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Cromorama– come il colore ha cambiato il nostro sguardo (R. Falcinelli), Dispense di Comunicazione Grafica

riassunto libro Cromorama – come il colore ha cambiato il nostro sguardo (R. Falcinelli)

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 23/05/2024

mtorresani
mtorresani 🇮🇹

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Scarica Cromorama– come il colore ha cambiato il nostro sguardo (R. Falcinelli) e più Dispense in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! CROMORAMA – come il colore ha cambiato il nostro sguardo (R. Falcinelli) Parte prima: sguardi àGiallo industriale: la società del design Qualche anno fa, durante un'indagine di mercato in ufficio americano vennero proposte delle nuove matite, alcune gialle e altre verdi, dopo una settimana si chiese agli impiegati quale delle due preferissero, la maggioranza si lamentò di quelle verdi e nemmeno a dirlo le due matite erano identiche cambiava solo la vernice esterna. Nelle società attuali il colore non è solo un mero attributo, il colore è spesso un'idea o un'aspettativa. Ovvero certe tinte diventano tutt'uno con gli oggetti che le indossano al punto che è difficile pensarle altrimenti. Come appunto la matita gialla che diventa archetipo. La prima matita dipinta esternamente di giallo compare all’Esposizione di Chicago nel 1893 della e ancora oggi i 2/3 delle matite prodotte vendute sul pianeta sono gialle. Creare degli archetipi del genere è possibile grazie alla standardizzazione dell'industria; l'uomo ha imparato che un difetto visibile è indizio di qualcosa che non va e siamo inclini a preferire sempre l’uguale agli altri pretendendo la serie e non l'eccezione. Da qui si comincia a intuire come si costruisce l'immaginario cromatico: fare un oggetto di un certo colore può incontrare o meno il consenso del pubblico, ma, se rincontra inizia a vivere nella nostra fantasia finché, nel giro di qualche decennio, quel colore diventa una categoria con cui giudichiamo tutto il resto. Come il giallo di una matita. È quella determinata tinta che ne fa un archetipo, che la fa pensare come la matita per antonomasia anche se non usiamo mai matite gialle. Se vogliamo capire cos'è oggi il colore dobbiamo chiederci non solo come funziona ma anche quali sono le idee che gli uomini se ne sono fatti. àRosso unito: l’occhio del XXI secolo Attraverso la consuetudine con le tinte unite la standardizzazione ci ha portati a usare il colore come un'astrazione. Si consideri l'ovvietà con cui affermiamo che nel campionario Pantone ci siano tutte le nuance possibili, dando per assodato che il colore debba essere valutato tramite tasselli compatti, se questo va bene per i tanti oggetti che ci circondano è però limitante per le artefatti del passato. La visione della tinta unita è nata sotto la cultura ottocentesca che proponeva alle classi emergenti della piccola e media borghesia un modello alternativo dove l'ordine è centrale. A fronte di queste considerazioni si può dire che la tinta unita incarna qualità non esclusivamente cromatiche è un aspetto del nuovo sul piano della percezione la mania per il nuovo non ha causato la tinta unita ma ha contribuito piuttosto a renderla una presenza ovvia come le plastiche e le resine cliniche o le verniciature a fuoco: per esempio se guardiamo i palazzi delle periferie contemporanee dipinti con vernici dai legamenti sintetici notiamo che col tempo si insudiciano e si screpolano ma il colore rimane compatto e plasticoso al contrario di muri dei centri storici che risentono le delle condizioni atmosferiche e già poco dopo che sono stati restaurati cominciano a macularsi in modo fascinoso, la differenza tra il disomogeneo del centro storico e lo sporcato delle periferie è la differenza che passa tra concetti di antico e di vecchio. Il vecchio presuppone il nuovo mentre l'antico si confronta solo con l'eterno, è possibile pensarlo perché sono opere fatte con i materiali dell'industrializzazione e ne abitano gli spazi mentali insieme a noi. àNero articolato: possibilità del colore industriale Per quanto si possa credere che siamo condannati al rimpianto di una complessità perduta e che la standardizzazione abbia impoverito l'esperienza estetica le cose non stanno affatto così. Un'opera che racconta bene il conflitto tra complessità cromatica e logica seriale è Brillo Box (1964) di Andy Warhol. Si tratta di scatole di cartone con cui vengono distribuite in negozio supermercati le spugnette insaponate brillo, Warhol studia e le rifà quasi identiche, costruisce la box in compensato e poco più grandi ma la particolarità è che ne riproduce anche le sbavature della stampa; Wharol sembra dire “guardate com'è bella questa campitura un po’ sbavata, guardate quante espressività c'è perfino in un supermercato se solo abbiamo occhi per vedere”. Warhol ama a tal punto gli oggetti di massa da volerceli restituire come pezzi unici. Mondrian e Warhol si pongono il problema del pubblico contemporaneo sempre deconcentrato, proponendo una loro personale soluzione estetica. Con un paradosso potremmo dire che entrambi fanno grafica usando però i materiali della pittura. Comprendere meglio le logiche inventive del passato può insegnarci nuovi usi del colore proprio negli artefatti prodotti in serie. Per capire però non basta limitarsi a guardare, è fondamentale collocare il colore nel suo contesto e chiedersi quali mondi e quali mentalità lo abbiano generato. ad anello, congiungendo la parte finale con quella iniziale, sovrapponendo più raggi colorati provenienti da prismi differenti e ottenendo tinte composte che non sono presenti nell'arcobaleno. La vera novità newtoniana è che il suo cerchio non è uno strumento pratico divinatorio, bensì la graficizzazione di un concetto scientifico. Quella di Newton è un'idea che cambia le sorti dell'estetica dell'arte e del design, anche grazie all'importanza che gli attribuisce un secolo dopo Goethe. Goethe scrive e investiga sull'aspetto fenomenico del colore, polemizzando con la teoria Newtoniana che reputa troppo astratta. Partendo da esempi diversi, Goethe costruisce un modello cosmologico in cui i colori rivelano alcune proprietà profonde sulla natura delle cose. Diventano le manifestazioni sensibili di forze che governano l'universo e che sono in accordo o in conflitto fra loro. Il rosso si oppone al verde, il giallo al blu e ogni colore ha il suo complementare. Nell'Ottocento gli studiosi sono stati indecisi su quale fosse la fazione per cui parteggiare. Newton diventa il paladino di chi vuole capire la realtà per stabilirne leggi e andamenti; Goethe di chi vuole capire il colore nel suo concreto mostrassi ai nostri occhi. A raccogliere le idee di Goethe e trasformarle in qualcosa di utile alle pratiche professionali non è un fisico o un'artista, ma un chimico. Si tratta di Michelle Eugéne Chevreul e viene a contatto coi problemi del colore quando nel 1824 è nominato direttore delle manifatture reali di Gobelins a Parigi, rinomate in tutto il mondo per la tessitura degli arazzi. Chevreul razionalizza le nomenclature cortesi sostituendole con dei numeri, e introducendo l'uso di cerchi cromatici graduati per metterle in ordine. È il presupposto per tutte le classificazioni moderne. Durante quest'opera di organizzazione, Chevreul si imbatte in un problema ovvero che il nero dei disegni ricamati sulle stoffe a tinta unita non sembra davvero nero, ma cambia a seconda del contesto, appare verdastro su fondo rosso e giallastro sul fondo blu ispirato da Goethe, capisce che questo effetto non è dovuto alla tintura ma all'occhio dell'osservatore e cioè la costruzione di un complementare psicologico. Da questo momento in poi il mondo degli artisti e dei designer prende atto che non basta creare le cose: bisogna progettare anche il modo in cui vengono guardate, cioè, preoccuparsi della loro rappresentazione nella mente del pubblico. Chevreul denomina “simultaneo” questo tipo di contrasto perché accade simultaneamente alla vista del colore che ne è la causa. All'argomento dedica un intero libro letto, studiato e annotato da generazioni di artisti, tra questi il grande pittore Delacroix, forse il primo ad applicare la teoria dei colori simultanei in pittura, proponendo incantevoli ombre viola e facendone scoppiare la moda. Questa liberazione della materia colorata - di cui sono responsabili in modi diversi un fisico, un letterato e un chimico- sarà il fondamento di tutta la futura comunicazione visiva. àBlu Bovary: Vestirsi per amare e per significare Quando in un'opera di invenzione, un personaggio, si veste di un certo colore, la cosa non è mai senza importanza. Se un narratore ci racconta che qualcuno è vestito di un determinato colore ci sta dicendo qualcosa che trascende la descrizione immediata. Prendiamo ad esempio uno dei romanzi più famosi dell'Ottocento francese, Madame Bovary di Gustave Flaubert: sul piano cromatico è un romanzo parco di descrizioni, tranne riguardo al blu, unico colore su cui l'autore torna con insistenza legando fra loro alcuni elementi cruciali. Il blu spicca, si fa notare, racconta il desiderio di una vita diversa, forse più elevata rispetto alla banalità del quotidiano, tuttavia, il blu non è solo qualcosa che si indossa, è anzitutto qualcosa che si è, diventando dunque un colore tema, un segno preciso che narra di ideali della protagonista. Un secolo prima di Emma Bovary c'è stato un'altro suicidio a opera di un personaggio letterario vestito di blu, è il protagonista dei “Dolori del giovane Werther” pubblicato nel 1774 da Goethe, vittima di un amore impossibile, si fa trovare un morto vestito come la sera del suo primo ballo con l'amata: con una giacca blu e un panciotto giallo. Goethe è il primo a evidenziare i colori complementari come fatto metafisico. Il successo del libro è enorme e l'accostamento di blu e giallo fa scoppiare una moda, tanto che diventa una di divisa sentimentale. Possiamo affermare che il blu Bovary è si spirituale, anticonformista, ma anche sempre un blu di classe. Quando un colore ha iniziato la sua storia, questa diventa un pezzo dell'immaginario e per rendercene conto vediamo allora come vengono reimpiegati i valori cromatici del blu romantico in un cartone animato di centocinquant’anni dopo, “La bella e la bestia”, prodotto dalla Walt Disney nel ‘91. Il tema è la contrapposizione tra l'amore intellettuale e quello passionale. Belle come Emma entra in scena vestita di blu, però stavolta non racconta solo le aspirazioni di un'anima sublime, vestirsi di blu è soprattutto una diversità di cui si va fieri. Nella scena del ballo, la bestia per l'occasione si è lavata e vestita con eleganza, indossa una giacca blu e un panciotto giallo à la Werther; Belle invece, ha dismesso il blu. Si presenta con un vestito giallo, rivelando la sua nuova natura. La maturazione del personaggio di Belle consiste nel mutare l'illusione letteraria in pragmatismo, mitigando il blu Bovary col giallo della concretezza, conciliando razionalità e sentimento. La bestia potrà tornare umana, solo dopo che la vera trasformazione, quella interiore, sarà accaduta in Belle. Il blu è un modo di stare al mondo, di occupare lo spazio iconografico. àMalva modernità: la nascita del consumo e del divismo Nel 1793 ci fu una rivoluzione che promulgava la libertà di abbigliamento. Per la prima volta nella storia umana non si è più sudditi, ma cittadini liberi di scegliere di vestire come si vuole, cioè liberi di comprare. La pubblicità nasce anche per questo. Insieme alla moda, si affermò infatti il concetto di gusto e il successo di chi lo esercita potremmo chiamare le regine e le donne, soprattutto le borghesi, le trendsetter dell'epoca, proprio la Regina Vittoria sancirà un passaggio epocale per la storia del colore, presentandosi al matrimonio di sua figlia con un abito dalla tinta insolita, un abito malva. Non è solo una nuance inedita è una svolta anche per la tecnica, il vestito della Regina Vittoria e tinto con la mauveina, il primo colorante sintetico della storia. L'invenzione di questo colorante si deve a William Henry Perkin, che mentre sta cercando di sintetizzare il chinino ottiene una sostanza di colore cupo che dissolta nell'alcol da un effetto violaceo, da qui poi pensa che forse è possibile farne un colorante per tessuti. Per secoli fare il colore aveva significato frequentare procedimenti lunghi, faticosi, puzzolenti e degradanti, con Perkin il colore diventa un fattore ordinato, pulito e inodore. Il primato di Perkin è quello di aver sintetizzato non un pigmento per l'arte ma un colorante per tessuti -attraverso un processo che non esiste in natura -che apre le porte a uno dei più grandi business della modernità: la moda. Nella nascente società di massa la gente si ritrova con in mano qualcosa di nuovo: il tempo libero. A Berlino, tra il 1823 e il 1828, l'architetto Karl Friedrich Schinkel progetta due strutture che sono la premessa concettuale di questa nuova epoca: l'Altes Museum, il primo museo pubblico dove si entra pagando biglietto, e il Kaufhaus, un centro commerciale dove si faccia passeggia facendo spese. Anche nella pittura si inventa qualcosa di destinato a costruire un nuovo pubblico e a smuovere l'arte dalle fondamenta. Nel 1841 Jhon Rand, un modesto pittore americano decide di commercializzare colori ad olio già impastati e confezionati dentro una lamina di piombo chiusa da un tappo: nasce il colore in tubetto. La vera trasformazione non è tanto per i professionisti, ma per tutti gli altri, la straordinaria praticità fa esplodere il dilettantismo e tutti cominciano a dipingere. Così indirettamente, il tubetto contribuisce alla costruzione del pubblico delle mostre, dei musei. Il tubetto però porta uno scadimento della qualità dei materiali rispetto alla raffinatezza della tradizione. I produttori di Belle Arti cominciano a tagliare i colori con la cera e con molto olio, per abbassarne il costo e per evitare che si secchino rimanendo a lungo sugli scaffali dei negozi. L'economicità comporta però anche un cambio stilistico: chiunque abbia osservato un dipinto di Monet, Renoir avrà notato che la pittura ha uno spessore consistente rispetto alle strutture liscio del passato. L'impressionismo è insomma il primo movimento a servirsi di materiali pensati per il mercato di massa. Tra questi artisti professionisti e pubblico c'è una nuova, inaspettata vicinanza. La benzina della società di massa è il consenso, non si regna schiacciando, ma accogliendo, almeno di facciata.I VIP non ostentano solo l’inavvicinabile, ma anche incredibilmente comune. Oggi qualsiasi colore va bene se viene scelto da chi ha l'autorevolezza di dettare il gusto, in questo senso il colore design. àVerde illegale: la favola dei primari È il 1386 quando Hans Tollner, un tintore di Norimberga, viene fermato e coinvolto in un enorme processo. A quei tempi in Europa vigono leggi precise che governano le attività artigianali. Le corporazioni vigilano su tutto quello che viene prodotto. Nel campo della tintura sono concesse licenze che prevedano quali materiali si possono tingere e di quali colori; Hans possiede una licenza per tingere la lana di blu e di nero, a un certo punto però, nel suo laboratorio vengono scoperte alcune vasche ricolme di giallo, Hans con un doppio bagno fa commercio illegale di lana verde, all'epoca molto di moda, specialmente nel Nord Europa. La gravità del fatto è tingere e mischiano due sostanze per ottenere un terzo colore, è illegale. Usare due tinte per produrne una terza è un atto impuro. A differenza dell'universo morale che condanna Hans Tollner, la società odierna potrebbe essere definita la “società delle mescolanze”, giacché la maggior parte del colore con cui abbiamo a che fare è prodotta dall'incontro di poche tinte di partenza. Parte terza: artefatti àMarrone neuronale: come il cervello costruisce il colore Nel 1959 due neurobiologi condussero una ricerca sulla visione impiantando un elettrodo nel cervello di un gatto per capire che cosa accade quando si guarda qualcosa. Il cervello dei felini, come quello umano, è composto di neuroni in comunicazione gli uni con gli altri tramite i nervi che scaricano un segnale elettrico in determinate situazioni; lo scopo dei due scienziati era quello di capire che cosa nella scena visiva eccitasse un determinato neurone. La scoperta è enorme: Hubel e Wiesel dimostrano che le cellule sono specializzate e che i neuroni si eccitano o si inibiscono di fronte a un certo stimolo. Questi studi servono a capire che il cervello non è tanto interessato alle cose, quanto alle discontinuità presenti nella scena: spigoli, bordi, punti luminosi o cromatici che ci aiutano a decifrare forme e spazio. Si apre così il campo a una nuova concezione del colore formulato a partire dalla neurobiologia. Secondo il modello di Young, la visione dei colori sarebbe il frutto della mescolanza delle informazioni dei tre recettori primari, ma già da fine ‘800 questa teoria solleva alcune perplessità: se i coni sono sensibili al rosso, al verde e al blu, come mai anche il giallo ci appare come una tinta primaria? Secondo il fisiologo Edward Hering, il giallo è una sensazione elementare, quindi i colori primari sono quattro e non tre. In seguito, i colori primari per la psiche si rivelano essere sei, uniti in tre copie opponenti: giallo e blu, rosso e verde, bianco e nero. Grazie alla corteccia visiva e in particolare ad una sua area battezzata V4 possiamo distinguere i colori anche se la luce varia di intensità o di colore (costanza cromatica), se la visione dipendesse solo dalle lunghezze d'onda, il colore smetterebbe di essere utile per conoscere la realtà e orientarsi nel mondo sarebbe molto più difficile. La corteccia visiva però fa qualcosa in più, i meccanismi di confronto da punto a punto permettono infatti la visione di alcuni colori non contenuti nell’arcobaleno, infatti, a conseguenza di luci diverse la corteccia può elaborare un tipo di contrasto spaziale che per l'occhio non esiste ed è una costruzione che sta solo nel cervello. (ad esempio, nel cubo di Rubik alcuni quadratini sono dello stesso identico colore, eppure, siccome sono circondati da toni ora più scuri, ora più chiari non ci appaiono identici). Fenomeni di questo tipo sono chiamati illusione ottiche. Il gioco di far apparire uno stesso colore come fossero due tinte diverse è stato un classico del metodo di insegnamento di Josef Albers Che proponeva un ragionamento, una didattica del colore tra i più originali del ‘900. In anticipo alle neuroscienze arriva a sostenere che non esistano per la percezione di isolate, ma soltanto interazioni fra i colori. àViola spezzato: la luminosità e le tinte In questo capitolo si racconta il caso di Jonathan I., Un uomo che non vedeva i colori a causa di un’intossicazione da monossido di carbonio. Il termine medico per indicare il disturbo di chi non vede i colori è acromatopsia. Secondo i neurobiologi, visto che la acromatopsia sopprime un aspetto della visione, ma non la visione in sé, dipenderebbe da un danno corticale e non retinico. E visto che la costruzione del colore avviene in un'area deputata, è plausibile che le informazioni visive elaborate dal cervello usino almeno due vie. La via del cosa e la via del dove. La via del cosa: porterebbe informazioni riguardo alla forma, l'identità degli oggetti e del colore. La via del dove: Elabora lo spazio, il nostro movimento nell'ambiente, solo in base alla quantità di luce. Un esempio per spiegare come queste due vie si influenzino è dato dallo sfarfallio visivo, per esempio in una scritta rossa su un fondo verde della sua stessa luminosità, la “via del cosa “individua la scritta e “la via del dove” cieca al colore vede una superficie omogenea tutta dello stesso grigio (rimane disorientata). Ci sono altri aspetti delle superfici colorate che hanno a che vedere con la percezione spaziale: alcune tinte sembrano venire in avanti, mentre altre paiono indietreggiare. Questo effetto dipende in primo luogo dallo scarto di luminosità fra le tinte e il fondo su cui poggiano. Ma anche l'intensità della tinta, della luminosità e della saturazione suggeriscono precise qualità spaziali, all'aumentare dello scarto luminoso aumenta la profondità percepita. La nostra mente interpreta lo scarto tonale come una faccenda spaziale, perché ha imperato che le cose lontane tendono ad apparire più pallide e meno marcate e meno colorate. È Gerolamo Cardano a teorizzare che ogni tinta abbia un valore luminoso intrinseco e definibile in modo numerico. Nel Settecento Giambattista Tiepolo trova un nuovo modo di concepire il colore, che poggia sulla consapevolezza che l'illusione di volume dipenda dal chiaroscuro e non dalle tinte; per cui si può usare qualsiasi colore per fare le ombre; non è Necessario il nero o il marrone. Tiepolo raggiunge il suo tocco più fascinoso, schiarendo al massimo le ombre fino a riempirle del riverbero colorato delle cose che hanno intorno. Un'innovazione che prende il nome di colore spezzato perché fa riferimento al fatto che un oggetto bianco accanto a uno rosso finisce per manifestarsi lo rossastro, perché il rosso si spezza su ciò che gli capita accanto. àCeleste simultaneo: i contrasti cromatici fondamentali Questo capitolo si apre chiedendo quale sia il motivo per cui Cappuccetto sia rosso, una domanda a cui hanno cercato di rispondere antropologi, storici e psicanalisti e a cui sono stati dati significati diversi. Secondo l'interpretazione antropologica, questo avrebbe a che fare con il sangue della prima mestruazione. È interessante vedere la versione che danno però due illustratori di inizio ‘900: Jessie Willcox Smith: Cappuccetto occupa l'intero quadro e la mantellina rossa si allarga su gran parte della superficie. Arthur Rackham: nella sua illustrazione il bosco domina la scena in modo imponente ma monotono, su tutto spicca Cappuccetto, che è una macchia minuscola, ma visibilissima. Quel tratto di rosso sottolinea la vivacità, il coraggio della protagonista in uno spazio così minaccioso. La costruzione cromatica fatta da Rackham è chiamata contrasto di quantità e definisce una scena costruita mettendo in contrapposizione una grande superficie di una certa tinta con una piccola quantità di un'altra tinta. È una funzione che serve a richiamare l'attenzione, in questo caso sul rosso. Il primo contrasto che compare nella lista di Itten è il chiaroscuro, il cui tipo di tinta è irrilevante, ciò che conta è la modulazione dal buio alla luce. A questi segue il contrasto di colori puri, cioè quando si affiancano tinte piene senza mezzitoni e senza sfumature evidenti. Poi c'è il contrasto di qualità che fa riferimento al grado di saturazione di una tinta in relazione ad altre simili, è un effetto simile a quello che troviamo nelle Polaroid degli anni ‘70. Esistono poi il contrasto di complementari e il contrasto di simultaneità, due rapporti che dipendono dalla capacità del cervello di vedere i colori in modo diverso a seconda di quello che sta loro intorno. Un caso particolare di contrasto di complementari lo troviamo nel Rinascimento, il cosiddetto “cangiantismo”. Per quanto riguarda il contrasto di simultaneità, invece, ha luogo quando una tinta vira verso il complementare di quella che gli si pone fianco, come un grigio che tende al verdastro, se posso su un fondo rossiccio. Oltre a queste formule cromatiche tutte ipotizzate da Itten, dobbiamo aggiungerne due: Contrasto di cromaticità: Contrasto di tipo stilistico, ovvero quello che si crea tra il bianco e il nero e un singolo colore (es. nella scena di Schindler's List). Contrasto di coppia: Quello che si ottiene quando si uniscono due Tinte unite, piatte, omogenee, che si contendono il campo con pari dignità (es. nei tessuti a righe, con i cartelli stradali di pericolo). àRosso significante: i colori delle cose Si assiste a una svolta nelle consuetudini cromatiche (es. Smarties o Apple) e al fatto che grazie a questo non si vende più un prodotto ma una pratica sociale. Queste idee trovano un precedente, la macchina da scrivere Valentine, disegnata da Ettore Sottsass per la Olivetti nel 1969. Sottsass, infatti, nel pieno dei movimenti di liberazione propone uno strumento compatto leggero e colorato. Valentine è il primo apparecchio che si propone per essere utilizzato fuori dall'ufficio la sua peculiarità è la portabilità. Il consenso è modesto, ma quella di Sottsass ha una funzione poetica e non pratica, un'intenzione estetica con cui si pensano le cose della vita quotidiana, il rosso di Valentine ha infatti un merito storico: non è una laccatura, ma il colore della plastica stessa con cui viene realizzata. Il rinnovamento del design italiano del secondo dopoguerra è la storia di una classe di imprenditori che cominciano a investire concentrandosi sulla lavorazione di materiali innovativi (lavabili, componibili, flessibili). Il materiale con cui è fatta la macchina di si chiama ABS, un polimero termoplastico che permette di creare oggetti rigidi ma leggerissimi: sostanza nuova per nuovi modi di vivere. In questo senso il rosso di Valentine allude solo in parte al colore della rivoluzione, è piuttosto un modo di stare nello spazio: la Ferrari, il Campari e la Coca-Cola o gli estintori sono rossi, perché il loro ruolo è distinguersi con forza. Gli aspetti narrativi del colore riguardano anche gli oggetti più comuni. È però quasi sempre il bianco a fare da padrone. Quanto si tratta di valori di purezza e incorruttibilità, nel mondo contemporaneo il bianco è il sinonimo di classicità. Nel 1977 in Italia scoppia una polemica che si delinea presto come una vera e propria forma di cromofobia, non semplice paura, ma rifiuto radicale del colore, dovuto soprattutto allo scetticismo nei confronti della nuova tecnologia che porta i colori nella TV e che si pensa potrebbe corrompere i costumi della società. È chiaro che quello che si teme in realtà è il potere seduttivo che il colore può dare alle cose. La paura del colore evidenzia come le scelte visive rappresentano sempre delle questioni sociali. àVerde vertigine: ”la donna che visse due volte” Il capitolo si apre col riassunto del capolavoro di Hitchcock “La donna che visse due volte” del 1956. Il colore in questa opera un ruolo importante sia sul piano narrativo che su quello tecnico. Il rosso rubino e il verde smeraldo sono infatti usati per mettere in scena alcune antinomie che rappresentano i temi di doppiezza, gemellarità e menzogna che contrassegnano la protagonista. Per fare questo Hitchcock attinge a due modelli molto amati nel dopoguerra, le teorie artistiche basate sulle contrapposizioni e il simbolismo psicanalitico. Vale la pena cercare dunque di interpretare il film attenendoci all'idea degli anni ‘50. Succede la lingua, l'origine della parola colore ci sarebbe il verbo celare, e questo Hitchcock sembra saperlo bene. Il biondo della protagonista è una tinta artificiale che cela la donna castana che c'è sotto. Parliamo di una tinta biondo platino e la caratteristica principale di questo biondo è il suo aspetto finto, sintetico e sconosciuto prima dell'industrializzazione. Il rapporto tra le due donne del film è dunque basato su una serie di opposti, naturale e artificiale, autentico e costruito, vero e falso, ma anche tra una donna comune e un'attrice. Potremmo dire quindi che Madeleine, in quanto personaggio che recita, è cromaticamente una diva del cinema classico in bianco e nero, al contrario Judy, non solo è a colori ma è colorata. La differenza sta anche nell'intensità, mentre il tailleur e i capelli platino possiedono una minima parte di colore, il vestito con cui Judy entra in scena è di un intenso verde smeraldo e i capelli di un castano acceso tendente al rosso. Ritroviamo in questa contrapposizione l'idea che il colore appartenga agli incolti, mentre il bianco e nero sia segnale di raffinatezza culturale. A fronte di una messa in scena dalle tinte neutre, Hitchcock introduce infatti alcune note cromatiche fortissime e visibili: la prima volta che Madeleine entra in scena indossa un vestito da sera nero con una sola di raso verde. È seduta al tavolo di un ristorante signorile dalle pareti rosse, lei è l'unica bionda, l'unica con un corpo colorato guarda caso, il complementare delle pareti. Più che ad un abito, però, siamo di fronte a un indizio: il verde è un intruso è colore di Judy. L'opposizione dei due colori diventa una costante del film. Parte quarta: percezioni àArancione bollente: vedere la temperatura Nella fantascienza recente (fumetti, videogiochi, serie TV, ecc.) le immagini sono spesso virate su tonalità fredde che rimandano al tecnologico, all’industriale o al notturno. Nei linguaggi visivi contemporanei l'opposizione di caldo di freddo è una soluzione che si trova spessissimo nel parlare comune. Sono tutti d'accordo a definire i rossi, gialli e gli arancioni dei colori caldi e Il blu e il viola dei colori freddi, ma cosa diciamo esattamente quando diciamo che è un colore caldo? stiamo facendo, nella maggior parte dei casi un'associazione sinestetica con cui leghiamo una tinta e a cose che ci danno la sensazione di calore, come il sole, il fuoco. La domanda da porsi è perché vengano fatte certe associazioni e non altre. Una prova classica, citata anche da Itten, sostiene che entrare in una stanza tutta dipinta di rosso accenderebbe il battito cardiaco e aumenterebbe l'attività conduttiva della pelle più di una stanza azzurra. Niente di tutto questo, comunque, ci dice qualcosa di plausibile. Si parla di debolezza scientifica perché queste percezioni accadono all'interno di precise situazioni psicologiche. La debolezza scientifica di questi esperimenti sta nel reputare la percezione un insieme di dati isolati. La sensazione che un colore ci suggerisce è legata al contesto e mai alla tinta. Il colore è sempre colore di qualche cosa. àTurchese registrato: il copyright sulle percezioni Nel 1945 Charles Lewis Tiffany la copertina del suo catalogo una varietà di turchese che da allora è diventata distintiva del brand. Con questo colore vengono realizzati tutti i materiali promozionali della Tiffany & Co.Oggi quel turchese ha un suo codice di riferimento, il Pantone 1837, ma se cerchiamo nella mazzetta la tinta non compare. Questa assenza è dovuta al fatto che in alcuni stati il colore 1837 è un marchio registrato, prodotto in esclusiva per la gioielleria, una sofisticata idea di marketing che racconta il suo prestigio per assenza, qualcosa che di certo esiste ma non può essere usato da tutti. È possibile brevettare o registrare un colore? In un processo recente ci si è contesi un copyright cromatico: La Louboutin ha denunciato alcune multinazionali per avergli copiato le iconiche scarpe nere dalla suola rossa. Il brand rivendicava l’iconico design cromatico della scarpa. Alla fine, viene riconosciuto allo stilista francese il marchio dell'accoppiata suole rosse e scarpe nere ma non i colori in sé. È possibile proteggere un colore? Per farlo è necessario saper spiegare cosa significa che due cose hanno lo stesso colore. La multinazionale americana General Electric suggerisce che se i due colori appaiono identici sia sotto una luce fluorescente sia sotto quella incandescenza, solo allora possono essere definiti uguali. Nel mondo contemporaneo abbiamo fatto dell'illuminazione un codice di comunicazione, per esempio, i locali di lusso prediligono le luci calde, per sollecitare la nostra vanità, nei fast food la luce è sparata, freddissima. Un'altra caratteristica importante della luce con cui abbiamo a che fare ogni giorno è la sua costanza e regolarità. È chiaro allora che solo la standardizzazione della luce ci consente di parlare di oggetti dello stesso colore, un'idea che per gli antichi era decisamente più sfuggente. Ma è chiaro anche che decidere di reputare la luce del sole, il metro di giudizio, non ci garantisce nulla. Dunque, il colore delle cose è vero solo in relazione a come decidiamo di pensarlo. Tuttavia, nel 1960 l'artista Yves Klein ottenne dall'Ufficio brevetti la certificazione del suo International Klein Blue e più recentemente, sì la società Surrey NanoSystem ha creato il Vantablack, una sostanza composta da nanotubi di carbonio che assorbe fino al 99,9% delle radiazioni, risultando il nero più nero mai prodotto. In entrambi i casi, ciò che viene brevettata è una procedura tecnica e non un colore. àRosa pesca: il problema dell’incarnato Il capitolo si apre partendo dai precetti della favolistica classica, che prevedono che una principessa che si rispetti debba avere i capelli biondi come l’oro, le labbra rosse come una rosa e la pelle bianca come la neve. Se il ragionare per tinte unite è tra i portali principali dell’industrializzazione, potremmo dire che capelli e metalli sono al contrario esempi di tinta varia, spezzata e articolata ed è proprio per questo che ricorrere alle metafore è una necessità. Il colore delle cose può presentarsi in almeno tre modi: superficie, luminosità e volume. Nel mondo naturale il confine tra superficie e volume è sfuggente, ad esempio le foglie o la pelle umana. Raffigurare è però solo un aspetto dei problemi creativi dell’incarnato, dilemma che ha impegnato soprattutto i produttori di cosmetici, giocattoli e cartoni animati. La prima scatola di Crayola, lanciata nel 1903, conteneva otto colori, e all'epoca il rosa non c'era. Appare negli anni Dieci, e si chiama appunto color carne: ha successo fino al 1962, quando l'azienda si trova costretta a cambiare colore perché qualcuno giustamente nota che la pelle può essere di tanti colori diversi dal rosa: viene allora ribattezzato pesca. ln realtà, rosa o pesca che sia, la scelta dimostra come di fronte a superfici dal colore complesso nominare una tinta non convince, e dobbiamo ricorrere a sistemi diversi, come evocare una superficie che abbia caratteristiche simili. L'unico vincolo è evocare una sensazione che il nostro interlocutore possa riconoscere àBlé omerico: un’ipotesi per la percezione William Ewart Gladstone era un politico inglese di metà Ottocento e, oltre alla politica, la sua passione è Omero. Gladstone pubblica un’opera in cui parla delle cose più diverse, tra cui la percezione del colore in Omero. Qui sostiene che i greci dei tempi eroici non vedano i colori a causa di una immaturità delle facoltà visive, affermazione che viene duramente criticata, eppure non è detto che lui intendesse una questione strettamente biologica. In Omero i contrasti di bianco e nero sono sempre presenti e costanti, ma di altre tinte ci sono pochi accenni, ad esempio il blu non è mai nominato: quando si trova a descrivere cose che noi chiameremmo blu, Omero usa delle perifrasi che confondono. Il filosofo Wittgenstein porta una prova significativa: di fronte a una fotografia in bianco e nero siamo sempre in grado di dire se qualcuno ha i capelli biondi o castani. Lo scarto tra come pensiamo le cose e come decidiamo di pensarle è fondamentale per tutta l’esperienza cromatica, del resto proprio l’uso che facciamo dei termini bianco e nero nel linguaggio comune è rivelatore (es. chiamiamo bianco il vino
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