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Cromorama: come il colore ha cambiato il nostro sguardo Libro di Riccardo Falcinelli, Appunti di Strumenti Dell'immagine E Del Suono

Riassunto del libro Cromorama

Tipologia: Appunti

2021/2022
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Scarica Cromorama: come il colore ha cambiato il nostro sguardo Libro di Riccardo Falcinelli e più Appunti in PDF di Strumenti Dell'immagine E Del Suono solo su Docsity! GIALLO INDUSTRIALE Francia solo nel 1790. per risparmiare: grafite in polvere,meno costosa e di mischiarla con l’argilla, impacchettandola nel legno (strumento che non sporca mani e vestiti dei professionisti).Il dato sorprendente, è che ancora oggi, nonostante poi l’uso della tecnologia, la maggior parte delle matite prodotte e vendute sul pianeta sono gialle Nella società attuale dunque, il colore non è solo una sensazione, ma è spesso un’idea o un’aspettativa, emoticon..). La caratteristica principale dell’industria è normare la produzione. Si pensa che un difetto visibile è indizio di qualcosa che non va. Quando in realtà non è così. Siamo spinti a preferire sempre quello uguale all’altro. ‘km 0”, imperfezioni sono viste dai consumatori come segno di ‘genuinità’. design ancor prima che oggetti, produce ‘discorsi’, un insieme di saperi, di comportamenti accomunati dalla scala di massa. Un ruolo fondamentale lo hanno i mezzi di comunicazione. Nell'arcobaleno ci sono presenti tutti i colori, ma viene dimostrato che il rosso-rosso, quello della CocaCola o dei papaveri proprio non c’è. Queste contraddizioni sono un aspetto importante della storia del colore. Il mondo del colore ricorda quella stampa giapponese di un grande elefante vecchio, assediato da degli uomini ciechi: alcuni lo toccano, altri lo abbracciano, eppure nessuno riesce a coglierlo nella sua totalità. Questo elefante è una metafora che ci fa capire che è impossibile conoscere la cosa in sé. ROSSO UNITO Per non c’è da scartare che un elemento molto importante nella nostra vita è la ‘velocità’. Viene paragonata la Nutella ad una ‘tinta unita’, e il diplomatico ad un colore articolato. La tinta unita si fa capire all’istante e qua viene mostrato l’esempio del cielo dipinto da Fragonard nel ‘700, con il cielo di un fumetto: il primo è lavorato, insistito, pieno di variazioni e per apprezzarlo richiede una lunga osservazione (come il diplomatico), mentre l’altro è diretto, omogeneo, immediato, come la Nutella. La tinta unita ci dà l’idea di compattezza, di qualcosa di ‘ovvio’. L’industrializzazione ha trasformato la tinta unita da evento eccezionale in fatto quotidiano, fino a farne il criterio in base al quale definiamo tutto il resto. come mai la modernità si sia affezionata ai colori uniformi: immaginiamo come sarebbe il nostro mondo se questi non esistessero. Pensando alle case, muri, tessuti, ci che ci viene in mente principalmente è che senza superfici uniformi sembrerebbe tutto più vecchio o rovinato o sporco. Eppure, è in parte un inganno, perché tutte le cose si rovinano e si sporcano, è inevitabile, ma prima dell’800 nessuno ne aveva fatto un dramma NERO ARTICOLATO “Brillo Box” di Andy Warhol, In quelle autentiche, ci sono delle irregolarità che nessuno nota, quelle di Warhol invece sono fatte intenzionalmente. L’imprecisione tipografica che nelle scatole Brillo è portata dalla tecnologia, in quelle di Warhol diventa pittura, un gesto umano. Piet Mondrian. Un suo quadro, una volta riprodotto risulta unito. Ma il suo ‘rosso’ è un rosso dipinto, se lo osserviamo dal vero e da vicino ci accorgiamo di tante piccole discontinuità decisamente pittoriche. realizzare immagini per la società di massa, che sembrano ‘design’ ma che poi da vicino si rivelino una natura pulsante. L’autore poi, si sofferma sui suoi primi tempi in cui frequentava la scuola d’arte, dove illuso professore di graphic design, li obbligava a dipingere tantissimi quadrati, usando neri di vario tipo. AZZURRO COSTOSO Per tantissimo tempo i colori sono stati ricavati dai tre regni della natura: da quello minerale si estraevano terre, carine e pietre da macinare; da quello animale molluschi e insetti da spremere; da quello vegetale tutte quelle piante i cui succhi rivelano poteri tintori. Oggi i colori, per uso artistico o industriale, sono prodotti sintetici, creati in laboratorio tramite reazioni chimiche. Adesso basta comprarle online senza andare in giro per il mondo. In passato gli oggetti potevano essere solo di alcuni colori, mentre oggi quando parliamo di colore ci riferiamo ad un concetto in parte astratto, diciamo giallo, rosso, blu, verde, ma ogni tonalità ha un proprio nome che ai ‘non intenditori’ sembra non esserci alcuna differenza (sbagliando). I primi pigmenti usati dall’uomo sono le terre, nelle quali basta scavare per trovare il pigmento. Servono per dipingere o per cambiare aspetto agli artefatti, sono terre quelle che danno via alle pitture preistoriche, come i bisonti di Lascaux. Dalle piante si estraggono invece sostanze adatte alla coloritura di cibi, carta e tessuti. Altre tinte vengono dal regno animale, come il ‘rosso di cocciniglia’, tutt’oggi uno dei più diffusi coloranti alimentari (Campari, orsetti gommosi, succhi di frutta). Ci sono poi colori che vengono creati unendo il mondo animale e quello vegetale, come il ‘giallo indiano’, prodotto dando da mangiare alle vacche soltanto foglie di mango, e privandole d’acqua, per prelevare dalla loro urina una polvere gialla con un intenso potere colorante (oggi ricostruito con una formula chimica). I colori quindi non ci si limita solo a trovarli, ma si comincia anche a fabbricarli. Il bianco (la biacca) che troviamo negli affreschi della Roma Imperiale e nella tavolozza di Renoir, ingentilisce i blu e i rosa, schiarendoli. La biacca viene usata a Roma perfino come fondotinta, provocando gravi reazioni cutanee, e dall’altra per fissare il colore si fa ricorso a sostanze acide come l’urina. Da qui si capisce come il colore in passato venisse pensato in maniera diversa rispetto ad oggi. Soprattutto perché, più era difficile da ottenere e più costava. Nel mondo antico ciascun colore ha un suo prezzo preciso. Per lo sguardo antico il blu vale più del nero, immediatamente, a colpo d’occhio. Il blu oltremare, non è solo più costoso, ma è mitico. Si tratta della riduzione in polvere di una pietra semi-preziosa, il lapislazzulo, che arriva in Europa portata da navi provenienti da Paesi lontani, “oltre” il Mediterraneo. Lo troviamo anche nel blu del Rinascimento, nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, nel Cenacolo di Leonardo, nella Cappella Sistina di Michelangelo. Non si compra già pronto, ma questo colore richiede una lavorazione lunga e laboriosa. In natura il lapislazzulo si trova miscelato con altri minerali prima di usarlo è fondamentale sperare il pigmento dalle impurità, poi macinato e aggiunto olio, cera, resina e tutto impastato (descritta da Cennino Cennini). Leggere Cennini è come entrare nel backstage della grande officina del Rinascimento. Qui anche i nomi dei colori sono fascinosi: orpimento, minio, sangue di dragone, risalgallo. Quasi sempre tendiamo a guardare il Rinascimento dal punto di vista degli artisti, eppure se ci sforziamo di pensarci committenti, ci accorgiamo che il rapporto tra i Medici e Botticelli è molto simile a quello che abbiamo oggi con un muratore a cui chiediamo di ristrutturare un appartamento: ci affidiamo a lui per il lavoro ma le piastrelle pretendiamo di sceglierle noi. Il lapislazzulo, lo troviamo nel dipinto del Sassetta ‘San Francesco dona il mantello al soldato povero’ (1437-44), dove vediamo il santo che cede un drappo di stoffa azzurro, ma quello che per noi è un colore come un altro, per il pubblico del ‘400, è senza dubbio ‘blu oltremare’ e quindi il bene a cui san Francesco sta rinunciando è metaforizzato dall’uso del pigmento più costoso. Il lapislazzulo trasferisce un valore dimezzato dentro le opere facendo assumere al colore significati non solo simbolici ma più ampiamente culturali. Il lapislazzulo può avere diversi gradi di purezza a cui corrispondono i relativi prezzi (1-4 fiorini). Gli artisti del Rinascimento si trovano a fare i conti anche con ‘problemi’ simili a quelli dell’oreficeria. Il blu, da colore poco usato nell’antichità diventa dal Rinascimento in poi la tinta più nobile ed apprezzata, fino al punto di essere scelto come la virtù stessa del manto della Madonna nei dipinti in negativo: una figura nitida dal volto scuro col corpo di un verde mare. Si tratta dell’esperienza oggi nota come “immagine postuma”, ovvero i neuroni coinvolti nella visione, dopo essere stati sollecitati per qualche secondo da certi colori e quantità di luce, costruiscono un residuo dell’immagine -> in questo caso, la mente crea un colore dopo aver guardato. La tinta che vediamo nasce per opposizione alla tinta di partenza. Goethe sottolinea che si tratta di tinte suscitate nell’osservatore e non di qualcosa che esiste nella realtà, suggerendo che la mente può produrre il colore anche in assenza di stimoli esterni. Questa cosa fu sbalorditiva perché prima di lì, non si avevano dubbi che i colori fossero qualcosa che stava nel mondo. Ogni colore ha un suo ‘complementare’, come si comincerà a dire da questo momento in poi, cioè una tinta con cui instaura un rapporto di attrazione e di distanziamento, o meglio un’affinità elettiva. Queste scoperte portano ad una psicologia della percezione: la prova che i sensi non si limitano a misurare il mondo ma forniscono al cervello strumento con cui costruire quello che vediamo. Se chiudiamo gli occhi, le cose intorno a noi continuano ovviamente ad esistere, il loro colore no. Chiudendo gli occhi il colore smette di esserci, perché non è qualcosa che esiste a prescindere da un occhio che lo sperimenti. Il colore esiste solo quando un vivente è in grado di dargli voce e consistenza ed è questa cosa che interessa a Goethe. Quello suo e di Newton, sono due punti di vista sul mondo, due modi di maneggiare la realtà: a Newton interessa le cause del colore, mentre a Goethe gli effetti. Newton diventa la ‘guida’ per chi vuole capire la realtà per stabilirne leggi e andamenti; Goethe per chi vuole capire il colore per come si mostra ai nostri occhi. Nonostante questa diatriba venga vinta da Newton, alla fine del ‘900, quando lo studio del cervello diventa la nuova scienza della moda, Goethe viene riscoperto come il primo ad avere intuito gli aspetti psicologici dell’esperienza cromatica. Per questo, la sua posizione si rivela molto più interessante per i linguaggi visivi (‘un colore che nessuno vede è un colore che non esiste’). A raccogliere queste idee di Goethe e a trasformarle in qualcosa di utile a livello professionale, è un chimico, Michel Eugène Chevreul. Lui sostituisce la nomenclatura con dei numeri, introducendo l’uso di cerchi cromatici graduati per metterle in ordine. Chevreul si imbatte in un problema che fa dannare gli artigiani delle manifatture, ovvero quello che il nero dei disegni ricamati sulle stoffe a tinta unita, non sembri davvero nero ma cambi a seconda del contesto. Chevreul, ispirato da Goethe, capisce che quest’effetto non è dovuto alla tintura, ma all’occhio dell’osservatore. Quindi pensa che l’unico modo per risolvere questo problema è barare: modificare le tinte per farle sembrare quello che vogliamo quando vengono accostate le une alle altre. E da questo momento in poi, il mondo degli artisti e dei designer prende atto che non basta creare le cose, ma bisogna progettare anche il modo in cui vengono guardate, cioè preoccuparsi della loro rappresentazione nella mente del pubblico. Chevreul denomina ‘simultaneo’ questo tipo di contrasto, perché accade simultaneamente alla vista del colore che ne è la causa. Ci dedica anche un libro che pubblicherà molto tempo dopo per non farlo pagare troppo (è un intellettuale che vuole diffondere, con facilità, le proprie idee). Avrà un grandissimo successo. Il primo artista ad applicare la teoria dei colori simultanei è Delacroix. Scoppia la moda poi. Gli impressionisti se ne innamorano. Klimt userà persino il blu per le ombre dell’incarnato. Non dipingere le cose come sono davvero, ma come vengono elaborate dalla nostra psiche -> liberazione della materia colorata sarà il fondamento di tutta la futura comunicazione visiva. BLU BOVARY Il colore della veste di un certo personaggio non è mai senza importanza. Vediamo per esempio personaggi la cui identità è legata a una tinta precisa: il rosso di Cappuccetto, il verde di Robin Hood, il bianco della gonna di Marilyn Monroe. Se un narratore ci racconta che qualcuno è vestito di un determinato colore, ci sta dicendo qualcosa. Investighiamo quindi, su alcuni destini dei protagonisti vestiti di blu in letteratura, pittura e cartoni animati, cominciando dalla protagonista di uno dei romanzi più famosi dell’800 francese, Madame Bovary, di Gustave Flaubert. Emma è la protagonista, figlia unica di un piccolo possidente agricolo, che, dopo aver conosciuto le arti, la musica, la lettura, torna a vivere in campagna e si sente stretta. Sogna una vita diversa, mondana, conosce così Charles Bovary, un medico, che accetta di sposarlo perché intravede in lui la possibilità di uscire dai quei confini. In realtà si rivela tutt’altro, molto premuroso e servile e che lei, detesta. Si tuffa così nell’adulterio. Avrà delle relazioni segrete. Lei cerca nelle relazioni extraconiugali un senso che le manca, vuole inseguire quegli ideali romantici scoperti da ragazza attraverso romanzi. Una cosa che combatte soprattutto la noia, un sentimento moderno. Lei cerca il senso nelle cose che capitano o che si possono far capitare, cerca eventi e distrazioni ma anche aspirazioni. Lei desidera il teatro, l’equitazione, giornali illustrati; in camera da letto ha anche una pianta grassa perché lo ha visto fare dalla protagonista di un libro. Così comincia a spendere al di sopra delle sue disponibilità facendo regali agli uomini di cui si innamora, creandosi quindi dei debiti, di cui il marito è ignaro. Non sapendo come tirarsene fuori, e troppo orgogliosa per ammettere la verità, si uccide ingoiando dell’arsenico. Questa storia ha avuto tante definizioni. Sul piano cromatico è un romanzo parco di descrizioni, tranne riguardo al blu che è l’unico colore su cui l’autore torna con insistenza legando fra loro alcuni elementi cruciali. La prima volta che Charles Bovary la vede, lei è vestita di blu, perché il blu spicca, si fa notare, racconta il desiderio di una vita diversa. Il blu non è solo qualcosa che si indossa, è anzitutto qualcosa che si è: Emma ha occhi marrone, che alla luce del giorno brillano di un blu scuro come fossero fati di strati di colore successivo; i capelli emanano anch’essi riflessi blu. Il blu è dunque un colore-tema, ma è anche un colore doloroso: quando uno dei suoi amanti la lascia, lei si affaccerà alla finestra dove lo vedrà allontanarsi in un calesse blu. Di vetro blu è anche il barattolo che contiene l’arsenico. Flaubert non si inventa nulla, il desiderio del blu aveva una storia. Un secolo prima di Emma Bovary, c’era stato un altro omicidio da pare di un personaggio letterario vestito di blu, pubblicato da Goethe, che racconta la storia di un amore impossibile e il protagonista si spara alla tempia e verrà trovato morto con una giacca blu e un panciotto giallo: il blu della giacca del protagonista è una questione identitaria che afferma un proprio modo di stare al mondo (‘anche un animo nobile pu morire per amore’). Diventerà una cosa alla moda vestirsi come questo personaggio. Negli ultimi quarant’anni, le copertine delle edizioni di Madame Bovary, hanno spesso attinto ai ritratti di Ingres, come per esempio quella della Contessa d’Haussonville, vestita di tonalità blu (per aristocratica). L’idea figurativa di Ingres è quella di far vedere lei, che guarda oltre, ci guarda attraverso. Invenzione brillante per l’epoca, divenuta poi lo standard nelle foto di moda, dove tutte le modelle sono distaccate. Vedere oggi una donna con un abito blu non significa comunque quello che poteva significare un tempo. Qui nel dipinto della De Broglie, il colore non si riduce al solo fatto percettivo, ma comunica, giudica e gerarchizza. All’epoca significava prima di tutto poterselo permettere. In ambito di cartone animato, prendiamo come esempio La Bella e la Bestia, prodotto dalla Walt Disney nel 1991. Qui Belle, la protagonista, è un doppio ribaltato di Emma Bovary: la protagonista entra in scena vestita di blu, vestirsi di blu è una diversità di cui si va fieri. Si innamora della Bestia anche lui vestito di blu, col panciotto giallo quando la invita a cena. Lei invece si presenta con un abito giallo luminoso, civilizzante. Per Belle non si tratta solo di domare la Bestia, ma anche imparare ad arginare le pulsioni romanticheggianti che la tengono staccata dalla vita vera. Mitiga il blu Bovary col giallo della concretezza, conciliando razionalità e sentimento. Oggi noi abbiamo molti vestiti con delle tinte che ci donano, o che amiamo, o di un colore che andava di moda e che ora rimane comunque nell’armadio perché non indossiamo quasi mai. Ma quando un personaggio inventato o ritratto veste di un determinato colore, è l’autore che ci sta svelando un suo aspetto caratteriale in maniera indiretta. Flaubert, attentissimo alla lingua, nonostante le varie tonalità di blu, lui lo definisce solo ‘blu’, perché riguarda una categoria culturale e non una lunghezza d’onda. MALVA MODERNITA’ Nel 1793, viene prolungata la libertà di abbigliamento. Prima di allora c’erano leggi che stabilivano quali abiti dovessero essere indossati per classe, ruolo e mestiere. Ora invece, per la prima volta nella storia umana, non si è più sudditi, ma cittadini liberi di scegliere, di vestirsi come si vuole e quindi liberi di comprare. Insieme alla moda si afferma anche il concetto di gusto e il successo di chi lo esercita. I giornali raccontano di ogni ballo, evento e si dilungano sui dettagli dei vestiti, delle acconciature, accessori indossati dai VIP: una loro scelta determina la fortuna o la fine di una merce. È proprio la regina Vittoria che sancisce un passaggio per la storia del colore, presentandosi al matrimonio della figlia, con un abito dalla tinta insolita: un viola acceso, brillante, quasi elettrico. E da qui scoppia la moda, dove tutti vogliono il ‘malva’ per vestire e per arredare. Questo vestito è tinto tramite il primo colorante della storia, creato quindi tramite processi in laboratorio e non ricorrendo a materie vegetali o animali. Da qui il mondo del colore è cambiato per sempre. Oltre a lei per , c’è stata un’altra storia che fa cambiare le sorti dell’abbigliamento, ovvero dovuto a William Henry Perkin, studente di chimica che cercando di sintetizzare il chinino (usato per combattere la malaria), ottiene una sostanza e si accorge che dissolvendolo nell’alcol, dà un effetto violaceo e pensa se è possibile farne un colorante per tessuti. Facendo delle prove capisce che è possibile. Il talento di Perkin non è in ciò che scopre, ma nell’uso che ne fa: inizia una produzione battezzandola con un nome che cambierà dopo due anni, ovvero ‘mauve’, cioè ‘malva’ in francese. Farà un grandissimo successo. Prima di essa, le stoffe si coloravano in modo diverso attraverso 10 procedimenti che servivano per ottenere un determinato colore. Nell’Ottocento infatti il mondo dei tessuti è caratterizzato da una continua innovazione tecnologica, simile a quanto accade oggi con l’elettronica. Ci sono stati degli avanzamenti della chimica, che tra il 1700 e il 1820 cambia il volto del mondo permettendo non solo di colorare, ma modificare, alterare le cose e curare le persone. In meno di 150 anni vengono creati colori nuovi e seducenti come per esempio il blu di Prussia usato da Hokusai per la famosissima onda. Ma il primato di Perkin è quello di aver sintetizzato non un pigmento per l’arte ma un colorante per tessuti che apre la porta ad uno dei più grandi business della modernità: la MODA. Nella nascente società di massa, la gente si ritrova col tempo libero che va immerso con attività ricreative: contemplazione di un’opera d’arte e shopping sono divenute entrambe forme di intrattenimento. ‘guardare’ è la condizione principale di queste inedite pratiche sociali. Il pubblico viene educato incantando, informandolo e raccontandogli una storia. Si disegnano teche per l’arte e altre per le merci. Non a caso la teca del museo e quella del negozio si chiamano entrambe "vetrine". La vetrina è uno schermo trasparente dove vediamo visioni del mondo e della storia, del presente e passato, modi di essere, di fare e di vestire. Questo processo viene coronato a metà del secolo dall’apertura della Prima Grande esposizione internazionale in cui si mostrano oggetti nuovi, oggi diremmo di design, che provengono dai quattro angoli del globo. Si rappresenta perché il pubblico ne discuta e che si faccia un’opinione. Il modo migliore per imporre dei nuovi valori è quello di parlarne. Si è diffusa l’idea che il pubblico sta là fuori e aspetta che gli vengono proposte delle cose da guardare, da ascoltare, da leggere. Chi fa questo lavoro, per esempio all’interno della pubblicità, viene giurato al pubblico di dargli quel che chiede, ma in realtà il pubblico non sempre ha quel che vuole, il pubblico vero si costruisce. John Rand, 1841: nella pittura si inventa qualcosa per costruire un pubblico nuovo e smuovere l’arte. Lui decide di commercializzare colori ad olio già impacchettati e confezionati dentro una lamina di piombo chiusa da un tappo. È nato così il colore in tubetto. Questa trasformazione non è tanto per i professionisti ma per tutti gli altri. Il Technicolor si può dire che è il coronamento definitivo delle idee di Leblon e di Maxwell. È un’invenzione di tre ingegneri -> la cinepresa monta tre pellicole in bianco e nero, ciascuna filmata con uno dei tre colori primari; alla fine le tre strisce vengono ricomposte su un’unica pellicola, aggiungendoci del nero per contrastarle meglio. Il technicolor non è una pellicola che si sviluppa, ma si imprime. Sembra un’immagine stampata del tipico cinema mainstream degli anni Trenta e Cinquanta (per esempio Il mago di Oz). Per il film “Via col vento” vennero noleggiate 32 cineprese (era un processo costoso e laborioso). Il Technicolor è visto come un effetto speciale: nella Disney per esempio, è ricorrente il personaggio che cambia colore all’improvviso (rosso di rabbia, verde d’invidia, per il freddo diventa blu…). Questa cosa diverte il pubblico per l’aspetto comico ma anche per quello tecnologico: oggi pu sembrare una banalità ma prima nessuno aveva mai visto un disegno cambiare colore. Nel mondo attuale il colore è tutt’uno con le tecnologie che consentono di riprodurlo, diffonderlo e farlo conoscere. La tecnologia determina quello che è possibile vedere, fino a condizionare il modo in cui riusciamo a pensarlo. Per esempio: il National Geographic, ha usato per decenni la diapositiva ‘Ektachrome’ che permetteva di scattare con tempi veloci e risultava essere perfetta per reportage naturalistici. In quegli stessi anni la pellicola più venduta era la “Kodachrome”, più lenta, ma dai rossi pieni, perfetti per le foto delle vacanze. La differenza tra le due è che la Etkachrome puntava all’azzurro, la Kodachrome dava sul verde. La tecnologia non è mai neutra, suggerisce sempre un punto di vista sulle cose. Grazie alla fotografia, oggi le opere d’arte del passato hanno una diffusione sempre più maggiore, come per esempio quelle degli Impressionisti, di Van Gogh, Klimt e Matisse. Perché ritraggono temi come luoghi quotidiani, paesaggi, erotismo soffuso. Ma il loro successo è dovuto anche dal fatto che sono pitture facili da riprodurre, perché le tinte sono omogenee a quelle che si ottengono in stampa. GRIGIO ARMONIOSO Entrando in un negozio d'abbigliamento, per esempio, veniamo alla ‘scoperta’ che esista un’armonia tra certi colori e che alcuni di questi si addicono meglio a certe persone. ‘Armonia’ è una parola che proviene dal lessico musicale: si riferisce alla combinazione simultanea di due più suoni. In pittura e nel design, armonia è sinonimo di equilibrio, ordine, coerenza, consonanza. Ma che cos’è l’armonia di colori? Negli ultimi due secoli ci sono stati scienziati, artisti e filosofi che hanno provato a rispondere a queste domande. La maggior parte delle teorie si è concentrata proprio sulla ricerca di un’ipotetica perfezione. Poi in epoca moderna siamo arrivati alla ‘razionalizzazione dei colori’, quindi a delle regole universali sulle tinte e sulle loro combinazioni migliori. Nel 1919, arriva al Bauhaus una figura vagante e pittoresca, un seguace della setta Mazdaznan ispirata allo zoroastrismo, si chiama Johannes Itten: le sue idee sono destinate ad un enorme successo infatti tutti i manuali d’arte, grafica o moda ne fanno riferimento. Itten è interessato a quello che succede nel famoso ‘cerchio cromatico’, ossia si concentra sui rapporti che si creano passando da un colore all’altro. Dimostra come da tre tinte primarie, si generassero le secondarie e le terziarie e usa questa struttura per evidenziare alcuni accostamenti ‘armonici’ , cioè più piacevoli di altri, prendendo i colori che giacciono sulla circonferenza a gruppi di due o di tre seconda rapporti di quadratura o triangolazione. Poi si concentra sulle relazioni espressive che si vengono a creare tra le tinte: ne individua sette e li definisce ‘contrasti cromatici fondamentali’. C’è il rapporto tra chiaro e scuro; opposizione di colori puri; di complementari; il gioco delle tinte più o meno sature. Si dedica soprattutto al contrasto di quantità, ovvero quello che si verifica quando all’interno di un’opera le superfici cromatiche si presentano con, per esempio, molto blu e poco arancio (marcatamente disuguali). Seguendo questo ragionamento costruisce così un altro cerchio, in cui lo spazio dedicato alle 6 tinte principali è diviso in segmenti inversamente proporzionali alla quantità di luce che le tinte riflettono. Lui dice che se esiste un valore luminoso caratteristico per ogni colore, queste differenti quantità di luce dovrebbero equilibrarsi: rosso e verde, che hanno la stessa luminosità, dovrebbero dividersi lo spazio della tela metà per uno, mentre il giallo, tre volte più luminoso del viola, dovrebbe occupare una superficie tre volte più piccola. I colori vengono ricondotti quindi attraverso la loro brillantezza e questo accade tra le note nel sistema armonico tonale. Si può stabilire un paragone tra l’altezza di un suono e la chiarezza di una tinta (anche se il susseguirsi delle tinte nello spettro, non segue una logica simile a quella delle note sul pentagramma). Il sistema nervoso codifica suoni e colori in modo del tutto differente. L’occhio se io sommo blu e giallo vede il verde ed i giallo e blu scompaiono. Per l’orecchio invece, un Do e un Mi suonati in contemporanea non producono un Re (intermedio tra i due), bensì un accordo in cui entrambi i suoni sono distinti e riconoscibili. Ed è proprio per questo che Itten sostiene che ci sarebbe armonia quando la risultante di tutti i colori restituisce un grigio medio: questo accade nello scontro metà rosso e metà verde, o viola e giallo. Non è un grigio visibile, ma matematico. Si tratta di equilibrare i colori come sui piatti di una bilancia (tinte mescolate e non affiancate). Qualche anno prima di Itten, c’è un altro professore che propone un modello fondamentale per il secolo che sta per entrare, si chiama Albert Munsell, il quale finisce col parlare di armonia, sebbene i suoi scopi siano lontani per da quello che sosteneva Itten. Tinte diverse al massimo della saturazione, mostrano luminosità differenti (giallo saturo è più luminoso del blu saturo). Munsell sostiene che non si possono ingabbiare i colori dentro uno schema rigido. Non si basa su cerchi, triangoli o sfere e propone una forma tridimensionale, simile ad un albero dai rami di lunghezze diverse, composti di tasselli di colore sistemati in progressione: il fusto indica la luminosità e salendo dal basso verso l’altro si procede dal buio alla luce. Le tinte sono disposte in circolo ed i rami rappresentano i gradi di saturazione, più si va verso l’esterno più si hanno tinte piene. Anche lui quindi, qui, come Itten, sostiene che una composizione armonica sia quelle in cui la mescolanza delle tinte, di luminosità e di saturazione produce un grigio neutro. Il compito dell’artista è quindi equilibrare i tre parametri (tinta-luminosità-saturazione) e per dimostrarlo, in un suo manuale, Munsell ci propone due installazioni, una sbagliata e l’altra in cui le tinte sono ‘aggiustate’ seconda la sua idea di armonia. Dice che solo la seconda mescolanza è corretta perché produce il grigio medio. Munsell afferma che pubblicità e circo, possono concedersi accostamenti disarmonici in quanto sono pensati per una visione temporanea, non durevole nel tempo. Ma c’è anche il pensiero del filosofo pessimista Arthur Schopenhauer (lui si basa sulla cultura orientale - Itten pensava di ispirarsi a Goethe, ma in realtà si tratta di Schopenhauer) il quale sostiene che per ottenere una consonanza cromatica, si deve controbilanciare la quantità di luce riflessa dalle tinte. Lui sostiene che il mondo fenomenico (rappresentazione), è un mondo di sofferenza e di illusione. Solo tramite l’arte o la morale (due delle tre vie di liberazione), ci si ‘rifugia’ in un mondo di perfezione. Nell’arte le composizioni cromatiche armoniche, darebbero allo sguardo dell’individuo una sorta di pace, allontanando la sofferenza. Si può pensare anche alla cultura zen, allo Yin e allo Yang, che garantiscono la vita quando sono in simmetria, mentre generano malattia quando la perdono. Anche Kandinskij dice che l’armonia dei colori è fondata su un solo principio: il contatto con l’anima. Anche a livello di medicina, per esempio, un fisiologo cominci a curare gli attacchi isterici sottoponendo i pazienti a flussi di luce colorata, quindi ad una ‘cromoterapia’, secondo cui il potere della luce doveva ristabilire la pace psichica perduta. Dai fiori di Bach, alle pratiche di meditazione, terapie junghiane, test cromatici di Luscher, oggi non c’è ambito in cui qualcuno non abbia da dire sui colori e sul loro potere terapeutico. Luscher per esempio afferma che il blu è il senso di appartenenza, giallo è cambiamento e verde autostima e sostiene che ogni colore è un segnale definibile con esattezza. Itten invece, sarà il primo ad associare le scelte cromatiche con i tipi umani, sostenendo che i colori che un artista sceglie, corrispondono ai suoi tratti fisici e caratteriali: biondo con gli occhi azzurri= tinte vivaci; mori per colori tetri e così via. Color-Me → libro USA su come abbinare colori al trucco Itten ha influenzato tutte quelle correnti di successo, in primis moda e arredamento, che spiegano come abbinare le tinte all’aspetto fisico e alla personalità. Detto questo però, si può anche non cercare l’armonia, perché spesso è proprio la mancanza di equilibrio a rendere notevoli le opere più interessanti della storia umana. Le teorie del colore ce l’abbiamo addosso tutti i giorni, senza rendercene conto. Parte terza- Artefatti MARRONE NEURONALE Due studenti neurobiologi, fanno una ricerca sulla visione, prendendo in esperimento un gatto e gli hanno impiantato un elettrodo nel cervello per capire cosa accade quando si guarda qualcosa. Gli sottopongono la proiezione di immagini elementari disegnate su cui vetrini (pallino nero su fondo bianco), capiscono poi che il neurone non è eccitato dal disegno sul vetrino ma dal vetrino stesso, perché il bordo del vetrino quando viene inserito nel proiettore, getta sullo schermo una leggera ombra verticale, ed è questa linea in movimento che piace alla cellula del gatto: il neurone è sensibile alle righe verticali che si spostano verso destra. Prima si pensava che le immagini si formassero nella testa secondo qualche processo misterioso. Mentre questi due studenti dimostrano che le cellule della corteccia sono specializzate: ci sono quelli a cui piacciono le righe verticali, a chi quelle diagonali, alcune ignorano il movimento altre lo amano. Il neurone si eccita o si inibisce di fronte a un certo stimolo: una massa gelatinosa di cellule genera il pensiero, le azioni, i movimenti (‘la sensazione di esistere’). il cervello è interessato non tanto alle cose, quanto alle discontinuità presenti nella scena: spigoli, bordi, punti luminosi o cromatici, che ci aiutano a decifrare forme e spazio. Young sostiene che queste cellule che chiama ‘coni’, sono di tre tipi e ciascuno è sensibile ad una certa fetta di lunghezza d’onda. Un cono, non sa niente del colore. Il suo compito è solo quello di contare i fotoni da cui è colpito, cioè le particelle che compongono la luce. I coni dicono che sono sensibili a rosso blu e verde, ma il giallo ci appare comunque come una tinta primaria. Il giallo dice Hering (altro studioso), dal punto di vista psichico fa parte dei colori primari (quindi non sono 3 ma 4 per lui). Arriva alla conclusione che alcune tinte siano in relazione tra loro: esiste il giallo, poi il giallo che tende al rosso e quello che tende al verde. Ma non esiste un giallo che tenda al blu. Proprio per questo Hering affermerà che i colori più distanti a livello percettivo sono ‘antagonisti’, tipo blu e giallo, rosso e verde. La comunicazione che la retina fa al cervello quando vede un colore è doppia, ovvero: se i coni percepiscono del giallo, secondo la teoria di Hering, allora non pu esserci del blu. I colori vanno in coppia e si cancellano l'un con l’altro. Insomma secondo Young, i colori primari a livello della retina sono 3, mente per Hering diventano 6, uniti in tre coppie di opponenti (blu-giallo, rosso-verde, bianco-nero). Vedere il colore non è solo frutto di una elaborazione della retina e delle sinapsi, ma anche una costruzione mentale: il colore è solo dentro la nostra testa, ragion per cui la scienza può misurare la temperatura, ma non il caldo che ciascuno di noi prova. Il colore ci serve per entrare in relazione col mondo che ci circonda: distinguere una frutta cerva da quella matura per esempio. Un foglio bianco è tale sia alla luce di mezzogiorno sia di notte. Se ci basassimo solo sul colore bianco, non sarebbe possibile vederlo al buio: riconosciamo le cose a prescindere dall’illuminazione (‘costanza cromatica’). La corteccia visiva ci permette inoltre di vedere alcuni colori non presenti nell’arcobaleno, come marrone e grigio ed il motivo lo possiamo spiegare attraverso un altro esperimento: immagina di essere in una stanza buia e di proiettare sul muro una gelatina gialla da 100watt. Il giallo che vedrai Altro esempio di questo processo è visibile nel film di Kubrick, “Eyes Wide Shut” dove una parte del frame è completamente calda ed una fredda. Con questa contrapposizione Kubrick ci fa vedere come la zona comfort e rassicurante del matrimonio data dalla stanza illuminata dai toni giallo-arancio verrà messa a rischio da agenti esterni provenienti da fuori (bagno illuminato di bulino quanto dà sulla strada). Il contrasto più sofisticato è quello della simultaneità. È il fenomeno per cui il nostro occhio, sottoposto a un dato colore, ne esige contemporaneamente, cioè simultaneamente, il complementare e, non ricevendolo, se lo rappresenta da sé -> Si ha quando una tinta vira verso il complementare di quella che ha di fianco: tipo un grigio che tende al verdastro se posto su uno sfondo rossiccio. Alcuni esempi di questa tecnica li troviamo nei dipinti di Monet e di Morrisot. Le teorie di Itten sono 7: -contrasto di colori puri: i colori primari hanno una forza luminosa pazzesca -contrasto di chiaroscuro: bianco e nero sono gli opposti, in mezzo abbiamo il grigio che pu anche derivare dalla mescolanza di due complementari -contrasto di freddo e caldo: il freddo è il blu, il caldo è il rosso. Le tinte possono essere rese più calde o fredde aggiungendo uno dei due colori citati -contrasto dei complementari: sono gli opposti ma che si richiamano reciprocamente e che, se mescolati, danno il grigio (quindi annullano) -contrasto di simultaneità: ogni colore produce simultaneamente il proprio contrario; è un fenomeno che accade a livello della retina. -contrasto di qualità: con ‘qualità’ si intende la saturazione del colore; questo contrasto lo abbiamo tra colori puri ma anche tra puri e altre tinte più offuscate; -contrasto di quantità: la luminosità del colore incide su come lo percepiamo e di conseguenza di come percepiamo gli altri. Dobbiamo aggiungerne ancora due. Il contrasto di cromatici per cui viene fatta una scelta stilistica dove si contrappone il bianco e nero ad un’altra singola tinta, come ad esempio il rosso (esempio ‘Shinderlist’) e il contrasto di coppia per cui due tinte unite ed omogenee si contendono il frame con pari dignità come ad esempio il filo nero e giallo della polizia. Possiamo affermare che ciò che attira la nostra attenzione è uno scarto visivo di qualunque tipo e che gli artefatti di successo vertono sull’efficacia di un qualche tipo di contrasto. Quando vediamo qualcosa che non ci piace a livello grafico o visivo, significa che non è stata data un’importanza alla gerarchia visiva. ROSSO SIGNIFICANTE Il capitolo si apre con riferimento alle Smarties, pastiglie di cioccolato ricoperte di zucchero, che introducono una novità cromatica rispetto agli altri dolciumi: si presentano in otto colori diversi, ma il gusto è uguale per tutte. Le Smarties sono una variante semplificata dei confetti italiani, dove il colore del confetto indica una situazione come per esempio rosa o celesti per festeggiare l’arrivo di un neonato; rossi per la laurea, oro o argento per il matrimonio. Nelle Smarties le tinte non hanno valore simbolico; il colore suggerisce che si tratta di un prodotto rivolto ai bambini. Il colore in questo caso ci parla anche di un inquadramento commerciale, cosa che non avviene con i confetti. Prendiamo come altro esempio l’iMac dell’Apple, un computer all’avanguardia del design, lanciato nel 1999. Gli iMac stupiscono soprattutto per le tinte sofisticate, cangianti, come quelle di una pietra dura. È il primo computer che si propone come oggetto ‘sportivo’, per il tempo libero e il divertimento. Un computer ‘personal’, come un capo di abbigliamento, un prodotto per tutti. Prima c’erano pc con colori che diciamo sottolineavano le loro ragioni ‘professionali’. Con l'uscita di Internet invece, le cose cambiano, perché anche la realtà che frequentiamo attraverso il computer, non riguarda più solo le esperienze lavorative, come dimostrano i social network. Apple anticipa questi nuovi ‘riti’, cambia il codice commerciale e quello iconografico con cui vengono disegnati e comunicati i ‘calcolatori’. l’iMac è tondeggiante, morbido, quasi gommoso. Tinte vivaci e sorprendenti. La pubblicità che sosteneva questo nuovo modo di pensare e disegnare i prodotti era sostenuta dallo slogan ‘Think different!’, cioè pensare in maniera alternativa. Possiamo capire come, con il Mac, si arrivi all’idea che avere uno stile personale è fondamentale per rimanere impressi nella mente delle persone. Con l’andare degli anni Apple creerà iPod e iPhone, i quali non sono solo degli oggetti ma anche delle pratiche sociali, ossia un modo di stare e di essere. Lo spot pubblicitario del lancio del primo computer Macintosh (della Apple), è ambientato sotto colori bianco e nero ed in uno scenario di tinte smorte, comprare una ragazza che infrange lo schermo, lo fa esplodere rivelando il logo Apple: una mela vivacissima, colorata come un arcobaleno (quindi i colori bianco e nero passano in secondo piano dando spazio a colori vivaci). Con Apple, si pu essere sé stessi, colorati e spontanei. Il successo è immediato soprattutto nei cosiddetti ambienti creativi. Designer, scrittori, stilisti, fotografi, tutti comprano ed usano Mac. Non nasce così dal nulla , ma le idee trovano un precedente: la macchina da scrivere Valentine, disegnata da Ettore Sottsass, per la Olivetti nel 1969. Sottsass, nel pieno dei movimenti di liberazione (maggio ’68 o i tre giorni di Woodstock, che introducono il vestirsi, comportarsi, fare sesso come si preferisce), propone questo strumento compatto, leggero, colorato. È il primo apparecchio che si propone di essere utilizzato fuori dall’ufficio: ha una funzione poetica, un’intenzione estetica con cui si pensano le cose della vita quotidiana. Il rosso di Valentine non è una laccatura, ma è il colore stesso della plastica con cui viene realizzata. Il rinnovamento del design italiano del secondo dopoguerra, è la storia di una classe di imprenditori che cominciano a investire concentrandosi sulla lavorazione di materiali innovativi (lavabili, componibili, flessibili). I classici del design che arredano le case di quegli anni (’60-’70), si distinguono proprio perché non sono colorati ma sono fatti di materia colorata. Il materiale con cui è fatta la macchina di Sottsass, si chiama Abs, un polimero termoplastico che permette di creare oggetti rigidi ma leggerissimi (mattoncini della Lego, giocattoli). In questo senso il ‘rosso’ di Valentine allude solo in parte al colore della ‘rivoluzione’ (perché con Sottsass abbiamo l’idea di Apple). Il rosso spicca perché rappresenta la forza, basta pensare a colossi come ‘CocaCola’, la colla Pritt, estintori, Ferrari, Campari (non solo per le grandi marche). Pensiamo a due oggetti comuni: un trapano e un frullatore. Qui il colore è allo stesso tempo simbolo, ruolo e discorso commerciale. La plastica colorata serve quasi sempre a proteggere il meccanismo e allo stesso tempo ad evidenziarne la marca. Per esempio, il trapano della Bosh è nero e verde rispetto all’arancio ed il nero del Black&Decker. La scelta di farsi riconoscere tramite l’accostamento di due tinte non è solo un’invenzione dei pubblicitari moderni, ma già dall’antica Roma. La coppia di due tinte viene memorizzata subito, e recepita meglio, rispetto alla singola tinta. Pensiamo alla telefonia: rosso e blu per Tim, bianco e rosso per Vodafone, arancio e blu per Wind. Ritornando all’esempio del trapano e dei frullatore, bisogna pensare che a livello di meccanismo sono entrambi prodotti elettrici che cambiano di potenza ma che hanno comunque la stessa funzione. Oltre a distinguerli per la forma, ci corrono in aiuto i colori candidi del frullatore rispetto al verde montano del trapano. Uno ha un uso interno, l’altro anche esterno ed è per questo che è stato scelto il verde. Il trapano ha un indole maschile, perché scuro, violento, brutale, mentre il frullatore è candido, gentile quasi sanitario riconducibile più alla donna. Il frullatore Minipimer è potente ugualmente ma a differenza del trapano in cui si vede la lama, nel frullatore la lama che trita è nascosta. A ribadire le differenze sono anche dei fattori estetici: il colore nero sembra più impegnativo e difficile rispetto ai colori chiari, come per esempio i pesi delle donne in palestra sono colorati, quelli dei bodybuilder neri. Si tratta di differenziazioni di genere che non vanno tanto in base al sesso quanto ai luoghi: l’officina per primo, la cucina per il secondo (uomo-donna). Karin Ehrenberger ha progettato due nuovi elettrodomestici scambiando i colori e le forme del trapano con quelli del frullatore: il frullatore super agguerrito mentre il trapano sembra quasi uno strumento da ginecologo e gran parte di questi significati vengono veicolati dal colore. Degli oggetti per , come ha sottolineato un designer italiano Andrea Branzi, percepiamo l’identità cromatica prima della forma e della funzione. Questo esempio è riconducibile alla pragmatica del colore, in ambito semiotico, il che vuol dire che le tinte e i colori significano in quanto veicolano dei messaggi: Pepsi è blu perché vuole passare il messaggio di non essere come la Coca Cola. Come per esempio, una lampadina rossa, accesa, ci pu condurre a significati legati al sesso o alla pornografia mentre tante luci colorate, ci conducono per esempio al divertimento, all’aspetto festoso (Luna park). Mentre se la lampadina rossa è vicino a una verde, solo allora il rosso significa ‘divieto’. La comunicazione non sempre è diretta, ma è un processo. C’è chi associa, per esempio, il verde del trapano alla montagna ma c’è anche chi non gli dà peso, non bada ai colori. Non sempre il colore ha un messaggio specifico come nel caso della colla Pritt che non si sa perché sia rossa. In questo caso il colore ha solo un ruolo, cioè quello di differenziare la Pritt da altre colle. VERDE ASPRO Nel capitolo partiamo con un esempio del colore arancione, che spesso associamo alle carote in quanto pensiamo siano sempre state così. Non è vero: le carote sono divenute arancio per mano dell’uomo che ha unito l’ortaggio ad una radice color arancio, ed ecco le carote che conosciamo tutti. Questo per dire come il colore dei cibi sia da sempre stato fondamentale. Oggi tutti i cibi sono controllati tramite strategie industriali che non sono altro che design. È importante per le industrie che li pubblicizzano, far sì che un determinato cibo abbia lo stesso colore che avrebbe in natura, ed è per questo che vengono controllati, attraverso l’attenzione dei mangimi che si danno negli allevamenti e sostanze per correggere la cromatura. Questa procedura non è nient’altro che un controllo delle ‘apparenze’. Infatti un burro troppo chiaro, potrebbe essere scambiato per strutto mentre un burro troppo scuro potrebbe sembrare rancido: questa categorizzazione viene fatta dalla nostra memoria in base a qualcosa che conosciamo già e che ci ha dato delle esperienze positive. L’esattezza della tinta non lascia spazio a dubbi. Ovviamente c’è anche una componente culturale per quanto riguarda le tinte: in Francia, la maionese è molto gialla, mentre in Italia più pallida. Negli USA non comprano le uova dal guscio scuro ma solo da quello chiaro. I colori insomma, non cambiano solo per una questione geografica ma per un’intenzione consapevole associata all’idea che ogni cultura si fa sul cibo. La gestione del colore nell’industria alimentare è fondamentale per il risultato finale: il blu ad esempio non è molto usato in quanto ci riporta al pensiero di muffa: qui interviene la memoria di cui parlavamo prima, l’associazione tra un colore ed il sapore che rappresenta. In occidente si tende ad associare il nero all’amaro, il grigio al salato, il giallo al grasso, verde all’acido anche se non c’è un codice rigido (rosso= dolce ma anche piccante). Il primo ad interessarsi alla sinestesia dei colori fu il cugino di Darwin, Galton che si accorse come alcune persone vedessero i numeri colorati. Un esperimento sul fonosimbolismo è quello delle forme di Kohler del 1930, dove una forma chiusa è curva, l’altra a spuntoni: abbiamo due nomi, Maluma e Takete. Maluma è la forma morbida, mentre Takete è quella a spuntone. Questo è possibile perché il cervello messo di fronte a due oggetti diversi produce sempre delle relazioni sinestetiche, ovviamente basate anche sulle nostre esperienze personali. Un altro esperimento afferma che una bevanda uguale ma data tre volte con tre colori diversi produce tre sapori distinti: verde=aspra, rossa=dolce, marrone=amara. L’effetto di eccitazione dura pochissimo tempo e poi ritorna allo stato di quiete. Quindi forse questo effetto non è dovuto dal colore, ma magari al cambio di scenario, perché magari è anche la stanza che ci trasmette un senso di claustrofobia. Oltre a questo, viene detto che colori come il rosso ci danno l’impressione di uno spazio più stretto, mentre l’azzurro, forse perché lo colleghiamo al cielo o al mare, ci dà la sensazione di sconfinatezza e quindi di conseguenza, di pace. È chiaro che niente di tutto questo ci dice qualcosa di plausibile. Si parla di ‘debolezza scientifica’ perché queste percezioni accadano all’interno di precisi situazioni psicologiche. La sensazione che un colore ci suggerisce è legata molto al tipo di contesto e mai alla tinta. Per esempio, prima gli ospedali, nell’800, erano completamente bianchi. Adesso vediamo come i camici dei dottori, siano di un azzurro o di un verde, per una pura ragione tecnica: perché si asseconda l’esigenza psicologica di un’atmosfera ‘riposante’ e soprattutto perché per i dottori, dopo aver fissato il rosso del sangue, se si muove lo sguardo su un campo neutro, si vedranno delle macchie verdastre che possono disturbare, ma se si è circondati di verde, le macchie si confondono col contesto e permettono la concentrazione. La proposta di dipingere gli ambientale degli ospedali di un ‘verde riposante’ è stata di Flagg nel 1924. Negli spot pubblicitari, vediamo come l’azzurro o verde sia la confezione (quindi della cura) ed il rosso l’infiammazione da curare. Quindi il rosso del ‘dolore’ diventa azzurro quando fa effetto il farmaco. Un esperimento recente sostiene che si è più creativi in una stanza completamente azzurra. Ovviamente non è così, non possiamo dire che Stephen King, avendo scritto oltre 80 romanzi mentre Tolkien per esempio, solo 8, sia meno creativo di King. Certi dati come questo, sono dati per ‘ricerca scientifica’. Una stanza non può rendere più creativi in base al colore. Se tutti gli ambienti fossero azzurri e creativi, nessuno lo sarebbe più. L’unica stanza davvero creativa è quella che ci siamo dipinti da soli. Uno degli esperimenti più stravaganti è quello di John Ott, l’inventore della cinematografia timelapse, cioè la ripresa a scatto singolo che ci fa vedere in mezzo minuto un fiore che nasce, sboccia e muore. Lui alleva dei visoni e li divide in due gruppi: il primo gruppo lo fa vivere sotto una luce rossa e l’altro sotto una luce blu, concludendo che quelli sotto la luce rossa, diventano più aggressivi e non riescono ad accoppiarsi facilmente, mentre quelli sotto la luce blu, fanno tanti figli e sono docili. Forse perché il blu ricorda più l’ambiente naturale. Poi prova con i topi e li divide in 3 gruppi: alcuni con luce bianca, altri rosa e altri blu e scopre che con la luce blu i figli dei topi sono al 70% maschi, con lanosa sono al 70% femmine e con la bianca sono metà maschi e metà femmine. Fino all’Ottocento era il contrario: il rosa spettava ai maschi, perché era sentito come una visione addolcita del rosso, mentre il celeste alle bambine in omaggio al manto della madonna (ai tempi sempre blu lapislazzulo). Si parla quindi di convenzione, di stereotipo di genere. Prima per esempio, l’abbigliamento di uomo e donna era molto simile, e se una donna metteva un mantello di un maschio, non era definito un gesto bizzarro. C’è stato un fatto biologico che ha contribuito alla costruzione di questo ‘mito’ (blu per maschi e rosa per femmine): daltonismo e le sue varianti riguardano solo gli uomini; la gamma dei rossi e dei rosa che più spesso non viene riconosciuta (8%). Un dato del genere quindi ha partecipato a diffondere che per esempio, i prodotti destinati ad un pubblico maschile siano blu, perché tutti i maschi sono in grado di vederlo. Oggi in tanti si rifiutano di vestire i figli con azzurro o rosa. Quindi questo può condurre a ‘cancellare’ questo codice dalle nostre abitudini visive. Riguardo al rosso, ci fanno notare che questo colore caratterizza i genitali di molti mammiferi: bocca, lingua, sangue, fuoco: tutti elementi che spiccano. Per tali ragioni il rosso viene legato al sesso, passione, allarme e pericolo. Per il sangue, è rosso, quando lo vediamo in piccole quantità ma in realtà quando scorre è più spesso marrone, quasi nero. Sicuramente se si crescesse un bambino in modo tale che non potesse mai ferirsi, collegherebbe il colore rosso ad altro. Ma questo ovviamente sappiamo che è impossibile, perché ognuno di noi entra prima o poi in contatto col sangue e non c’è uomo che possa sottrarsi a queste associazioni. È l’associazione a essere inevitabile, non il suo significato. In Cina per esempio, l’amore e la passione è rappresentata da tinte chiarissime e delicate. I colori vivaci li colleghiamo spesso a situazioni e sentimenti allegri, ma nulla ci vieta di fare il contrario e costruire significati positivi con toni spenti e cupi. Concludendo, oggi per molte persone il colore rosso si è rivelato eccitante e aggressivo dell’azzurro, ma al di là delle considerazioni statistiche, non possiamo spingerci oltre. TURCHESE REGISTRATO in questo capitolo viene raccontata la scelta del colore per il catalogo di Charles Lewis Tiffany, che sceglie appunto una varietà di turchese: si tratta del colore delle uova del merlo americano. Con questo colore vengono realizzati tutti i materiali promozionali della Tiffany&Co. Oggi il colore ha un suo codice di riferimento (il Pantone 1837) ma se andiamo a cercarla nella mazzetta, non compare, perché in alcuni Stati è un marchio registrato prodotto in esclusiva per la gioielleria. Ci furono dei ‘litigi’ da parte di alcune multinazionali sul copyright cromatico (come la Bp, Louboutin, Zara, Yves Saint Laurent…). È possibile proteggere un colore? Possono rispondere solo scienziati e filosofi. Quando possiamo dire che due colori sono UGUALI? Molte volte ci succede di prendere due calzini che ci sembrano entrambi neri, e solo dopo, alla luce del sole, di vedere che uno è in realtà blu. Dentro casa, con la luce a incandescenza, il blu ci appare indistinguibile dal nero, ma al solo si rivelano due tinte distinte. Di fronte a questi problemi, la multinazionale americana General Electric, suggerisce che se due colori appaiono identici, sia sotto una luce fluorescente che quella a incandescenza, solo allora possono essere definiti ‘uguali’. Cerchiamo di capire ‘il vero colore’, quando andiamo a comprare qualcosa, ma considerare che la luce del sole sia più attendibile di quella di una lampadina è una convenzione. Noi viviamo in un mondo in cui la luce cambia di continuo e possiede tante colorazioni a seconda dei momenti e dei periodi dell’anno. Nel mondo del design viene raccontata una storia, di un locale negli anni sessanta del novecento, dove il ristoratore per dare un tocco nuovo al suo locale, mette delle luci rosse. Anziché scegliere delle lampadine rosse, che contengono un po’ di lunghezze d’onda verdi e gialle), ha deciso, ispirandosi al teatro, di usare lampadine bianche filtrate da gelatina rossa, così la loro luce, fa vedere i cibi nei piatti (in questo caso specifica le verdure), mute, nere, come se fossero al buio e quindi non invogliano a mangiare. Questa storia oltre a spiegare la fisica del colore, ci ricorda che nel mondo contemporaneo abbiamo fatto dell’illuminazione, un codice di comunicazione. Un’altra caratteristica della luce è il passaggio che c’è stato dall’illuminazione naturale a quella elettrica che ha portato un cambiamento nelle percezioni e nella produzione. Le lampadine, treni, lavastoviglie e sopratutto computer, ci ricordano ogni giorno che il nostro mondo è differente, che c’è stata una rottura col passato. La luce artificiale ha cambiato le nostre abitudini sociali (sonno, veglia ecc.) ma anche il modo di guardare l’arte. Le opere d’arte del passato, vengono mostrate all’interno dei musei in spazi bianchi, per sottolineare la loro distanza e dipinti di Pollock sottolineati dall’illuminazione. In conclusione, il colore delle cose è ‘vero’ solo in relazione a come decidiamo di pensarlo. Non si può tutelare un colore, perché non ci può essere il diritto d’autore su un colore, perché esso, se si intende l’effetto che fa all’occhio, non è qualcosa ‘inventato’ da qualcuno. Il colore quando chiudiamo gli occhi, smette di esistere: non è una cosa, ma una sensazione e non si può mettere il copyright sulle sensazioni. ROSA PESCA Il colore delle cose può presentarsi in almeno 3 modi: -superficiale: caratteristico di qualsiasi oggetto opaco e che corrisponde spesso a una tinta uniforme; -luminoso: come in una lampadina accesa in ogni oggetto che emani luce; -modo volume: ci dà la sensazione di guardarci attraverso come accade con un pezzo di vetro, o un bicchiere.Le foglie per esempio, soprattutto quando la luce le attraversa, lasciano intravedere il reticolato interno, che se prendiamo una foglia e la dipingiamo con una vernice uniforme, e quindi otteniamo una foglia di plastica, sintetica, priva di vita. La pelle umana può essere considerata un caso limite tra colore di superficie e volume, non solo per il trasparire dei toni sottostanti (vene) ma anche per il suo cambiare sfumatura, arrossarsi, schiarirsi, stendersi o raggrinzirsi. Per dipingere la pelle umana vanno accostati diversi tocchi di colore diverso e tanti veli sovrapposti. L’olio consente le sfumature morbide che rendono verosimile il colorito umano. Esso è stato raggiunto anche da Rosalba Carriera, che l’ha ottenuto con i pastelli. I vari pigmenti che negli anni si sono succeduti hanno dovuto fare i conti con l’idea che abbiamo della pelle umana, cioè che soprattutto quella del viso, mostra ed evidenzia la vitalità o la stanchezza, lo stress o la felicità. Un fondotinta troppo compatto crea un effetto finto, ma nelle culture orientali è molto usato (Opera di Pechino). Fuori dal mondo dello spettacolo , il fondotinta è nella vita quotidiana di tante donne, per mostrarsi più belle e sicure di sé. Per ottenere un effetto naturale sul volto si deve usare più di un pigmento, interpretandolo come farebbe un pittore. Il caso più famoso della reinvenzione della pelle umana è quello della Barbie: opta da sempre per varianti di beige in modo originale e ponderato. Viene usata la cera per bambole e manichini, che per risulta macabro e immobile. Ken ha la pelle di un marrone più scuro, a significare che è maschio. Tutte le principesse dei cartoni animati hanno l’incarnato più pallido rispetto a quello dei maschi. ‘castano’ è come chiamiamo i marroni legati a capelli ed occhi, come il ‘biondo’ per il giallo dei capelli. Oppure il ‘rosa salmone’ per indicare il colore arancione chiaro del salmone. Dal punto di vista pratico il pittore ci dice che quello salmone è un arancione con un po’ di bianco. “salmone” è diventato una categoria mentale. Molto spesso tante persone quando entrano in un negozio chiedono, per esempio, una vernice “di questo colore” facendo vedere il ‘rosa salmone’. Un famoso scrittore disse che l’unico modo di individuare un colore preciso, è mostrarlo. Oggi, si parla di colore commercializzato, tramite il sistema dei campioni che mostrano una determinata tonalità (lucida, opaca) che però è sempre un ‘circa’. Si usa per parlare di colore. Il campionario è un modello preciso, un sistema che riporta i colori che talvolta non sono indicibili a parole. Come per esempio vediamo anche dal parrucchiere, dove non c’è un quadratino che mostra il colore, ma una vera e propria ciocca di capelli trattati (perché c’è di mezzo luminosità e altre caratteristiche). BL OMERICO Questo capitolo parla di Omero e della sua percezione dei colori. I contrasti di bianco e nero, per lui, sono sempre presenti e costanti, ma di altre tinte ci sono poche tracce. Ma soprattutto il blu non è mai nominato. Non dice mai che il cielo è blu e anche il mare lo definisce ‘color del vino’. Ci sono state diverse teorie su questo fatto. C’è chi sosteneva per esempio, che il mare era pieno di alghe rossastre e quindi Omero, lo definiva come il colore rosso del vino (e altre). Il mare, come il vino, ha un colore in cui coincidono densità e trasparenza, la percezione dipende molto dalla loro tridimensionalità. Il fotografo Ludwing Wittgenstein, porta una prova significativa, sostenendo che in una foto in bianco e nero, siamo sempre in grado di dire se qualcuno ha i capelli biondi o castani, nonostante la foto sia davvero totalmente grigia. Questo perché? Perché valutiamo altre informazioni, come l’età, il tuo di pelle, le fisionomie, che ci fanno riconoscere aspetti distinti dalla realtà. Chiamiamo ‘bianco’ il vino, anche se lo vediamo di color giallo, o l’uva la definiamo ‘nera’, quando ai nostri occhi è viola. Questo perché c’è una differenza su come percepiamo le cose, e come decidiamo di pensarle.
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