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Cos'è la pragmatica linguistica - Cecilia Andorno, Appunti di Linguistica

Riassunto sintetico del libro.

Tipologia: Appunti

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Scarica Cos'è la pragmatica linguistica - Cecilia Andorno e più Appunti in PDF di Linguistica solo su Docsity! Cecilia Andorno “Che cos’è la pragmatica linguistica” INTRODUZIONE La pragmatica fra linguistica e filosofia. Pragmatica -> oggetto di studio: l’agire umano. Pragmatica linguistica -> oggetto di studio: l’agire linguistico e lingua osservata dal punto di vista delle sue modalità d’uso. Gli studi pragmatici sono oggi in piena espansione, perché sempre più forte si fa l’esigenza di affrontare il discorso sull’interpretazione dei messaggi e sulla comunicazione, temi che la linguistica classica non ha sempre affrontato né può da sola affrontare in maniera soddisfacente. Diverse posizioni: - Geoffrey Leech (1983) – visione semanticista- la pragmatica, in quanto disciplina che si occupa del modo in cui i parlanti attribuiscono significato alle espressioni linguistiche, andrebbe ricondotta alla semantica -Charles Morris (1938) – si rifà ad una visione complementarista di Leech- esisterebbe nell’espressione linguistica dei parlanti un livello pragmatico (come esiste un livello morfosintattico, un livello semantico, ecc.) preposto al controllo delle relazioni che si innescano fra il codice linguistico e i suoi utenti al momento in cui esso è impiegato in una situazione comunicativa - secondo Ludwig Wittgenstein (1953) non è appropriato pensare alla pragmatica come a un livello linguistico separato, ma piuttosto come a una competenza dell’uso linguistico che riguarda ogni livello. Ogni livello può in questo senso essere studiato in prospettiva pragmatica (posizione pragmaticista). + riflessioni di Eugenio Coseriu (1952): riflette sulla dicotomia tra langue e parole, che non andrebbero intese e considerate come realtà distinte quanto punti di vista diversi sullo studio dei fenomeni linguistici. La pragmatica non sarebbe in questo senso solamente lo studio di un livello di funzionamento delle lingue verbali, ma una prospettiva dello studio di esse: ogni livello linguistico può essere interpretato in prospettiva pragmatica. Una, nessuna, centomila definizioni Il termine “pragmatica” è stato introdotto nel 1938 da Charles Morris. Nell’ambito della semiotica egli distinse tre campi di studio: - la sintassi, cioè lo studio delle relazioni fra i segni - la semantica, cioè lo studio delle relazioni fra i segni e gli elementi della realtà cui essi rimandano - la pragmatica, cioè lo studio delle relazioni fra i segni e gli utenti del codice. Una diversa definizione di pragmatica è stata proposta da Katz e Fodor (1963), di impostazione formale generativa. Secondo i due studiosi la pragmatica dovrebbe essere lo studio dell’esecuzione linguistica, in contrapposizione alla semantica e alla sintassi che si occupano delle proprietà sistematiche della lingua in quanto codice. In reazione a questa visione limitata della competenza linguistica dei parlanti come competenza del codice, tipica della linguistica formale, è stata coniata da Hymes l’espressione “competenza comunicativa”, ovvero l’abilità degli utenti di una lingua di usarla in modo efficace e appropriato in diversi contesti per esigenze comunicative di vario tipo. Stephen Levinson (1983) nell’introduzione al suo manuale di pragmatica propone e discute diverse definizioni, ritenendo che la più convincente, anche se non esente da problemi, sia: “La pragmatica è lo studio delle relazioni tra lingua e contesto che sono fondamentali per spiegare la comprensione della lingua stessa”. Significato delle parole e significato degli enunciati Le parole, i morfemi, i suoni di una lingua fanno parte di un codice o sistema condiviso. Gli enunciati (espressioni linguistiche usate in una situazione discorsiva specifica) hanno un valore che va ricostruito all’interno di questa situazione. Il valore degli enunciati non si può ricostruire completamente a partire dal significato delle parole che li compongono: capiamo esattamente che cosa significano le parole grazie alla comprensione del valore dell’enunciato nel contesto. Nelle lingue naturali, a differenza di quanto accade nei linguaggi artificiali, il significato non scaturisce solamente dalle parole, ma anche dal loro uso negli enunciati. Paul Grice parla di due livelli: -il significato convenzionale, definito come codice linguistico condiviso dai membri di una comunità -il significato conversazionale, che scaturisce dall’uso della lingua in contesto e dall’interpretazione degli scopi e delle intenzioni dei parlanti. Il modo in cui gli utenti costruiscono il significato degli enunciati soggiace a regole, e lo scopo della pragmatica è proprio quello di individuare quali siano. Che cos’è il contesto? In linguistica, il termine contesto ha diversi significati: è l'insieme degli elementi di un testo (presenti o sottintesi), messi in correlazione fra loro. Il contesto può anche essere considerato come lo sfondo della situazione di cui si sta parlando. Data una determinata frase, potremmo capirne il significato, ma non il senso dell’enunciato se non conosciamo il contesto in cui è stato pronunciato. Saputo questo potremmo parafrasarlo in: Lenvinson (1983) propone alcune definizioni di contesto basate su un elenco di parametri. Il contesto è un’espressione intuitivamente chiara ma estremamente difficile da definire esplicitamente. Il contesto pertinente per l’interpretazione e la produzione degli enunciati è composto da tre componenti: 1. le conoscenze condivise, l’insieme di credenze sociali e culturali sul funzionamento del mondo che i parlanti condividono o credono di condividere; 2. la situazione comunicativa contingente, ovvero la situazione spazio-temporale in cui si svolge un evento linguistico, le relazioni interpersonali fra i partecipanti, le aspettative e gli scopi che li muovono; 3. il contesto linguistico o cotesto, il discorso in atto e le conoscenze che ha generato. Attraverso le diverse componenti del contesto, i partecipanti ad un evento linguistico costruiscono una propria rappresentazione mentale dell’evento stesso, degli oggetti e dei fatti evocati in esso e delle relazioni che intercorrono fra loro e con il mondo, degli interlocutori coinvolti, dei loro rapporti reciproci e delle loro intenzioni. Omonimia, polisemia, ambiguità, vaghezza, indeterminatezza. Omonimia: espressioni del codice aventi identico significante, ma diverso significato (esempio dall’inglese: tail = coda; tale = storia). Per poter attribuire un termine generale ad un oggetto o una classe di oggetti, il parlante si serve di due livelli di conoscenza: - un livello relativo al significato intensionale del termine (ovvero all’insieme dei tratti semantici che lo definiscono) - un livello relativo al significato estensionale del termine (cioè all’insieme degli individui cui il termine può riferirsi). La nozione di tratto semantico è stata ideata nell’ambito della semantica strutturale, sul modello della classificazione per tratti della fonetica, per isolare le diverse componenti del significato intensionale di un termine: la parola “scapolo” è ad esempio composta dai tratti semantici (+ uomo) e (- sposato). Questo tipo di descrizione cerca di cogliere e descrivere le relazioni interne al lessico di una lingua e consente di rappresentare con precisione il significato di parole appartenenti alla stessa area lessicale. Parlanti diversi possono avere competenze diverse riguardo all’insieme dei tratti semantici che definiscono il significato di un termine. D’altronde anche l’estensione di un termine può non essere stabile nella competenza di una comunità di parlanti. Ciò può dipendere da una diversa competenza sull’insieme dei tratti intensionali. Altre difficoltà vengono dal fatto che le due conoscenze possono non procedere congiuntamente. Per ovviare a tali difficoltà sono state proposte descrizioni della competenza dei parlanti rivolte all’aspetto estensionale: il significato del nome sarebbe l’insieme dei referenti cui esso si applica. Si tratta di una prospettiva fortemente pragmatica, in cui l’insieme dei tratti semantici propri di un termine coinciderebbe con l’insieme dei tratti che consentono ai parlanti di delimitarne la possibile espansione. I tratti semantici hanno quindi una funzione DENOTATIVA, ovvero quella di delimitare l’insieme dei referenti cui la parola è applicabile. Si presta attenzione però anche al campo della funzione CONNOTATIVA dei tratti semantici, cioè la funzione di qualificare il referente in questione mettendone in evidenza determinate proprietà. SCELTA E INTERPRETAZIONE DELLE ESPRESSIONI REFERENZIALI Le lingue mettono a disposizione un’ampia gamma di espressioni referenziali alternative (“Riccardo” oppure “un mio amico”). La scelta di un’espressione referenziale è legata a vari fattori: la segnalazione dell’accessibilità del referente; la connotazione di quest’ultima e della sua relazione con parlante e ascoltatore; la segnalazione di una specifica mossa discorsiva. ACCESSIBILITÀ La scelta delle espressioni referenziali può essere funzionale a segnalare il grado di accessibilità di un referente, ovvero quando esso è identificabile in modo univoco per i parlanti e quanto è presente all’attenzione dei parlanti in un dato momento. Con identificabilità di un referente si intende la possibilità per i parlanti di identificabile in modo univoco. Ad esempio “scarpe”: - ho preso le scarpe blu (quelle che conosci anche tu: identificabile) - ho preso delle scarpe blu (che non saprei/non voglio identificare più precisamente: non identificabile specifico) - prendi delle scarpe blu (qualsiasi: non identificabile non specifico) Con attivazione di un referente si intende in fatto che esso sia o meno presente all’attenzione dei parlanti in un dato momento del discorso: - ho comprato delle scarpe nuove (non accessibile, non presente nella memoria dell’ascoltatore) - ho comprato quelle scarpe che avevo visto in vetrina, ti ricordi? (presente alla memoria dell’ascoltatore ma non attivo nel modello di discorso) - le ho comprate stamattina (attivo nel modello di discorso) L’accessibilità di un referente dipende dalle diverse componenti di conoscenza a disposizione dei parlanti in uno scambio comunicativo, ovvero: 1) l’insieme di conoscenze condivise fra i parlanti o supposte tali. - “il Consiglio dei ministri dà il via libera alla manovra di 24 miliardi. Critiche dell’opposizione” i referenti “Consiglio dei ministri” è “l’opposizione” sono presentati come identificabili per il lettore medio che minimamente conosce l’ordinamento istituzionale e la politica italiana; 2) la situazione: A – “mi passi la borraccia? B – “lui (cenno del mento verso un terzo escursionista C) non ce l’ha? Il referente “borraccia” è reso attivo dalla situazione di riferimento “gita”, che prevede per ogni escursionista un equipaggiamento completo di borraccia; il referente “lui” è intrinsecamente accessibile perché presente nel contesto e reso attivo dal cenno del mento; 3) il modello del discorso in atto: L’arrestato per le stragi di Madrid: le ho preparate in due mesi.” Il referente “arrestato per le stragi di Madrid” è reso identificabile dall’uso di un descrittore che fornisce tutti gli elementi utili all’identificazione del referente; è reso accessibile e attivo nel modello di discorso dalla sua menzione nella frase immediatamente precedente. Le lingue possiedono mezzi espressivi dedicati a segnalare il movimento referenziale, ovvero il mutamento del grado di accessibilità dei referenti nel modello di discorso. Referenti al massimo grado identificabili e attivi sono segnalati attraverso espressioni indicali (es: i pronomi) o attraverso l’ellissi (es: in italiano, omissione del soggetto, chiamata anafora zero). I descrittori sono usati invece per referenti con più basso grado di accessibilità; anche l’alternanza fra specificatori (articoli, dimostrativi) ha una funzione analoga (es: in italiano l’articolo determinativo indica qualcosa di già conosciuto, mentre l’indeterminativo qualcosa di sconosciuto). Attraverso la segnalazione del grado di accessibilità dei referenti il parlante indica all’interprete “dove cercare” il referente menzionato fra le conoscenze possedute e proprie del modello di discorso. TRATTI CONNOTATIVI Le espressioni referenziali possono segnalare il rapporto fra il parlante e il referente, in modo analogo all’uso delle formule allocutive, che evidenziano il rapporto fra parlante ed interlocutore. Attraverso la scelta di un descrittore un parlante sceglie quali tratti connotativi del referente attivare. Il parlante può segnalare il rapporto che lo lega al referente anche attraverso il sistema degli indicali : Maria Elizabeth Conte (1999) a tal proposito cita l’uso del genere dei pronomi personali come mezzo per segnalare maggiore o minore empatia con il referente. MOSSE COMUNICATIVE Il modo di usare le espressioni referenziali in un dialogo può essere funzionale a segnalare mosse comunicative particolari durante il discorso. La ripetizione di un’espressione referenziale appena menzionata sembra ad esempio essere un segnale che si sta controllando di aver ben identificato un referente o che si sta accettando un topic discorsivo. RIASSUNTO Chiamiamo atto di riferimento l’uso di un’espressione linguistica per evocare nel discorso un elemento della realtà: le espressioni linguistiche che hanno questa funzione sono dette espressioni referenziali. Il referente, una volta evocato, diviene un referente testuale del modello di discorso. I parlanti hanno a disposizione in ogni lingua una vasta gamma di espressioni referenziali, che possiamo raggruppare in tre categorie fondamentali, caratterizzate per un diverso valore intensionale ed estensionale: le espressioni simboliche (descrittori e nomi propri) e le espressioni indicali. La scelta dell’espressione referenziale usata in uno specifico momento del discorso dipende da vari fattori: fra i più studiati sono quelli legati all’accessibilità del referente, cioè alla sua identificabilità e attivazione nel modello di discorso, ai tratti connotativi evocati e alla funzione in termini di mosse comunicative. 2 - ORIENTARSI NEL CONTESTO DEISSI: fenomeno per cui il riferimento di alcune espressioni linguistiche indicali è vincolato alle coordinate della situazione in cui avviene l’evento comunicativo. Gli elementi indicali deittici funzionano come segnali indicatori di orientamento rispetto agli elementi presenti nella situazione comunicativa; il loro riferimento è individuabile solo a partire da tale situazione. DEISSI PERSONALE, SPAZIALE, TEMPORALE Per l’orientamento delle espressioni deittiche il parlante e l’ascoltatore utilizzano un sistema di coordinate o campo indicale aventi ciascuno un proprio centro, o origo. Le deissi possono essere: - di tipo personale, indica i referenti in rapporto al loro ruolo nell’evento comunicativo; - di tipo spaziale, organizza lo spazio rispetto alla posizione dei partecipanti all’evento comunicativo; - di tipo temporale, che colloca nel tempo gli eventi rispetto al momento dell’evento comunicativo. Per la deissi personale, l’origo è il mittente del messaggio, da cui sono distinti il ricevente e i partecipanti “terzi”. L’opposizione fra questi ruoli è codificata in molte lingue dall’opposizione personale fra I, II e III persona. In italiano la deissi personale si manifesta nella flessione verbale personale (“mangio?” rispetto a “mangi?”) e in sistemi di morfemi liberi come i possessivi e i pronomi personali. Le espressioni di I e II persona sono intrinsecamente deittiche, ossia posso capire il riferimento di “io” solo se so chi sta parlando. Le espressioni di III persona hanno uso dittico in casi come: - “è stato lui!” - in cui un bambino indica alla maestra il colpevole di un misfatto indicandolo testualmente. Per la deissi spaziale, l’origo coincide con la posizione occupata dal parlante mentre proferisce il suo enunciato. L’italiano è una lingua in transizione da un sistema tripartito, che oppone parlante-ascoltatore- esterno, a un sistema bipartito parlante-esterno. Per questo motivo si ha la scomparsa di “costì” o “codesto”, orientati entrambi all’ascoltatore + verbi come “andare” o “venire”, che esprimono l’idea di movimento orientata rispetto al parlante. - Vieni anche tu? - Vai anche tu? Per la deissi temporale, l’origo coincide con il momento in cui il parlante proferisce il suo enunciato. In italiano utilizziamo alcuni aggettivi, avverbi ed espressioni avverbiali (“ora”, “un momento fa”, “oggi”) ma anche molti tempi verbali (“sto facendo”, “stavo facendo”, etc.) - Domani si fa sconto. L’interpretazione delle relazioni anaforiche da parte dell’interprete di un messaggio può far leva su principi morfosintattici, semantici o pragmatici. Per recuperare l’antecedente del clitico femminile “le”, che non può essere costituito dall’insieme “latte e uova” (richiederebbe un maschile), ma deve essere il solo “le uova”, ricorreremo a conoscenze morfologiche: - Ho comprato il latte e anche le uova. Se ti servono te le do io! In altri casi, il legame anaforico può essere guidato dalla conoscenza del significato intensionale di descrittori ed espressione antecedente: - Un cane abbaiava furiosamente sotto la pioggia. L’animale non si placò fino a sera! Ricondurre l’espressione “l’animale” la referente “un cane” già menzionata è possibile solo se conosco il significato intensionale delle due espressioni e le loro relazioni reciproche. ANAFORA E DEISSI EMPATICA Le relazioni di deissi e anafora possono essere sfruttate in senso metamorfico, per segnalare un atteggiamento emotivo del parlante verso l’ascoltatore o verso il proprio oggetto di discorso: a questi usi si dà il nome di anafora o deissi empatica (o emotiva o affettiva). Le relazioni di vicinanza/distanza segnalate dai dimostrativi possono ad esempio essere sfruttate per segnalare un atteggiamento di vicinanza/distanza emotiva rispetto all’interlocutore o al referente menzionato: - Che cosa vuole questa bella bambina? Nel rimando anaforico, può essere sfruttata l’opposizione di genere o di tratto umano/non umano per qualificare il referente come più o meno vicino alla sensibilità del parlante. RIASSUNTO Le lingue naturali dispongono di espressioni referenziali, temporali e spaziali il cui valore estensionale, il cui riferimento può essere interpretato solo in relazione a un sistema di orientamento fornito: si tratta di espressioni indicali. Il sistema di orientamento può essere di tipo deittico, cioè avere come origine il parlante, nel momento e nel luogo in cui si svolge l’enunciazione. Da questo punto di vista si distingue una deissi personale (I, II e III persona), spaziale (vicinanza/distanza rispetto a una delle tre persone), temporale (anteriorità/posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione). E’ possibile traslare un campo di riferimento deittico in un sistema di coordinate avente un diverso centro (origo). La logodeissi è un caso particolare di sistema di riferimento, in cui l’origo è il testo stesso nel momento della sua elaborazione. Il sistema di orientamento può essere di tipo anaforico: in questo caso il sistema di coordinate è costruito a partire da un elemento evocato nel discorso (antecedente). L’antecedente può essere un referente (anafora referenziale, rispetto a cui valgono relazioni di identità di riferimento, di senso o relazioni di tipo associativo) o un punto spaziale o temporale evocato nel discorso (anafora spaziale o temporale, rispetto a cui valgono relazioni di distanza/lontananza o di anteriorità/posteriorità). L’individuazione dell’antecedente può essere mediata da informazioni morfologiche, semantiche e pragmatiche. 3 - L’ENUNCIATO COME INFORMAZIONE SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI Se espressioni referenziali hanno come contenuto semantico individui e oggetti, gli enunciati hanno come contenuto semantico situazioni, eventi, ovvero stati di cose validi per certi referenti e in certe circostanze spazio-temporali. Se un amico ci dice: - Ieri sera sono andato al cinema il contenuto semantico che ne ricaviamo è parafrasabile così: “relativamente al giorno precedente all’attuale, è valido a riguardo del nostro amico lo stato di cose ‘andare al cinema ’ ”. Come agli stessi referenti ci si può riferire con espressioni referenziali diverse, così uno stesso stato di cose può essere trasmesso attraverso enunciati diversi, e la specifica forma che un enunciato assume in un discorso (la sua struttura informativa) dipende dal modo in cui l’enunciato si inserisce nel modello di discorso in atto. DINAMISMO COMUNICATIVO La Scuola linguistica di Praga è stata la prima ad avviare una riflessione sistematica sul fatto che, nella forma che un enunciato assume agiscono principi di natura pragmatica attinenti il modo in cui l’informazione è organizzata. A tal proposito si parla di dinamismo comunicativo di cui sono dotate le diverse porzioni dell’enunciato: il minimo dinamismo comunicativo (detto sfondo o background) è portato dagli elementi noti e maggiormente condivisi fra gli interlocutori, considerati non controversi e non oggetto di discussione; il massimo dinamismo comunicativo è portato dagli elementi non condivisi e nuovi, che costituiscono l’apice informativo e quindi il vero obiettivo comunicativo. Le lingue possiedono diversi mezzi per variare le struttura informativa dell’enunciato, in conformità alla variazione del dinamismo comunicativo delle sue parti. Nel trasmettere un’informazione, il parlante procederebbe partendo dai dati condivisi e controversi: - “Bush: non mi dimetto” in prima posizione sono collocate le informazioni che possono costituire per il lettore un punto di partenza condiviso (l’identità del presidente) per proseguire con le informazioni nuove. Il parlante tenderebbe poi a codificare sulla frase principale e sui costituenti argomentali le informazioni con il massimo grado di dinamismo comunicativo e sulle frasi secondarie e sui costituenti non argomentali le informazioni di sfondo. Le due principali funzioni informative dell’enunciato sono focus e topic. FOCUS E’ la porzione dell’enunciato che ha maggior grado di dinamismo comunicativo. E’ normalmente collocato in posizione finale ed è segnalato da un accento più rilevato; è infatti la porzione fondamentale di un enunciato. E’ particolarmente evidente nei dialoghi di domanda e risposta: A – “hai pagato il caffè?” B – “sì” Il focus informativo cui verte la domanda è l’avvenuta esecuzione da parte dell’interlocutore B dell’azione “pagare il caffè”; nella sua risposta, B esplicita esclusivamente questa informazione. Invece: A – “chi ha pagato il caffè?” B – “io” Il focus cui verte la domanda è l’identità dell’individuo cui va attribuita la responsabilità del fatto che lo stato di cose “pagare il caffè” si è verificato; nella risposta B esplicita esclusivamente questa risposta. Nei due casi visti il focus è detto di tipo completivo. FOCUS COMPLETIVO: un’informazione focale nuova, non posseduta in precedenza dall’ascoltatore FOCUS CONTRASTIVO: una nuova informazione va selezionata fra più candidati alternativi evocati nel discorso - Hai pagato il caffè? - Io no, eri tu che dovevi pagarlo Da un punto di vista informativo un focus completivo ha la funzione di aggiungere un’informazione segnalando che essa non è ancora parte del modello di discorso; un focus contrastivo ha la funzione di fornire un’informazione segnalando in che modo una precedente contenuta nel modello di discorso vada modificata; in quest’ultimo caso si parla anche di FOCUS CONTROPRESUPPOSIZIONALE. TOPIC E’ l’elemento informativo che il parlante presenta come “argomento” dell’enunciato, ciò di cui intende parlare. Il ruolo del soggetto è un buon candidato al ruolo tropicale. E’ dunque il punto di partenza di un enunciato; come tale l’elemento tropicale ha basso grado di dinamismo comunicativo. a) Il rinfresco verrà offerto dalla municipalità b) La municipalità offrirà il rinfresco Il ruolo del topic viene assunto da due diversi referenti, entrambi codificati di volta in volta come soggetto. Il topic è un elemento noto ed eventualmente già attivo nel modello del discorso. Se così non è, questo può essere segnalato con strutture particolari: FRASE PRESENTATIVA “esserci x che…”, che serve per introdurre un elemento nuovo nel modello di discorso. - Che succede? - C’è il gatto che gratta alla porta - C’era una volta un burattino di legno che… - Ci sono un italiano, uno scozzese e un francese che viaggiano in aereo… Un particolare tipo di topic, detto antitopic, ha la funzione di attualizzare o riattualizzare un topic identificabile per gli interlocutori, ma che il parlante ritiene posa non essere attivo per l’ascoltatore nel momento attuale del discorso. - “l’hai poi portata in tintoria, la tua giacca?” topic in posizione esterna all’enunciato “La giacca” costituisce un topic discorsivo accessibile per entrambe le interlocutrici, ma inattivo nel momento di discorso in atto. TIPI DI FRASE E STRUTTURA INFORMATIVA Sulla base delle funzioni di topic e focus, si possono individuare strutture informative fondamentali ricorrenti in lingue diverse. Le strutture informative più studiate sono: • Enunciato presentativo: ha l’obiettivo comunicativo di introdurre nel discorso un nuovo referente, che potrà in seguito assumere la funzione di topic. E’ costituito da una struttura verbale in cui è inerito, in posizione focale, il referente nuovo che si intende porre a topic del discorso successivo - “Si è fatto vivo Gianni”, “c’era un ottimo dessert”, “ecco il gatto”; • Enunciato predicativo: ha l’obiettivo comunicativo di dare informazioni a proposito di un referente identificabile posto come topic. E’ costituito dal topic, seguito dal comment, ovvero dalla predicazione relativa al topic - “Per quanto riguarda Gianni, non ci sono problemi”, “il gatto lo porti tu dal veterinario?”; TIPI DI ATTO LINGUISTICO La preoccupazione degli studiosi è di individuare una tassonomia di atti linguistici. Il modello di Searle ne individua 5 tipi fondamentali. Nella tassonomia, ogni tipo di atto linguistico è caratterizzato da una specifica forza illocutiva, ovvero da una diversa relazione fra lo stato di cose oggetto della frase e il tipo di azione che il parlante intende eseguire: - ATTI ASSETIVI (dire, concludere, affermare, etc.): il parlante si impegna sulla verità di uno stato di cose; - ATTI ESPRESSIVI (ringraziare, rammaricarsi, scusarsi, etc.): il parlante esprime un proprio stato d’animo all’ascoltatore; - ATTI COMMISSIVI (offrire, promettere, minacciare, etc.): il parlante si impegna sulla realizzazione di un futuro stato di cose; - ATTI DIRETTIVI (chiedere, consigliare, domandare, etc.): il parlante chiede all’ascoltatore di impegnarsi a proposito di uno stato di cose; - ATTI DICHIARATIVI (condannare, battezzare, promuovere, etc.): il parlante produce un cambiamento della realtà corrispondente al contenuto locativo dell’atto stesso. I parlanti hanno a disposizione mezzi espressivi diversi per segnalare la forza illocutiva di un enunciato. I più adoperati sono, a livello lessicale, verbi performativi e avverbi modali; a livello morfologico la modalità verbale; a livello prosodico l’intonazione. CONDIZIONI DI FELICITÀ La teoria degli atti linguistici ha fra i propri obiettivi la definizione delle condizioni alle quali ciascuno di essi è “ben costruito”: tale condizioni sono dette condizioni di felicità e dipendono dal tipo di atto, in particolare dalla natura della sua forza illocutiva. - *prometto che domani pioverà -*ieri ha piovuto, te lo prometto ASSERZIONI Un parlante dichiara che, stanti le informazioni in suo possesso, un certo stato di cose è vero. Con un’asserzione un parlante si impegna sulla verità di uno stato di cose. - “Gianni è arrivato, ma non ho la minima idea se questo sia vero”. La condizione di sincerità del parlante e quella di plausibilità della verità sono condizioni di felicità di un atto assertivo. Qualora un parlante non sia certo della validità di quanto afferma, può segnalare questo fatto in vario modo (esempio: “credo che”, si sottolinea il fatto che per il parlante è una credenza, per la quale mancano prove). In un atto assertivo, ci si aspetta che il parlante dica ciò che crede vero. DOMANDE E RICHIESTE Con una richiesta (atto direttivo) un parlante chiama in causa l’interlocutore perché si impegni su un certo stato di cose. Condizione necessaria per l’esecuzione felice di un atto è che l’interlocutore abbia la possibilità di fare ciò che gli è domandato. Il fatto che un atto sia non felice, non significa che esso non venga mai eseguito nella realtà. Diverso dalla richiesta è l’atto della domanda, cioè l’interrogare l’interlocutore sulla verità di uno stato di cose. Fra le condizioni di felicità sono la non conoscenza da parte del parlante dell’informazione richiesta e la supposizione che l’interlocutore ne sia a conoscenza. Anche in questo caso, tali condizioni possono essere violate. Osserviamo infine che l’atto di domanda è adottato come mezzo per esprimere indirettamente una richiesta. a) Voglio chiedergli di fermarsi (richiestivo) b) Voglio chiedergli che si ferma (interrogativo- indirettamente richiestivo) FORZA ILLOCUTIVA E STRUTTURA INFORMATIVA La forza illocutiva di un enunciato interagisce con la sua struttura informativa, in quanto essa si applica all’articolazione focale. In un’asserzione il parlante si impegna sulla validità della connessione fra il focus e il background, mentre tutto ciò che non è in focus resta escluso ed è dato come non messo in discussione. Esempio: A – “C’è mio zio Gianni che è arrivato ieri.” B – “non è vero!” Immaginiamo che la menzogna di cui A è accusato riguardi l’arrivo del personaggio nominato e che non sia in discussione la proprietà “zio”. Diversamente sarebbe se il parlante asserisse invece un enunciato di tipo identificativo come: A – “Quel Gianni che è arrivato ieri è mio zio Gianni!” B – “Non è vero!” ATTI LINGUISTICI DIRETTI Le lingue dispongono di mezzi espressivi per codificare la forza illocutiva di un enunciato. Come a tutti i livelli della lingua, la corrispondenza fra funzione linguistica e mezzi espressivi non è biunivoca e rigida. D’altronde, un parlante può servirsi di un mezzo espressivo normalmente associato a una certa forza illocutiva per esprimere una diversa forza illocutiva. Es.: - “Scommetto che ti sei dimenticato!” in cui sicuramente non voglio scommettere, ma intendo dire “Scommetto che te lo sei dimenticato” -“Le spiace smettere di fumare?” dove non intendo chiedere un’informazione, ma intendo richiedere qualcosa come “spenga la sigaretta”. ATTI LINGUISTICI INDIRETTI: la forza illocutiva è espressa in modo traslato. Viene utilizzata una forma linguistica tipica di una certa forza illocutiva per esprimere un’altra forza illocutiva. L’uso di domande per esprimere richieste è una strategia diffusa in molte lingue: “Scusi, può spegnere la sigaretta?” La loro esistenza è la manifestazione della flessibilità di uso delle lingue, che si manifesta ad ogni livello e consente ai parlanti di forzare e modificare l’uso delle espressioni linguistiche: metafora, metonimia, ironia… ne sono manifestazioni. La capacità di interpretare correttamente la forza illocutiva diretta o indiretta può essere messa in crisi in una comunicazione interculturale. VERBI PERFORMATIVI Possiamo esplicitare il tipo di azione che un parlante esegue nel proferire un enunciato usando dei verbi che qualifichino l’azione verbale compiuta: - “Ti informo/ ti dico/ dichiaro che lunedì pioveva!”; - “Prometto che farò il bravo” Attraverso questi enunciati il parlante si limita a descrivere l’azione che sta compiendo, mentre nelle seguenti: - “Corro a casa!” mentre le descrive le esegue. I verbi come promettere, informare, chiedere, scommettere sono detti verbi performativi. Solo in specifiche circostanze e forme un verbo performativo ha questa proprietà: - “Gli ho promesso di rientrare presto!” Questo enunciato non vale come promessa, ma come descrizione di una promessa e non si comportano diversamente dagli enunciati. L’esistenza di verbi con queste caratteristiche ha aperto la strada all’idea che parlare è un mezzo per agire, o che ci sono azioni che si eseguono attraverso il linguaggio. RIASSUNTO Un atto linguistico è un’azione eseguita attraverso l’uso del linguaggio per produrre nell’interlocutore un mutamento di atteggiamento, di stato mentale, di comportamento. Ogni atto linguistico può essere considerato a più livelli: come atto locutorio (l’azione fonatoria); come atto locutivo (il riferimento a uno stato di cose); come atto illocutivo (la manifestazione di un’intenzione); come atto perlocutivo (l’effetto scaturito). Si possono individuare diversi tipi di atto linguistico, caratterizzati da diverse forze illocutive; per ciascuno di essi valgono specifiche condizioni di felicità, cioè di regole per la loro accettabilità. Un atto può essere usato in modo figurato per realizzarne un altro di diversa forza illocutiva: in questo caso si parla di atto linguistico indiretto. I verbi che descrivono le azioni linguistiche che realizzano si dicono performativi. 5 - CIO’ CHE SI DICE E CIO’ CHE SI INTENDE DIRE - Levati il cappello - disse il Re al Cappellaio. - Non è mio - disse il Cappellaio. - Rubato! - esclamò il Re, rivolto ai giurati, che subito presero nota del fatto. INFERENZE Che cosa porta il Re ad affermare che il cappellaio ha rubato il cappello? Ha ragione a sostenere questo? La comprensione di un enunciato, cioè la sua integrazione nel modello di discorso, può portare gli interlocutori ad assumere per valide informazioni supplementari, che non sono esplicitamente asserite dai parlanti, ma la cui verità viene suggerita dall’insieme delle informazioni trasmesse e presenti nel modello del discorso. Un enunciato viene effettivamente compreso solo quando viene inserito nel modello di discorso, e quindi reso compatibile con le conoscenze già possedute. La comprensione di un enunciato, cioè Si dice presupposizione un’inferenza che resta valida tanto quando un enunciato è asserito tanto quando viene smentito o quando sulla sua validità ci si interroga. Le presupposizioni costituiscono, per così dire, le informazioni di sfondo sulle quali si costruisce (e si discute) l’informazione asserita. 7 Messner è riuscito a salire sul Lotse Questa frase, sia che noi la consideriamo valida, sia che crediamo alla notizia opposta, ci farà ritenere comunque sempre valida l’inferenza: e) Messner ha tentato di salire sul Lotse. Anche se noi ci ponessimo in tono interrogativo la domanda “Messner sarà riuscito a salire sul Lotse?”, nel farcela presupporremmo comunque l’idea che Messner abbia tentato di farlo, cioè presupporremmo che e) sia comunque vero. In sostanza, il fatto di salire sul Lotse viene dato per scontato da tutti gli enunciati che riguardano la riuscita del tentativo. Alcuni verbi (verbi implicativi) producono presupposizioni sulla validità delle informazioni contenute nelle frasi dipendenti. ES. 8 a) Mi dispiace aver lavorato con Gaia b) Non mi dispiace aver lavorato con Gaia Se entrambe mantengono valida l’inferenza “ho lavorato con Gaia”, ciò significa che il verbo “dispiacere” presuppone la verità della frase dipendente. Fra le presupposizioni più studiate ci sono quelle relative all’esistenza dei referenti menzionati negli enunciati. In generale, si può osservare come il fatto che l’esistenza di un referente menzionato sia data per presupposta o invece passibile di smentita dipenda da vari fattori: 1) un referente definito è dato più facilmente per presupposto di un indefinito: ES. 9 a) Non è vero che è passato un giovanotto (UN GIOVANOTTO: non esiste, oppure esiste ma non è passato – esistenza in discussione). b) Non è vero che è passato lo zio Carlo (LO ZIO CARLO: esiste, ma non è passato – esistenza non in discussione e presupposta). 2) la negazione di certi verbi (obiectum effectum) cancella l’esistenza del referente con il ruolo di oggetto, mentre con altri verbi (obiectum affectum) l’esistenza del referente oggetto può essere mantenuta: ES. 9 a) Non è vero che ho scritto la lettera a Babbo Natale (HO SCRITTO: la lettera non esiste). b) Non è vero che ho spedito la lettera a Babbo Natale (HO SPEDITO: non l’ho spedita, ma la lettera esiste; oppure non l’ho spedita e non esiste nemmeno). In questi casi, l’attivazione di presupposizioni è dovuta a un intreccio di fattori: il significato del verbo ma anche lo status del referente testuale con il ruolo di oggetto nel modello di discorso in atto. PRESUPPOSIZIONI E STRUTTURA INFORMATIVA ES. 10 a) Qualcuno ha pagato il caffè? b) Chi ha pagato il caffè? c) Hai pagato tu il caffè? La disposizione dell’informazione in focus e background serve a mettere in evidenza quali informazioni in un enunciato sono asserite, oggetto di discussione, e quali sono invece presupposte. Le informazioni di background costituiscono delle presupposizioni, mentre il contenuto informativo vero e proprio, l’informazione asserita, è definita dall’elemento in focus. In termini di attivazione di presupposizioni si può dire che: - con un’interrogativa totale un parlante non attiva alcuna presupposizione relativa alla proposizione ma la mette interamente in discussione. Con questo non intendiamo dire che le interrogative totali siano del tutto prive di presupposizioni (ad esempio, la domanda “Qualcuno ha pagato il caffè” presuppone l’esistenza di un caffè da pagare e ciò è dovuto al fatto di aver menzionato come referente definito “il caffè”): - con un’interrogativa parziale, invece, il parlante attiva una presupposizione di validità della porzione non in focus; sia la b) che la c) in fatti danno per presupposta la validità dell’evento “Qualcuno ha pagato il caffè” e mettono in discussione solo l’identità del costituente su cui verte la domanda. Dunque, la struttura informativa di un enunciato attiva presupposizioni relative alla validità della porzione in background, mentre la parte focale è quella che è messa in discussione; in altre parole, un enunciato verte sulla parte focale, mentre la porzione di background è presentata come condivisa o condivisibile punto di partenza non oggetto di discussione. PRESUPPOSIZIONI E CONDIZIONI DI FELICITA’ Le condizioni di felicità di un atto direttivo prevedono che si possa ordinare a un altro solo ciò che si sa che l’altro è in grado di fare. ES. 11 - E’ stanca poverina - disse la Regina Rossa. - Lisciale i capelli, prestale la tua cuffia da notte e cantale una ninnananna. - Ma io non ho con me la cuffia da notte - rispose Alice tentando di ubbidire alla prima indicazione. Per giustificare il proprio comportamento, Alice si ritrova a dover smentire una presupposizione insita nelle parole della Regina. L’idea di “prestito” presuppone infatti l’idea di possesso. A causa della non validità di questa presupposizione, alice non può eseguire l’ordine richiesto; anzi, la non validità rende non felice l’atto linguistico eseguito dalla Regina, come Alice sottolinea protestando. RIASSUNTO Chiamiamo inferenze le informazioni che provengono dall’interpretazione della situazione comunicativa. Le inferenze possono nascere dall’interpretazione della situazione, dalle conoscenze pregresse, dal discorso stesso. Una rappresentazione compiuta del modello di discorso comprende l’insieme delle inferenze che scaturiscono dall’evento comunicativo. Chiamiamo conseguenze le inferenze obbligatorie, che discendono inevitabilmente dall’interpretazione degli enunciati e non possono essere cancellate, a meno di un’esplicita smentita dell’enunciato da cui scaturiscono. Chiamiamo presupposizioni le inferenze che discendono dall’interpretazione degli enunciati e che non sono intaccate dalla smentita delle asserzioni da cui discendono, poiché ne costituiscono lo sfondo. 6 - LA CONVERSAZIONE COME AGIRE RAZIONALE Significato delle parole e intenzioni del parlante Ci occupiamo ora della teoria sul linguaggio elaborata da Paul Grice e nota come “teoria del significato non-naturale”. In particolare Grice si concentra sulle nozioni di convenzione e intenzione come basi per l’interpretazione dei messaggi negli scambi comunicativi. Tradizionalmente, alla base del linguaggio umano è posta la nozione di convenzionalità: la produzione e comprensione dei messaggi è garantita dall’esistenza di convenzioni che regolano il significato delle espressioni linguistiche e che consentono la traducibilità degli enunciati in messaggi dotati di significato (il significato degli enunciati scaturisce dalla decodifica del senso delle parole). A questa prospettiva Grice ne sostituisce una alla cui base sta la nozione di intenzionalità: la produzione e comprensione dei messaggi è garantita dalla capacità dei parlanti di interpretare le intenzioni comunicative degli interlocutori a partire dagli enunciati da loro proferiti: il significato degli enunciati scaturisce dall’interpretazione delle intenzioni che il parlante manifesta. L’uso delle lingue verbali non è l’unica forma di comunicazione a disposizione degli esseri umani; si possono usare gesti, azioni, versi: quel che accomuna queste diverse forme di comunicazione non è la convenzionalità del codice usato, ma l’intenzionalità del comportamento del comunicatore. Alla base della comunicazione, nella prospettiva di Grice, non c’è dunque la convenzionalità (il significato delle parole), ma l’intenzionalità, cioè la capacità dei parlanti di esibire le proprie intenzioni comunicative e riconoscere quelle altrui attraverso mezzi diversi (come il linguaggio verbale appunto). Principio di cooperazione La comunicazione (o conversazione) è un’attività che si svolge fra più persone, ciascuna delle quali esibisce intenzioni comunicative e cerca di interpretare quelle altrui; ognuno dei partecipanti ha perciò interesse a far sì che l’interlocutore riconosca le intenzioni comunicative e parte dal presupposto che gli altri si comportino allo stesso modo. Ogni parlante parte cioè dal presupposto che gli interlocutori collaborino alla riuscita della comunicazione; senza queste aspettative reciproche la conversazione sarebbe impossibile. Ciò non significa che non ci siano persone che si comportano in modo non cooperativo. Il principio di cooperazione che sta alla base della conversazione nella prospettiva di Grice (1975) è quindi da interpretare come una necessità costitutiva delle conversazioni: non si ha conversazione se non si ha cooperazione, o, in altri termini, si può chiamare conversazione un’attività dialogica in cui i parlanti cooperano per comunicare. Dal principio di cooperazione Grice fa discendere 4 massime, che altro non sono che manifestazioni concrete dello stesso principio: MASSIMA DELLA QUALITA’: riguarda la validità degli enunciati che vengono proferiti: in una conversazione ci si aspetta che ogni parlante fornisca un contributo comunicativo nella misura in cui ritiene che esso sia vero. Questa massima richiama da vicino l’idea delle condizioni di felicità che rendono accettabili gli atti linguistici e, in particolare, l’impegno alla verità che nel modello degli atti linguistici abbiamo visto essere una delle condizioni di felicità degli atti di tipo assertivo: un’asserzione è eseguita felicemente, cioè accettata come tale dall’interlocutore, se costui ritiene che il parlante sia in grado di impegnarsi sulla verità di quanto dice e intenda farlo. Naturalmente la possibilità che un parlante menta esiste, ma la comunicazione allora non avrebbe alcun senso. Non avrebbe alcuno scopo, ad esempio, chiedere ad un passante “che ora è?” se non avessimo qualche aspettativa sul fatto che egli sia in grado di darci un’informazione vera; se ritenessimo che l’interpellato potrebbe rispondere del tutto a caso senza preoccuparsi di verificare la validità di ciò che dice o se ritenessimo che ha dei motivi per mentirci, probabilmente non porremmo nemmeno la domanda e la conversazione semplicemente non avrebbe luogo (in realtà potremmo avviare la conversazione lo stesso, magari perché non ci interessa avere l’informazione ma semplicemente attaccare bottone). D’altronde anche il successo di un comportamento fraudolento è consentito dall’esistenza della massima: la menzogna Dal principio di cooperazione discendono massime specifiche relative a qualità, quantità, relazione e modo in cui è trasmessa l’informazione. La presupposizione di una generale adesione alle massime guida il percorso inferenziale dei parlanti: informazioni scaturite dal rispetto delle massime sono dette implicature conversazionali. Il significato delle espressioni linguistiche può essere quindi letto come l’intreccio fra significato convenzionale delle espressioni del codice e significato conversazionale degli enunciati dei parlanti in contesto. 7 - LA CONVERSAZIONE COME AGIRE SOCIALE: ROUTINE E RITUALI Analisi della conversazione Sappiamo che spesso ci accade di fare domande di cui non ci interessa conoscere la risposta (violando così una condizione di felicità degli atti di domanda) o di cui magari conosciamo già la risposta (e in questo caso violiamo una seconda condizione di felicità): ad esempio quando ci facciamo raccontare per l’ennesima volta un aneddoto da un amico solo perché sappiamo che gli fa piacere farlo; oppure quando poniamo una domanda imbarazzante ad una persona antipatica, anche se sappiamo già la risposta, per il gusto di metterla in difficoltà. In queste situazioni noi simuliamo: facciamo finta di desiderare di sapere una cosa e di non saperla ancora. Questo comportamento può avere diverse motivazioni, che non riguardano l’acquisire informazioni, ma ad esempio per riempire un momento in cui la conversazione langue (e sappiamo infatti che il non far languire le conversazioni è un comportamento socialmente molto apprezzato); in altri casi il fatto di fare una domanda può far sentire l’interlocutore importante, apprezzato, considerato, oppure metterlo in imbarazzo o in difficoltà. Tutti questi esempi ci mostrano che esistono regole volte a fare in modo che lo scambio abbia successo non solo dal punto di vista strumentale ma, in senso più ampio, nella salvaguardia delle relazioni fra i partecipanti. Di questo insieme di regole, in parte universali e in parte culturalmente determinate, seguendo il filone di studi detto dell’analisi della conversazione, ci occupiamo delle regole che servono alla gestione degli scambi comunicativi. Promotori di questi studi sono i lavori di Sacks, Schlegoff, Jefferson e Pomerantz. Gli studi di analisi della conversazione, rispetto ad altri filoni di studi come la teoria degli atti linguistici, adottano un punto di vista e un metodo di analisi più empirici, rigorosamente legati all’osservazione della struttura di scambi comunicativi reali e alla loro interpretazione secondo categorie. L’intento dichiarato è quello di individuare le regole che i parlanti stessi mostrano di riconoscere e osservare, con il proprio comportamento, negli scambi comunicativi. Turni Uno dei primi problemi che ci si è posti è la necessità di individuare delle unità di analisi. L’unità di analisi di base è stata individuata nel turno, con cui si intende la sequenza di parole che ogni partecipante produce in modo continuativo prima che intervenga un altro. Quando un nuovo partecipante interviene inizia un nuovo turno. L’alternanza dei turni fra i partecipanti all’interazione non è sempre regolata in modo da evitare il fenomeno della sovrapposizione, cioè il fatto che più soggetti parlino contemporaneamente. La sovrapposizione, anzi, si verifica con una certa frequenza e svolge funzioni comunicative diverse a seconda delle modalità secondo cui si verifica. A inizio turno si possono verificare partenze simultanee quando due parlanti si selezionano insieme per il turno e iniziano perciò contemporaneamente a parlare; in questo caso si verifica un conflitto nell’assegnazione del turno, fino a che uno smette di parlare e lascia il turno all’altro. Si parla di interruzione invece quando un partecipante alla conversazione inizia a parlare durante il turno di un altro e, dopo una fase conflittuale per l’ottenimento del turno di parola, se ne appropria. Tuttavia non tutte le sovrapposizioni danno luogo a situazioni conflittuali (osserviamo che con conflitto non intendiamo il fatto che ci sia un’effettiva contrapposizione di intenti: interruzioni e partenze simultanee possono dar luogo a conflitti semplicemente nel senso che si verifica un difetto nella conversazione, non per forza intenzionale da parte dei parlanti). Alcune forme di sovrapposizione svolgono piuttosto funzione di segnali di feedback rivolta dall’ascoltatore al parlante, che servono a segnalargli che si sta seguendo, approvando o capendo il discorso che sta facendo, o anche per fornire materiale utile alla comunicazione in corso. Data la necessità di tener conto del fenomeno delle sovrapposizioni, si può descrivere più precisamente il turno come la sequenza di parole prodotte da un parlante fra il momento in cui questi inizia a parlare da solo e il momento in cui lo fa un nuovo interlocutore. Mosse comunicative Per la definizione ci si rifà al concetto di atto linguistico. Entrambi, infatti, mirano a descrivere i tipi di azione che si possono eseguire con le parole. La nozione di atto linguistico è definita in ambito logico, con un procedimento deduttivo a partire dall’osservazione di casi esemplari. La nozione di mossa comunicativa è definita in ambito etnolinguistico, con un procedimento rigorosamente empirico, a partire dall’osservazione di molteplici conversazioni concrete. Ad es. i saluti sono mosse comunicative previste ad apertura e chiusura di numerosi tipi di scambio comunicativo. Se l’interlocutore ha diritto di parola nello scambio comunicativo in corso, a una mossa di saluto corrisponde una risposta di saluto da parte dell’interlocutore. Il caso dei saluti mostra come spesso una mossa comunicativa ne preveda una di risposta: esse si organizzano spesso in sequenze complementari (esempi: saluto di apertura/saluto di chiusura, di scuse/accettazione, di domanda/risposta). In uno stesso turno possono collocarsi più mosse comunicative e una mossa comunicativa può articolarsi in più turni. Alternanza dei turni In conversazioni simmetriche, cioè in conversazioni in cui tutti i partecipanti hanno uguali diritti e doveri di parola, per l’avvicendamento dei turni e per la presa di turno, cioè per determinare chi e quando può intervenire nella conversazione, i parlanti seguono regole generali. Una prima regola prevede che chi parla possa selezionare il parlante successivo attraverso una serie di segnali, ad esempio interpellandolo direttamente o accennando nella sua direzione con lo sguardo o con un segno della mano. Tuttavia, se il parlante non seleziona nessun parlante successivo, una seconda regola prevede che quando egli smette di parlare, qualsiasi partecipante può autoselezionarsi per il turno successivo. Se chi stava parlando non ha specificamente indirizzato la propria mossa comunicativa a qualcuno, chiunque può intervenire. Questa regola entra in azione solo se il caso precedente non si è verificato. Una terza regola, infine, prevede che se chi parla non ha selezionato alcun parlante successivo e nessuno si selezione per il turno successivo, il primo parlante può riprendere la parola e iniziare un nuovo turno. In interazioni in cui i ruoli dei partecipanti sono asimmetrici, la gestione dei turni può essere affidata a una figura che assegna i turni di parola. Simmetria, potere, dominanza Solo alcune interazioni (tipicamente le conversazioni informali fra pari) prevedono una perfetta simmetria o equivalenza di ruoli fra i partecipanti, prevedono cioè che i vari partecipanti possano alternarsi con le stesse funzioni e negli stessi ruoli. Frequenti sono però le interazioni asimmetriche nelle quali i ruoli non sono equivalenti: per i partecipanti sono previsti diversi diritti nell’assegnare e prendere i turni di parola, nell’eseguire le mosse comunicative forti e nel gestire l’orientamento dei contenuti dell’interazione; i partecipanti hanno cioè diverso potere interazionale. Sono di questo tipo molte interazioni istituzionali, cioè codificate nel repertorio culturale secondo determinati parametri: durante una visita medica non ci si aspetta che il paziente possa interrogare il medico sulla sua salute o su quella dei membri della sua famiglia. Asimmetria può manifestarsi anche quando un singolo partecipante assume una posizione dominante, per numero e durata dei turni, per mosse forti di gestione dell’interazione o altro. La dominanza può essere dominata da vari fattori, come una maggiore competenza linguistica o comunicativa. Le regole di gestione dell’interazione e i ruoli sono in parte prevedibili in base alla conoscenza del tipo di interazione in corso, ma non ne sono determinati necessariamente: in ogni interazione i ruoli possono essere ribaditi o ridiscussi dai partecipanti. Strategie di cortesia Sono state individuate da Brown e Levinson alcune strategie e regole di comportamento che regolano il rispetto dell’interlocutore e della sua immagine sociale, definita “faccia” da Goffman = strategie di cortesia. Si distingue una faccia positiva, che riguarda il bisogno di dare e ricevere approvazione e giudizi positivi, e una faccia negativa, che riguarda la necessità di rispettare la libertà di azione degli interlocutori. - Venga domani - Venga pure domani Esempio di cortesia positiva, con ricorso a figure di attenuazione, euforismi, litoti. L’uso del segnale “pure” in un atto richiestivo attenua la forza illocutiva dell’enunciato da ordine a consiglio. La nozione di cortesia è alla base della distinzione tra mosse comunicative preferenziali (ovvero in linea con i principi della cortesia) e non preferenziali (per cui per mantenere la cortesia bisogna servirsi di una serie di strategie di compensazione come esitazioni, attenuazioni, spiegazioni, che mirano a sanare le lesioni intercorse). - Allora ci sarai? - Purtroppo no, sono già impegnato - Che ne pensi, non è bellissimo? - Mah, a me non piace tanto Una logica della cortesia? La “logica della conversazione” individuata da Grice si preoccupa del successo della comunicazione dal punto di vista della trasmissione del messaggio. Le nozioni di FACCIA e CORTESIA intendono invece esplorare la logica d’uso del linguaggio funzionale. NAMEDROPPING: menzionare un referente con un’espressione meno esplicita del necessario, violando le massime della quantità e del modo. - Parliamone con chi sai tu I due interlocutori individuano e identificano il referente, escludendo il resto degli ascoltatori. - Come disse una volta il mio amico Dario Fo… (superfluo ai fini del riconoscimento del referente, viola le massime di quantità e modo, ma è una strategia per accrescere la propria faccia positiva, nel presentarsi come un amico di un personaggio illustre).
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