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Cos'è la grammatica valenziale, De Santis, Sintesi del corso di Linguistica

Riassunto del libro integrato con slides in preparazione dell'esame

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 08/06/2019

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Scarica Cos'è la grammatica valenziale, De Santis e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! Che cos'è la grammatica valenziale? di De Santis Capitolo 1: Un po' di storia 1. Nascita di un modello Il modello valenziale nasce nell'ambito dello strutturalismo europeo, e più in particolare grazie a Lucien Tesnière, membro del Circolo linguistico di Praga. La nascita del modello può essere fissata con la data di pubblicazione di Eléments de syntaxe structurale (d'ora in poi ESS): un libro monumentale, uscito postumo nel 1959. L'autore aveva in realtà concepito il progetto all'inizio degli anni 30, e vi aveva lavorato per più di 20 anni, nell'ambizione di fondare una teoria generale della sintassi. Egli sfruttò anche la sua esperienza pedagogica: prima come insegnante di russo (interessato a descrivere il funzionamento delle strutture sintattiche), poi come formatore di future maestre, consapevole della necessità di rivedere l'insegnamento grammaticale tradizionale, e artefice di un programma organico e progressivo di studio della sintassi usato in via sperimentale nelle scuole elementari della regione. 2. La centralità della sintassi Tesnière fa della sintassi il livello privilegiato del suo studio, rivendicandone l'anteriorità rispetto alla morfologia: la frase, unità di analisi della sintassi, non è vista come il risultato della combinazione di parole isolate disposte in sequenza, ma come una struttura, cioè come un insieme organizzato, al cui interno le parole sono connesse grazie a rapporti di dipendenza reciproca. La differenza tra l'ordine lineare della frase e l'ordine strutturale di tipo gerarchico è - insieme al primato accordato alla frase rispetto alla parola - una delle intituzioni di Tesnière che sono all'origine delle teorie sintattiche moderne. Uno degli elementi di maggiore novità nella sua opera è l'idea della centralità del verbo nella costruzione della frase, espressa tramite la metafora della "valenza" (BOX 1). Il concetto di valenza del verbo sostituisce e precisa quello di "reggenza" della grammatica tradizionale, permettendo di stabilire quali complementi siano effettivamente retti dal verbo, ovvero necessari per saturare la sua valenza e formare una frase. Cosa già detta precedentemente ma che trova in lui per la prima volta una formulazione coerente. A Tesnière è attribuita anche la paternità della distinzione tra elementi obbligatori e facoltativi all'interno della frase. Tesniére, inoltre, abbandonerà l'analisi tradizionale della frase basata sull’opposizione tra soggetto e predicato, sulla scia dei logici di inizio secolo. Egli infine ricorre a innovativi schemi grafici in forma di albero rovesciato. BOX 1: Le metafore di Tesniére Le metafore sono molto usate per la loro capacità di guidare alla formulazione di ipotesi nuove e agevolarne la divulgazione. Nella teoria di Tesniére, troviamo molte metafore, alcune delle quali prese dal linguaggio scientifico: ■ Valenza: utilizzata per definire il particolare tipo di rapporto di dipendenza arrivato principalmente (ma non solo) da un verbo all'interno della frase. La valenza è descritta come la capacità di un verbo di entrare in combinazione con un certo numero e un certo tipo di elementi linguistici (tipicamente dei nomi), e di legarli a sé per formare una frase. Quindi egli parla del verbo come una «sorta di atomo dotato di uncini, che può esercitare la sua attrazione su un numero più o meno elevato di attanti», a seconda del numero di legami (valenza) di cui dispone per mantenerli alla sua dipendenza; Usa anche altre metafore, come quella del "dramma in miniatura" o il "nucleo", meno importanti. C'è però da ricordare: ■ Il dramma in miniatura: verbo è visto come il canovaccio di un'azione teatrale, e gli elementi che da esso dipendono sono visti come i partecipanti all'azione, chiamati però "attanti" (attori). Nel dramma che la frase porta in scena, agli attanti possono aggiungersi altri elementi, che Tesnière chiama "circostanti" perché sono incaricati di rappresentare le circostanze in cui l'azione si svolge (tempo, luogo, modo, causa ecc.); ■ Nucleo: per indicare l’unità sintattica elementare, ossatura strutturale della frase (costituita dal verbo e dagli attanti), descritta come cellula costitutiva che ne fa un organismo vivente; ■ Nodo: usata per descrivere un rapporto gerarchico tra i costituenti della frase (in cui troviamo un elemento reggente su cui si innestano uno o più elementi dipendenti o subordinati), e tradotta in schemi a forma di albero rovesciato. BOX 2: I precursori di Tesnière La nozione moderna di valenza risale a Tesniére ma l'idea di centralità del verbo è rintracciabile già in testi di grammatici antichi, sia orientali che occidentali. 3. La frase come processo Il modello di Tesniére vede la frase come una struttura in cui le parole sono collegate da rapporti di connessione. Senza questi rapporti, stabiliti dalla mente, non esisterebbe la frase. Quando dico Alfredo parla non intendo dire che "c'è un uomo che si chiama Alfredo" e che "qualcuno parla", ma stabilisco una connessione tra le due parole per descrivere una scena in cui il parlare è attribuito ad Alfredo. Allo stesso modo, in chimica, la combinazione di due elementi come il cloro e il sodio genera un composto (il sale da cucina) che è tutta un'altra sostanza. I rapporti di connessione sono gerarchici, si configurano cioè come legami di dipendenza tra un elemento reggente e uno subordinato. Nella frase Alfredo parla, il verbo (parla) regge il nome (Alfredo). Il verbo (di forma finita) è considerato il nodo centrale della frase, cioè l'elemento che occupa il posto più alto nella gerarchia, perché è capace di reggere e legare a sé dei nomi per dare forma al secondo ("la trasformazione") introduce una continuità tra sintassi della frase e sintassi del periodo e mette ordine all'interno del periodo, grazie alla distinzione tra tipi di frasi subordinate strutturalmente diverse: da un lato quelle necessarie, che saturano la valenza del verbo (chiamate "attanziali"), e dall'altro le frasi facoltative: le "aggettive" (relative), che specificano un nome, e le "circostanziali", che esplicitano le circostanze dell'evento. 4. Una fortuna tardiva Nonostante il suo carattere originale e innovativo, l'opera di Tesnière è rimasta a lungo ai margini della tradizione linguistica a differenza di un'altra opera destinata a esercitare un influsso pari: Syntactic Structures del linguista statunitense Chomsky. Benveniste, nel recensire l'opera postuma imputava a T. una certa ingenuità teorica, che lo avrebbe portato a basarsi prevalentemente sulla conoscenza personale delle lingue moderne e sul metodo introspettivo, senza confrontarsi con le discussioni teoriche coeve. Anche la mole del libro e il carattere spesso ostico del metalinguaggio dovettero scoraggiarne la lettura. L'opera, infatti, non andò oltre la seconda edizione rivista, e venne tradotta molto tardi in altre lingue (es. in inglese nel 2015). La teoria di Tesniére trovò applicazione soprattutto in Germania. Nel frattempo, l'idea della centralità del verbo era stata integrata al generativismo, sia nell'ambito della corrente semanticista, sia nella corrente formalista di Chomsky. 5. Gli sviluppi della teoria Alcuni studiosi che continuano la teoria di Tesnière hanno identificato dei punti critici della teoria: • Rilievo dato al soggetto: Tesnière lo considerava al pari di ogni altro attante, ma studi successivi gli hanno attribuito un'importanza maggiore sulla base di due motivi: la sua capacità di determinare l'accordo con il verbo e la sua posizione prominente nella struttura sintattica (visto che è obbligatorio con la maggior parte dei verbi e precede l'oggetto nella maggior parte delle lingue); • Il tipo e il numero limitato di elementi che sono fatti rientrare nella valenza del verbo: i valenzialisti tedeschi aggiungeranno l'"oggetto preposizionale", cioè il secondo attante di verbi privi di oggetto diretto ma comunque bivalenti, come rinunciare (a) o dipendere (da) o contare (su), caratterizzati da una reggenza preposizionale imposta dal verbo. Verranno poi aggiunti i cosiddetti "attanti avverbiali", come le espressioni di luogo che completano verbi di stato (ad esempio il secondo attante di abitare) o di movimento (secondo ed eventuale terzo attante di andare). Così le classi dei verbi bivalenti e trivalenti si arricchiranno, fino a comprendere verbi non transitivi. Inoltre, sarà discussa l'ipotesi dell'esistenza di verbi di spostamento tetravalenti (per Tesnière erano solo tre). Sempre nell'ambito della tradizione tedesca verrà introdotta la distinzione tra "attanti obbligatori" (che devono sempre essere sintatticamente realizzati, pena la non grammaticalità della frase) e "attanti facoltativi" (che possono essere sottintesi). La nozione di valenza verrà precisata con la distinzione tra "valenza logica" (la struttura che prevede un certo numero di attanti retti dal verbo), "valenza semantica" (la capacità del verbo di attribuire ruoli agli attanti) e "valenza morfosintattica" (il tipo di attanti diretti o indiretti richiesti dal verbo e la loro occorrenza facoltativa o obbligatoria). Sono anche stati introdotti i concetti di "macrovalenza" e "microvalenza": un esempio di quest'ultima è data dal soggetto, che in italiano può essere presente solo a livello morfologico (grazie alla desinenza verbale), mentre nelle lingue a soggetto obbligatorio deve essere sempre realizzato sintatticamente (almeno come pronome personale). In ambito francese, uno studio che si colloca nel solco della teoria di Tesnière e tenta di dare un nuovo fondamento al concetto di valenza distinguendo il piano sintattico da quello semantico è il volume di Lazard (1994) sulla struttura attanziale. Un altro limite della teoria di Tesnière, legato alla definizione dei ruoli degli attanti (per cui il soggetto sarebbe, come nella grammatica tradizionale, agente o paziente), verrà superato dalle teoria successive di ambito generativista, che integreranno il numero e il tipo di ruoli previsti dal processo verbale. Nell'ambito generativista ci si porrà il problema della compatibilità semantica tra verbo e attanti (d'ora in poi "argomenti") sulla base della selezione e restrizione di tratti semantici come animato\non animato, umano\non umano (per cui dormire, per esempio, richiede un soggetto animato). Vi saranno poi degli sviluppi del concetto di valenza che assimileranno l'idea tesnieriana del "dramma" al concetto di "frame": il verbo evocherebbe nella mente dell'emittente un certo scenario, o "cornice" concettuale (frame), costituito da precisi schemi di azioni o di eventi (scripts). Infine, vi è il modello costruzionista, che vede nella costruzione (cioè nella struttura argomentale precedente al verbo) l'elemento che motiverebbe il significato del verbo, a differenza del modello valenziale e della grammatica generativa in cui è il verbo a selezionare il tipo di argomenti e la forma della codifica. Vi sono alcune differenze terminologiche presenti negli studi italiani sulla valenza, che spesso rappresentano differenze più o meno grandi nell'interpretazione della struttura della frase: • Gli attanti in Tesnière sono chiamati "elementi nucleari" o "argomenti"; • Salvi e Vanelli (2004) mantengono il termine "attanti" per indicare i ruoli semantici e differenziarli dagli argomenti, intesi come loro realizzazione sintattica; • Sabatini evita il termine "complemento", che annulla ogni differenza di posizione e funzione dei diversi elementi che si aggiungono al verbo; Vi è anche una differenziazione interna tra gli argomenti diversi dal soggetto, se la categoria di "oggetto indiretto" è trasversale, quella di "oggetto indiretto" è intesa in senso più ampio. Sabatini considera tali tutti gli argomenti retti dal verbo tramite preposizione; altri parlano di ‘’oggetto indiretto’’ solo per indicare il terzo argomento di verbi trivalenti (es. dire e dare, introdotto dalla preposizione a, corrispondente al dativo latino). Prandi (2006) per esempio chiama oggetto preposizionale (come i valenzialisti tedeschi) il secondo argomento di verbi come rinunciare (a), dipendere (da) ecc. e lo distingue sia dai complementi di luogo con valore argomentale, introdotti da preposizioni variabili (es. abitare a Bologna|in centro|vicino alla stazione ecc.), sia da altri complementi del verbo come quello di argomento (es. parlare di qualcosa). Per indicare gli insiemi degli argomenti richiesti dal verbo e le loro caratteristiche sintattiche e semantiche si parla per lo più di "struttura argomentale" o di "quadro argomentale", ma anche di "schema di valenza". Il termine di "predicato" è ancora usato, ma è ridefinito per indicare l'insieme del verbo e degli argomenti diversi dal soggetto, e non più il singolo verbo predicativo. Anche la distinzione tra verbo transitivo\intransitivo è mantenuta, ma i concetti sono ridefiniti sulla base di proprietà sintattiche (come la presenza di un oggetto diretto e la passivabilità nel caso dei verbi transitivi) e precisati rispetto alle articolazioni interne (come la distinzione tra gli intransitivi con ausiliare essere, chiamati "inaccusativi", e quelli con ausiliare avere). Nella classificazione dei verbi, solo Sabatini ammette la categoria dei verbi tetravalenti (transitivi), altrove discussa. Per quelli che Tesnière chiamava "circostanti", vi è una terminologia varia: oggi vengono chiamati soprattutto "espansioni", altri li chiamano "aggiunti". Vi sono anche dei sottogruppi: per esempio Sabatini chiama "circostanti" i modificatori del nome e del verbo, che occupano un'area intermedia tra il nucleo e la periferia più esterna formata dalle espansioni della frase. In generale, gli autori non nascondono la problematicità di delimitare in molti casi i confini del nucleo, stabilendo una distinzione netta tra elementi nucleari e extranucleari. BOX 4: L'importanza di un modello Un modello è un'elaborazione astratta semplificata del suo soggetto, caratterizzata da un campo di applicabilità definito, che consapevolmente mette in luce alcuni aspetti della teoria e ne adombra altri. Un buon modello deve essere economico e potente, deve cioè permettere di spiegare il maggior numero di fenomeni con pochi simboli e formule, e di fare ipotesi e previsioni. Il modello valenziale in linguistica si fonda sul principio per cui la frase è il risultato delle relazioni che il verbo stabilisce con i suoi argomenti, ovvero con gli elementi necessari per completarne la costruzione e il significato, secondo la formula: F= V+arg. Si tratta di un modello sintattico che parte dalla frase semplice per arrivare, da un lato, alla considerazione delle singole parole per il contributo che danno alla costruzione della frase (in quanto parti del discorso: nomi, verbi, pronomi, aggettivi ecc.); dall'altro, alla frase complessa vista come risultato della trasformazione, a più livelli, della frase semplice. Box 8: Le parti della frase (del discorso) Nella grammatica tradizionale, le parole sono raggruppate in nove classi chiamate “parti del discorso” che si distinguono in parti invariabili, che non subiscono modifiche e parti variabili, che possono essere flesse, cioè accordarsi con altri elementi della frase. All’interno delle parti invariabili, la distinzione è di tipo sintattica, in base alla posizione e alla funzione all’interno della frase. Per le parti variabili si adottano criteri eterogenei: • Criteri morfologici, tipo di flessione (in base a categorie di modo, tempo, aspetto, persona, genere, numero, grado...) • Criteri sintattici, (es. l’articolo si mette prima del nome e ha funzione di determinante del nome con cui si accorda) • Criteri semantici, (es. il nome indica referenti, verbi indicano processi e azioni…) NB, non tutte le categorie grammaticali sono universali, cioè valide per tutte le lingue; alcune parole possono essere assegnate a più parti del discorso a seconda dei contesti (es. in italiano prima può essere sia nome, che aggettivo, ma anche avverbio) 2. La struttura della frase La frase si presenta come una sequenza di parole, ma l’ordine delle parole è importante per la correttezza grammaticale di una frase. L’ordine corretto viene dettato da regole specifiche che ne legittimano la formazione. In italiano l’articolo precede il nome e si accorda con esso per genere e numero. In questo caso articolo e nome formano un gruppo, l’analisi della struttura della frase è basata sul riconoscimento di gruppi detti sintagmi o gruppi sintattici (nel caso di un nome, è necessario che sia preceduto da un determinante perché entri a far parte della frase). Anche i gruppi di parole si combinano tra loro sulla base di regole che riguardano la forma e la posizione del gruppo in relazione alla funzione che è chiamato a ricoprire all’ interno della frase. Il significato della frase è di natura complessa non è dato dalla somma del significato delle parole disposte in sequenza, ma dal modo in cui i nomi sono connessi al verbo, dall’ordine in cui si dispongono e dalle funzioni che il verbo assegna a ciascuno di essi. È grazie al riconoscimento dei gruppi di parole che interpretiamo correttamente una frase. La capacità di raggruppare le parole in sintagmi per interpretare i messaggi fa parte della competenza linguistica spontanea ed è alla base della capacità di “lettura funzionale” di tipo espressivo: non si limita alla decifrazione dei segni, ma arriva alla comprensione del significato del testo a partire dalla decodifica immediata delle relazioni sintattiche. Box 9: Il gruppo del nome A differenza del nome proprio, il nome comune ha bisogno di essere determinato cioè accompagnato da un elemento che solitamente lo precede e precisa alcune proprietà utili per identificarne il referente: carattere noto/non noto; quantità, possessore, localizzazione nel contesto linguistico o extralinguistico. Gli elementi accomunati da questa funzione sono riuniti dai linguisti sotto l’etichetta di “determinanti del nome”. All’interno del gruppo del nome si trovano altri elementi utili per identificare il referente del nome, come gli aggettivi qualificativi che funzionano da modificatori del nome. Sia i determinanti che i modificatori si accordano col nome che rappresenta la ‘’testa del sintagma’’ Quando il gruppo del nome è preceduto da una preposizione si parla di ‘’sintagma preposizionale’’, corrisponde a quello che viene chiamato ‘complemento’ nell’analisi logica; i complementi vengono distinti sulla base del contenuto semantico, in quanto l’analisi logica privilegia il significato rispetto alla funzione. Box 10: Il pronome (ovvero la proforma) Il pronome è un elemento che funziona da sostituente di un elemento della frase, può sostituire un nome, un intero gruppo di parole, un sintagma nominale o preposizionale, o una frase intera. Nella sostituzione, il pronome mantiene genere e numero dell’elemento sostituito, ma non necessariamente la funzione sintattica. Hanno un funzionamento particolare i pronomi detti “clitici” che si appoggiano nella pronuncia alla forma verbale che accompagnano con possibilità di cumularsi (es. dirglielo). Possono funzionare come clitici anche i pronomi ci e ne, che sostituiscono un intero sintagma preposizionale (es. Ho incontrato tua figlia, ma non ci ho parlato – ci, ‘con lei’). Ci e ne hanno valore di pronome a meno che non sostituiscano un sintagma preposizionale con valore di complemento di luogo. Altre invece si sono cristallizzati dentro forme verbali facendo assumere significati differenti (es. volerne: provare risentimento). 3. Nomi e verbi I nomi sono le parole che hanno il rapporto più diretto con la nostra esperienza: indicano oggetti individuali o classi di oggetti ai quali abbiamo accesso grazie ai sensi o alla capacità di ragionamento; sono le parole più numerose all’ interno di una lingua e le prime ad essere acquisite. Hanno una morfologia più semplice rispetto al verbo: ogni nome ha un genere e si flette per numero. Per riconoscere con sicurezza un nome si guarda alla forma e alla sintassi, perché il significato soltanto non basta: i nomi che possono indicare azioni ed eventi. Anche il verbo può avere forme nominali (participio, infinito) che, se precedute da un articolo, possono diventare nomi. I verbi hanno una vocazione relazionale: si usano per mettere in relazione i nomi, coinvolgendoli in azioni ed eventi o attribuendo loro qualità. Il verbo ha una morfologia complessa, con paradigmi che possono comprendere più di cento forme diverse, distinte sulla base di sottocategorie come il modo (atteggiamento con del parlante rispetto all’azione/evento espressa dal verbo o dà informazioni sintattiche sul tipo di frase in cui il verbo è inserito), il tempo (momento in cui l’azione/evento si è verificato), la persona (alla quale il verbo va riferito), il numero e, per le forme con l’ausiliare essere, anche il genere. Per alcuni verbi d’azione la diatesi (direzione in cui si guarda l’azione: attiva o passiva), per alcune forme verbali è pertinente anche l’aspetto, ovvero il modo di considerare l’azione o l’evento espresso dal verbo. Proprio per la ricchezza di info che è in grado di dare, il verbo è l’elemento che non può mancare all’ interno di una frase grammaticalmente completa. Box 11: L’equivoco della frase minima La frase che contiene tutte e solo le informazioni richieste dal verbo è spesso chiamata nella pratica scolastica “frase minima”. Questa denominazione viene da Martinet (1984) che la associa alla divisione della frase in un predicato e un soggetto che lo “attualizza”; sono dette ‘’espansioni’’ tutti gli elementi che si aggiungono alla struttura senza modificare rapporti e funzioni. *Il predicato viene fatto coincidere con il verbo, a prescindere dal tipo di verbo Lo Duca afferma che non si può sostituire ‘complemento’ con ‘espansione’, in quanto non tutti i complementi sono espansioni; ad esempio nel caso dei verbi transitivi che necessitano un complemento oggetto per avere senso, questa definizione non va più bene, per questo Lo Duca parla di “frase nucleare”: frase minima di senso compiuto. 1. Riconoscere l’argomento soggettivo Se escludiamo alcuni verbi detti impersonali e che la grammatica valenziale classifica come zerovalenti, tutti verbi hanno un soggetto come primo argomento. Il soggetto occupa una posizione di rilievo all’interno della frase: è il nome che solitamente precede il verbo e che ne determina la forma tramite l’accordo. Un indizio sicuro per individuare l’argomento soggetto è dato dalla concordanza con il verbo, che si basa su persona, numero e genere. Con i verbi che prendono “avere” come ausiliare la posizione del nome può essere discriminante, consideriamo soggetto il nome che precede il verbo. es. Enrico ha abbracciato Caterina, Caterina ha abbracciato Enrico. Se confrontiamo l’italiano con il latino notiamo una differenza: in italiano soggetto e oggetto diretto hanno la stessa forma, in latino hanno forme diverse. Un’altra caratteristica che distingue l’italiano moderno rispetto ad altre lingue europee è data dal fatto che non è obbligatorio mettere un pronome soggetto davanti al verbo. La persona del verbo (indicata nella desinenza) permette di risalire al soggetto anche quando non è espresso. L’unico caso in cui la grammatica italiana ci obbliga esplicitare il soggetto è nelle forme del presente congiuntivo per differenziare la prima e la seconda persona singolare dalla terza o la prima e la seconda tra di loro. Si può definire il soggetto come il primo argomento del verbo, che di solito lo precede e che determina l’accordo con il verbo. 2. Definire l’argomento oggetto Il complemento oggetto è il secondo argomento di verbi bivalenti o transitivi che prendono l’ausiliare “avere” e possono essere volti al passivo. Sono detti transitivi perché indicherebbero un’azione che passa direttamente a una persona o cosa diversa dal soggetto. Il complemento oggetto è dunque la cosa o la persona su cui si esercita l’azione espressa da un verbo transitivo. Sia il complemento oggetto sia il complemento di termine, possono essere considerati due argomenti oggetto del verbo. Quello che cambia è il tipo di legame (con o senza preposizione) e quindi la forma dell’argomento (espressione nominale o espressione preposizionale). Il criterio nozionale si rivela generico e insoddisfacente per descrivere una funzione sintattica. Con la grammatica valenziale si parte dall’osservazione della struttura delle frasi, si individuano una serie di regolarità e si cerca di formulare una definizione che guardi alla forma e alle proprietà sintattiche degli elementi della frase. Definiremo perciò l’oggetto come l’argomento del verbo, che segue il verbo ed è retto dal verbo, il quale ne condiziona la forma. L’oggetto come il soggetto può assumere diversi ruoli semantici a seconda della reggenza del verbo: paziente, agente, esperiente, luogo etc. 3. Oggetto diretto e oggetto indiretto L’oggetto retto dal verbo senza preposizione è l’oggetto diretto. Troviamo questo elemento con verbi che prendono come ausiliare “avere” e che richiedono un secondo argomento oltre al soggetto. In generale possiamo definire l’oggetto diretto come il secondo argomento del verbo, che ha la stessa forma del soggetto ma se ne differenzia per la posizione e per più forti legami di dipendenza dal verbo. L’oggetto indiretto propriamente detto è quell’argomento retto dal verbo tramite una preposizione (solitamente a) che si aggiunge all’oggetto diretto e funziona come terzo argomento di verbi come dire e dare. Si possono considerare oggetti indiretti i secondi argomenti di verbi come piacere, appartenere , obbedire. Molti verbi reggono i complementi indiretti, ad esempio alcuni verbi di stato di movimento; la preposizione del complemento indiretto non è stabilita dal verbo ma scelta sulla base del contenuto dell’espressione. Le differenze fra i diversi tipi di oggetti indiretti vengono messi in luce dalla prova di sostituzione. Queste espressioni (che coincidono con i complementi di luogo) possono entrare a far parte della frase in quanto elementi periferici per indicare le circostanze in cui avviene il fatto; le espressioni di tempo introdotte da preposizioni in alcuni casi possono entrare nel nucleo (es. ricorrere). O comportarsi che regge un’espressione di modo > in entrambi i casi sono elementi di natura avverbiale. Box 13: La prova di sostituzione Le differenze tra diversi tipi di oggetti indiretti emergono quando proviamo a sostituire l’intera espressione con un pronome. L’oggetto indiretto retto dai verbi dire e dare o come piacere, appartenere, obbedire può essere ripreso dal pronome atono: es. A Caterina piace la pasta > Le piace la pasta. I verbi che reggono un secondo argomento retto da una preposizione diversa da a, fanno precedere la forma tonica del pronome dalla preposizione: es. Conto su di lei, Dipendo da lei… Gli argomenti indiretti retti da verbi di stato e movimento possono essere ripresi solo dalle particelle ci e ne: es. Ci abito, Ne esco… 4. La forma degli argomenti Il soggetto e l’oggetto diretto hanno forma nominale: possono essere cioè rappresentati da un nome proprio da un nome comune inserito in un’espressione o sintagma nominale. Sia il nome sia il sintagma nominale possono essere sostituiti da un pronome. Nel caso dei pronomi personali, l’italiano distingue le forme del soggetto e le forme dell’oggetto: le forme me e te sono pronomi oggetto di forma tonica, usati per dare rilievo al pronome e collocati nella posizione tipica dell’oggetto (dopo il verbo). È più usata la forma atona mi e ti anteposta al verbo (es. Tu mi abbracci) o posposto e saldato al verbo (es. Abbracciami). Le forme atone mi e ti possono essere usate anche in funzione di oggetto indiretto (es. Io ti obbedisco); nelle forme toniche invece è preceduto a preposizione (es. Io obbedisco a te). Sia il soggetto sia l’oggetto possono essere costituiti anche da un’intera frase: si tratta delle frasi soggettive e oggettive, dette completive perché funzionano da complementi del verbo, cioè da argomento soggetto o oggetto. Le completive si differenziano dalle altre subordinate perché sono richieste dal verbo sulla base della sua valenza; possono avere forma implicita o forma implicita. Le implicite possono essere introdotte da una preposizione (di o a). Alcuni verbi come sembra o bisogna sono considerati impersonali, ma in realtà hanno un soggetto che è rappresentato da un’intera frase. Con alcuni verbi di dire , come chiedere o domandare, la frase oggettiva retta dal verbo è chiamata tradizionalmente interrogativa indiretta. Per alcuni verbi l’argomento può essere espresso anche da un avverbio: es. Abito qui Box 14: La nominalizzazione Una frase completiva può essere ridotta un nome. Il nome d’azione a differenza del verbo, però, non può reggere un oggetto diretto, ma solo un oggetto indiretto. Se il verbo di partenza è monovalente, usando il nome d’azione, sposterò l’agente che da soggetto del verbo diventa oggetto introdotto da di (es. Aspetto che Alice arrivi > Aspetto l’arrivo di Alice). Se il verbo è bivalente posso avere due possibilità. Le nominalizzazioni possono rappresentare un fattore di complessità all’interno di un testo. Saperle sciogliere è un requisito necessario alla comprensione, specie nei testi che fanno ampio uso di questo tipo di costruzioni, come quelli scientifici. 5. Il significato degli argomenti Gli argomenti che occupano le posizioni di soggetto o oggetto non possono essere definiti in relazione al loro significato, perché il ruolo semantico che un soggetto o un oggetto sarà chiamato a svolgere dipende dal tipo di verbo. Alcuni esempi in cui il verbo richiede un secondo nome (es. Enrico è\sembra un bambino) o un aggettivo (Enrico è\sembra\è diventato grande) riferito e accordato al soggetto e in grado di predicare su esso. Si nota che in assenza del nome o dell'aggettivo, la frase sarebbe incompleta. Inoltre, in queste costruzioni il nome (o l'aggettivo) predicativo possono reggere eventuali elementi che li completano (es. Enrico è un seguace della Juventus; Enrico è pronto alla gara). Alcuni verbi usati normalmente come predicativi possono costruirsi come i copulativi (richiedere cioè un argomento soggetto arricchito) in alcuni contesti: rimanere, restare, arrivare, tornare, riuscire, nascere, vivere ecc. es. Enrico è rimasto (predicativo) a casa (argomento del verbo); Ma Enrico è rimasto (copulativo) deluso (predicato) Enrico è arrivato (predicativo) a scuola (argomento del verbo), ma Enrico è arrivato stanco. Con alcuni di questi verbi è possibile cumulare l'argomento retto dal verbo e il nome predicativo riferito al soggetto. Il copulativo può essere quindi definito come un uso (prevalente o occasionale) dei verbi predicativi. Una serie di verbi predicativi come chiamare, stimare, eleggere, rendere, che possono essere costruiti con un oggetto diretto arricchito da un nome (o un aggettivo) che si riferisce all'oggetto e si accorda con esso (si tratta del "complemento predicativo" dell'oggetto della tradizione): es. Caterina ha reso felici i nonni. Volgendo questi verbi al passivo si torna alla costruzione con l'argomento soggetto arricchito: Enrico (soggetto) è stato eletto capitano (nome predicativo riferito al soggetto) della squadra. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un argomento (soggetto o oggetto diretto) arricchito, necessario alla completezza strutturale della frase. Box 17: La valenza di nomi e aggettivi I nomi che hanno una valenza sono nomi di processo, che possono occupare una posizione predicativa, retti da verbi copulativi o di supporto (es. Ho paura di essere interrogato), o una posizione argomentale, se l’espressione in cui entrano funziona come soggetto o oggetto del verbo (es. La paura degli esami non passa mai). Anche gli aggettivi che hanno una reggenza possono trovarsi in posizione predicativa (es. Enrico è simile a sua mamma), o come modificatore del nome (es. Ho adottato un cucciolo bisognoso di cure). La costruzione dell’aggettivo è simile a quella del verbo corrispondente. La valenza dell’aggettivo può estendersi anche all’avverbio di modo derivato: indipendente da > indipendentemente da. 3. Verbi di supporto Alcuni verbi predicativi hanno una funzione "di supporto": si tratta di verbi semanticamente leggeri (come avere, fare, dare, mettere, prendere), che quando si accompagnano a un nome di processo (che indica un'azione o un evento) si limitano a fornire al nome le determinazioni tipiche dei verbi (persona, numero, tempo, modo ecc.) formando espressioni chiamate "costruzioni a verbo supporto": fare la doccia, dare un bacio, mettere fretta, ecc. Queste espressioni hanno un significato unitario e alcune volte possono essere sostituite da un verbo unico che ha la stessa radice del nome (dare un bacio = baciare). La costruzione a verbo supporto può avere una reggenza diversa rispetto al verbo unico: baciare regge un oggetto diretto, dare un bacio regge un oggetto indiretto. In alcuni casi, poi, la costruzione a verbo supporto ammette la costruzione passiva (il nome si comporta come un oggetto indiretto) come in dare un bacio, in altri casi (mettere fretta) non si può volgere l'espressione al passivo. La costruzione a verbo supporto è uno strumento al servizio della nominalizzazione. Anche in questo caso, il nome può avere una valenza: Enrico farà un viaggio in Europa (In Europa è argomento del nome viaggio). Enrico ha la speranza di essere promosso (di essere promosso è una completiva oggettiva retta da speranza). Il verbo supporto appropriato è scelto dal nome: una decisione si prende, un ordine si dà. Tuttavia, in alcuni casi è possibile scegliere tra più supporti: la paura si mette ma si può anche fare, suscitare, incutere. I verbi di supporto possono entrare anche in costruzioni dette "verbi sintagmatici". BOX 18: Esistono phrasal verbs in italiano? Alcuni verbi predicativi possono entrare in combinazione con un avverbio, dando vita a un'espressione con un significato specifico e unitario (diverso da quello del verbo semplice, e in alcuni casi di tipo figurato): mettere giù ("posare"), mettere sotto ("investire") ecc. Questi sono chiamati "verbi sintagmatici" (in inglese: phrasal verbs) e trattati come lemmi autonomi nei dizionari più completi. In alcuni casi un verbo sintagmatico incorpora anche un clitico: darci dentro ("impegnarsi molto"), venirne fuori ("uscire da una situazione difficile") ecc. Formano unità verbali con un significato autonomo anche verbi col solo clitico: come piantarla ("smettere") rispetto a piantare, andarsene ("andare via") rispetto a andare. Questi verbi sono chiamati procomplementari (perché il clitico funziona da sostituto di un complemento). Stessa cosa succede per i verbi pronominali, ovvero ai verbi che si costruiscono sempre col pronome si (come ammalarsi, vergognarsi) o che prendono si nella diatesi riflessiva o media (Lavarsi rispetto a lavare). 4. Verbi predicativi: variazioni di diatesi Riguardo ai verbi predicativi che reggono un oggetto diretti (transitivi tradizionali), di regola, se un verbo d'azione regge un oggetto diretto, ammette la coniugazione passiva (ausiliare essere + participio passato del verbo). Questo tipo di coniugazione serve a esprimere una diatesi (cioè una direzione dell'azione) diversa rispetto a quella attiva: a parità di significato (cioè di ruoli semantici), l'azione non è osservata a partire dall'agente (l'iniziatore dell'azione), ma a partire dal paziente (che subisce l'azione). Questo comporta una ristrutturazione delle funzioni sintattiche: a. Caterina (soggetto, agente) ha rimproverato Enrico (oggetto diretto, paziente). b. Enrico (soggetto, paziente) è stato rimproverato da Caterina (arg. indiretto, agente) La valenza del verbo rimane uguale (due argomenti) ma cambia la forma del secondo argomento: il verbo in forma attiva regge un oggetto diretto, il verbo di forma passiva regge un argomento indiretto ("il complemento d'agente" tradizionale). Poi, la seconda valenza si indebolisce nella costruzione passiva (l'agente può essere sottinteso). Quindi questa costruzione passiva viene usata spesso quando non si conosce il responsabile dell'azione o se lo si può\vuole lasciare nell'ombra. A metà strada si colloca la costruzione riflessiva: qui l'azione è vista dalla prospettiva del partecipante che dà inizio all’azione, ma questo è lo stesso che subisce l'azione (come nella diatesi passiva); l'azione infatti ricade sull'agente o su una parte del suo corpo, oppure su un oggetto di sua pertinenza, o è compiuta con l'intero corpo. Nella costruzione riflessiva, il protagonista che occupa la posizione di soggetto cumula più ruoli insieme: agente e paziente, agente e possessore o agente e beneficiario dell'azione. La valenza del verbo non cambia per quanto riguarda il numero di partecipanti all'azione, ma gli argomenti sono coreferenti e la frase subisce una ristrutturazione in cui uno dei ruoli è riassorbito dal si. ■ Nelle costruzioni riflessive indirette il protagonista dell'azione è investito in modo parziale e indiretto dagli effetti dell'evento. Bisogna ricordare che, nelle forme composte, il participio passato può concordare sia col soggetto (Enrico si è lavato le mani) sia con l'oggetto diretto (Enrico si è lavate le mani). Un modo tipico del parlato informale per intensificare la partecipazione del protagonista all'azione è l'uso affettivo del "si" (pleonastico): es. Caterina si legge un libro. ■ Un altro tipo di costruzione, in cui la direzione dell'azione è a doppio senso, è il "si" riflessivo reciproco: due partecipanti (entrambi in posizione di soggetto) promuovono l'azione e insieme ne subiscono gli effetti in modo incrociato (Enrico e Caterina si picchiano). Vengono chiamati pronominali quei verbi che si costruiscono sempre e solo con il pronome "si" come arrabbiarsi, vergognarsi ecc. Il "si" in questo caso una perdita di agentività (cioè la mancanza di controllo sull'azione) da parte del soggetto, e non un partecipante. *Nei verbi come stancarsi che ammettono anche l'uso non pronominale (stancare qualcuno), l'uso pronominale è collegato alla riduzione di valenza (il si non può avere interpretazione riflessiva perché il soggetto non è agentivo). Alcuni verbi ammettono sia la costruzione pronominale sia quella non nominale senza differenze di significato: ho riposato\mi sono riposato. In altri casi l'alternanza tra forma con e senza "si" fa cambiare il significato: sedere indica uno stato, sedersi un cambiamento di stato. I verbi che ammettono la costruzione passiva accettano il "si passivante". ■ La costruzione causativa (verbi composti) agisce sulla diatesi sdoppiando il ruolo dell'agente in due ruoli comprimari (che richiedono due personaggi distinti): quello dell'iniziatore dell'azione e quello dell'esecutore. Sintatticamente, il verbo (all'infinito) viene fatto precedere dal verbo fare (o lasciare) e aumenta la sua valenza. In alcuni casi la funzione causativa è insita nel significato del verbo ("addormentare" significa "far addormentare qualcuno"). Es. Maria fa partire Andrea (Andrea è sia soggetto di partire, che oggetto di fare) I circostanti del nucleo funzionano come modificatori del nome o del verbo, e formano col nome o verbo un sintagma. I circostanti del nome possono essere aggettivi (bei libri, libri divertenti), espressioni nominali (mia figlia Caterina), o espressioni preposizionali (libri a fumetti, libri di favole). La loro funzione è quella di identificare o descrivere meglio i partecipanti alla scena descritta dalla frase. I circostanti del verbo specificano il modo in cui avviene l’azione o l’evento descritto dal verbo (leggere con attenzione). I circostanti sono uniti al nome o al verbo che modificano da una preposizione oppure da un forte legame di coesione semantica. La loro posizione è solitamente vincolata rispetto all’elemento che modificano. Le espansioni possono essere avverbi (oggi) o sintagmi preposizionali (a scuola, durante la ricreazione), che si affiancano liberamente al nucleo nel suo insieme e non hanno una collocazione fissa all’interno della frase: possono trovarsi ad inizio frase, fine frase o inserirsi tra gli elementi del nucleo (a scuola Caterina legge molti libri). La differenza tra circostanti ed espansioni emerge quando proviamo a trasformare l’espressione in una frase: i circostanti del nome diventano frasi relative, e seguono immediatamente il nome che modificano (Mattia legge libri di storia > Mattia legge libri che parlano di storia); le espansioni diventano frasi circostanziali che incorniciano il processo dall’esterno collocandosi in modo relativamente libero e aggiungendo informazioni specifiche alle quali corrispondono forme di espressione appropriate (Mattia legge libri a scuola > Mattia legge libri quando è a scuola). BOX 20: La prova di staccabilità Nella frase Caterina legge libri a suo fratello, potremmo essere in dubbio sullo statuto dell’espressione “a suo fratello”: è un argomento oppure no? Un criterio utile per sciogliere il dubbio può essere la prova di pronominalizzazione: dato che posso dire “Caterina gli legge libri”, l’espressione “a suo fratello” ha le stesse proprietà di un oggetto indiretto. Il verbo impone delle restrizioni a questo elemento, che deve per forza essere un umano. Un altro criterio per riuscire a separare argomenti e non argomenti è la prova di staccabilità: gli argomenti fanno parte del nucleo della frase e non si lasciano staccare, mentre i circostanti del verbo e le espansioni possono essere staccati dal nucleo e riproposti grazie a una parafrasi con un verbo “supplente” o “vicario” di significato generale (fare, accadere, succedere): es. Caterina legge libri a gran velocità > Caterina legge libri. Lo fa a gran velocità; Caterina legge libri a scuola > Caterina legge libri. Succede/lo fa a scuola. 2. I circostanti del nome e del verbo I circostanti funzionano come modificatori e si collocano, solitamente, dopo l’elemento modificato. • Circostanti del nome Es. Caterina legge un bel libro / Caterina legge un libro illustrato Il nome è modificato da un aggettivo qualificativo. Bello, anteposto al nome, descrive una qualità del referente. Illustrato, posposto al nome, restringe l’insieme dei libri, ci permette di identificare con più precisione il referente del nome: in questo caso si parla di valore “restrittivo” dell’aggettivo. La posizione postnominale dell’aggettivo è quella più frequente in italiano e può essere associata anche a un valore “descrittivo” (libro divertente, noioso, famoso...). L’anteposizione dell’aggettivo è di solito associata a cambiamenti formali (bello -> bel) o semantici (BOX 21). Es. Mia figlia Caterina ama i libri di avventura. In questa frase sono presenti due circostanti del nome: “mia figlia”, sintagma nominale, che modifica il nome soggetto Caterina (= apposizione) e “di avventura”, sintagma preposizionale, che modifica il nome in posizione di oggetto diretto. Entrambi i circostanti possono essere trasformati in una frase relativa che modifica il nome (“Caterina, che è mia figlia, ama i libri che parlano di avventura”), ma con una differenza: la relativa “che è mia figlia” aggiunge informazioni su un referente identificabile, mentre “che parlano di avventura” aggiunge precisazioni che aiutano a circoscrivere il referente del nome. Anche per le frasi relative, introdotte da un pronome relativo (BOX 22), sono possibili due tipi di relazione con il nome antecedente: le relative descrittive vengono chiamate “appositive”, le altre “restrittive”. Le relative possono avere anche forma implicita. Possono essere assimilate a relative implicite anche le frasi appositive al participio passato e presente. • Circostanti del verbo Si tratta di avverbi di modo o di espressioni che possono essere ridotte ad avverbi con lo stesso valore o trasformati in una frase implicita al gerundio (BOX 23): Es. Caterina legge libri con entusiasmo > Caterina legge libri mostrando entusiasmo. / Caterina legge libri entusiasticamente. BOX 21: Prima o dopo il nome? In italiano gli aggettivi possono essere collocati sia prima e sia dopo il nome. Si collocano prima del nome: • Gli aggettivi determinativi: quantificano il referente (e si comportano come numerali: qualche/nessun libro), lo localizzano (questo/quel libro), ne individuano il possessore (il mio libro); • Gli aggettivi che indicano la posizione in una serie (ultimo libro); • Gli aggettivi qualificativi: indicano un giudizio soggettivo (un bell’uomo rispetto a un uomo bello) o che hanno un valore enfatico (una semplice domanda invece di una domanda semplice). Si collocano dopo il nome: • Gli aggettivi di relazione (un libro scolastico = un libro di scuola); • Gli aggettivi qualificativi: indicano un giudizio oggettivo (un libro famoso) o si riferiscono a chi giudica anziché al referente del nome (un libro triste = che rende triste chi lo legge); • Gli aggettivi di colore (libro giallo = poliziesco); • Gli aggettivi che formano col nome un’unità di significato e indicano un referente preciso (libro sacro = Bibbia o Corano). In alcuni casi i nomi possono modificare altri nomi funzionando come aggettivi: libro evento, libro culto, libro gioco . L’aggettivo anteposto può inoltre intensificare un altro aggettivo (un gran bel libro). Anche la ripetizione dell’aggettivo può avere valore di intensificazione (un libro bello bello): è una strategia all’uso del superlativo e opposta all’uso di un suffisso diminutivo. L’aggettivo può funzionare come predicato quando è inserito in una costruzione con la copula essere, e come tale può reggere nomi o frasi. Box 22: Il pronome relativo Le frasi relative sono introdotte da un pronome specializzato, che al tempo stesso richiama il nome che lo precede immediatamente e introduce la frase relative: che. Il pronome relativo può avere qualsiasi funzione sintattica: soggetto (i libri che parlano di avventura), oggetto diretto (i libri che Caterina preferisce), oggetto indiretto o altro argomento introdotto da preposizione (i libri a cui Caterina si interessa). Al posto di che/cui si può usare il quale (la quale, i quali, le quali), anche preceduto da preposizione, ma con alcune restrizioni. Può funzionare come relativo anche quando si trova in posizione di determinante del nome (il quale libro). Lo stesso vale per quanto, usato sia come determinante (compra quanti libri vuoi), sia come valore pronominale (quanto basta). Possono funzionare come introduttori di frasi relative anche indefiniti come chi, chiunque, qualunque, che non richiedono un nome antecedente perché lo inglobano sotto forma di pronome; motivo per cui vengono detti ‘pronomi doppi’. Il pronome relativo può anche modificare un’intera frase. BOX 23: Il gerundio Il gerundio è un modo verbale che in italiano si trova usato sia in alcune perifrasi con valore aspettuale, per indicare un’azione continuativa, sia in alcune frasi, chiamate gerundiali, in cui il solo modo verbale basta a indicare un rapporto di dipendenza, come accade anche con altri tempi non finiti (il participio e l’infinito). Le frasi gerundiali hanno sempre funzione avverbiale e possono occupare sia la posizione di circostante del verbo (quando hanno valore modale) sia di espansione (quando non si limitano a indicare il modo in cui è avvenuta l’azione espressa dal verbo, ma introducono una circostanza che fa da sfondo: lo strumento, il tempo, la causa e la condizione). Il termine “periodo” indica un’unità ciclica, completa nella forma e compiuta nel significato. In grammatica, invece, il termine è usato per indicare un’unità sintattica di natura complessa, i cui costituenti sono frasi. Nella tradizione scolastica, la cosiddetta “analisi del periodo” riguarda tutte le strategie di collegamento delle frasi: il collegamento paritario e quello gerarchico. In questo tipo di analisi non si fa riferimento a un modello scientifico, ma si prende in esame un elenco di tipi di frasi tramandato dalla trazione, messe tutte sullo stesso piano e classificate su base semantica. Nell’analisi del periodo, come nell’analisi logica, la frase è vista come una successione lineare di elementi da analizzare uno per uno, prendendone in esame il contenuto semantico prima ancora che la forma e la posizione nella struttura. L’analisi del periodo non mette chiaramente a fuoco il tipo di legame sintattico con la frase reggente, che può essere di complemento, di aggiunta (relativa quando modifica nomi, e avverbiale quando modifica l’intera frase), o di correlazione. L’altro limite dell’analisi del periodo consiste nel fatto che non viene messa in relazione con l’analisi logica, quando in realtà le diverse frasi dipendenti rappresentano lo sviluppo di elementi della frase semplice: tutte le posizioni sintattiche della frase possono essere occupate, anziché da un nome, da una frase. 5. Dalla struttura alla frase lineare Per procedere alla linearizzazione della frase (BOX 26) sono importanti delle regole: • Il verbo non andrebbe mai separato da un suo argomento; • Non si inserisce mai la virgola tra il verbo e il soggetto, né tra il verbo e il suo oggetto, anche quando sono rappresentati da una completiva (*a meno che non si voglia creare un inciso); • Solitamente non si mette la virgola prima di un circostante; • La virgola è ammessa prima o dopo un’espansione; • Nel distribuire le espansioni si può scegliere se collocarle all’inizio, all’interno o alla fine della frase, a seconda del rilievo che vogliamo dare alle diverse informazioni; • La virgola è più spesso inserita dopo un’espansione collocata in posizione iniziale o in mezzo; • Il punto fermo si trova alla fine della frase o del periodo; • La presenza del punto interrogativo o del punto esclamativo alla fine della frase segnala che la frase ha un valore pragmatico diverso dall’affermazione. BOX 26: Un esempio di linearizzazione Avendo un grafico radiale, ci sono diverse possibilità di linearizzazione di una frase che contiene il verbo, i suoi argomenti, i circostanti del nome e del verbo ed infine le espansioni della frase. Quelle che seguono sono le diverse possibilità di linearizzazione della frase rappresentata nella figura 1 (pg.95): • Tutte le mattine, a scuola, durante la ricreazione, mia figlia Caterina legge in silenzio un libro divertente in biblioteca; • Mia figlia Caterina legge in silenzio un libro divertente della biblioteca tutte le mattine a scuola durante la ricreazione; • Mia figlia Caterina tutte le mattine, a scuola, durante la ricreazione, legge in silenzio un libro divertente della biblioteca; • ……
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