpretarlo correttamente permetterà al PT di elaborare al meglio la strategia allenante che meglio si adatta a quell’obiettivo. Ma non solo: potrà capitare di sedervi al tavolo con un nutrizionista con il quale dover progettare un percorso sensato per il vostro assistito. Ognuno dei due deve obbligatoriamente conoscere la materia dell’altro senza per questo per forza utilizzarla in autonomia, invadendo più o meno illegalmente il campo altrui. È per questo che “masticare” la materia alimentazione e conoscere le strategie che ne permet- 1090 | Introduzione – Sezione V tono la sua migliore applicazione è parte essenziale nel percorso di crescita ed evoluzione di un personal trainer. Il capitolo che seguirà è diviso in due sezioni principali: • La prima, nel capitolo II, riguarda la ricomposizione corporea denita “con i macro”, con le fasi di cut e bulk e che realizza il nutrizionista, il medico dietologo o il dietista perché come più volte detto si svolge attraverso la manipolazione di nutrienti e calorie. • La seconda, nel capitolo III, che riguarda la ricomposizione corporea denita “senza ma- cro” e che è a tutti gli e€etti una possibilità molto interessante per il PT: si è sempre indica- to cosa la legge impedisce, giustamente, al PT non abilitato, ma al contempo si è sempre parlato di quello che è permesso divulgare, ovvero le linee guida delle principali società scientiche che trattano di nutrizione, CREA e ISSN su tutte. Compito e dovere del PT in quanto professionista del miglioramento sico, che passa per il miglioramento della salute, è assicurare che le persone che segue, se lo desiderano, possano essere istruite adeguatamente circa le linee guida per una corretta alimentazione. Lo strumento proposto, perché svolge al meglio questa funzione, è descritto nella dieta PLG. Nessun calcolo, nessun conteggio, nessuna unità di misura, ma una serie di indicazioni strutturate che rendono pratiche e organizzate quelle che sono proprio le linee guida della sana e corretta alimentazione. Questo non solo non è vietato, ma anzi è caldamente consigliato per tutti quelli che non hanno l’appoggio di un nutrizionista ma che con il “fai da te” rischierebbero solo di fare peggio, ricaden- do nelle solite credenze e nei soliti miti alimentari, quali l’eliminazione in toto di vari alimenti se non intere classi di alimenti, come tipicamente accade per le fonti di carboidrati o di grassi. La dieta PLG è un modo di alimentarsi che abbraccia in pieno i principi dell’alimentazione sosteni- bile, variegata e senza estremismi, di fatto semplice da insegnare a tutti coloro che abbiano voglia di impegnarsi quel minimo necessario per cambiare stile di vita.
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