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Cortese - Psicologia delle organizzazioni - Riassunto, Sintesi del corso di Psicologia del Lavoro

Cortese - Psicologia delle organizzazioni - Riassunto

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 01/06/2020

lorenzo_novello
lorenzo_novello 🇮🇹

4.4

(9)

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Scarica Cortese - Psicologia delle organizzazioni - Riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia del Lavoro solo su Docsity! Volume “Psicologia delle organizzazioni” (Argentero, Cortese, Piccardo) 4. L’organizzazione come cultura Il termine “cultura organizzativa” esprime un insieme di idee nate tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, la forza innovativa e la passione per la ricerca hanno permesso un cambiamento nell’interpretazione e concezione delle organizzazioni. Intorno agli anni settanta, la metafora ordinatrice più diffusa con cui venivano lette le organizzazioni, coincideva con l’idea di “organismo” (paradigma razionalista), implicando un’interpretazione di queste come sistemi sociotecnici, intenzionalmente e razionalmente progettati per il raggiungimento di obiettivi, capaci di adattarsi ai mutamenti proveniente dall’esterno. Nei primi anni ottanta invece, il paradigma razionalista viene accostato all’approccio culturale, proponendo una visione delle organizzazioni nuova, cioè come un insieme di significati condivisi e socialmente costruiti all’interno dei quali, sistemi strutturati di simboli condizionano comportamenti, pensieri, emozioni, azioni e più in generale, la vita organizzativa. La frustrazione di numerosi studiosi di fronte al predominio di un paradigma neopositivista, che implicava l’utilizzo di metodi quantitativi tesi a misurare “fenomeni oggettivi”; la crisi delle aziende occidentali che si confrontavano con l’irrompere sui mercati internazionali della concorrenza giapponese e la tendenza socioculturale che ha portato a concepire il lavoro e il successo personale in termini di “qualità della vita”, con la valorizzazione delle componenti estetiche ed emotive della cultura del narcisismo, permise al nuovo approccio culturale di irrompere nella scena degli studi organizzativi (primo segno tangibile fu la pubblicazione di uno special issue di Administrative Scienze Quarterly, dedicato ai metodi qualitativi nella ricerca). A partire da quegli anni, la mole di studi, ricerche, pubblicazioni sulla cultura organizzativa si è arricchita costantemente. L’associazione tra cultura e gruppi di persone fa sì che questi ultimi vengano assimilati alle culture: i gruppi, diventano quindi culture. Tale concezione consente di mettere a fuoco la metafora culturale e di interpretare le organizzazioni come fossero culture. Successivamente è stato possibile acquisire, all’interno degli studi organizzativi, gran parte del bagaglio concettuale dell’antropologia (che tratta principalmente le culture per l’appunto). I primi contributi, relativi alla considerazione delle organizzazioni come culture, risalgono a Selzenick, quest’ultimo condusse una ricerca concettualizzando la duplice dimensione che appartiene a qualsiasi sistema cooperativo: organizzativa e istituzionale, dimensioni analizzabili in maniera separata, ma che fenomenologicamente si presentano intrecciate. La prima designa un insieme di attività coordinate, mentre la seconda, indica che l’organizzazione è anche una realtà naturale e adattiva, prodotta dalle esigenze e dei bisogni degli individui. In questa prospettiva, un’organizzazione assume un carattere distintivo e acquista un’identità propria, attraverso il consolidamento di esperienze collettive di successo; tale acquisizione è una modalità con cui le istituzioni forniscono gratificazione ai propri dipendenti e raggiungono l’integrazione. Il carattere di un’impresa possiede quattro caratteristiche principali: 1) E’ un prodotto storico, il frutto delle modalità di risposta agli agenti esterni che l’organizzazione ha incontrato durante la sua evoluzione 2) E’ un tutto integrato 3) E’ funzionale al soddisfacimento dei bisogni organizzativi 4) E’ dinamico, può generare nuovi conflitti, bisogni e problemi. Da Selzenick in poi, l’interesse per gli aspetti simbolici di un “realtà” organizzativa viene meno, per poi riemergere con enfasi qualche decennio dopo in una chiave nuova, quella di Linda Smircich. Linda propose tre modi di intendere la cultura:  Variabile indipendente esterna all’organizzazione: norme e valori sono costruiti dal contesto istituzionale e fatti propri dall’organizzazione attraverso processi di isomorfismo istituzionale, le regole istituzionalizzate esterne vengono incorporate come, per esempio, programmi per il raggiungimento di obiettivi, miglioramento qualità, manuali di sicurezza e test per la selezione del personale. Questo fa sì che le organizzazioni vengano ripagate con risorse economiche e legittimità sociale. Per “cerimonialismo istituzionale” intendiamo il conformarsi dell’organizzazione a miti istituzionalizzati diffusi e approvati, talvolta assumendo la sembianza di rito, in cambio dell’approvazione sociale e a discapito dell’efficienza e del coordinamento interno.  Variabile dipendente interna all’organizzazione: Cultura composta da storie, riti e miti che, se accuratamente manipolati, producono un circolo virtuoso di aumento della motivazione individuale e della volontà di cooperare, coesione sociale interna e fedeltà diffusa all’organizzazione, incremento dell’efficacia del sistema e della motivazione/coinvolgimento dei singoli.  Cultura intesa come metafora di base: Organizzazione è innanzitutto una cultura (a differenza dei precedenti che ne possiedono una), questa si esprime nel modo di interagire dei suoi membri, nel tessuto delle decisioni che sono prese e delle azioni intraprese. La cultura, in quanto metafora, è assimilabile ad una cornice di significati in grado di dare senso a ciò che accade. Le possibili letture della cultura organizzativa, si può richiamare quella di taglio psicoanalitico proposta da Schwartz, attraverso la quale spiega situazioni di crisi o fallimento organizzativo, attraverso processi collettivi di fissazione su posizioni narcisistiche. Spesso, in organizzazioni con cultura narcisistica, si riscontrano personaggi i quali, quando collocati in posizione di comando, perdono contatto con il mondo reale. L’antropologo Clifford Geertz, sostiene che l’uomo è un animale sospeso in una rete di significati, cioè in una cultura che egli stesso ha intessuto, costruito e inventato, il più delle volte inconsapevolmente. Dal punto di vista di Schein, la cultura organizzativa è quell’insieme di significati che racchiudono assunti, valori e credenze che un gruppo ha inventato e scoperto, imparando ad affrontare situazioni problematiche di adattamento all’ambiente esterno e di integrazione interna. Questi si manifestano nei comportamenti, linguaggi e artefatti materiali; l’interiorizzazione di tali significati, permette all’individuo e ai novizi di orientarsi all’interno dell’organizzazione, senza dover ogni volta inventare soluzioni per risolvere problemi quotidiani che costellano lo stare in quest’ultima. La cultura organizzativa rappresenta una sorta di ancoraggio, a partire dal quale è possibile prefigurare l’azione e un orientamento nel territorio organizzativo, ha quindi la funzione di generare modelli cognitivi (per categorizzare e interpretare ciò che avviene all’interno dell’organizzazione), emotivi e affetti (modulano impegno ed energia che i singoli sono disposti a spendere nell’azione). Infine, la cultura tende a esplicitare la distinzione fondamentale per ogni individuo, aiutando a definire chi è dentro o fuori. Gli autori dell’approccio culturale sono attenti soprattutto alle dinamiche comunitarie, viceversa, i teorici della comunità di pratica, sottolineano maggiormente l’importanza delle attività “pratiche”, in primo luogo quelle lavorative (una cultura organizzativa contiene al suo interno più comunità di pratica). Alcuni studiosi come Van Maanen e Barley e Martin, ritengono che all’interno della medesima organizzazione possano convivere più culture, tali sottoculture sono formate da gruppi di lavoro e si posso trovare ovunque, queste si manifestano quando gli individui esercitano la medesima professione o appartengono allo stesso livello gerarchico. Sotto tale corrente di ricerca troviamo il lavoro della Martin: l’autrice ha identificato tre paradigmi interpretativi con i quali ha letto la medesima organizzazione. 1) Paradigma dell’integrazione: cultura come un insieme di valori comuni, coerenti e reciprocamente rinforzantisi che generano armonia, consenso e assenza di conflitti 2) Paradigma della differenziazione: mancanza di consenso, spesso da parte di sottoculture, che traggono origine dalla diversa distribuzione del potere e dagli interessi in gioco intrecciati ai processi organizzativi 3) Paradigma della frammentazione: tendenza a mettere in dubbio la stessa esistenza della cultura, concentrandosi su aspetti di ambiguità, incoerenza e disordine che caratterizzano la vita organizzativa. Martin inoltre, distingue tra:  corporate culture = cultura generale o dominante del vertice aziendale;  sottoculture di sostegno = culture a sostegno della corporate culture;  controculture = culture che si contrappone alla cultura dominante e traggono origine dalla diversa distribuzione del potere e degli interessi in gioco;  sottoculture ortogonali = culture che convivono con la cultura generale. L’approccio interattivo può essere considerato come una sintesi di quello strutturale e quello percettivo: gli individui interagiscono tra di loro, dando origine a percezioni condivise che diventano l’origine del clima. In questa corrente nascono due scuole di pensiero:  Fenomenologia (Edmund Husserl): Grazie all’intersoggettività è possibile costituire un collegamento tra prospettive, interpretazioni, valori e credenze. Alla base c’è la consapevolezza che gli altri hanno di esperienze simili alle proprie, costruendo il proprio self usando gli altri come modelli. All’interno dell’organizzazione c’è un flusso continuo di eventi e azioni, gli individui, cercando di interpretarli, creano una mappa cognitiva con la quale possono identificare quello che percepiscono, attribuendo significati. Quando due individui interagiscono, le mappe vengono confrontate e modificate; il clima è quindi determinato da percezioni comuni che si evolvono nel corso del tempo e di eventi.  Interazionismo simbolico (George Herbert Mead): La realtà è considerata come una costruzione in cui gli esseri umani sono attori che, attraverso simboli, acquisiscono gradualmente una propria identità e partecipano ad una realtà costruita socialmente. I climi evolvono con l’avvicendamento dei membri del gruppo, il significato nasce dall’interazione tra le persone (non risiede in nessuna cosa o nell’individuo). Gli stessi Poole e McPhee sostengono che il clima è rintracciabile nell’interazione tra individui, più che nelle percezioni individuali. Il clima permette di interpretare e comprendere specifici eventi organizzativi, funge da tramite e risultato delle pratiche quotidiane. Quello che la prospettiva interattiva non spiega è come l’ambiente influenzi tale interazione tra i membri. L’approccio culturale pone al centro dell’attenzione l’interazione tra i membri, donandogli un ruolo fondamentale che la cultura svolge nella formazione dei processi che producono il clima. I gruppi interpretano, costruiscono, negoziano la realtà, attraverso la creazione di una cultura organizzativa (un insieme di significati condivisi) esistente solo nell’interazione tra di essi. L’approccio comportamentista considera la cultura come un insieme di risposte che il gruppo ha appreso per garantire la propria sopravvivenza, l’approccio cognitivista invece, la considera formate da un insieme di soluzioni ai problemi che permettono di interagire con l’ambiente senza particolari sforzi. Schneider ha confrontato gli studi effettuati sul clima e sulla cultura ed è giunto alla conclusione che sono due concetti complessi, multidimensionali e strettamente in relazione tra di loro:  Si occupano del modo in cui i membri danno un senso al loro ambiente generando significati condivisi  Entrambi appresi attraverso la socializzazione e l’interazione  Entrambi sono tentativi di identificare l’ambiente  La cultura possiede un alto livello di astrazione, mentre il clima ne è la sua manifestazione. Il clima agisce a livello di atteggiamenti e valori e si esprime prevalentemente nei gesti e nelle espressioni quotidiane. La cultura invece, opera anche a livelli più astratti (ideologico e filosofico) e viene “percepita” nell’aria, un insieme di assunti non detti, ma presenti e impliciti nell’organizzazione. Nell’ultimo decennio si rafforza l’idea di “clima collettivo”, un’idea che propone l’aggregazione di percezioni soggettive in unità più complesse. Le variazioni di tale clima, posso verificarsi in tre dimensioni: grado di consenso nelle percezioni multidimensionali, consistenza dei fattori e grado di congruenza dei profili di clima collettivo. I climi collettivi sono percezioni di procedure e norme organizzative, diffuse attraverso le relazioni, in grado di influenzare il comportamento organizzativo. L’interesse della ricerca si è postato verso la ricerca di relazioni tra clima e altre variabili organizzative significative, una delle più indagate, è quella della soddisfazione lavorativa. George Field e Michael Abelson, a tale riguardo, sostengono che sebbene clima e soddisfazione presentino dei legami, non rappresentano il medesimo costrutto. Diversi autori hanno rilevato che il clima è una descrizione percepita dall’ambiente, mentre la soddisfazione rappresenta la risposta di valutazione affettiva delle persone in relazione ad aspetti del loro lavoro. Oggi non si parla di più di clima ma di climi, gli ultimi filoni di ricerca stanno indagando le interrelazioni tra clima e motivazione/creatività/sicurezza/ecc..; la definizione che D’Amato e Majer propongono, vede il clima come un costrutto multidimensionale, un fenomeno complesso al quale partecipa la pluralità di forze da un lato che si traduce in una pluralità di esiti dall’altro. Il clima organizzativo si concretizza nella descrizione delle pratiche e delle procedure organizzative. L’analisi del clima organizzativo rientra nell’ambito delle action strategies, queste devono risultare utili al cliente, ogni volta che vengono messe in pratica e risultare partecipatorie/condivise. L’action research è un processo di ricerca all’interno del quale si ha equivalenza tra soggetto e oggetto di indagine e l’obiettivo di pervenire a un cambiamento. La diagnosi del clima è un buon punto di innesco per il cambiamento, quando i vissuti vengono specificati, si pone la necessità di farsene carico e dare una risposta ai medesimi. Gli elementi chiavi dell’organizzazione, tramite tale processo, potranno essere chiariti, puntualizzati e verificati al fine di lasciare il minor spazio a riflessioni estemporanee che minano l’affidabilità di decisioni e cambiamenti importanti. Principio fondamentale dell’action research è la partecipazione democratica attraverso il miglioramento e coinvolgimento, l’analisi del clima in particolare, è un chiaro segno di volontà di prestare la dovuta attenzione a tutti i componenti dell’organizzazione. Sarà necessario, fin dall’inizio, coinvolgere e condividere con tutti gli “attori” il processo di ricerca-intervento, il consulente assumerà un ruolo delicato che dovrà proporsi come catalizzatore, favorendo l’emergere dei vissuti e delle variabili che li determinano. Inoltre, egli dovrà svolgere il ruolo di garante del rispetto delle regole (anonimato, trasparenza, ritorno dei risultati) ai fini della vita lavorativa, in conformità alle regole dell’organizzazione e del codice deontologico e professionale dello psicologo. Fasi dell’analisi del clima: 1) precondizioni: Chiedersi il perché, normalmente i vertici dell’organizzazione, sono spinti ad effettuare questo tipo di diagnosi, proprio in quel momento della vita organizzativa. Fondamentale definire obiettivi realistici, commisurati alla realtà organizzativa oggetto d’indagine, agli strumenti utilizzabili e alle risorse disponibili. I principali aspetti positivi necessari per un’indagine sono: - informazioni precise sulle realtà organizzativa (punti di forza e di debolezza) - stimolazione dei singoli a far chiarezza circa le loro percezioni - aiutare a razionalizzare i problemi - attivare aspettative e stimolare energie - preparare ad affrontare i cambiamenti - costruire un elemento di soddisfazione nei confronti dei dipendenti (considerati soggetti e non più oggetti) Principali possibili rischi: - scatenare tensioni sopite - creare resistenze da parte di chi non ha voluto la ricerca - creare frustrazione e sfiducia nei confronti dell’organizzazione 2) tempistica: Nella maggior parte dei casi, questo tipo di analisi, viene commissionata nelle fasi di stabilità e in assenza di preoccupazioni oppure quando l’azienda attraversa un periodo di crisi e di particolare tensione/difficoltà. Tale scelta verte principalmente sul management. 3) procedura: Occorre prestare attenzione a come si rendono operative le azioni, al numero di step e alla successione di questi. La parte più critica riguarda sicuramente la corretta implementazione e gestione del processo. 4) step operativi: 1. Individuazione del gruppo di lavoro: un gruppo essenzialmente misto che comprenderà sia ricercatori che professionisti, è fondamentale che rimanga costante per tutto il tempo necessario alla realizzazione complessiva del progetto e che tutti partecipino ad ogni incontro 2. Definizione degli obiettivi generali: negoziazione del contenuto dell’analisi del clima e condivisi gli obiettivi che il progetto si propone di raggiungere, di grande utilità, uno scritto riassuntivo contente i principali punti discussi e decisioni prese 3. Analisi preliminari del contesto organizzativo: la prima vera e propria analisi esplorativa della realtà, gli strumenti principalmente utilizzati sono l’osservazione delle prassi organizzative e i colloqui con le persone che in essa operano. Essenzialmente si tratta di “girare” per l’organizzazione e “visitarne” i diversi reparti, dialogare con chi opera nel modo più informale e destrutturato possibile. Si potrà inoltre avviare un programma di interviste individuali. 4. Definizione degli obiettivi specifici: il team dovrà definire gli obiettivi che potranno essere conseguiti e le fasi operative di lavoro 5. Scelta della popolazione: definire quali settori saranno direttamente coinvolti nel processo di raccolta delle informazioni, per aziende particolarmente grandi sarà talvolta funzionale analizzare per alcune fasce l’intera popolazione, mentre in altre, si potrà ricorrere ad un campione rappresentativo. 6. Messa a punto della metodologia e scelta degli strumenti di rilevazione: consiste nella puntualizzazione della ricerca e di scegliere l’approccio più funzionale in tale direzione, i due approcci sono quello quantitativo (questionari strutturati, raccolta informazioni, quantificazione precisa di percezioni e vissuti) e qualitativo (presa in carico di aspetti soggettivi che emergono spontaneamente durante l’incontro), quando risulta possibile, si utilizzano entrambi. Per quanto riguarda gli strumenti, la letteratura ne presenta due tipologie: tailor-made e ready-made (MDOQ_10), nel primo caso si fa riferimento a strumenti costruiti su misura per la realtà organizzativa specifica, con il vantaggio di avere uno strumento estremamente calzante; nel secondo caso, si fa riferimento a strumenti che forniscono informazioni utili e scientificamente garantite per capire la reale situazione climatica e consentono di effettuare paragoni con parametri nazionali. 7. Verifica delle funzionalità della procedura e delle tecniche: una simulazione molto precisa della procedura, effettuata su un campione estratto dall’organizzazione, che fornirà informazioni riguardo l’adeguatezza e l’applicabilità della procedura. L’obiettivo è far sì che l’intero procedimento, e gli strumenti in particolare, risultino il più possibile friendly. 8. Raccolta estensiva dei dati: popolazione prescelta sarà convocata secondo le modalità ritenute più opportune e i dipendenti parteciperanno attivamente, formando informazioni e interagendo con il gruppo di ricerca. 9. Elaborazioni statistiche: i dati di tipo quantitativo verranno sottoposti a elaborazioni statistiche atte a evidenziare la rilevanza delle variabili indipendenti e saranno effettuati dei confronti tra i risultati organizzativi con quelli nazionali e confrontati fra le componenti organizzative definite mediante le variabili indipendenti ritenute rilevanti. Dopo la verifica sarà possibile individuare i punti di forza e le aree di criticità nell’organizzazione. 10. Prima lettura dei risultati e stesura del report provvisorio: in seguito alla prima lettura dei risultati all’interno del team, si avanzano le prime ipotesi, successivamente verrà prodotto un report dettagliato. 11. Incontro con i responsabili/committenti: il feedback dei dati salienti dovrà essere condiviso con tutti i membri dell’organizzazione, seppur con modalità differenti. 12. Ritorno delle informazioni ai partecipanti: la restituzione dei risultati sul clima a tutti i partecipanti è particolarmente importante, conoscere la situazione globale all’interno dell’organizzazione, permette di comprendere la realtà nella quale si trovano. Una maggiore consapevolezza individuale permette un aumento di responsabilità e favorire una presa di coscienza collettiva 13. Stesura del report finale: tale documento conterrà tutte le informazioni quantitative/qualitative raccolte e quanto emerso dalle riunioni con i diversi gruppi aziendali nel momento del feedback. Verranno formulate ipotesi interpretative, proposte atte a promuovere il cambiamento auspicato e servirà per verificare quali e quanti cambiamenti sono stati raggiunti. 14. L’osservazione permanente: sarà necessario che i primi dati raccolti possano essere confrontati con quelli raccolti in momenti successivi, per consentire una visione organica e diacronica di fenomeni. Il lavoro di Paul Hersey e Ken Blanchard (1982) rappresenta la “consacrazione” del paradigma situazionale, proponendo la variabile della maturità dei collaboratori nell’affrontare il compito come determinante cruciale della situazione. Una volta valutata la maturità dei collaboratori, il leader può decidere lo stile più adeguato:  Prescrivere (follower con basso livello di maturità): fornire istruzioni estremamente dettagliate riguardo i modi e tempi, necessari per la realizzazione del compito  Vendere (follower di livello medio-basso): specificare istruzioni e al contempo li sostiene, spigando loro perché il lavoro dev’essere portato a termine. Fondamentale è la relazione.  Coinvolgere (follower di livello medio-alto): dedicare poco tempo a fornire indicazioni, concentrandosi solo sull’obiettivo e sull’incoraggiamento dei propri collaboratori.  Delegare (follower con alto livello di maturità): fornire informazioni da loro richieste, chiarire eventuali dubbi, ma limitando le istruzioni per lasciare che siano loro a prendere decisioni. Robert House (1971) è il principale autore del modello path-goal, questo tenta di individuare alcuni moderatori situazionali della relazione tra leadership orientata al compito e leadership orientata alla persona, cercando di capire come il comportamento del leader possa influenzare prestazione e soddisfazione dei follower. Si ipotizza che il leader possa fare ricorso allo stile maggiormente indicato per una specifica situazione, motivo per cui, viene considerato il responsabile della soddisfazione percepita e della motivazione generale. Il leader lavora con i follower per identificare e apprendere i comportamenti che condurranno al raggiungimento degli obiettivi e al riconoscimento organizzativo (azione cruciale). La complessità del modello e la sua specificità rendono ragione delle perplessità suscitate soprattutto nella popolazione manageriale, i punti forti sono sicuramente la propositività legata al saper indicare precise linee d’azione per i leader. La teoria nota come leader-member exchange, si concentra sulle determinanti della relazione diadica e sui suoi effetti in termini di raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Diversi studi hanno dimostrato che lo scambio tra leader e follower, ha un’influenza significativa sulla prestazione lavorativa, soddisfazione e comportamento; collaboratori con relazioni LMX di elevata qualità “ricompensano” i propri leader con comportamenti di partecipazione organizzativa che, a loro volta, incidono positivamente sulla qualità della vita organizzativa. In tale teoria, le caratteristiche situazionali giocano un ruolo fondamentale, inoltre mostra l’importanza della formazione, nel miglioramento della qualità della relazione tra leader / follower. Con la chiusura della leadership situazionale, si apre un nuovo modo di pensare e parlare di leadership, sotto una luce di incertezza. Il primo cambiamento avviene nell’etichetta scelta per qualificare la leadership: è il lavoro “seminale” di Burns (1978) che dà inizio all’utilizzo di leadership trasformazionale (o carismatica). I modelli precedentemente trattati, si concentrano sulla leadership transazionale (uso di sistemi di ricompensa nei confronti dei follower per mantenere motivazione), ovvero sulla transazione interpersonale tra leader e follower, nella nuova prospettiva, viene enfatizzato il comportamento del leader, comunicazione non verbale, messaggi ispirazionali, stimolazione e motivazione dei collaboratori ad un livello intellettuale ed emozionale: la fiducia è la merce di scambio di questa relazione. Una sintesi degli approcci trasformativi, carismatici e visionari della leadership, diviene sempre più centrale nella metà degli anni 80. Nasce così un unico approccio “neocarismatico”, caratterizzato da una sintesi di differenti teorie, maggior parte delle quali, concentrate sui comportamenti distintivi che possono essere oggetto di apprendimento e crescita. In questa prospettiva, la leadership si tende verso la trasformazione dei collaboratori, un leader trasformazionale è colui che riconosce i bisogni dei follower e sa trasformare i propri in nuovi leader. Sono sicuramente le quattro “I” di Bernard Bass a rappresentare il modello di leadership trasformazionale più noto:  La considerazione individuale: comunicazione personalizzata verso l’obiettivo di crescita  La stimolazione intellettuale: la via per dare energia, indipendentemente dai sistemi formali  La motivazione ispirazionale: azione di dotare il lavoro di un significato, dare senso al quotidiano  L’influenza idealizzante: l’attenzione alla fiducia, modello in cui i collaboratori possano identificarsi La leadership trasformazionale ha attualmente molta influenza nelle ricerche scientifiche e nei contesti organizzativi reali, è divenuto un punto di riferimento per momenti di assessment così come un obiettivo per i programmi di formazione. L’empowerment è divenuto un tema cruciale negli studi organizzativi (Daft), al punto che sempre più persone reclamano maggior potere nelle loro vite, maggior partecipazione e coinvolgimento. Quinn e Spreitzer (1997) evidenziano come l’empowerment è sia un obiettivo che una dimensione trasversale del ruolo del leader, da presidiare costantemente nella direzione di fornire maggior responsabilità ai propri collaboratori, attraverso la condivisione del potere, promozione della partecipazione e della creatività. In particolare, al leader viene chiesto di essere empowering attraverso alcuni comportamenti:  Fornire informazioni ai collaboratori riguardo la prestazione organizzativa  Permettere ai collaboratori di apprendere le conoscenze adeguate per contribuire  Dare il potere ai collaboratori di prendere decisioni significative  Aiutare i collaboratori a comprendere il significato del loro lavoro  Riconoscere il contributo dei collaboratori in funzione dei risultati organizzativi raggiunti Il ruolo principale del leader è dunque quello di accompagnare i collaboratori nel processo di apprendimento e approfondimento del proprio potere, la centralità dell’empowerment si accompagna alla specificità della team leadership. Conger (1990) descrive il lato oscuro dei comportamenti e delle azioni del leader, individuando soprattutto il senso di onnipotenza e l’eccesso di potere, con relative conseguenze sulle relazioni, visioni e comunicazione nell’organizzazione. Suddivide in tre categorie, i principali lati oscuri della figura del leader:  Visione: può riflettere i bisogni egoistici del leader, non essendo commisurata alle risorse e flessibile ai cambiamenti esterni  Comunicazione: i toni possono diventare eccessivi, si minimizza l’informazione negativa e si crea un’illusione di controllo  Relazione: gestione delle relazioni trascurata, rivalità tra gruppi di lavoro e dipendenza tra collaboratori. Eccessi della leadership: INCOMPETENZA TROPPA COMPETENZA AUTORITARISMO BONTÀ ECCESSIVA DISINTERESSE INTERESSE PRIVATO IL LEADER NON POSSIEDE CONOSCENZE PROFESSIONALI ADEGUATE E PERDE CREDIBILITÀ AGLI OCCHI DEL GRUPPO IL LEADER È TROPPO ESPERTO E NON RIESCE A FARSI COMPRENDERE, OPPURE SI ARRABBIA SE IL GRUPPO NON CAPISCE TUTTO E SUBITO IL LEADER SI PONE COME “COMANDANTE” E TENDE A MANIPOLARE IL GRUPPO A SUO PIACIMENTO, SENZA NEGOZIAZIONE IL LEADER È TIMOROSO DI ESPORRE I COMPONENTI DEL GRUPPO A FATICHE, DISAGI E FRUSTRAZIONI, LIMITANDO LE OCCASIONI DI CAMBIAMENTO E APPRENDIMENTO IL LEADER È CONVINTO CHE LA SUA FUNZIONE NON SIA IMPORTANTE PER CUI SI ALLONTANA PROGRESSIVAMENTE DAL GRUPPO IL LEADER CERCA DI UTILIZZARE IL GRUPPO PER OTTENERE VANTAGGI PERSONALI E NON RICONOSCE I MERITI DEI COMPONENTI Psicoanalisi nello studio della leadership Il nodo del potere è il centro dei contributi psicodinamici in tema di leadership, l’aspirazione al potere, sono ricondotti dagli autori alle prime esperienze infantili. La psicodinamica della vita organizzativa analizza come le imprese risentano di processi interni sia inconsci, sia consci in grado di influenzare molte decisioni organizzative e politiche aziendali. I dirigenti, come tutti noi, sono solo in parte razionali e sono mossi da sentimenti, aspirazioni e fantasie in grado di influenzare il loro modo quotidiano di condurre l’impresa di cui sono a capo. Lo studio clinicamente orientato del tema della leadership ha evidenziato le “zone d’ombra” della leadership, legate alla fiducia in sé esasperata che non considera limiti e vincoli e può condurre al fallimento. Spesso questo tema è associato alla tendenza narcisistica del leader (o dell’imprenditore) e alla ricerca di ottenere il consenso ad ogni costo, costruendo l’illusione della perfezione, dimenticando la dote dell’umiltà. Il narcisismo rende difficile, per un leader, l’abbandono della propria posizione di potere, la leadership si indentifica con l’esercizio del potere, la qualità del leader dipende dalla sua capacità di esercitarlo e dalla sua coscienza di potere (composizione di impotenza e onnipotenza ereditati dal nostro sviluppo). Il distacco dal potere è una fase molto difficile, anche il ritorno alla sfera privata, in seguito all’influenza esercitata per anni nei confronti dell’azienda, non è da sottovalutare. Questa difficoltà viene etichettata da Kets de Vries come depressione dell’amministratore delegato, nel caso della pensione invece, può manifestarsi il fenomeno della consapevolezza della perdita (Sonnenfeld – 1968). La difficoltà a staccarsi da una posizione di potere è leggibile come alternativa, al dover affrontare la realtà del proprio invecchiamento, il timore di “non essere più nessuno” può spingere ad aggrapparsi alla propria carica. Un altro motivo per cui questo cambiamento spaventa, è il timore per eventuali ritorsioni, da parte di collaboratori precedentemente danneggiati, non essendo più al potere, non sono tutelati da quel potere che li rendeva intoccabili. Infine, troviamo il timore che la propria eredità venga distrutta, il lasciarsi alle spalle tutto quello che si ha realizzato in passato, può provocare senso di perdita. E’ necessaria una maggior attenzione alle dinamiche del potere limitando il lavoro dell’ombra, la leadership dovrebbe dunque esprimere la capacità di gestire questa tossicità. Il cammino degli studi sulla leadership ha avuto una prima fase composta dalla leadership situazionale per poi passare a quella trasformazione, si tratta di un passaggio radicale da una visione di leadership strategico- manipolativa, quest’ultima terapia, più “matura”, che pensa all’azione del leader in termini di sviluppo, sostegno, apprendimento e crescita dei follower. Stress Uno dei principali rischi occupazionali per gli operatori dell’emergenza, occorre sottolineare che l’esposizione all’evento traumatico è necessario, ma non sufficiente per sviluppare una condizione di stress patologico, a questo deve aggiungersi un’interazione tra fonti di stress acuto e cronico. Gli studi di Andrykowski e Cordova (1998) mostrano che quando il soggetto ha precedentemente vissuto situazioni simili a quella attuale sembra essere maggiormente in grado di farvi fronte. Una prima strategia di coping, attraverso la quale è possibile tentare di ridurre gli effetti negativi prodotti dallo stress, è la ristrutturazione cognitiva dell’evento traumatico, oppure prendere consapevolezza di esercitare controllo sulla situazione. Traumatizzazione vicaria Gli effetti negativi di un trauma vissuto in prima persona (trauma primario) si riverberano sulla psiche del soggetto in modo durevole e possono condurre al PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress). A causa del contatto diretto con persone che stanno vivendo, o hanno vissuto, eventi traumatici, gli operatori sono costantemente a rischio di sviluppare una forma di malessere psicologico del tutto sovrapponibile, a quella provata dalle vittime dirette (come affermato dal DSM-IV, relativamente al disturbo post-traumatico da stress per traumatizzazione indiretta). L’interesse iniziale per lo studio di questa forma di sofferenza è stato suscitato da Figley (1982) che, osservando le reazioni dei familiari dei reduci della guerra del Vietnam, constatò come essi stessero vivendo indirettamente i traumi attraverso i racconti (compassion fatigue). I primi ad utilizzare l’espressione “traumatizzazione vicaria” furono McCann e Pearlman (1990) e Pearlman e Saakvitne (1995), descrivendola come un effetto diffuso derivante dal lavorare con sopravvissuti a eventi traumatici. I sintomi che caratterizzano il trauma vicario sono accomunabili al disturbo post-traumatico: - pensieri intrusivi relativi alle scene traumatiche; - atteggiamento evitante nei confronti di tutte le persone, oggetti, situazioni etc. che riattivano il trauma; - iperattivazione fisiologica continua che si esprime attraverso ansia, disturbi del sonno, disturbi di concentrazione; - diversa visione del mondo (es. più pericoloso e minaccioso) e di sé (es. diminuzione dell’autostima, della fiducia in sé, del senso di controllo e padronanza degli eventi, della sicurezza personale). Burnout Gli studi relativi a questa sindrome si sono sviluppati soprattutto negli ultimi trent’anni, inizialmente si erano focalizzate su coloro che svolgono helping professions, mentre più recentemente, è emersa la necessità di considerarla una condizione patologica estendibile a qualsiasi professione. Questa sindrome si manifesta con sintomi di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta percezione di efficacia personale; affinché questa sindrome si sviluppi, è necessaria sia l’esperienza di stressor acuti, sia la presenza di stressor cronici sul piano organizzativo. La componente principale della sindrome è l’esaurimento, consiste nella sensazione di sovra-affatticamente, derivante da un abuso di risorse fisiche ed emotive; il cinismo è la componente interpersonale del burnout, è necessaria per affrontare situazioni lavorative personalmente molto impegnative che producono un distacco dagli utenti / pazienti. Le tecniche più diffuse d’intervento, attuabili nella fase post-emergenza, al fine di contenere i potenziali danni e portare i soggetti a uno stato di “normalità”: Defusing Consiste in una discussione di gruppo, effettuata nelle prime ore successive all’evento critico, al fine di condividere l’esperienza vissuta, riducendo il senso di isolamento che i singoli possono percepire dopo il trauma. Si basa quindi sulla costituzione di gruppi omogenei di sei-otto persone che abbiano condiviso la medesima situazione truamatica. Come suggerito da Mitchell e Everly (1996), è consigliabile che la discussione, sia guidata da due conduttori, i quali si occupino di rispettare le tre fasi fondamentali del percorso: - Fase introduttiva: i conduttori si presentano e spiegano le finalità dell’incontro - Fase operativa: viene chiesto ai membri di descrivere l’accaduto, consentendo loro di esprimere emozioni - Fase informativa: spiegazione dei conduttori di alcune indicazioni per ridurre lo stress e il disagio I principali obiettivi di questa tecnica sono, far sì che i partecipanti comprendano in maniera completa e uniforme quant’è accaduto e chiariscano meglio le reazioni, emozioni e le esperienze vissute. Può essere considerato un intervento immediato, non richiedente professionalità elevate ma in grado di fornire un primo livello di aiuto; può rappresentare una versione ridotta del debriefing, nonché uno strumento per valutare la necessità o meno di quest’ultimo. Debriefing Nasce negli interventi psichiatrici che, durante la seconda guerra mondiale, erano rivolti ai militari; successivamente, negli anni 80, questa tecnica è stata studiata e sviluppata da Mitchell, riferita soprattutto al trattamento del personale operante in situazioni di emergenza (disturbo post-traumatico da stress e traumatizzazione vicaria). E’ un efficace strumento psicologico in grado di limitare le possibilità che le reazioni sviluppate in seguito all’evento traumatico, possano aggravarsi e cronicizzarsi, trasformandosi in sindromi più gravi. Per essere svolto, necessita di un debriefer esperto in psicologia e specificatamente formato per svolgere quest’attività. Ne esistono due principali tipologie: - Individuale: rivolto ad un’unica persona che ha vissuto singolarmente, direttamente o meno, un trauma psicologico. - Di gruppo: rivolto a un’equipe di professionisti che ha subito un trauma psicologico o vissuto una situazione professionale di particolare gravità (enericamente condotto da 2-3 debriefer). In una prima fase, i partecipanti vengono guidati in un processo di ricostruzione dell’evento collettivamente vissuto, in un secondo momento (emotivo), viene chiesto di descrivere le emozioni provate durante e dopo l’evento stesso; tale meccanismo facilita l’acquisizione di autoconsapevolezza sia ai fatti sia ai pensieri e alle emozioni. Tale procedura dev’essere svolta quando i soggetti hanno già potuto strutturare l’esperienza vissuta, pertanto, il momento migliore si colloca tra le 24 / 96 ore successiva all’evento; il gruppo dev’essere quanto più possibile omogeneo (persone che svolgono le stesse mansioni e, preferibilmente, facenti parte della stessa squadra); di numero non superiore a quindici. In Italia, tale pratica è poco sviluppata a causa della sua introduzione recente nelle organizzazioni di soccorso e della scarsità di professionisti adeguatamente formati.
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