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CROMORAMA, COME IL COLORE HA CAMBIATO IL NOSTRO SGUARDO, Riccardo Falcinelli, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto completo, diviso in capitoli del libro CROMORAMA, COME IL COLORE HA CAMBIATO IL NOSTRO SGUARDO di Riccardo Falcinelli.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 10/10/2022

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Scarica CROMORAMA, COME IL COLORE HA CAMBIATO IL NOSTRO SGUARDO, Riccardo Falcinelli e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! CROMORAMA, COME IL COLORE HA CAMBIATO IL NOSTRO SGUARDO, Riccardo Falcinelli. PARTE SECONDA DEL LIBRO: AZZURRO COSTOSO: COLORANTI E PIGMENTI PRIMA DELLA MODERNITA’. I nomi dei colori evocano le sembianze cromatiche. I colori delle belle arti hanno nomi particolari, sono tantissimi e soprattutto indicano la loro origine: come Terra di Siena. Prima della chimica anzitutto il colore è una materia preziosa. Per più di 35 millenni i colori sono stati ricavati dai tre regni della natura: 1. da quello minerale si estraevano terre, carbone e pietra da macinare, 2. da quell'animale, molluschi e insetti da spremere, 3. da quello vegetale, tutte quelle piante che si rivelavano poteri Tintori. Il fatto che un determinato colore si trovasse solo in alcuni luoghi e non in altri ha lasciato tracce negli artefatti umani: nelle vetrate romaniche di area tedesca incontriamo molti verdi e gialli, mentre in quelle francesi predominano i blu e rossi: è lo specchio della reale disponibilità di certe sostanze in certe aree geografiche. Oggi i colori sono prodotti sintetici, molecole create in laboratorio tramite reazioni chimiche, invece in passato gli oggetti potevano essere soltanto di alcuni colori, il che comportava che la tinta venisse sentita come una loro qualità consustanziale, non un aggettivo o una sensazione. Oggi invece quando parliamo di colore ci riferiamo a un concetto in parte astratto. Usiamo gli aggettivi giallo, rosso, blu applicandoli a qualsiasi cosa. Il fatto di poter avere un'idea generale delle tinte svincolata da oggetti precisi è una conquista recente. I primi pigmenti usati dall'uomo sono le terre: procacciarsele è relativamente facile, basta scavare. A queste si ricorre fin dai tempi arcaici per dipingere e per cambiare aspetto agli artefatti. Sono terre quelle che sono state trovate in alcune delle più antiche inumazioni conosciute, come la cosiddetta Dama Rossa di Paviland, risalente al 33.000 a. C., ricoperto sull'intera superficie di uno strato di ocra rossa, scelta legata con molta probabilità alla credenza che questo ossido conservasse in vita, come se fosse sangue. Dalle piante si estraggono invece sostanze adatte alla coloritura di carta, cibi e tessuti. Dalla robbia, per esempio, si ricava un rosso vivace perfetto per tingere le stoffe, dallo zafferano si ottengono molti toni dal giallo all'arancio, dal guado, una pianta che cresce perlopiù nel nord Europa, si estrae il blu, un colore poco amato nel mondo classico, un po' perché difficile da ottenere e da fissare, un po' perché associato ai popoli barbari che in guerra erano soliti tingersi il volto proprio con questo succo. Altre tinte vengono dal regno animale, come il rosso di cocciniglia, tutt’oggi usata: è a lei che si deve il rosso splendente del Campari, degli orsetti gommosi e di molti succhi di frutta. Ci sono poi i colori che vengono creati unendo il mondo animale e quello vegetale, come il pregiato giallo indiano prodotto dando da mangiare alle vacche soltanto foglie di mango e privandole dell'acqua, per cavare dalla loro urina essiccata una polvere gialla con intenso potere colorante. Ad un certo punto i colori tuttavia non ci si limita solo a trovarli, si comincia anche a fabbricarli. Il più antico pigmento artificiale risale al 3° millennio a. C., è la “fritta egizia”, il blu più usato per secoli. Il pigmento di maggior successo è invece la biacca, l'impasto più importante dell'età classica all'800, quando se ne scopre la tossicità e viene pian piano tolto dal commercio: è il bianco che troviamo negli affreschi della Roma imperiale e nella tavolozza di Renoir. Ha un difetto: se usato da fresco, scurisce e una testimonianza di questa catastrofe la troviamo nella crocifissione di Cimabue ad Assisi dove l'intonaco ha mutato il carbonato in solfuro di piombo nero che ha invertito l'immagine come in negativo fotografico. Tossicità e instabilità raccontano bene i problemi che incontra chi ha a che fare col colore nel mondo premoderno: da una parte si ignorano le proprietà nefaste di alcuni legami chimici, e ad esempio la biacca viene usata a Roma perfino come fondotinta, provocando gravi reazioni cutanee; dall'altra, per fissare il colore, si fa ricorso a sostanze acide come l'urina, che appesta i locali in cui si lavora. Chi maneggia i colori appartiene in sostanza ad una classe inferiore, maleodorante, tanto che a Sparta la lana si preferisce lasciarla bianca pur di non cedere alla frivolezza di ammettere i tintori fra i proprio abitanti. Nel mondo antico ciascun colore ha un suo prezzo preciso e caratterizzante: il nerofumo che si ottiene dal Carbone, facilissimo da procurarsi, si trova a buon mercato, invece il rosso di porpora e blu di lapislazzulo hanno al contrario prezzi proibitivi e svettano nella piramide economica. Prezzo e provenienza qualificano i colori, mentre oggi la disponibilità di colori sintetici ha annullato questa educazione economica che nei cibi è invece ancora presente. Oggi nelle colorerie, un tubetto di tempera nerofumo e uno di blu oltremare, hanno più o meno lo stesso prezzo. Il blu oltremare non è però solo più costoso, è prima di tutto mitico, tanto da essere annoverato da Marcopolo tra le meraviglie dei suoi viaggi. Si tratta della riduzione in polvere di una pietra semi-preziosa, il lapislazzulo, che arriva in Europa, portata su navi provenienti da paesi lontani, oltre il Mediterraneo. Ultramarino, come lo chiamano nel Rinascimento, si riferisce in parole povere a come arriva sul mercato, cioè a un imprecisato al di là del mare. Oggi sappiamo che nel mondo antico l'unica fonte di questo minerale era l'attuale Afghanistan, da cui giungeva in Italia tramite la via della seta fino alla piazza più importante in Europa che era Venezia. Ma a rendere questo colore ancora più glorioso contribuisce il fatto che non lo si compra bello e pronto, ma richiede una lavorazione lunga e laboriosa. In natura il lapislazzulo si trova mischiato con altri minerali e, prima di usarlo, è fondamentale separare il pigmento dalle impurità, così viene macinato, poi si aggiungono olio, cera, resina, e il tutto viene impastato più volte per poi subire molteplici risciacqui da cui, dopo la decantazione, compare una polvere finissima di un azzurro brillante. A descriverci questa ricetta è Cennino Cennini, pittore giottesco e autore di un libro di pratica di Bottega in cui elargisce consigli che rivelano le difficoltà di chi maneggia i colori in quei tempi remoti. Anche i nomi dei colori sono fascinosi: orpimento, minio, sangue di dragone, risalgallo. I maggiori committenti del 400 Fiorentino sono mercanti e banchieri le cui fortune vengono dal prestito a usura; per la chiesa si tratta di un peccato grave: l'usura consiste nel far pagare un interesse che cresce col tempo, ma siccome il tempo è un attributo di Dio non può essere oggetto di compravendita, così per salvarsi dalla dannazione, questi strozzini, che rispondono a cognomi raffinati come medici o Rucellai, devolvono parte delle proprie ricchezze ora in beneficenza ora investendo in cultura, con dipinti e opere di architettura. Il fine è esibire la propria magnificenza, dimostrare il proprio potere, e risarcire la società di quanto si è preso, cercando di guadagnarsi un posto in paradiso. Sono committenti attentissimi alle opere, fino ad entrare nel merito dei contenuti e dei modi in cui gli artisti devono lavorare. La scelta di materiali di pregio è vitale: l'arte deve mostrare talento e allo stesso tempo si deve vedere quanto è costata, e l'ultima parola spetta appunto a chi mette i capitali. Il pubblico condivide l'orizzonte economico dei committenti e ne capisce le scelte sia sul piano estetico sia su quello narrativo: per esempio nel dipinto del Sassetta “San Francesco dona il mantello azzurro al soldato povero” (1437-44), quello che per noi è un colore come un altro, per il pubblico del 400 è senza dubbio blu oltremare quindi il buon gesto è metaforizzato dall'uso del pigmento più costoso. Il lapislazzulo trasferisce un valore di mercato dentro le opere, facendo assumere al colore significati ampiamente culturali, e addirittura può stabilire delle graduatorie all'interno di uno stesso dipinto. Sappiamo che il lapislazzulo può avere diversi gradi di purezza, cui corrispondono i relativi prezzi, da 1 a 4 Fiorini l’oncia. Il più costoso viene raccomandato per dipingere il manto della Madonna. Gli Artisti del Rinascimento maneggiano cose tanto preziose e questo comporta che si trovano ad affrontare problemi, logiche e inquadramenti simili a quelli di chi si occupa di oreficeria. Il costo del materiale a volte è responsabilità dell'artista, e la preoccupazione economica è il chiodo fisso dell'epoca per tutte le parti in gioco, così Cennini non manca mai di mettere in guardia gli artisti dalle possibili frodi. Per esempio dice di stare attenti all’azzurrite, un minerale economico e meno stabile che può essere facilmente scambiato con l'oltremare, e che con l'umidità tende a sgretolarsi o diventare verdastro. Il prestigio dell’oltremare cambia le sorti del blu, che da colore poco usato nell'antichità diventerà nel Rinascimento la tinta più nobile e adatta addirittura per la Vergine. Una testimonianza la incontriamo in una Madonna scolpita in legno di tiglio, conservata al museo di Liegi. La scultura è stata ridipinta diverse volte, al passo con le mode iconografiche. Lo strato più profondo è nero perché appartiene ai tempi in cui la Vergine era la madre in lutto, poi sopra c'è uno stato blu rinascimentale, in cui non è più solo madre ma soprattutto Regina dei Cieli, poi uno strato d'oro di epoca barocca, gli anni in cui Maria raffigura la chiesa stessa, e infine uno strato di bianco, steso con tutta probabilità dopo la proclamazione dell'Immacolata Concezione del 1854, in cui la Vergine si propone come simbolo di purezza. La Madonna continua ad indossare un mantello blu in tutte le raffigurazioni recenti. Il cielo ha pure cambiato colore diventando blu come opzione normativa, sebbene esso non abbia un colore preciso. Infatti nelle icone bizantine è rosso, qualche volta nero e più spesso d'oro, per significare macchina classificatoria si include ogni cosa pensabile, producibile, usabile e soprattutto vendibile. Newton conquista e seduce: con lui il colore smette di essere un'entità sfuggente e si intravedono per la prima volta le regole che lo governano. Secondo la scienza moderna la luce è un tipo di radiazione elettromagnetica composta di onde capaci di suscitare sensazioni visive nel nostro sistema nervoso. La struttura piramidale del prisma fa sì che queste onde attraversandolo, si riflettano in uscita secondo angoli progressivi, rivelando che ciascuna corrisponde ad una tinta diversa. Quello che compare è un segmento luminoso in cui colori si presentano in sequenza ordinata, come nell'arcobaleno. Viene battezzato spettro, cioè apparizione, forse perché anche i fantasmi si mostrano come entità luminose nell'oscurità. A fine 600, seguendo in parte Aristotele, si riteneva che i colori fossero il prodotto di una miscela di luce e di ombra e che primi si limitassero solo a colorare la luce. Newton dimostra al contrario che il colore è qualcosa che sta dentro la luce e non sulle cose: oltremare e giallorino sono diventati oggetti paritari. Ma non solo per la prima volta nell'elenco dei colori vengono a mancare il bianco e il nero, da questo momento per la scienza bianco e nero sono solo forme di luce e di buio. L’esperimento col Prisma rivela però anche un'altra idea: se lo spettro si presenta come una sfumatura continua composta di passaggi indefiniti, allora i colori possono essere in numero altrettanto indefinito. Newton Tuttavia non si spinge a dirlo e afferma che si possono rintracciare 7 colori fondamentali: • rosso, • arancio, • giallo, • verde, • blu, • Indaco • violetto. Probabilmente 7 colori per analogia con le sette note della musica, anche se a dire il vero sembrerebbero 6 e non 7: l’Indaco di cui parla Newton è infatti inserito un po' a forza, ma è possibile che chiamasse blu quello che noi chiamiamo ciano e indaco il nostro blu scuro. Arrivato a questo punto, Newton traccia un diagramma destinato a sconfinata fortuna soprattutto in ambito artistico: un disco sulla cui circonferenza si dispongono i 7 colori messi in fila, congiungendo la parte finale con quella iniziale. Scopre che si possono sovrapporre più raggi colorati ottenendo tinte composte che non sono presenti nell'arcobaleno, come ad esempio il magenta, che può essere generato sommando le onde violette e quelle rosse ai 2 capi della banda. Per il diagramma scelto si è ispirato a un disegno del Compendium musica, un trattarello scritto da Cartesio nel 1618. Cerchi e ruote li troviamo in molti manoscritti medievali e sono tra gli strumenti di ragionamento prediletti da tanti pensatori. La più antica attestazione di ruota cromatica è in un manoscritto latino del XV secolo conservata alla bibliothèque Nationale de France. Si tratta di un'immagine divertente in cui le tinte vanno dal giallo chiaro al marrone intenso che serviva ad indicare lo stato di salute del paziente in base alla nuance dell'urina. Però, la vera novità newtoniana è che il suo cerchio è la graficizzazione di un concetto scientifico, un modello per ragionare e una volta posti in circolo, i colori cominciano a instaurare delle relazioni prima impensabili. Per esempio, ogni tinta ha un suo opposto all'altro lato del cerchio che si rivela essere la più distante non solo geometricamente ma anche sul piano percettivo: il giallo, a vederlo, è lontanissimo dal viola, come il rosso dal verde. Un'idea che cambia le sorti dell'estetica, dell'arte e del design, anche grazie all'importanza che attribuisce un secolo dopo uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi: Goethe. La teoria del colori è il fondamento di tutta la sua futura letteratura scientifica: Goethe investiga l’aspetto fenomenico del colore, cioè il modo con cui lo vediamo nella vita di ogni giorno, polemizzando con la teoria newtoniana che reputa troppo astratta. Per molti versi Goethe è anti scientifico, ma in questa maniera fornisce spunti fondamentali a chi col colore deve farci delle cose, e le sue idee riscuotono subito grande fortuna perchè il suo approccio è la concretezza. Goethe non impiega la teoria in astratto, ma parte da aneddoti e osservazioni per ricaricare la riflessione complessiva, per esempio, racconta che una sera, in un'osteria, si trova di fronte una ragazza dal volto bianchissimo e dai capelli neri, vestita con un corsetto rosso scarlatto. Lui la sta fissando e, quando all'improvviso si muove, sul muro bianco gli appare un'immagine come negativo: si tratta dell'esperienza oggi nota come immagine postuma, ovvero i neuroni coinvolti nella visione, dopo essere stati sollecitati per qualche secondo da certi colori e da una certa quantità di luce, di fronte ad una superficie neutra costruiscono l'immagine residuale opposta, per compensazione. Goethe propone un esperimento in linea con questo racconto: suggerisce di poggiare su un foglio di carta bianco, al crepuscolo, una candela accesa. Tra questa e la luce del sole dice di mettere una matita, di modo che l'ombra generata dalla candela venga rischiarata ma non cancellata dalla debole luce del sole calante. Ed ecco che l'ombra si mostra di un bell'azzurro vivo. L'effetto è possibile perché la candela, illuminando la carta di un tono arancio, spinge l'occhio a costruire un'ombra azzurrognola con l'aiuto della luce più fredda che viene da fuori, si forma un colore psicologico accanto a quello percepito, e con acutezza, sottolinea che si tratta di qualcosa che non esiste nella realtà, suggerendo che la mente può produrre il colore anche in assenza di stimoli esterni. Partendo da queste indagini, Goethe costruisce così un modello cosmologico in cui colori rivelano alcune proprietà profonde sulla natura delle cose e che sono in accordo e in conflitto fra loro: il rosso si oppone al verde, il giallo al blù; ogni colore ha un suo complementare, cioè una tinta con cui instaura un rapporto di attrazione e distanziamento. Queste idee avranno largo seguito, fino ai giorni nostri. Là fuori in sostanza esiste l'energia elettromagnetica e la fisica può studiarla; esistono precise lunghezze d'onda e la fisica può misurarle, ma non c'è il colore, che esiste solo quando un essere vivente è in grado di dargli voce e consistenza, ed è questa voce ciò che interessa a Goethe. A Newton interessano le cause e a Goethe gli effetti. Nell'800 gli studiosi sono stati indecisi su quale fosse la fazione per cui parteggiare: Newton diventò il paladino di chi vuole capire la realtà per stabilirne le leggi, Goethe di chi vuole capire il colore nel suo concreto mostrarsi ai nostri occhi. Da questa diatriba è Newton ad uscirne vincitore e il suo studio del cervello diventa all'improvviso la nuova scienza di moda. Ma ad accogliere le teorie e a trasformarle in qualcosa di utile alle pratiche professionali è un chimico. Si chiama Chevreul e viene a contatto coi problemi del colore quando nel 1824 è nominato direttore delle Manifatture reali di Gobelins a Parigi. In quegli anni tintori che ci lavorano si vantano di saper distinguere fino a 20.000 sfumature diverse, eppure non possiedono un sistema preciso per indicarle, ma solo moltissimi i nomi. Chevreul per prima cosa razionalizza i nomi sostituendoli con dei numeri, e introducendo l'uso dei Cerchi cromatici, e poi si imbatte in un problema che fa dannare gli artigiani delle manifatture e cioè la beffa che il nero ricamato sulle stoffe a tinta unita non sembra davvero nero ma cambia a seconda del contesto: appare verdastro su sfondo rosso, giallo su sfondo blu. Allora, ispirato da Goethe, Chevrolet capisce che questo effetto non è dovuto alla tintura, ma all'occhio dell'osservatore e si mette a studiare vari tipi di contrasto, accostando tinte diverse fino a concludere che l'unico modo per risolvere il problema è barare: se un grigio messo sopra un rosso risulta troppo verdastro, sarà sufficiente aggiungere al grigio un pizzico di rosso per farlo apparire davvero neutro. Da questo momento in poi il mondo degli artisti e designer prende atto che non basta creare le cose: bisogna progettare anche il modo in cui vengono guardate. Chevreul nomina simultaneo questo tipo di contrasto, e all'argomento dedica un intero libro, che esce però solo nel 1839, 15 anni dopo il suo Ingresso alle Manifatture reali perché trattandosi di un libro a colori, non voleva fosse troppo costoso. Generazioni di artisti lo leggono, lo studiano, lo annotano, scoppia la moda, e le ombre che fino al giorno prima erano state nere, grigie o marroni diventano variopinte. Monet dipinge covoni gialli dalle ombre di un viola vivace e innaturale, scelta che permetterà poi ad artisti come Klimt di fare blu persino le ombre dell'incarnato. A questo proposito uno dei malintesi divulgati dalla vecchia storia dell'arte è credere che gli impressionisti dipingono il mondo come appare, il cuore di quella pittura è invece un altro, ben più concettuale: se un pittore dipingesse le ombre grigie, il cervello ce le farebbe comunque vedere un po’ azzurrognole; realizzarle proprio d'azzurro è dunque una volontà di esagerazione della realtà ed è anche la più autentica delle sommosse operate dai Pittori dell'800: non dipingere le cose come sono davvero ma come vengono lavorate dalla nostra psiche. BLU BOVARY: VESTIRSI PER AMARE E PER SIGNIFICARE. Quando in un'opera di invenzione un personaggio si veste di un certo colore la cosa non è mai senza importanza. Dietro c'è un autore attento ai dettagli, ad esempio il verde di Robin Hood, il rosso di Cappuccetto, il nero di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany o il bianco della gonna di Marilyn Monroe sollevata dai vapori della metropolitana. Madame Bovary di Gustave Flaubert è uno dei romanzi più famosi dell’800: Emma figlia unica di un piccolo possidente agricolo, durante gli anni del collegio ha conosciuto le arti, la musica, la letteratura e, tornata a vivere in campagna, si sente stretta. Volitiva ed egocentrica, finge svenimenti con le suore per attirare l'attenzione, sogna una vita diversa, vivace, mondana, così quando conosce Charles Bovary, un medico condotto, accetta di sposarlo. Il marito però si rivela presto un uomo mediocre nei pensieri e modesto nelle ambizioni: più lui è premuroso e servile, più lei lo detesta, e si tuffa nell’adulterio, prima con Rudolf, proprietario terriero disinvolto e seduttivo, poi con Leon, giovane avvocato. Emma cerca nelle relazioni extraconiugali un senso che le manca, inseguendo quegli ideali romantici scoperti da ragazza attraverso le pagine dei romanzi. Questo annoiarsi è un sentimento moderno, che ha un ruolo centrale nella storia. Stare senza far niente significa sprecare quel poco tempo che ci è dato: l'entertainment è il rimedio per la noia, e il suo contrario; in tale prospettiva anche avere degli amanti è un tipo di intrattenimento. Emma desidera il teatro, l'equitazione, il giornale illustrati, le notizie della grande città. Conviene con Leon quando dice di cercare nell'arte della poesia un innalzamento dell'anima, eppure in fondo al cuore lei aspetta un evento pratico, un senso non ultraterreno ma mondano. Seguendo le mode comincia a spendere al di sopra delle sue disponibilità, infilandosi in una spirale di debiti da cui non riesce a uscire e di cui marito è ignaro. Alla fine, sotto il peso delle troppe menzogne, incapace di tirarsene fuori e troppo orgogliosa per arrendersi allo sguardo dei compaesani che disprezza, decide di farla finita e si uccide ingoiando dell’arsenico. Sul piano cromatico Madame Bovary è un romanzo parco di descrizioni, tranne riguardo al blu,: unico colore su cui l'autore torna con insistenza: la prima volta che Charles Bovary incontra la sua futura moglie, Emma è vestita con un abito di lana blu che racconta il desiderio di una vita diversa; Emma ha occhi marroni che alla luce del giorno brillano di un blu scuro e ha i capelli divisi in due bande, tanto lisci che emanano riflessi blu. Il blu è dunque un colore tema, ma è anche un colore presagio e doloroso. Quando Rodolfo la lascia, dalla finestra lo vede allontanarsi in un calesse blu; e di vetro blu è anche il barattolo che contiene l'arsenico, per uccidersi. Tuttavia Flaubert non inventa dal nulla: un secolo prima di Emma Bovary c’era stato un altro suicidio ad opera di un personaggio letterario vestito di blu: il protagonista dei dolori del giovane Werther, pubblicato nel 74 da Goethe, vittima di un amore impossibile per la bella Charlotte, si spara un colpo di pistola alla tempia e si fa trovare morto vestito come la sera del suo primo ballo con l’amata, con una giacca blu e un panciotto giallo. Il successo del libro è enorme e l'accostamento di blu e giallo fa scoppiare una moda, tanto che diventa una divisa sentimentale: vestirsi alla Werther è un segno di gusto e tutti i giovani cominciano a indossare giacche blu e panciotti gialli. Negli ultimi 40 anni le copertine delle edizioni economiche di Madame Bovary hanno spesso attinto ai ritratti di Dominique Ingres, come quelli della principessa De Broglie o della Contessa d'Haussonville, entrambe vestite di tonalità blu, però, queste due appartengono all'aristocrazia, e lo sfarzo che i dipinti mettono in scena è lontano dai costumi della vita di provincia. La principessa De Broglie è blu per censo, invece Emma si veste di blu per persuadersi attraverso l'acquisto di un colore, di abitare un benessere da cui di fatto è esclusa. Sono in bella vista i segni della ricchezza: drappeggi sontuosi scintillanti, bagliori dorati, pietre preziose. Ingress introduce nel dipinto delle geometrie esoteriche: il ritratto della De Broglie ha una composizione classica, la protagonista si trova al centro del layout e occupa lo spazio formando una piramide, mettendo in mostra il prestigio. La principessa sembra porgerci la mano, punto focale dell'intera composizione e l'anello è di certo costosissimo, si trova sull'asse di simmetria in linea con il suo occhio: se gli occhi sono specchio dell'identità spirituale, allora le pietre sono lo specchio di quella sociale; la mano che si protende verso di noi è bianca e curata, le unghie sono ovali esatti e lucidissimi, e i capelli, divisi in due bande, sono puliti il che non è la norma per le donne dell’epoca. Il ritratto della De Broglie è anche l'effige di un uomo: quel marito che le consente di essere e possedere quanto ci viene mostrato. Mentre la scenografia è fatta solo di tinte spente e di linee dritte, il corpo di lei è tutto linee curve, è una mole vaporosa che inonda lo spazio e non ricambia il nostro sguardo: lei guarda oltre. Vedere oggi una donna con un abito blu non significa quello che significava un tempo: il colore comunica, giudica, gerarchizza. L'abito è blu, la poltroncina su cui si poggia è gialla, questo è il contrasto goethiano più alla moda. Emma Bovary non sogna Parigi, ma una città più vicina è raggiungibile, Rowen, nell'alta Normandia, ed è lì che assiste a teatro ad un'opera lirica, e Flaubert dice che in sala alcuni degli spettatori stanno parlando di indaco, infatti Rowen è uno dei centri più importanti per la tintura dei tessuti Indaco e blu, ecco dunque l'altra faccia del Pneumatico: colore di moda e Pilastro del benessere della borghesia cittadina. La Bella e la Bestia è un film della Disney; adattamento di un testo francese del 700 scritto da Madame Leprince de Beaumont e che, a sua volta, si ispira a varianti che risalgono indietro fino alla favola di Amore e Psiche di Apuleio: il tema è la contrapposizione tra l'amore intellettuale e quello passionale, tra mente e corpo, ma nelle intenzioni dell'autrice si tratta di una storia dopo, una tecnica conosciuta fin dall'antichità ma sempre sottovalutata: l'olio. L'olio ingloba il pigmento, per trasformarsi quindi in una pellicola dura e stabile. Essendo fluido facilita sfumature e miscele e diminuisce le reazioni impreviste. A Venezia la moda scoppia prima che in altre parti d'Italia: il clima umido e la laguna non consente lavori da fresco, così per realizzare grandi opere pittoriche si sceglie l'olio e tele giganti che a Venezia è d'altronde facile procurarsi visto la fiorente industria delle vele navali, che sforna tessuto robusto come in poche altre città d’Europa. Così compare un oggetto nuovo: la tavolozza. Di questa tavoletta non c'è nessun attestazione nell'antichità: tutte le raffigurazioni di pittori Greci, romani e medievali li mostrano mentre imbevono i pennelli da conchiglie o piattini affiancati, uno per ogni tinta. Oggi tavolozza è diventata sinonimo del tipo e del numero di colori che distinguono un certo lavoro. A metà del 500 ci si comincia interrogare su quali siano i colori davvero necessari e su come vanno classificati e ci si chiede se possono esistere colori più importanti di altri, ossia quelli che oggi chiamiamo primari. E’ solo nel 600 che il problema diventa una questione pratica in senso moderno, e i nomi che vengono proposti sono più svariati: c'è chi parla di semplici, primi, principali, elementari. Il mondo scientifico si appassiona a questo dilemma: Moses Harris, entomologo e incisore, propone la prima ruota bassata su 3 tinte da cui si genera tutto il resto del visibile. Questa smania di catalogazione e di semplificazione ha una doppia ragione: da una parte è propaggine dello spirito critico e indagatore avviato dalla rivoluzione scientifica, dall'altra è impossibile non vederci i prodromi di quelle esigenze razionalizzanti di cui si gioverà l'industria di lì a poco. A inizio 700 tutta questa indagine trova una conferma empirica nel lavoro di un pittore oggi pressoché sconosciuto: Jacob-Christof Le Blon, che per primo realizza le stampe a colori partendo da 3 matrici di rame incise, una per ogni colore primitivo, rosso, giallo e blu. I risultati sono rozzi e imperfetti, ma una svolta epocale: il principio con cui stampiamo ancora oggi viene da qui. Leblon descrive la sua invenzione nel 1625 in un libricino dove c'è il debutto della riproducibilità tecnica delle immagini, e comparativamente l'assunto che giallo più rosso da arancione, rosso più blu da viola, blu più giallo da verde. Nel 1801 il fisico Thomas Young, una delle menti più brillanti della sua generazione, si chiede se non sia possibile che la visione umana funzioni anche per mescolanza. Egli sospetta che le particelle nel fondo dell’occhio siano in numero limitato, magari 3, supposizione che verrà però confermata un secolo e mezzo dopo. A metà 800, giallo rosso e blu sono ormai legge e formano il tricromatismo, un concetto incredibilmente alla moda. Anche gli artisti si entusiasmo con la favola dei primari: Turner si entusiasma all’aspetto cosmogonico della faccenda e sostiene in modo poetico che il giallo è la luce, il rosso la materia e il blu la distanza, ma se andiamo a vedere la sua tavolozza notiamo che i colori da cui partiva erano al contrario ben più di 3. Il consolidamento di queste idee tricromatiche in ambito scolastico si deve prima di tutti a Mondrian, Theo Van Doesburg e agli artisti che ruotano intorno la rivista “De Stijl”, il cui ascendente fortissimo sul Bauhaus, la più influente scuola di design del 900, determina le sorti della didattica moderna. Nei famosi reticoli Mondrianeschi ci sono appunto il giallo, il rosso , e blu, ma non il verde. Si tratta di una posizione ideologica: il verde è statisticamente un colore molto amato, il più diffuso sul pianeta e quello di cui vediamo il maggior numero di sfumature. Mondrian parla di colore in termini di bene e male, di giusto e sbagliato e ottiene credito e consenso, ma non è isolato. Gerrit Rietveld progetta una sedia che è un manifesto programmatico della primarietà, Paul Klee mette “La triade” al centro di una struttura dinamica che Battezza con assoluta enfasi il canone della totalità, Kandinskij propone un questionario in cui chiede di associare i tre colori alle forme di base, quadrato, cerchio e triangolo, e Hohannes Itten innalza la terna a oggetto di venerazione. Quasi sempre la cultura del Bauhaus è raccontata nei suoi meriti moderni e razionali, ma queste propaggini di esaltazione romantica sono altrettanto importanti e suggestive: soprattutto l'utopia di cogliere l'essenza della vita e dell'arte. Eppure si tratta solo di una meravigliosa ostinazione. In verità i primari non esistono, un colore primario è tale solo perché viene usato per mescolarlo e fare dei secondari. Ci sono quindi tanti primari quanti ne servono ad ogni preciso sistema industriale per risparmiare denaro. Il fatto che sulla retina ci siano tre tipi di recettori ha però diffuso un’idea per cui la tricromia dei monitor, nota come sistema RGB, sarebbe la più affine al modo di funzionare dell'occhio umano. La tricromia non è legge e se si costruissero schemi a 5 colori la gamma visibile sarebbe ancora più ampia di quella a cui siamo abituati, ma non esistono perchè pochi saprebbero apprezzare la miglioria: la maggior parte dei monitor è usata per la contabilità, per chattare, per i videogiochi o per guardare sport e reality show. La stampa ha superato la tricomia da un bel pezzo, nel 1935, quando viene sintetizzata la ftalocianina di rame, e compare per la prima volta l'inchiostro ciano che garantisce un ventaglio amplissimo; da quel momento il rosso smette di essere necessario all'industria e sostituito col Magenta. In fondo Mondrian e compagni hanno giocato col fuoco, hanno scambiato per verità naturale una necessità tecnica, e il sistema produttivo non li ha perdonati. CIANO LITOGRAFICO: BREVE STORIA DELLE TECNOLOGIE CROMATICHE. Il destino si può presentare sotto molte forme, anche quella di un pezzo di calcare, o almeno così fu per Alois Senefelder. Siamo Nel 1796, a Offenbach in Baviera, ed egli guadagna da vivere incidendo testi musicali sull'asse di rame. Trovato un pezzo di calcare di un tipo diverso rispetto a quelli che conosce, prende il calcare, ci disegna sopra con una matita grassa e infine ci stende un velo d'acqua. La pietra si bagna completamente tranne i tratti a matita, che restano grassi, cioè asciutti. A questo punto Alois tampona tutto con un inchiostro tipografico che, siccome è oleoso, non si attacca alla pietra umida ma aderisce in modo perfetto ai disegni a matita, tanto che essendoci sopra un foglio permette di ritirarne una copia. La pietra è diventata In sostanza una matrice da Stampa. La quasi totalità dei materiali grafici con cui abbiamo a che fare ogni giorno è stampata sfruttando questa idea. Il sistema moderno, chiamato offset, ha sostituito la pietra con una lastra di alluminio, su cui l’immagine è trasferita col computer ma il procedimento è lo stesso. D’altronde la stampa dell'immagine a colori ha alle spalle già 4 secoli di sperimentazioni e l’idea chiara fin da subito è che bisogna costruire tante matrici quanti sono i colori necessari, ma il difficile è farle combaciare. Sono tempi in cui la precisione di serie è ancora una chimera e per incontrare risultati qualitativamente moderni. Dobbiamo aspettare l'inizio del 500 con Ugo da Carpi che nel 1516 ottiene dal Senato Veneziano un brevetto di esclusiva per quella che viene reputata la prima stampa a colori cromatici sovrapposti: Carpi usa 4 tinte per costruire l'immagine, tra cui un marrone medio per la base, un tono scuro per le ombre e un bianco coprente per le alte luci. Non è infatti ancora comparsa l'idea che due colori possono essere sovrastampati per produrre un terzo e le cose continuano su questo solco fino alla comparsa delle idee di Leblon e di Senefelder che, unite insieme, raggiungono un coronamento nel 1837, quando nasce la cromolitografia. La cromolitografia è la vera anticipatrice della moderna stampa offset e sul fronte espressivo sono in molti a giovarsi della nuova invenzione, perchè è un sistema di pittura potenziata dalle copie in cui, rispetto alla incisione, acquaforte e acquatinta, si può operare con matite e penne, la pietra, ottenendo una grande varietà di modulazione espressive. Nel 1856 la Grammar of ornament di Owen Jones fu il primo atlante di grafica moderno; in 600 pagine stampate tutte a colori sfilano i principali stili della storia umana: assiri, egiziani, romani, rinascimentali. Il senso e il successo dell'operazione stanno proprio in questo voler parlare ad un pubblico nuovo, numeroso, affamato di figure. Quello di Jones non è soltanto l'antesignano dei grandi libri illustrati, è il prototipo di un'inedita industria culturale: è da questa intuizione che nasce il coffee table book, cioè il volume illustrato di grande formato, perfetto per arredare, che propone centinaia di immagini da ammirare o cui attingere per farsi venire delle idee. Nel 1886 John Everett millais dipinge a “child’s play”, un dipinto lacrimevole in cui un bambino si diletta a fare bolle di sapone: il gusto oleografico è apertamente poetico e seduce i palati meno esigenti, è un'immagine facile, priva di simbolismi, che parla a tutti; se ne accorgono i proprietari di una nota marca di saponi, la Pears, che chiedono a Millais il permesso di usare il dipinto per le confezioni di Bubbles, il loro prodotto di punta, così diventa uno dei primi casi di arte usata per il packaging di successo enorme e le figure commerciali dimostrano il loro potere fuori dal comune: da quel momento, per tutti, quello è il bambino di bubbles, vale a dire la mascotte di una saponetta. Nel tessile è determinante l'invenzione della perrotine, una macchina in grado di imprimere su tessuti 5 tinte in contemporanea che apre la strada ai famosi pattern floreali di William Morris, che è il primo ad imporre lo stampato contro il costoso Damasco, trasformando il volto dell'abitazione. La grande invenzione del secolo è la fotografia, e da subito si cerca di farla a colori. Nel 1961 James Maxwell, il fisico che dimostra che l'elettricità, il magnetismo e la luce sono tutte manifestazioni del medesimo fenomeno, produce la prima foto a colori, una specie di diapositiva. Il soggetto è una coccarda scozzese, perfetta per mostrare la presenza di tinte contrapposte. Per far questo: fotografa la coccarda tre volte mettendo davanti all'obiettivo trasparente, dei filtri, ciascuno del complementare colore della tinta che dovrà ottenere: un filtro verde, uno rosso e uno blu, e poi ricompone le tre immagini proiettandole sovrapposte, avvalendosi di tre lanterne magiche e di contenitori di vetro riempiti con soluzioni colorate. Da allora ogni procedimento di produzione del colore ruota intorno a queste due azioni: separare e ricomporre. Il coronamento di un secolo di ricerche è infine l'unione della litografia con i processi fotografici: a questo punto, la società delle immagini non ha davvero più freni. I primi a giovarne sono gli editori di moda, che possono portare le tinte dei vestiti sulle riviste della pubblicità. L’edizione inglese di Vogue debutta nel 1916, ed è già in gran parte una rivista a colori, in fenomenale anticipo sui concorrenti. L'anno decisivo per le tecnologie del colore è però il 1935: nel giro di pochi mesi compare la Kodachrome, la prima diapositiva destinata al consumo di massa, e al cinema debutta Becky Sharp, il primo vero film a colori realizzato grazie al Technicolor. La cinepresa infatti, monta tre comuni pellicole bianco e nero, che riprendono la scena contemporaneamente, ciascuna filtrata con uno dei tre colori primari. Alla fine vengono ricomposte aggiungendo una battuta di nero per contrastarle meglio: si tratta di un procedimento laboriosissimo e costoso, gestito in esclusiva dalla Technicolor con il controllo assoluto di ogni fase di lavorazione. Le stesse cineprese speciali sono tutte di loro proprietà, affittate di volta in volta alle varie produzioni insieme ai tecnici. Il Technicolor è sentito in principio come un tipo di effetto speciale, per esempio una gag ricorrente nei primi film di Disney è quella in cui un personaggio cambia colore all'improvviso, ad esempio Paperino che si arrabbia e diventa rosso, Pinocchio che fuma il sigaro e diventa verde. National Geographic ha usato per decenni la diapositiva Ektachrome, che permetteva di scattare con tempi veloci e risultava dunque perfetta per i reportage naturalistici. La più venduta al pubblico di massa però era la Kodachrome, più lenta, ma dai rossi pieni e perfetti per le foto delle vacanze. Proprio grazie alla fotografia, oggi le opere d'arte del passato hanno diffusione sempre più grande: tra i classici, a riscuotere maggior successo ci sono gli impressionisti, Van Gogh, Klimt e Matisse, perché la loro pittura è la più facile da riprodurre, perché le tinte sono omogenee a quelle che si ottengono in stampa. La stampa esercita in sostanza una selezione delle opere del passato, tanto che ha finito per normalizzare anche la percezione, condizionando il nostro sguardo: così nel 700 veniva considerato rosso per eccellenza il vermiglione, la tinta che tende appena all'arancio, invece ora il vero rosso è il carminio, cioè una tinta più fredda, di cui non c'è traccia nell'arcobaleno. Questo è successo perchè la stampa litografica produce il suo rosso migliore e più economico unendo inchiostro magenta con quello giallo: il rosso coca-cola è diventato così il vero rosso perché è il più facile da stampare quindi da diffondere. GRIGIO ARMONICO: GRANDI IDEALI PER LA VITA QUOTIDIANA. ARMONIA è una parola che proviene dal lessico musicale e si riferisce alla combinazione simultanea di due o più suono e si dà per scontato che si tratti di un nesso piacevole. Sorgono domande relative all’utilizzo dei colori in pittura design e su perchè alcuni accostamenti vengono ritenuti piacevoli e altri no. Tra le idee tanto diffuse c'è quella che esista un'armonia tra certi colori e che alcuni di questi accordi si applicano meglio a certe persone: si tratta di miti fortissimi che hanno avuto consacrazione grazie ad alcuni influenti teorici di inizio 900 in cui si parla di armonia cromatica. Il problema della modernità è stato la razionalizzazione del colore, cioè la messa a punto di regole universali sul numero delle tinte e sulle loro combinazioni migliori. Ciò ha portato a costruire una grammatica visiva in cui l'idea di armonia è stata per molti aspetti la conseguenza inevitabile: se infatti si cerca l'ordinamento giusto dei colori, prima o poi si finisce per chiederti se esistono principi migliori di altri per combinarli. Nell'ottobre del 1919 arriva al Bauhaus una figura stravagante e pittoresca: è un seguace della setta Mazdaznan: vegetariano, porta la testa rasata in tempi in cui non si usa, indossa vesti di taglio sacerdotale, e impone esercizi di concentrazione fisica e di respirazione, insegnando le teorie del colore, ed è Joans Itten. Prima di lui, le teorie cromatiche propongono perlopiù modelli basati sui colori isolati. Itten, al contrario, è interessato a quello che accade all'interno del cerchio (pag 171), non al di fuori, così dopo aver mostrato come da tre tinte primarie si generano solo le secondarie e le terziarie, usa questa struttura per evidenziare alcuni accostamenti armonici, cioè più sensati o piacevoli di altri, prendendo i colori che giacciono sulla circonferenza a gruppi di due o di tre secondo rapporti di quadratura o di triangolazione. A questo punto, Itten pone l'accento sulle relazioni espressive che si vengono a creare tra le tinte. Individua i contrasti cromatici fondamentali: • il rapporto tra chiaro e scuro • l’opposizione di colori puri • l’opposizione di complementari • il gioco delle tinte più o meno sature Tra tutti dedica molta attenzione al così detto contrasto di quantità: quello che si verifica quando all'interno di un'opera le superfici cromatiche si presentano con estensioni marcatamente disuguali, per esempio molto blu e arancio, e dice che se esiste un valore luminoso caratteristico dischi, uno giallo e l'altro Marrone; il marrone non è altro che un giallo visto accanto a superfici più luminose di lui. E’ quindi impossibile proiettare un disco marrone nel buio completo perchè la sua luce per quanto debole ci sembrerà comunque gialla. Ma nella vita raramente ci troviamo di fronte a colori isolati. Il gioco di fare apparire uno stesso colore come fossero due tinte diverse è stato un classico del metodo di insegnamento di Josef Albers, prima al Bauhaus poi a Yale. Egli rifiuta tutti i modelli geometrici, è convinto che il colore debba essere usato, guardato, confrontato per poter essere davvero capito, per questo propone di maneggiare carte colorate per vedere come si comportano nel concreto. Esercizio storico è il prendere una striscia di carta ocra, appoggiata su un fondo metà azzurro metà arancione, e vedere che risulta giallastra o marrone a seconda del contesto, sostenendo che non esistono per la percezione, tinte isolate, ma soltanto interazioni fra i colori. Il contorno nero è la clausola stilistica di tutte le vetrate gotiche: una condizione strutturale, una necessità tecnica che comporta conseguenze percettive, specifiche e caratterizzanti che non incontriamo in altri linguaggi, senza il quale le vetrate risulterebbero pallide. Una leggenda vuole che alla bottega di Tiziano per dimostrare di essere un bravo colorista bisognasse riuscire a far apparire un rosso veneziano come Vermiglio, applicando il contrasto simultaneo. Tre secoli dopo, Delacroix si vanta di poter dipingere la pelle di una ninfa pure col fango, purché lo lascino libero di metterci intorno i colori che gli pare, e anche Turner pare che intimasse alla tela: macchia gialla, stai ferma lì, finché non ti faccio apparire bianca. VIOLA SPEZZATO: LA LUMINOSITA’ E LE TINTE. In un libro di Oliver Sacks si parla del caso di Jonathan I., un uomo che non vedeva i colori. Il termine medico per indicare tale disturbo è “acromatopsia” e, almeno per il paziente di Sacks, non si sarebbe trattato di un difetto congenito ma della conseguenza di una intossicazione da monossido di carbonio. Jonathan viveva in uno stato di perenne rimpianto e di prostrazione, tanto che era costretto a mangiare solo cibi bianchi o neri visto che il resto gli pareva grigiastro e quindi repellente. Dopo qualche anno, si accorse che non era nemmeno più in grado di pensare il colore. Tutti valutiamo il chiaroscuro del mondo in maniera simile al paziente di Sacks, sebbene non ce ne rendiamo conto, per questo le immagini del Cinematografo ci risultano comprensibili. Secondo i neurobiologi l'acromatopsia dipenderebbe da un danno corticale e non retinico, ed è plausibile che le informazioni visive elaborate dal cervello usino almeno 2 canali: per questo l'interruzione del funzionamento dell'uno non impedisce all'altro di continuare a vedere. Le due strade sono state battezzate dai neuroscienziati via del cosa e via del dove: la prima porterebbe informazioni riguardo alla forma, all'identità degli oggetti e al colore, mentre l'altra serve a valutare lo spazio per il nostro movimento nell'ambiente solo in base alla quantità di luce, cioè ragionando in scala di grigio. Se pongo una sull'altra due tinte della stessa luminosità, come ad esempio un testo rosso su fondo verde, ottengono effetto di sfarfallio perché mentre la via del cosa individua la scritta, la via del dove, cieca al colore, vede una superficie omogenea, e in altre parole, il cosa individua la cosa, ma il dove non sa dove sta. Uso di questo effetto ne fa Claude Monet in Impression du sol Levant, il dipinto che ha dato nome all'impressionismo: il sole arancione sul fondo grigio azzurro è dipinto con una tinta vivace ma scura, ossia della stessa luminosità del cielo: inganna il cervello che, non riuscendo a stabilire l'esatta posizione del sole nello spazio, finisce per vederlo brillare di un luccichio oscillante. Il Chiaro-scuro è l'elemento che prima di tutto ci aiuta a capire la realtà, appunto per questo i contrasti luminosi ci appaiono più piacevoli: del resto non ci siamo evoluti per apprezzare l'arte ma per usare il mondo ed è quindi normale che quello che troviamo più attraente nelle immagini artificiali sia ciò che si rivela vivo nella vita reale. Nelle arti visive luminosità e colore sono da sempre pilastri delle composizioni figurative e le immagini presentano gradi di realismo differenti. Ci sono opere in cui la luce è una qualità dello spazio, ad esempio in Caravaggio, dove le composizioni in cui la rappresentazione si mostra solida e credibile grazie al Chiaroscuro. Ci sono altre opere invece in cui la luce è una qualità delle tinte, come i mosaici Bizantini, nelle vetrate gotiche o nei fumetti a tinte piatte, dove i colori possono essere più o meno luminosi, ma non c'è Chiaroscuro o rilievo, la luce non è usata per conferire tridimensionalità o illusionismo. Se convertiamo in bianco e nero un ritratto di Leonardo Da Vinci, le masse plastiche rimangono leggibili e lo spazio resta intatto nelle sue dimensioni, ma se facciamo lo stesso con un dipinto di Gauguin si fatica a riconoscere le forme. Quando i Fauve affermano di volere la liberazione del colore stanno dicendo qualcosa di molto preciso in termini neuroscientifici, anche se non lo sanno: la liberazione di cui parlano è l'affrancamento degli aspetti cromatici da quelli spaziali, la separazione per la mente del cosa dal dove, del tipo di tinta dalla quantità di luce che riflette. Se un'immagine continua a funzionare quando viene soppressa l'informazione cromatica è un buon indizio che la composizione starà in piedi comunque. Però ci sono altri aspetti: alcune tinte sembrano venire in avanti, mentre altre sembrano indietreggiare anche se non rappresentano cose che stanno davvero davanti o dietro. Questo effetto dipende in primo luogo dallo scatto di luminosità fra le tinte e il fondo su cui si poggiano, ad esempio il giallo sembra avanzare se posto su sfondo nero, e il blu sembra venirci incontro se posto sul fondo chiaro. Pure l'intensità della tinta, della luminosità e della saturazione suggerisce precise qualità spaziali: All'aumentare dello scarto luminoso, aumenta la profondità percepita, e per ragioni simili, al diminuire della saturazione aumenta la distanza. La nostra mente interpreta subito lo scarto tonale come una faccenda spaziale perché ha imparato che le cose lontane tendono ad apparire più pallide, meno marcate e meno colorate. Un effetto già noto nel mondo antico, tanto che Tolomeo nel II secolo a.C afferma che quando i pittori di architetture vogliono mostrare i colori delle cose lontane usavano i veli d’aria. Secoli dopo Leonardo da Vinci battezza questo artificio prospettiva aerea. E lo preferisce di gran lunga alla prospettiva geometrica. In realtà le cose lontane appaiono non solo velate ma pure più azzurre, perché la diffusione atmosferica delle onde corte dei blu è maggiore rispetto alle onde lunghe dei rossi e la pittura 600esca ha portato alle estreme conseguenze stilistiche questo. Claude Lorrain è un campione in questo stratagemma e dipinge infatti montagne di un azzurro deciso. La luminosità è una qualità precisa che leghiamo ad alcuni colori: certe tinte ci appaiono inevitabilmente più chiare di altre come il giallo che è sempre luminoso e il viola che è sempre scuro. Gerolamo Cardano è il primo a sostenere che ogni tinta ha un valore luminoso intrinseco e definibile in modo numerico. Nel 700, Giambattista Tiepolo porta a maturazione questo principio, proponendo un nuovo modo di concepire il colore che avrà un'influenza sull’illustrazione moderna. Il suo ragionamento è il seguente: siccome l'illusione di volume dipende dal chiaroscuro e non dalle tinte, non è necessario fare le ombre nere o marroni come Leonardo, ma si può usare qualsiasi colore, anche l'arancione, il blu o il verde, purché questo sia più scuro delle parti in luce. Tiepolo raggiunge il suo tocco più fascinoso schiarendo al massimo le ombre fino a riempirle del riverbero colorato delle cose che hanno intorno, un'innovazione accolta con entusiasmo dai contemporanei, che la battezzano “colore spezzato”, riferendosi al fatto che un oggetto bianco accanto ad uno rosso finisce per manifestarsi rossastro, perché il rosso si spezza su quello che gli capita a fianco. Questa intuizione viene saccheggiata dagli artisti dell'800, per diventare poi il pilastro della pittura figurativa americana del XX secolo. Una teorizzazione moderna di questo approccio compare in Creative Illustration di Andrew Loomis, uno dei manuali più venduti degli anni 50. Cromaticamente Loomis ha molti punti di contatto con Tiepolo, declinati alle esigenze della stampa industriale. Una delle ragioni di questa eredità è da cercare proprio nella luminosità delle ombreggiature 700esche: l’illustrazione americana è imperniata in una visione ottimistica delle vicende umane, e non saprebbe che farsene del Chiaroscuro barocco, troppo cupo per scopi propagandistici: non è in definitiva con lo stile di Caravaggio che si possono vendere saponi o bibite gassate. Il linguaggio di Tiepolo è raggiante e dunque esteticamente adatto ad essere piegato alle seduzioni commerciali (es: la locandina che drew Struzan realizza per Indiana Jones e il tempio maledetto, le ombre sui volti dei protagonisti sono rosse in modo deciso). CELESTE SIMULTANEO: I CONTRASTI CROMATICI FONDAMENTALI Perché Cappuccetto Rosso è rosso? secondo un'interpretazione antropologica ci sarebbe un riferimento al sangue della prima mestruazione, come in molte favole con protagoniste femminili, alcuni studiosi hanno invece preferito pensare che la storia avesse luogo nel periodo di pentecoste, il cui colore liturgico è il rosso, mentre altri ancora hanno ricordato che spesso i bambini vestivano di rosso per essere tenuti meglio sott'occhio. Artisti hanno reso omaggio alla favola di Cappuccetto con loro opere, ad esempio: • Rackham getta una luce su tutto il racconto: il bosco domina la scena, vasto, imponente, eppure monotono, e su tutto spicca Cappuccetto, che è solo una macchiolina, ma proprio per questo visibilissima; quel tocco di rosso è una notazione psicologica: è la vivacità della protagonista contrapposta ad un mondo minaccioso e tetro. • nel lavoro di Smith: stavolta Cappuccetto occupa l'intero quadro e la mantellina rossa si allarga su gran parte della superficie pittorica. La differenza è che Rackham sta illustrando un momento della fiaba, Smith sta facendo un ritratto; Rackham è tutto dentro la storia, suggerisce attraverso i rami rinsecchiti un'aria aspra e temibile, un senso luttuoso e un po' infernale che fa somigliare Cappuccetto al Dante nella selva oscura; Smith, invece, sta disegnando una cartolina, non è interessato alla trama o a suggerire temi drammatici: Cappuccetto è il pretesto per dipingere una bella bambina vestita di rosso, colore sempre gradito, festoso e perfetto per gli auguri natalizi. La costruzione cromatica fatta da Rackham è il contrasto di quantità, mettendo in contrapposizione una grande superficie di una certa tinta con una piccola quantità di un'altra: è una relazione sempre evocativa in quanto il poco circondato dal tanto attira subito l'attenzione. Un vero maestro del contrasto di quantità è il pittore francese Jean-Baptiste Siméon Chardin che ne fa un uso anzitutto compositivo, cioè non lo impiega per raccontarci qualcosa in modo esplicito ma per dare ritmo alle disposizioni geometriche. Gli oggetti emergono da una semioscurità fangosa e il dipinto è governato da toni spenti su cui squillano le pennellate rosse dei frutti e quelle bianche della tazza di ceramica. Il conflitto è apertamente allegorico perchè le belle mele, così vitali e splendenti, presto marciranno, diventando marroni come il fondale del quadro. Chardin sarebbe un pittore come un altro, invece è grandioso e solenne perché trasforma l'argomento morale in un contrappunto di pennellate. Per apprezzarlo dobbiamo guardarlo non cercando di riconoscere le forme naturali ma godendo del rincorrersi dai toni chiari e scuri. Invece nell'illustrazione di Valeria Petrone, che usa il contrasto per suggerire una gemellarità tra le due figure femminili: una piccola macchia rossa ripetuta due volte, le stesse labbra. Potrebbe essere un abbraccio omoerotico o anche lo sdoppiamento di una stessa figura. Vale la pena ammirare anche l'uso del contrasto di quantità nel lavoro di Gipi: i suoi personaggi, colorati all'acquerello, hanno spesso le orecchie macchiate da un piccolo tocco rossastro. Si tratta in parte di una notazione realistica: negli umani le zone sessuali sono spesso più rosse del resto del corpo, ma sono rosse pure i nasi di chi ha freddo, gli occhi di chi piange, e il ginocchio del bambino appena caduto. Questi tocchi di rosso sono la vita stessa che si concentra sempre in alcuni punti più sensibili. I grandi autori, che siano artisti, designer, o tutte e due, usano il colore per raccontare, non per decorare. Ci sono diversi tipi di contrasto nella lista di Itten: il primo è quello di Chiaroscuro. In questo caso il tipo di tinta è irrilevante, ciò che conta è la modulazione dal buio alla luce e un saggio formidabile ne è il ritratto di Emile Zola scattato da Nadar intorno al 1880; il senso di questo tipo di contrasto risiede nel muoversi tra un massimo scuro e un massimo chiaro e la luce nel ritratto è come un aureola, non di quantità ma di cultura: delinea il volto e ne sottolinea i meriti interiori. Uno dei più famosi autoritratti della storia della pittura è quello che Rembrandt realizza ormai in età avanzata dove il contrasto di chiaroscuro serve per raccontare una storia. Il tocco di luce sul volto è l'analogo di una messa a fuoco, qualche errore fa scaturire le forme dal indistinto, o forse è l'oscurità che tra poco inghiottirà tutto: la vita è ciò che accade tra i due poli del buio e della luce. A questi segue il contrasto di colori puri: vale a dire quando si affiancano tinte piene, senza mezzi toni, senza sfumature evidenti. Stavolta quello che conta è il rapporto tra tinta e tinta e non la progressione tonale, cioè luminosa. Un campione perfetto ne sono le vetrate medievali, ma è anche il linguaggio del fumetto tradizionale e di molti cartoni animati, in cui le campiture cromatiche si contrappongono in maniera netta, come accade nello stile dei film di Hayao Miyazaki o nelle opere di Vincent Van Gogh, come l'autoritratto su fondo blu dove le sfumature non sono al centro del discorso, l'artista sta parlando tramite la giustapposizione delle tinte. La “Poltrona Proust” di Alessandro Mendini è un totem del design degli ultimi 30 anni: il colore fa della seduta una presenza virtuale, foderata di un pulviscolo ultraterreno e allucinatorio che la idealizza, il contrasto di colori puri può avere anche un impiego funzionale, come nella famosa mappa della metropolitana di Londra ideata da Henry Beck dove la contrapposizione delle tinte serve a distinguere le diverse linee di trasporto. L’accostamento di colori puri elude la prevaricazione percettiva e le linee appaiono paritetiche. Il quarto tipo dell'elenco è il contrasto di qualità: il termine fa riferimento al grado di saturazione di una tinta in relazione ad altri simili e qualità nel senso di intensità del colore percepito. Confrontiamo l'autoritratto di Van Gogh con una copia realizzata da un imitatore, simile nel disegno ma dal cromatismo differente: l'originale è imperniato su una forte opposizione tra gialli e arancioni, che fanno resistenza agli azzurri altrettanto intensi, invece il dipinto del copiatore, pure impiegando sia gialli sia blu, tende ad attenuarne lo scarto e potremmo definirlo una variazione in giallo in cui si accendono con cautela riverberi rossicci e azzurri. E’ un effetto che troviamo anche nelle Polaroid degli anni 70, dove tutto è intriso di una tonalità pallida, rosa o giallina. Il graphic novel Fast Valler Igort fa qualcosa di simile con una tavolozza di marroni caldi, di beige, ora slavata, ora pienissima. Il marrone non è un colore qualsiasi ma un valore importante per la storia, visto che Identifica il protagonista, un afroamericano. Il bordò apparecchio che si propone per essere usato fuori dall'ufficio, la parola d'ordine è portabilità, tanto che per ridurne il peso se ne studia anche una versione senza maiuscole. Ma a differenza della iMac il consenso è modesto perchè i tempi non sono ancora maturi, però mentre quella di Steve Jobs è una filosofia in senso americano e non greco (=qualcosa di pratico), quella di Sottsass è una poetica, cioè un'intenzione estetica con cui si pensano le cose nella vita quotidiana. Il rosso di Valentine ha un merito storico preciso: non è una laccatura o una patina, è il colore della plastica stessa con cui è realizzata, grazie alle nuove possibilità tecnologiche e ai nuovi composti che possono essere colorati nell'impasto anziché Rivestiti. Il materiale di cui è fatta la macchina di Sottsass, noto come ABS, è un polimero termoplastico che permette di creare oggetti rigidi e pure leggerissimo. Gli aspetti narrativi del colore non riguardano solo gli oggetti firmati dai grandi autori, ma anche quelli più colloquiali, comuni o da battaglia. Ad esempio, analizzando due utensili in cucina, un trapano e un frullatore, il colore è allo stesso tempo simbolo, ruolo e discorso commerciale. Se prendiamo la linea per il bricolage della Bosch, l'accoppiata di nero e verde conferisce personalità al trapano e allo stesso tempo lo distingue da Black & Decker, che è arancione e nero. Un sistema di tinte singole non è facile da memorizzare come una coppia e la scelta di Bosch di unire il nero col verde fa dunque un uso araldico delle logiche di marketing, poi il nero rimanda alle armi da fuoco e il verde evoca paesaggi montani. Un frullatore da cucina, invece, come il famoso Minipimer della Braun, se confrontato con il trapano, la prima cosa che salta all'occhio è un contrasto di chiarezza e violenza celata, infatti la punta del trapano è esibita, come il sesso nel corpo maschile, la lama del Minipimer è invece nascosta, come il sesso femminile. Come hanno rivelato dei test condotti nell'ultimo secolo, le cose scure sembrano richiederci sempre uno sforzo maggiore, e forse per questo nelle palestre i pesi per le donne sono colorati di tinte pastello, mentre quelli per i bodybuilder sono neri e minacciosi. Per rivelare la natura convenzionale di queste scelte cromatiche la ricercatrice svedese Karin ErnBerger ha progettato due nuovi elettrodomestici scambiando i colori e le forme del trapano con quelli del frullatore, e creando un cortocircuito nei nostri consolidati i codici merceologici: è il frullatore a sembrare un oggetto guerresco mentre il trapano si mostra medicale e quasi ginecologico. Queste relazioni in ambito semiotico sono una questione di pragmatica del colore, cioè sistemi in cui le tinte significano poiché sono usate in un certo modo all'interno di mondi culturalmente definiti. Ad esempio immaginiamo una lampadina rossa, accesa: se la incontriamo di notte, passeggiando per una metropoli contemporanea, può evocare significati legati al sesso e alla pornografia; se la vediamo invece insieme a lampadine di tanti colori vivaci pensiamo al luna park, al circo o gli addobbi natalizi; Se invece la incrociamo vicino ad una luce verde, allora significa divieto. Tra la luce rossa del locale pornografico e la luce del semaforo non c'è nessun rapporto se non somiglianza percettiva: è solo il contesto di relazioni che le permette di avere un contenuto. Quando la Bosch sceglie quel verde per la sua linea di utensili ha di certo ponderato a lungo la decisione, ma il pubblico a cui è rivolto il trapano ha tuttavia con quel colore i rapporti più diversi: c'è chi si affeziona, chi lo collega ai colori del Bosch, chi crede sia una questione di moda, chi lo usa e basta. La comunicazione è un processo, e in questo processo alcuni pezzi possono andare perduti, fraintesi o sopra interpretati. le ragioni che portano gli oggetti ad assumere un determinato aspetto sono spesso svariate: in alcuni casi ci troviamo di fronte a scelte stringenti intenzionali, altre volte si tratta di abitudini stilistiche, ma in alcuni casi può riguardare associazioni casuali o estemporanee. VERDE ASPRO: COLORI DA BERE E DA MANGIARE C’era una volta un re. Guglielmo Alessandro Nicola Giorgio Ferdinando d'Orange-Nassau dei Paesi Bassi, il 2 febbraio del 2002 convola a nozze con l'argentina Maxima Zorreguieta Cerruti e per l'occasione ogni cosa è colorata di arancione, tinta ufficiale del brand costruito intorno al nome della casata regnante: gli Orange. Questo colore così brillante, fa pensare alle carote, ma il colore dell'ortaggio è frutto di un artificio. La carota che conosciamo oggi non esisteva in natura, ma è stata progettata nel 600 quando, in omaggio al nome dei sovrani olandesi, gli agronomi di corte misero a punto una radice di colore arancione. Selezioni di piante e di animali caratterizzano le attività umane almeno dal Neolitico e il colore ha avuto spesso un ruolo di primo piano. Oggi gli alimenti sono controllati attraverso strategie industriali. Si sono messe a punto procedure adeguate che mantengono costante la cromia dei cibi, selezionando i mangimi con cui vengono cresciuti gli animali o intervenendo con coloranti sintetici. Ogni volta che cuciniamo, la maionese una volta ci viene più scura, una volta più chiara, un'altra più gialla. Come fa quindi la Kraft a produrre kg di salsa sempre identica? In tutti questi casi a farci riconoscere il colore giusto è la memoria. La nuance del burro, ad esempio, è stata messa a punto negli anni con ragionata accortezza: perchè se risulta troppo bianco rischia di essere scambiato per strutto, se è troppo scuro può essere rancido, se è pallido si può confondere con la margarina. I colori poi variano da paese a paese, ad esempio la maionese, commercializzata in Francia è di un giallo deciso esaltando il contenuto di uova, al contrario quella americana è quasi bianca e pone l'accento sulle qualità leggere e dietetiche. Mentre in passato i coloranti venivano impiegati per vivacizzare le pietanze in maniera festosa e plateale, oggi coloriamo il cibo per farlo sembrare sano e naturale. Il collegamento tra colori e sapori è antichissimo: in Occidente è comune legare il nero all'amaro, il grigio al salato, il giallo al grasso, ma non c'è però un codice rigido. Ad esempio il rosso è spesso dolce ma può indicare anche il piccante. Il primo ad interessarsi alla sinestesia cromatica è stato Francis Galton, cugino di Darwin, che si è accorto come ad alcune persone i numeri apparissero colorati. Per esempio, se su un foglio c’è una serie di cifre scritte in nero, il 5 spicca di un bel rosso vivo. Studi hanno chiarito che i soggetti sinestetici vedono davvero quel rosso, forse per la vicinanza a livello cerebrale delle aree che elaborano i numeri con quelle deputate ai colori. Per dimostrare come un fenomeno simile riguardi tutti, pure se in maniera meno decisa, c'è un esperimento facile e veloce, proposto da Wolfgang Kohler, uno dei padri della psicologia della forma: questi mostra delle figure e poi chiede chi è Maluma e chi è Takete, dimostrando che, nella maggior parte dei casi, Takete viene riconosciuto nella figura con le punte aguzze. La conseguenza cromatica di questo discorso è che il rosso è quasi sempre dolce e rotondo, mentre il verde è spesso acido e pungente. L'aspettativa che riponiamo nei colori del cibo è dunque tanto forte che finisce per incidere sull’esperienza gustativa, preparandoci in anticipo a categorizzare i sapori. Un’ulteriore conferma che la percezione non è un atto passivo, bensì il cervello proietta sulle cose immagini psicologiche che in un certo senso ne velocizzano la comprensione. La mente se si trova di fronte ad un pericolo, non ragiona sui pro e i contro, riconosce il pericolo e scappa. Il cervello funzionerebbe sempre così: per questo davanti ad un qualcosa di rosso intanto si scommette che sia dolce, poi si vedrà. Lo conferma un esperimento divertente: in cui si è proposto ad alcuni sommelier un bicchiere di vino bianco tinto di rosso, e tutti ci hanno sentito un aroma di ribes. Questo conferma che il cervello, anche quello del più raffinato, opera sempre secondo aspettative culturalmente strutturate e questo è stato sfruttato dalle industrie. Il Packaging è fondamentale: la Schweppes mette sulla bottiglia trasparente una piccola etichetta gialla che sembra anticipare la fettina di limone con cui andava di solito consumata. Eppure trovare il colore giusto per raccontare i cibi, non è sempre facile, il packaging infatti racconta spesso qualcosa di invisibile agli occhi. Alcune acque in bottiglia indicano tramite la tinta il grado di effervescenza: blu se è liscia, rossa se è frizzante, ma in questo caso, visto che abbiamo a che fare con l'acqua, si trasforma il codice internazionale dell'idraulica al mondo alimentare perchè nei rubinetti: il blu sta per il freddo e il rosso per il caldo. Il colore delle confezioni alimentari indica spesso anche la fascia di prezzo: di solito prodotti costosi sfoggiano tinte unite e ricercate, come il tè e biscotti del londinese Fortnum and Mason, a volte in scatole di latta bordò o acquamarina; l'unione di più colori è al contrario subito Pop, commerciale o economica. Basti pensare al giallo e rosso dei fast food, che da una parte rimanda alle salse, dall'altra comunica un senso di velocità. Tra tutti i colori, per il packaging alimentare, ce n'è uno di particolare interesse: il viola, una tinta che non passa mai di moda e ha impieghi molteplici, come per ciò che è lassativo, o nelle famose barrette Milka, dove la variante lilla pastello sottolinea gli aspetti calmanti della cioccolata al latte. Nei cibi viola c'è sempre qualcosa di lento, di pacato: è il colore della maturità, significando ora la saggezza ora la morte, ma forse questo senso di vecchiaia è dovuto proprio al successo che la tinta ha avuto nell'800 grazie alla malva di Perkin, che ne ha fatto il colore Vittoriano per l'eccellenza, così da renderlo lussuoso, elitario e snob. Nei cartoni animati statunitensi il viola è associato ai personali adulti, severi e cattivi. Anche la cioccolata Cadbury ha un pacco viola, ma è interessante notare che: in tutto l'occidente il viola è interpretato nelle sue note chic, ma quando l'azienda ha deciso di espandersi nel mercato cinese questo significato si perdeva: in Cina il viola fa povero perché è l'opposto percettivo del giallo imperiale. BEIGE COLONIALE: E ALTRI PROBLEMI DI MARKETING. La maggior parte del pubblico preferisce le macchine bianche, dunque proporre il bianco come tinta opzionale (con un prezzo superiore) è un’astuta strategia di marketing: al momento del lancio viene suggerito un prezzo basso per fare pubblicità, anche se in realtà quel prezzo si riferisce a un astratto modello base che quasi nessuno vuole. Il colore corrisponde non solo all'identità degli oggetti ma anche a quella del pubblico. I primi beni ad essere proposti in più colori sono stati gli abiti e le automobili: nel 1923 la General Motors introduce una Chevrolet colorata grazie alla recente scoperta di una nitrocellulosa che riesce ad inglobare più pigmento sulla carrozzeria in maniera stabile. Nel 1950 è la Kenwood a mettere in commercio un frullatore bianco, che per la prima volta permette di scegliere il colore dei dettagli. Poco dopo le guerre, gli ultramoderni contenitori in polietilene per alimenti sono proposti in diversi colori. Dopo la guerra del Pacifico, i soldati di ritorno dal fronte si ritrovavano in California, dov'è possibile acquistare a buon mercato le vecchie Harley Davidson del dipartimento di guerra, ma trattandosi di moto di seconda mano, bisogna assemblarle al meglio, così si cominciano a personalizzare i serbatoi o le parti della moto in base alle proprie preferenze. Dal dopoguerra in poi molta gente capisce che il nuovo corso è la personalizzazione e decide di irreggimentarla. Attraverso tali pratiche si affaccia l’idea che il colore non sia solo un attributo delle merci, ma appunto anche del consumatore. Compro un oggetto rosso perché questo è il mio colore prediletto, perché mi piace, perché lo sento affine, è l'applicazione sul fronte commerciale dell'idea di Itten che esistano rapporti profondi tra cromatismo e psicologia individuale. Il settore dei saponi e del bagnoschiuma è stato quello che più di ogni altro settore ha imparato ad avvalersene, poiché il lavarsi si è mutato nel tempo da questione igienica ad attività ricreativa: non ci si fa il bagno solo per pulirsi ma anche per rilassarsi, impiegando all'occorrenza profumi e candele per fare da contorno. Il packaging in questo caso svolge un ruolo evocativo, perché tramite immagini e colori ci guida alla scelta. Il sapone non ha un suo colore, decidere di colorarlo è una scelta esclusivamente di design. Ci sono tantissimi prodotti, stereotipando quelli femminili come rilassanti, benefici e curativi, e quelli maschili legati allo sport e al neutro. Si arriva perfino ad usare il beige per evocare atmosfere coloniali suggerendo un intero immaginario cromatico con paesaggi esotici, abiti lino, stuoie. Il beige è divenuto sinonimo di relax, anche se si sta raccontando quel mondo solo dal punto di vista dei conquistatori poichè il colonialismo ha sottomesso e sfruttato intere popolazioni. Del resto, il visual design ha un potere enorme, talvolta nefasto: come illudere il consumatore di stare sempre dalla parte dei vincitori e dei privilegiati, anche quando compra una saponetta. Come al cinema, dove abbiamo il west e gli altri generi, nella società delle immagini tutte le merci, anche i saponi, sono diventati generi narrativi. Non è senza significato che le multinazionali conducono da anni test e ricerche per capire quale sia il colore più adatto. Da qui nasce la domanda sul colore preferito, domanda più complessa di quanto sembri: le risposte legate al colore cambiano da paese a paese. In un fortunato libro del 1969, intitolato “Color sells your package” compare un grafico che mette a confronto, fra i tanti, i gusti cromatici di Olanda e Stati Uniti, mostrando come per gli olandesi il giallo è senza dubbio un colore buffo, per gli americani è moderno. Oggi, in tempi di globalizzazione, le differenze nazionali tra i consumatori sono meno marcate e le scelte vanno uniformandosi. Un esperimento carino è legare a ciascun sentimento un colore distintivo: rosso l'amore, nero l'odio, Ma gli altri sentimenti sono più sfuggenti, ad esempio l'amicizia. Su un indagine preliminare si scopre che in realtà per gli italiani l'amore è viola e l'odio azzurro. Si dimostra che quindi non esistono significati intrinseci alle tinte, nemmeno per un ipotetico uomo comune. Uno degli aspetti cruciali sui colori non concerne però solo cosa piace oggi, ma anche cosa andrà di moda in futuro: gli addetti ai lavori le chiamano color Forecast, previsioni coloriche. In una proverbiale scena del film Il Diavolo veste Prada la protagonista è una giovane giornalista che si trova nella posizione di assistente del direttore della più prestigiosa rivista di moda newyorkese, la famigerata Miranda Priestly. La ragazza manifesta un atteggiamento di superiorità nei confronti del glamour redazionale, e Miranda le dice “tu pensi che l'industria della moda non ti riguardi, quando, in realtà, quel maglione l'abbiamo scelto noi per te”. Chiarisce come il successo di una certa tinta sia determinato da menti fatali e imperscrutabili, che lo portano alla sopravvivenza in quanto quella tinta è più adatta darwinianamente in certe condizioni storiche. BIANCO MORALE: MITI DI OGGI NATI IERI. Il viaggio in un mondo parallelo è un classico della letteratura Fantastica: nel mago di Oz, Dorothy, come Alice nel paese delle Meraviglie, oltrepassa una soglia, affronta peripezie rocambolesche, impara lezioni e torna a casa nella sua fattoria in Kansas, più saggia e cresciuta. Sul piano della raffigurazione il paese di Oz è contrapposto al Kansas, realtà rurale abitata da persone semplici e genuine. L'opposizione è spinta al limite dallo stereotipo: se Oz è l'artificio, il consumo vistoso e l’iper-civilizzazione, il Kansas è abitato da chi non ha studiato, ma è in contatto con le verità autentiche della vita. Il film, costruito per mostrare i prodigi del nuovo Technicolor, usa un
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