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CRONICA ANONIMO ROMANO PARAFRASI E CONTESTUALIZZAZIONE FINO AL CAPITOLO 11, Appunti di Filologia italiana

Per esame con Campanelli di Filologia Italiana II A

Cosa imparerai

  • Chi era Cola di Rienzo e cosa voleva raggiungere a Roma?
  • Che grandi signori si opposero a Cola di Rienzo e perché?
  • Che ruoli ricoprirono papa Giovanni e Roberto d'Angiò nella storia di Cola di Rienzo?
  • Che significato ebbe la visita della regina d'Ungheria a Roma durante questo periodo?
  • Quali azioni intraprese Cola di Rienzo per raggiungere i suoi obiettivi?

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 27/09/2020

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4.6

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12 documenti

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Scarica CRONICA ANONIMO ROMANO PARAFRASI E CONTESTUALIZZAZIONE FINO AL CAPITOLO 11 e più Appunti in PDF di Filologia italiana solo su Docsity! PREFAZIONE CRONICA Il testo, dopo la prima edizione integrale dopo quella promossa da Muratori del 1740, è una cronaca scritta verso la metà del 300’ da autore rimasto anonimo in cui si racchiude la massima espressione letteraria della Roma medievale. Il genere è appunto cronachistico che nel momento in cui l’Anonimo decise di stendere tali memorie si trovava al vertice della sua fortuna. Questo membro della classe nobiliare cittadina aveva studiato medicina a Bologna ed era amareggiato per i soprusi delle grandi famiglie nobili (specie dei Colonna) e per la degenerazione del clero. L’opera è conosciuta sin dalle stampe seicentesche sotto il titolo di “Vita di Cola di Rienzo”. L’ultimo capitolo della “Cronica” coincide (data la frammentarietà dell’archetipo manoscritto) con quello dedicato alla fine del tribuno (Rienzo) e questa coincidenza non dipende dalla volontà dell’autore ma nel contrasto tra la morte di Cola di Rienzo e l’esempio di virtù fornitogli da Livio si deve riconoscere nell’atteggiamento dell’Anonimo autore una dichiarazione personale degli eventi a lui contemporanei. Nel prologo e nel primo capito della “Cronica” si identifica una delle ragioni dell’opera con la virtù consolatrice della poesia e si giustifica la scelta del volgare come mezzo idoneo per assicurare una più ampia partecipazione a questo testo. La veridicità storica dei fatti narrati è confermata da una memoria imperfetta, dall’incontro con testimoni di cose lontani (ad esempio con i pellegrini spagnoli che mostrano le cicatrici delle ferite ricevute nella battaglia di Rio Saldo, nel capitolo 11°), dalla suggestione di documenti misteriosi (la lettera inviata a Stefano Colonna) e dall’impressione provocata da avvenimenti fuori dal comune su un uomo che si è trovato a possedere doti di poeta. L’attenzione viene attirata dagli avvenimenti che maggiormente hanno impressionato l’autore e che probabilmente costituirono l’impulso determinante per il sorgere della “Cronica”, quelli che si svolsero intorno all’avventura di Cola di Rienzo. Il risultato è che i capitoli che trattano di Cola sormontano tutti gli altri. Per questo vi è uno squilibrio nella struttura della cronaca che porta nei manoscritti e poi nelle stampe all’isolamento delle parti che comprendono i capitoli XVIII (18), XXVII (27), XXIII (23) e XXVI (26) parti interpretate come un’anticipazione della biografia umanistica. La cronaca viene trascurata per quasi due secoli fino al suo recupero in pieno 500’. All’interno del consolidarsi del potere papale nella città dopo il ritorno da Avignone, dei resti della potenza nobiliare, delle forze che avevano prima ridotto all’isolamento e poi condannato il tribuno nel suo anacronistico sforzo di imporre uno stato di concordia cittadina e di supremazia italiana, in posizione di uguaglianza con i grandi poteri del tempo (sul modello della Roma repubblicana), Cola pensava di giocare una parte decisiva. Tutti questi avvenimenti significarono per la “Cronica” un’occultazione obbligata e quindi un’impossibilità di avere un’influenza che avrebbe potuto essere determinante per l’antica letteratura romanesca. Si tratta di una prosa, scritta in dialetto, che sfugge a tutte le classificazioni della prosa d’arte italiana. L’eccezionale elasticità della lingua dell’Anonimo che rifiuta il canone affermato al tempo ispira il “primitivismo” del duecentesco “Novellino”. NOTA BIBLIOGRAFICA (sempre in prefazione): Una forte influenza sulle edizioni successive è stata esercitata da quelle allestite dal tipografo Andrea Fei a Bracciano nel 1624 con l’attribuzione dell’opera a Tomao Fiortifiocca Scribasenato e in seconda edizione nel 1631 con diversa ripartizione dei capitoli e con l’aggiunta di un glossario sotto il titolo di “Vita di Cola di Rienzo Tribuno del Popolo Romano”. La seconda stampa braccianese, con modifiche e col corredo di varianti manoscritte, viene inserita da Ludovico Antonio Muratori nel contesto della prima edizione integrale della cronaca, accompagnata da una traduzione latina di Pietro Ercole Gherardi pubblicata a Milano del 1740. La fortuna favorita in epoca successiva per la “Vita” conosce episodi di manipolazione del testo condotta con intenti divulgativi e puristici, come la traduzione in toscano eseguita da Zefirino Re per il Bordandini di Forlì nel 1828 provvista di numerose note a carattere storico, poi ristampata a Firenze presso Le Monnier nel 1854 con titolo invariato preso in prestito dalla seconda stampa di Bracciano, o la parafrasi di Gabriele D’Annunzio “Vite di uomini illustri e di uomini oscuri. La vita di Cola di Rienzo” uscita a puntate nel “Rinascimento” a Milano tra il 1905 e il 1906. Presso l’editore Olschki esce nel 1928 l’edizione a cura di Alberto M. Ghisalberti “La Vita di Cola di Rienzo” che segna un ritorno alla tradizione manoscritta e a preoccupazioni di ordine filologico. Dopo l’edizione di Ghisalberti la sola che porti un contributo preciso sul piano testuale è quella procurata da Arsenio Frugoni nel 1957 per Le Monnier. Sul piano degli studi dedicati alla Cronica, quello di Ugo Fancelli, “Studi e ricerche sui Fragmenta historiae romanae”, Roma 1897, è il primo che si propone come risultato diretto dei codici ed offre un materiale che dovrebbe essere preliminare all’edizione del testo. Sulla base degli studi di Alfredo Schiaffini la datazione della cronaca viene fissata tra il 1357 e il 1358. L’ultimo lavoro sull’argomento, quello di Lucio Felici, “La Vita di Cola di Rienzo nella tradizione cronachistica romana”, in <Studi Romani> 1977, riassume gli elementi più sicuri sparsi negli studi precedenti e tenta di modificare le conclusioni continiane con l’ambientare il testo in dimensioni regionali, nel solco di una tradizione cronachistica che farebbe capo al “Liber pontificalis”. PROLOGO E PRIMO CAPITOLO: “DOVE SI DIMOSTRA LA RAGIONE PER CUI VENNE FATTA QUEST’OPERA”: Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. ’Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria tristezze, disconfitte inscolpivano e aitri animali in sassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori loro fatti, fecero arcora triomfali in soli[[i]]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo’ in Persia e in Arimino. Il celebre dottore sant’Isidoro, nel libro delle Etimologie, narra che il primo uomo di Grecia a disporre della scrittura fu un uomo greco che aveva per nome Cadmo (introdusse l’alfabeto tra i greci). Prima di lui non c’era scrittura. Per cui quando bisognava ricordare qualcosa di importante, non si poteva scrivere. Per cui si ricordava attraverso le statue e le iscrizioni, che si ponevano nei luoghi dove dimorava tanta gente, oppure si ponevano dove erano state compiute gesta: come una grande battaglia oppure vittoria… tristezze, sconfitte scolpivano… e altri animali di pietra oppure gente armata, come segno di tale commemorazione. E collocavano queste pietre in quei luoghi dove erano state fatte le gesta, in segno di una commemorazione perpetua. Non scrivevano libro, perché presso i Greci non vi era la scrittura. E questo modo/ tecnica serbarono/mantenerono i romani in tutta Italia e in Francia e soprattutto a Roma; in quanto, facendo conoscere ai loro successori i loro fatti, fecero archi trionfali in segno di potere con battaglie, uomini armati, cavalli e altre cose, come se ne trovano ora in Persia e a Rimini. CAPITOLO 2: Como Iacovo de Saviello senatore fu cacciato de Campituoglio per lo puopolo, e della cavallaria de missore Stefano della Colonna e missore Napolione delli Orsini. Dunqua da quale novitate comenzaraio? Io comenzaraio dallo tiempo de Iacovo de Saviello. Essenno senatore solo per lo re Ruberto, fu cacciato da Campituoglio dalli scendichi. Li scendichi fuoro Stefano della Colonna, signore de Pelestrina, e Poncello de missore Orso, signore dello Castiello de Santo Agnilo. Questi se redussero nello Arucielo e, sonata la campana, fecero adunare lo puopolo, la moita cavallaria armata e li moiti pedoni. Tutta Roma stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa Maria dello Piubico e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano a Campituoglio. Forte ivano regogliosi. Moiti erano, e bene a cavallo e bene armati. L’uitimo de quelli, se bene me recordo, portava una iuba de zannato roscio e una scuffia de zannato giallo in capo, una mazza a cavallo in mano. Passavano per la strada ritta, per la posana, donne demorano li ferrari, da canto a casa de Pavolo Iovinale. La traccia era longa. La campana sonava. Lo puopolo se armava. Io stava in Santa Maria dello Piubico. A queste cose poneva cura. Iacovo de Saviello senatore stava in Campituoglio. Erase stecconiato intorno. Non vaize niente sio infortellire, ché sallo su Stefano, sio zio, e Poncello scindichi de Roma, e doicemente lo presero per mano e miserollo a valle, acciò che non avessi pericolo nella perzona. Fu alcuno che penzao e disse: «Stefano, como puoi fare tanta onta a tio nepote?» La resposta de Stefano fu superva, disse: «Con doi denari de cerase lo rappagaraio». Mai questi denari non se trovaro. Anche comenzo io dallo tiempo che questi doi baroni fuoro fatti cavalieri per lo puopolo de Roma, bagnati de acqua rosata per li vintiotto Buoni Uomini in Santa Maria de l’Arucielo a granne onore. L’uno fu chiamato missore Stefano, l’aitro missore Napolione. Granne fu la festa, granne fu l’onore là in Campituoglio. Come il senatore Jacopo di Seviello (divenne senatore nel 1325) fu cacciato dal Campidoglio per il popolo e dalla cavalleria del messere Stefano Colonna e il messere Napoleone (Poncello) degli Orsini. Dunque da quale novità comincerò? Io comincerò dai tempi di Jacopo di Seviello. Essendo senatore solo per il re Roberto, fu cacciato dal Campidoglio dai sindaci. I sindaci furono Stefano della Colonna, signore di Palestrina, e Poncello messere degli Orsini, signore di Castel Sant’Angelo. Costui si ridussero a Santa Maria de l’Arucielo e, suonata la campana, fecero riunire il popolo, la molta cavalleria armata e i molti pedoni. Tutta Roma era armata. Mi ricordo bene come in un sogno. Io stavo a Santa Maria del Piubico e vidi passare l’orma dei cavalieri armati che traevano al Campidoglio. Andavano veloci esuberanti. Erano molti, e bene a cavallo e bene armati. L’ultimo di loro, se bene mi ricordo, portava una giubba di zendado rosso e una cuffia di zendado giallo in testa, una budella in mano sul cavallo. Passavano per la strada dritta, per la via del Teatro Marcello, donde dimorano i fabbri, accanto alla casa di Paolo Giovenale. La tratta era lunga. La campana suonava. Il popolo di armava. Io ero a Santa Maria del Piubico. A queste cose ero attento. Il senatore Jacopo di Seviello stava al Campidoglio. Era circondato con steccato intorno. Non gli servì niente da fortificare, perché salgono sopra Stefano, suo zio, e Poncello sindaci di Roma, e dolcemente lo presero per mano e lo misero sulla valle, attenti che non ci fosse pericolo nelle persone. Ci fu qualcuno che pensò e disse: <Stefano, come puoi fare come puoi fare questo a tuo nipote?> La risposta di Stefano fu superba, disse: < con due denari di ciliegie lo risarcirò>. Questi denari non si trovarono mai. Anzi comincio io dal tempo che questi due baroni furono eletti cavalieri per il popolo di Roma bagnati dall’acqua rosata (battesimo) per i ventotto magistrati popolari a Santa Maria d’Arucielo per grande onore. Uno fu nominato messere Stefano, l’altro messere Napoleone. Ci fu una grande festa, fu grande l’onore lì in Campidoglio. Nella piazza de Santa Maria fuoro spase trabacche e paviglioni. Là erano tromme e ceramelle e onne instrumento. Vedesi rompere de aste, currere de cavalli e pettorali de sonaglie. Moite erano le banniere. Più erano le reconoscianze. Moita se faceva festa. Moito li fu fatto onore. Nella chiesia de Santa Maria de l’Arucielo stavano doi lietti, li più onorati. Ben pareva cosa reale. Queste cose me recordo como per suonno. Currevano anni Domini MCCC. Anche li sopraditti cavalieri bagnati ne iero allo re Ruberto a Napoli, lo quale li cenze la spada; la quale cosa moito despiacque allo romano puopolo. Certo da queste cose io non comenzo; ca, benché così fosse, io era in tanta tenerezza de etate, che conoscimento non avea elettivo. Anco voglio comenzare da cosa de più aitezza. Incomenzaremo collo nome de Dio dalla sconfitta dello principe della Morea, la quale fu per questa via. Nella piazza di Santa Maria vi furono larghe tende da campo e padiglioni. Lì vi erano trombe e cennamelle e ogni strumento. Si vedeva rompere i bastoni, correre i cavalli e strisce di cuoio sul petto dei cavalli a sonagli. Erano molte le bandiere. Molte erano le figure sugli scudi dei cavalieri. Si faceva molta festa. Fu fatto molto onore. Nella chiesa di S. M. di Arucielo vi erano due letti, i più onorati. Sembrava una cosa regale. Mi ricordo queste cose come in sogno. Correvano gli anni 1330 (l’anno in cui si svolse la cerimonia della dignità cavalleresca ai 2 sindaci con la festa popolare è prob. il 1325). Anzi i sopraddetti andarono poi a Napoli da re Roberto che li fece anche li cavalieri; la cosa dispiacque molto al popolo romano. È certo che io non comincio da queste cose; ché, benchè fosse così, io ero talmente in tanta tenera età che non ero soggetto a libera scelta di conoscenza. Anzi voglio iniziare da una cosa più importante. Incominceremo con il nome di Dio dalla sconfitta del principe d’Acaia, che fu per questa via. CAPITOLO 3: Como fu sconfitto lo principe della Morea a porta de Castiello Santo Agnilo, e como fu trovato Guelfo e Gebellino, e delle connizione de Dante e que fine abbe soa vita. Currevano anni Domini MCCCXXVII, dello mese de settiembro, nella viilia de santo Agnilo de vennegne, quanno fatta fu la granne sconfitta per li Romani a porta de Castiello; la quale fu per questa via. Li elettori dello imperio nella Alamagna liessero Ludovico duce de Bavaria in imperatore, lo quale non fu obediente a papa Ianni, como se dicerao. Quanno la venuta de questo elietto a Roma fu intesa, papa Ianni, lo quale era in quello tiempo, e Ruberto re de Apuglia se provedevano de pararese a soa venuta. Dunqua de loro commannamento missore Ianni della Rascione, principe della Morea, frate dello re Ruberto, e missore Ianni Gaietano, legato in Toscana, se muossero con iente moita a Roma per fare contrasto e reparo. La adunanza fu fatta nella citate de Nargne. La iente fu moito bella e bene acconcia. Setteciento fuoro li cavalieri, pedoni senza fine. Tutti li baroni de casa Orsina erano con essi: missore Napolione, cavaliero noviello dello puopolo, Bertollo de Francesco dello Monte, nepote dello legato, canfione della parte guelfa, missore Antrea de Campo de Fiore e moiti aitri. La iente ne veniva grossa e smesurata per occupare Roma. Come fu sconfitto il principe di Morea/Acaia alle porte di Castel sant’Angelo, e come fu trovato Guelfo e Ghibellino, e della condizione di Dante e che fine ebbe la sua vita. Correva il 1327, del mese di settembre, nella vigilia di san Michele Arcangelo (attacco delle mura cittadine che dette origine alla resistenza dei Romani nella notte tra il 28 e 29 settembre, festa di S. Michele Arcangelo). Quando fu fatta la grande sconfitta dei romani alle porte del castello; che fu per questa via. Gli elettori dell’impero nella Alemmania elessero il capo Ludovico il Bavaro della Bavaria come imperatore (eletto il 20 ottobre a Francoforte quasi contemporaneamente al suo rivale Federico d’Austria. La sua ostilità verso papa Giovanni XXII costituiva l’argomento del perduto capitolo IIII) che non fu obediente a papa Giovanni, come si diceva. Quando la salita di questo eletto a Roma fu appresa, papa Giovanni, che era papa in quel tempo, e Roberto d’Angiò (re di NA) si provvedevano di mettersi in posizione di combattimento alla sua venuta. Dunque al loro comando il messere Giovanni di Gravina (principe di Acaia, poi duca di Durazzo), fratello di re Rob e messere Giovanni Gaetano Orsini (cardinale legato) in Toscana, si mossero con molta gente a Roma per fare ostacolo e riparo. L’incontro fu fatto a Narni (fu svolto il sinodo indetto del legato dopo il fallimento del tentativo di espugnare la città). La gente fu molto bella e agghindata. 700 furono i cavalieri, i pedoni infiniti. Tutti i baroni della casata Orsini erano con loro: messere Napoleone, nuovo cavaliere del popolo, Bertollo di Francesco del Monte, nipote del legato, campione della parte guelfa, messere Andrea di Campo dei Fiori e molti altri. La gente accorreva numerosa e smisurata per occupare Roma. Non ne voleva la vita l’uno de lo aitro. Intanto se departiero e tornaro a loro iente. Vedese ferire, lanciare e prete iettare. Ben pare che fossi stormo crudele. Lo puopolo de Roma vao ’nanti e reto como onna de mare. Ma li nimici daienno lato, li Romani se allocaro fi’ a mesa la piazza. Là fu fatta una novitate così. Uno, lo quale avea nome Ianni Manno de Colonna, portava lo confallone dello puopolo de Roma. Como ionze allo pozzo lo quale stao in quella piazza denanti alle Incarcerate, donne era rotto lo muro, prese questo confallone e iettaolo nello pozzo. E questo fece per dare uitima sconfitta allo puopolo de Roma. Bene debbe lo traditore perdire la vita. Non perciò perdìo vigore lo Romano, ché ià lo principe dava a reto. Ora vedese fuire, ora vedese commattere. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Sciarra della Colonna forte conforta soa iente e fece una notabile cosa, che la soa sopravesta cagnao in poca ora. Granne senno lillo fece fare. Granne parte dello puopolo passao canto lo fiume, dallo lato de Santo Spirito. Là per la folla affocati fuoro cinque pedoni romani. Anco là fu un’aitra novitate. Uno granne omo de Roma — Cola de madonna Martomea delli Aniballi avea nome — fu perzona assai ardita, iovine como acqua. Coize audacia de volere prennere per la perzona lo principe. Speronao lo destrieri e ruppe la forte schiera dove stava affasciato lo principe. Venneli denanti e destese la mano per pigliarlo. Bene se nello credeva menare; ma non respusero le mesure, ca·llo principe li menao de una mazza de fierro e ferìo lo cavallo. La potenzia dello destrieri dello principe fu tanta che recessava a reto Nicola e recessannose a reto Nicola, non abbe sufficiente spazio lo sio cavallo. Donne li piedi dereto li vennero meno e cadde in quello fossato lo quale stao in fronte alla porta dello spidale de Santo Spirito, lo quale ène fatto per defesa de l’uorto. In quello fossato lo cavallo e esso, credennose retornare, caddero menati a forza dalli cavalli dello principe, e là fu occiso. L’uno dell’altro non voleva la vita. Intanto si divisero e tornarono alla loro gente. Si vede ferire, lanciare e gettare pietre. Pare bene che fosse una battaglia cruenta. Il popolo di Roma va avanti e dietro come un’onda del mare. Ma i nemici dando largo, i romani si collocarono fino a metà della piazza. Lì avvenne un fatto così straordinario. Uno che aveva come nome Giovanni Manno di rione Colonna, portava il gonfalone del popolo di Roma. Come giunse al pozzo che sta in quella piazza davanti alle Incarcerate, donde era rotto il muro, prese questo gonfalone e lo gettò nel pozzo. E questo lo fece per dare un’ultima sconfitta al popolo di Roma. Dovette perdere la vita il traditore. Non per questo perse vigore il romano, perché già il principe lo dava dietro. Ora si vede fuggire, ora si vede combattere. Là si ripara chi è un figlio di buona mamma. Sciarra della Colonna conforta fortemente la sua gente e fece una cosa nobile, che la sua sopravveste cambiò in poche ore. Un grande segno glielo fece fare. Una grande parte del popolo passò accanto al fiume, dal lato di Santo Spirito. Lì per la folla furono affogati cinque pedoni romani. Anzi là ci fu un’altra novità. Un grande uomo di Roma- Cola di madonna Martomea degli Annibali aveva come nome- fu una persona molto audace, giovane come l’acqua. Prese l’audacia dal voler prendere di persona il principe. Spronò il destriero e ruppe la forte schiera dove era protetto il principe. Venne lì davanti e distese la mano per prenderlo. Bene pensava di menarlo; ma non corrisposero le misure, che quel principe lo menò con una mazza di ferro e ferì il cavallo. La potenza del destriero del principe fu talmente tanta che allontanava indietro Nicola e allontanando indietro Nicola, non ebbe sufficiente spazio per il suo cavallo. Per cui i piedi dietro (del cavallo) gli vennero meno e cadde in quel fossato che sta difronte la porta dell’ospedale di S. Spirito, che è fatto per difesa dell’orto. In quel fossato il cavallo e lui, credendo di ritornare, caddero scossi dalla forza dei cavalli del principe, e là fu ucciso. Granne fu la tristizia che Roma abbe de così inclito barone. Allora se fiariao lo puopolo. Lo principe deo a reto. Inchinao soa schiera. Comenzaro a fuire. Lo luoco donne se partiro fu porta Veredara. Quella fu la via che li campao. Ora se aiza la terza. Lo fuire ène granne. Maiure è lo maciello. Così se macellavano como le pecora. Nulla resistenzia faco. Moita iente ce fu occisa. Moita preda Romani guadagnaro. Alquanti baroni romani della parte Orsina, li quali fecero resistenzia, fuoro presoni. In presone stettero tanto quanto lo capitanio voize. Infra li quali fu Bertollo capo de parte Orsina, capitanio della Chiesia e della parte guelfa. E se non fusse che Sciarra lo portava in groppa, li Romani lo àbberano muorto. Aitra iente non fece defesa, cioène Napoletani, Provenzali, Franceschi, Pugliesi. Tante fuoro le corpora morte che nude iacevano, che non se pote dicere. Per tutta piazza de Castiello fi’ a Santo Pietro, da Santa Maria in Trespadina, da piazza de Santo Spirito, per tutte puortica, dalli Armeni, per onne strada iacevano como la semmola seminati, tagliati, nudi e muorti. Là fra questa iente iaceva lo conte de Santo Severino e moita aitra bona iente: la vista lo mustrava. Ora se delequa lo principe con quella soa iente che potéo cogliere. Po’ moiti dìe fuoro trovati uomini muorti per le vigne, armati, nelle capanne e nelli cupi delli arbori, li quali nello stormo erano stati feruti. Per la via lo spirito li avea abannonati. Sciarra tornao a Campituoglio con granne triomfo. Bello pallio mannao a Santo Agnilo Pescivennolo e uno bello calice per merito e onore de questa romana vittoria. In questo tiempo fuoro fatte quelle maladette parte, Guelfi e Gebellini, li quali non erano stati ’nanti, anco erano stati Bianchi e Neri. Una sera, quanno la iente lassa opera, appriesso allo cenare nella citate de Fiorenza se appicciaro doi cani. L’uno abbe nome Guelfo, l’aitro Gebellino. Forte se stracciavano. A questo romore de doi cani la moita iovinaglia trasse. Parte favorava allo Guelfo, parte allo Gebellino. Quanno se fuoro li cani... Fu grande la tristezza che ebbe Roma del così nobile barone. Allora si avventò il popolo. Il principe andò indietro. Si inchinò alla sua schiera. Cominciarono a fuggire. Il luogo dove si nascosero fu Porta Viridaria (veniva designata in questi anni quella posta presso i giardini Vaticani). Quella fu la via che li scampò. Ora si alza la terza ora (9 del mattino: è l’ora canonica). Il fuggire è grande. Maggiore è il macello. Così si macellavano come le pecore. Nessuno fece resistenza. Molta gente fu uccisa. I romani guadagnarono un numeroso bottino. Alcuni baroni romani della parte degli Orsini, che fecero resistenza, furono imprigionati. In prigione stettero tanto quanto volle il capitano. Fra le quali vi fu Bertollo capo della parte degli Orsini, capitano della Chiesa e della parte guelfa. E se non fosse che Sciarra lo portava sulle spalle, i romani lo avrebbero uccisero. Altra gente non si difese, cioè né Napoletani, provenzali, francesi, pugliesi. Tanti furono i corpi che giacevano morti nudi, che non si può dire. In tutta la piazza del castello fino a san Pietro, da santa Maria in Traspontina, da piazza di S. Spirito, per tutti i portici, dalla piazza degli Armeni, per ogni strada giacevano come la semola seminati, tagliati, nudi e morti. Là fra questa gente giaceva il conte di Tommaso di Sanseverino (secondo conte di Marsico, lo stesso che l’anno prima aveva accompagnato il duca di Calabria a Firenze) e molta altra buona gente: la vista lo mostrava. Ora si dilegua il principe con quella sua gente che poté prendere. Poi molti giorni(dopo) furono trovati uomini morti per i vigneti, armati, nelle capanne e nelle cavità degli alberi, che nella battaglia erano stati feriti. Per la via lo spirito li aveva abbandonati. Sciarra tornò al campidoglio con grande trionfo. Un bel palio mandò a sant’Angelo pescivendolo e un bel calice per merito e onore per questa vittoria romana. In questo momento furono fatte quelle maledette parti, Guelfi e Ghibellini, che non era stati innanzi, anzi erano stati Bianchi e Neri. Una sera, quando la gente lascia l’opera, appresso al cenare nella città di Firenze si azzuffarono due cani. Uno ebbe come nome Guelfo, l’altro Ghibellino. Si dilaniavano forte. A questo rumore dei due cani il numeroso gruppo di giovani si divisero. Una parte favoriva il Guelfo, una parte il Ghibellino. Quando si furono i cani… CAPITOLO 5: Dello mostro che nacque in Roma e dello legato dello papa lo quale fu cacciato de Bologna. ...una citate, da priesso a Bologna vinti miglia: Ferrara hao nome. De questa Ferrara so’ cacciati alquanti citadini nuobili, li quali se chiamano quelli da Fontana. E questo avenne perché venniero Ferrara a Veneziani. Ora ne soco signori in luoco loro li marchesi da Este. Questi de Fontana pregaro lo legato che li tornassi in loro casa per anni tre. Li marchesi de Ferrara respusero allo legato fiorini quattordici milia per anno, acciò che non tornassino quelli li quali vennuta avevano la loro patria a Veneziani. Po’ li quattro anni dello tributo, lo anno settimo dello sio dominio, pranzava. Ora si vede uccidere la gente, si vede fuggire, si vedono urla e pianti. Il conte d’Armagnac fu imprigionato e rivenduto per 60.000 mila fiorini. I signori della Romagna di lasciarono prendere dalla loro spontanea volontà. La molta gente fu uccisa e presa. Molta roba fu guadagnata. Senza difesa fu guadagnato uno smisurato ordigno bellico per scagliare pietre che si chiamava asino. Il popolo di Bologna si rifugiò sul ponte. Il ponte era legato da stroppe (corde) (il ponte di San Gioso, secondo quanto riferisce Giovanni Villani che ci dà una descrizione della battaglia del 14 febbraio 1333 risoltasi a favore degli Estensi appoggiati dalla lega di Lombardia e a danno di re Giovanni e del legato dopo l’assedio durato due mesi). Cadde nel fiume. Quanta gente morì puoi ben sapere. Alcune persone furono si appesero alle corde del molo e la scampavano sull’acqua. Venne uno con un’accetta e tagliò quella fune. Tutta quella gente, che campava, annegò nel Po. Quell’uomo fu figlio del demonio! Ventimila persone erano messe in pericolo nella rotta. Il grande carro tuttavia tornò a Bologna. Quando la notizia giunse a Bologna, il dispiacere fu grandissimo e anche le tristezze. Il legato non ebbe paura di niente. Per prima cosa scrisse lettere al messere Malatesta, che era lasciato con gli altri tiranni. la sentenza della lettera era: perché si era ribellato alla Chiesa romana? Messere Malatesta scrisse un’altra lettera. Altro non conteneva se non questo: <Bene. Facciamolo> (evidente eco derisoria della risposta tranquilla ma evasiva incontrata poco sopra che il legato soleva dare a chi sollecitava il suo aiuto prima della sconfitta di Ferrara). Dopo questo il legato si preparava per fare un altro esercito più pericoloso. Fece venire dal suo paese 500 giovani vestiti di giallo con lunghe gambe, con giavellotti in mano. Poi mise grandissime imposte per raccogliere le monete, per fare l’esercito. Quando il popolo di Bologna si sentì carico per così tante imposte per la gente morte, forte si lamentava. Uno dottore de leie — missore Brandelisio delli Gozadini abbe nome — su nella piazza dello Communo se mosse con una spada in mano. Leva puopolo e caccia dello palazzo della Biada lo menescalco dello legato e occise alquanti e derobao. Ora fu puosto lo assedio allo bello e nobile castiello dello legato, dello quale de sopra ditto ène. Lo assedio stette dìe quinnici. L’acqua li fu toita, perché lo curzo li fu rotto. Dentro era fodero de pane, vino, carne inzalata e moite cose. Li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano. Vedenno lo legato che tutto lo munno se·lli era rebellato, fu sollicito de campare soa perzona. Là trasse lo vescovo de Fiorenza. Lo legato se mise in mano de Fiorentini. Li Fiorentini lo trassero fòra allo castiello. Canto le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto lo puopolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le peccatrice li facevano le ficora e sì·lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se aizavano li panni dereto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li fecero. Ben lo àbberano manicato a dienti se non fussi stato in balìa de Fiorentini. Lo legato fece la via delle Alpe con povera compagnia e con poche some. Ionze a Pisa, da Pisa in Avignone. Un dottore di legge- messere Brandelisio dei Gozzadini- (il nome deriva dalla leggenda arturiana cara all’onomastica della famiglia Gozzadini) sulla piazza del comune si movimentò con una spada in mano. Toglie il popolo e caccia dal palazzo della Biada il menescalco del legato e uccise alcuni e li derubò. Ora fu posto l’assedio al bello e nobile castello del legato, del quale è sopra dritto. (castello alla porta di Galliera fatto costruire nel marzo del 1330, la ribellione avvenne nel 1334). L’assedio durò quindici giorni. L’acqua gli fu tolta, perché la conduttura fu rotto. Dentro vi erano provviste di pane, vino, carne, insalata e molte cose. I bolognesi facevano precipitare e balestravano il letame nel castello. Vedendo il legato a cui gli si era ribellato tutto il mondo, fu sollecito di scampare la sua persona. Lo portò dal vescovo di Firenze. Il legato si mise in mano dei fiorentini. I fiorentini lo trassero fuori dal castello. Accanto alle mura andava la strada che va alla porta di Firenze. Tutto il popolo di Bologna gli gridava e gli faceva le fiche/i fichi e gli diceva ingiurie. Le peccatrici gli lanciavano i fichi e così gli gridavano dicendogli molte ingiurie. Alzavano i panni di dietro e gli mostravano il primo dei diritti canonici e il sesto delle Clementine (costituiscono la terza delle tre sillogi del diritto canonico ordinate dai pontefici Gregorio IX, Bonifacio VIII e Clemente V e pubblicate come decretali rispettivamente nel 1234, 1298 e 1314). Molte offese gli fecero. Lo avrebbero mangiato con i denti se non fosse stato in balìa dei Fiorentini. Il legato percorse la via delle Alpi con poca compagnia e con pochi somari. Giunse a Pisa, da Pisa ad Avignone. (il 28 marzo il legato scampa da Bologna, riferito da Giovanni Villani. Il 29 è a Firenze con grande onore, il 2 aprile lascia la città viene accompagnato a Pisa. Da Pisa si imbarcò per Avignone dove giunse il 26 aprile per non fare più ritorno in Italia) Bolognesi derobaro tutta iente de Lengua de oca. Moiti ne occisero. Puoi deruparo a terra quello nobile castiello de che ditto ène. Aitro non lassaro se non la chiesia. Fi’ dalli fonnamenti trassero le mura. Quanno questo fu, currevano anni Domini MCCCXXXIV, de mese La campana dello legato àbbero li Eremitani; la nobilissima cona dello aitare li frati predicatori de santo Domenico, la quale ène de alabastro, opera pisana, valore de X milia fiorini. La lampana cerchiata d’aoro, la quale ardeva nello coro dello legato, àbbero li frati menori. Anco àbbero tutta la carne secca, tanto potessino deluviare. In questo tiempo era in Bologna missore Ianni de Antrea, dottore de Decretali, omo de tanta escellenzia de senno, de scienzia e cortesia, che passava. Questo fu quello lo quale fece lo livro lo quale se dice la Novella. I bolognesi derubarono tutta la gente di lingua di oca. Molti ne uccisero. Poi deturparono la terra di quel nobile castello che è stato detto. Altro non lasciarono se non la chiesa. Fin dai fondamenti trassero le mura. Quando questo fu fatto, correva l’anno 1334, del mese la campana del legato ebbe gli eremiti; la nobilissima icona dell’altare dei frati predicatori di san Domenico, che è di alabastro (roccia), opera pisana, con un valore di 10.000 fiorini. La lampada cerchiata d’oro, che ardeva nel coro del legato, ebbero i frati minori. Ebbero anche tutta la carne secca, tanto potettero divorare. In questo tempo c’era a Bologna il messere Giovanni d’Andrea, dottore del diritto canonico, uomo di molta eccellenza e di senno, di coscienza e cortesia che passava, questo fu quello che fece il libro che racconta la novella. (la fama del giurista Giovanni di Andrea, di cui le cronache locali registrano la morte nella pestilenza del 1348, resta affidata alla glossa ordinaria posta apposta alle tre raccolte di Decretali e ai “Commentaria novella” delle sillogi di Gregorio IX e di Bonifacio VIII). CAPITOLO 6: Como frate Venturino venne a Roma colle palommelle e dello campanile de Santo Pietro lo quale fu arzo. Currevano anni Domini MCCCXXXIIII, dello mese de marzo, in quaraiesima uno frate predicatore, lo quale avea nome frate Venturino de Bergamo de Lommardia, dello ordine de santo Domenico, commosse con soie predicazioni devote la maiure parte de Lommardia a devozione e penitenza e connusse questa iente in Roma allo perdono. Erano Bergamaschi, Bresciani, Comani, Milanesi, Mantovani. Una parte fuoro ientili e buoni, ma le dieci parte fuoro delle vescovata. Questa iente, la quale venne con frate Venturino, fu innumerabile. E tanto fu più cosa maravigliosa, quanto arrecavano abito. L’abito, lo quale questo frate Venturino li avea dato, era che questi portavano una gonnella bianca, longa, passata mesa gamma. Sopra la gonnella portavano uno tabarretto de biado corto fino allo inuocchio. In gamme portavano caize de bianco. De sopra le caize portavano calzaroni de corame fi’ a mesa gamma. In capo portavano una capelluzza de panno de lino bianca e de sopra portavano una capelluzza de panno de lana biada, nella quale dalla fronte portavano uno tau. La parte de sopra era bianca, la parte de mieso era roscia. In pietto portavano una palomma bianca, la quale teneva in vocca uno ramo de oliva in segno de pace. Nella mano ritta portavano lo vordone, nella manca li paternostri. Con questa iente frate Venturino descenne per Lommardia predicanno. Moita iente lo sequita. Veone in Fiorenza. Io la dispenserò per Dio agli uomini che ne necessitano, che non possono dare tempo fino al vedere il sudario. (la Veronica, il sudario del volto di Cristo conservato nella Basilica di S. Pietro come la più preziosa delle reliquie almeno fino all’8° secolo; la sua espozione aveva luogo probabilmente il Venerdì Santo, forse anche il giorno dell’Ascensione e in occasioni eccezionali come per il Giubileo del 1300). Allora i romani si cominciarono a farsi gabbo di esso e dissero che era pazzo. Così dicendo non dimorarono più, anzi si alzarono in piedi e se ne andarono lasciandolo solo. Poi predicò il santo Gianni. I romani non lo volevano ascoltare, anzi gli davano la caccia. Allora si disperava per l’ira e cos’ li maledisse e disse che non ebbe mai visto gente così perversa. Così non apparì più. Anzi se ne andò di nascono e fuggì da Roma. Giunse ad Avignone. Il papa gli vietò di predicare (dopo l’arrivo ad Avignone ai primi di giugno del 1335 frate Venturino perde il diritto alla predicazione che riprenderà nel 343’ dopo la morte di Benedetto 12° e lo condurrà a Smirne al seguito dei crociati dove muore nel 1346). In questo periodo una folgore lacerò il campanile di S. Pietro e tutta la sommità bruciò. Non toccò le campane. Inoltre in questo periodo morì papa Giovanni XXII, del quale è già stato detto. Quando si avvicinò alla morte, cancellò l’errore di chi diceva che le anime dei beati non vedono Dio in faccia. E disse che ciò che aveva detto lo aveva detto per fare una disputa (la disputa sulla visione beatifica predicata dal papa per la prima volta a Notre-Dame il giorno d’Ognissanti del 1331, secondo la quale le anime dei giusti non fruiscono della visione intuitiva di Dio avanti alla resurrezione dei corpi, venne troncata dopo una ritrattazione papale avvenuta nel 34’ dalla costituzione Benedictus Deus emanata il 29 gennaio 36’ da Benedetto 12°). CAPITOLO 7: De papa Benedetto e dello tetto de Santo Pietro de Roma lo quale fu renovato. Currevano anni Domini MCCCXXXIIII quanno fu creato papa Benedetto. Fu oitramontano, vascone e fu monaco bianco de l’ordine de Cistella de santo Bernardo-. Avea nome lo cardinale bianco quanno fu eletto. La soa elezzione fu più divina che umana, perché li cardinali li diero la voce per lo quarto, sì che chi hao la voce per lo quarto ène nella più infima connizione. Ora tutti li cardinali se concordavano in esso per lo quarto, sì che tutti l’àbbero per desperato-. Ma puoi che·lle voce fuoro tutte dello bianco, soa elezzione fu divina, ca la concordia de tutti fu che fussi papa; lo quale essere papa ciascheuno assemmotì: l’abbe per desperato. Questo abbe nome lo cardinale bianco e fu omo moito corpulento e grasso e gruosso, roscio. La soa figura de ponto stao in Santo Pietro, dentro alla chiesia, sopre la porta maiure della nave maiure-. Di papa Benedetto e del tetto di S. Pietro di Roma che fu rinnovato. Correva l’anno 1334 quando fu fatto papa Benedetto. Fu oltramontano, vescovo e fu monaco bianco dell’ordine di Cistella di san Bernardo (Jacques Fournier, Cistercense aveva preso i voti ancora molto giovane nel monastero di Boulbonne nella Haute-Garonne, proveniente da Saverdun nella regione di Foix contigua alla Guascogna, fu elevato al papato il 20 dicembre 334’ che terrà fino alla morte nel 1342 avvenuta ad Avignone. Il suo rigore verso gli abusi amministrativi come il suo zelo nell’estirpare le eresie, lo indussero ad una riorganizzazione degli uffici ecclesiastici e alla riforma degli ordini religiosi, in particolare quello benedettino). Quando fu eletto aveva come nome il cardinale bianco. La sua elezione fu più divina che umana, perché i cardinali gli diedero la voce per il quarto mandato, così che chi ha voce per il quarto è nella più volgare condizione. Ora tutti i cardinali si concordavano per dargli il quarto, che tutti lo credevano disperato (lo stupore dei cardinali, dopo una serie di contrasti tra partiti diversi, per l’elezione di colui che era stimato uno dei colleghi meno influenti traspare anche dalla narrazione di Giovanni Villani) Ma dopo che le voci furono tutte a suo favore, la sua elezione fu divina, che l’accordo di tutti lo fece papa; che essere papa ammutì qualcuno: lo crebbe disperato. Questo ebbe il nome di cardinale bianco e fu un uomo molto panciuto grasso e grosso e roscio. La sua figura secondo la regola sta a San Pietro, dentro alla chiesa, sopra la porta maggiore della navata maggiore (dovrebbe riferirsi al busto in bassorilievo originariamente colorato opera di Paolo di Siena che faceva parte del monumento onorario collocato in alto in fondo all’antica basilicia a memoria della ricostruzione del tetto del primitivo S. Pietro attualmente conservato nelle Grotte Vaticane). Questo papa fu omo santissimo e servao questa connizione, che non voize mai despenzare nelli matrimonii li quali se faco intra li parienti. Moito li despiaceva cutale parentezze. Mai non li voize consentire. Anche fu omo moito scarzo e retenente dello tesauro della Chiesia; non solamente dello tesauro, ma delle beneficia. Moito bene voleva vedere a chi le daieva e voleva vedere de que vita fussi e volevali forte esaminare. Moiti ne esaminao esso medesimo. Non voleva idiote. Quanno li veniva innanti alcuno prelato indegno overo idiota, de non convenevile fama, li tolleva parte delle prebenne e sì·lle presentava alli sufficienti e buoni. Moito iva cercanno li buoni chierichi sufficienti. Moito li onorava. E perché ne trovava pochi, destrenze le grazie a sì e non voleva provedere. Denanti a questo papa Benedetto venne uno monaco de Santo Pavolo de Roma- — frate Manosella- avea nome —, lo quale per la morte dello antecessore sio era elietto abbate. Questo era omo lo quale se delettava de ire per Roma la notte facenno le matinate, sonanno lo leguto, ca era bello sonatore e cantatore de ballate. E iva per le corte alle nozze e per le vigne alle calate. Così dico Romani. Quanto ne poteva essere tristo santo Benedetto, quanno lo sio monaco saitava e ballava! Quanno questo elietto fu denanti alla santitate de papa Benedetto, disse: «Santo patre, io so’ lo elietto de Santo Pavolo de Roma». Ora lo papa sao tutte le connizioni de chi li veo denanti. Disse: «Sai cantare?» Respuse lo elietto: «Saccio». Lo papa: «Io dico la cantilena». Disse lo elietto: «Le canzoni saccio». Disse lo papa: «Sai sonare?» Disse lo eletto: «Saccio». Disse lo papa: «Io dico se tu sai toccare l’organi e·llo leguto». Respuse quello: «Troppo bene». Questo papa fu uomo santissimo e serbò questa condizione, che non volle mai celebrare i matrimoni che si fanno tra i parenti. Gli spiaceva molto a cotale parentela. Mai non li volle consentire. Fu anche un uomo molto moderato e parsimonioso del tesoro della chiesa; non solo del tesoro ma anche delle benedizioni. Voleva vedere molto bene di che vita fosse (la gente) e voleva ben esaminarli. Molti ne esaminò egli stesso. Non voleva ignoranti. Quando gli veniva davanti qualche membro del clero immeritevole oppure ignorante, si non buona fama, gli toglieva parte delle prebende/rendite e così glieli dava agli eccellenti e ai buoni. Andava a cercare i buoni sacerdoti eccellenti. Li onorava molto. E visto che ne trovava pochi, strinse le grazie ai quei pochi e non voleva provvedere. Davanti a questo papa Benedetto venne un monaco di San Paolo di Roma (S. Paolo fuori le mura/ Basilica Ostiense)- si chiamava frate Manusella (si identifica con questo frate il monaco Nicola de Porcariis, eletto a S. Paolo a succedere nel 1342 all’abata dello stesso nome creato nel 1328 da Giovanni 22°) il quale fu eletto abate per la morte del suo predecessore. Costui era un uomo che si dilettava di andare per Roma la notte facendo mattina, suonando il liuto, che era un bravo suonatore e cantante di ballate. E andava nei palazzi per le nozze e nelle vigne con danze campestri. Così narrano i romani. Quando ne poteva essere rattristato Benedetto, quando il suo monaco saltava e ballava! Quando questo eletto fu davanti alla santità di papa Benedetto disse: Santo padre, io sono l’eletto di S. Paolo di Roma. Ora il papa sa tutti gli attributi di chi si vede davanti. Disse: sai cantare? Rispose l’eletto: lo so. Il papa: io dico il canto religioso. Disse l’eletto: io so le canzoni. Disse il papa: sai suonare? Disse l’eletto: so. Disse il papa: io dico se tu sai tornare l’organo e il liuto. Rispose quello: troppo bene. Allora mutao favella lo papa e disse: «E conveose allo abbate dello venerabile monistero de Santo Pavolo essere buffone? Va’ per li fatti tuoi!» Così tornao collo capo lavato. Questo papa Benedetto reconfermao tutto lo prociesso lo quale avea fatto lo antecessore sio contra lo Bavaro. Puoi fece fornire tutto lo tetto de Santo Ianni de Laterani, lo quale fi’ alla mitate era descopierto. Puoi fece renovare tutto lo tetto de Santo Pietro Maiure de Roma de una bella opera nobile e pulita. Currevano anni Domini MCCC, dello mese , quanno quella opera fornita fu-. Gustao LXXX milia fiorini d’aoro-. Lo capomastro de tutta l’opera abbe nome mastro Ballo de Colonna, escellentissimo falename-, lo quale fu de tanta escellenzia, che sappe ’nanti dicere lo dìe, l’ora, lo ponto nello quale quello tetto fu in tutto fornito. E per sio sapere posava li travi viecchi e tirava li nuovi suso aito, più prestamente che se fussi uno ciello. Uno omo stava cavalcato nell’uno capo, uno aitro nello aitro. Io non vòizera essere stato uno de quelli. Quanno lo tetto viecchio se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo trave de mirabile grossezze. Io lo viddi. Dieci piedi era gruosso. Tutto era affasciato de funi per la moita antiquitate. Per la granne grossezza era tanto durato questo trave. Era de abeto como li aitri. E fonce trovato scritto de lettere cavate CON, quasi dica: «Questo ène de quelli travi li quali puse in questo tetto lo buono Constantino». Era antiquo quanto che l’aleluia. Questo trave ne fu posato e dentro de esso fuoro trovate caverne e cupaine, fatte sì per l’antiquitate sì per fere le quale avevano rosicato e fatta drento avitazione; ca ce fuoro trovati drento sorici esmesuratissimi a nidate e fuoronce trovate fi’ alle martore e, che più ène, golpi colli loro nidi. Chi lo vidde non lo poteva credere. Questo nobile trave fu spezzato e de esso fuoro fatte tavole necessarie per la opera novella. E moiti ientili uomini de Roma ne àbbero tavole da manicare. Una maraviglia voglio contare. È segnale di ciò che l’uomo sente quando gli formicola quella parte. E questo succede spesso a quelli che vanno nel mare. Ancora si domanda qualcuno perché costui diventò bianco più da un lato che dall’altro. Gli dirò che quel movimento fu subìto nell’immediatezza. Quella parte che fu messa in pericolo ricevette l’impressione; l’altra più esposta verso la salute e per questo non diventò bianca. CAPITOLO 8: Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione de missore Mastino tiranno per li Veneziani. Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io’, ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora-, ca questa non è verace stella; anche ène una fatta nella sovrana parte de l’airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti-. In bona fe’, ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. E sì·lla àbbero Veneziani e presero drento missore Alberto della Scala de Verona; e fu mannato in Venezia, in presone. Anco sequitao la destruzzione e·lla ruvina de missore Mastino della Scala-, lo quale fu tanto potente e tiranno che se voize fare rege de corona-. Della stella che apparse nei pressi della Lombardia e dell’abbassamento del messere Mastino, tiranno dei veneziani. Correva l’anno 1337, del mese di agosto, apparse nei pressi della Lombardia una cometa molto splendente e bella e durò tre giorni. Questa cometa sembrava che fosse la stella più lucente delle altre, e stendeva dietro di sé una coda distinta, appuntita come una spada, pendeva la punta sopra Verona. Questa coda stava ad uno dei lati. Non andava né su ne giù, ma si stendeva diritta come se fosse una fiamma di fuoco. Commosse molto la gente per l’ammirazione, che voleva dire questa novità. Dice Aristotele nei Metereologici (dottrina sulle origini delle comete) che questa non è una vera stella; anzi è una cosa fatta nella parte alta dell’aria, e fatta di materia umida e calda, che sale su e si accende e dura tanto quanto la materia di cui è fatta. Dice anche che questa non appare mai, se non quando significa una grande novità, soprattutto sopra i principi della terra, e l’agitazione dei reami e la morte e la caduta dei potenti. (secondo l’opinione del tempo l’apparizione delle comete si accompagnava a perturbazioni e disastri di ogni natura) In buona fede, che così fu; che, come questa si disparse, per la Lombardia si distese la novità che Padova fu perduta. E così successe ai veneziani e imprigionarono messere Alberto della Scala di Verona; e fu mandato a Venezia, in prigione. Seguitò anche la distruzione e la rovina del messere Mastino della Scala (il protagonista del capitolo 8 è Mastino II della Scala visto nelle sfortunate conseguenze della sua disordinata politica espansionistica, dopo la successione nel 1329 allo zio Cangrande, che gli alienò gli alleati fiorentini che si unirono ai Veneziani, che dopo la conquista delle saline di Bovolenta e quella di Padova gli imposero la pace del 24 gennaio 1339 che gli concedeva nel Veneto solo Verona e Vicenza). Che fu tanto potente e dominatore che si volle fare re della corona. (si fece fare una corona d’oro nella speranza di diventare re dei Lombardi) E puoi perdìo onne cosa e venne a convenevile stato. La quale novitate fu per questa via. Po’ la morte de missore Cane della Scala remase un sio nepote: missore Mastino abbe nome. Questo missore Mastino della Scala fu delli maiuri tiranni de Lommardia: quello che più citate abbe, più potenzia, più castella, più communanze, più grannia. Abbe Verona, Vicenza, Trevisi, Padova, Civitale, Crema--, Brescia, Reggio, Parma. In Toscana abbe Lucca, la Lunisciana. De XV grosse citate fu signore. Parma venze a forza de guerra. Mentre che soa oste se posava sopra alcuna citate, derizzavali sopre quaranta trabocchi. Mai non se partiva, finente che non era signore. Voleva essere signore sì per forza sì per amore. Puoi mise pede in Toscana. Abbe Lucca e ingannao Fiorentini, donne Fiorentini li ordinaro quella ruvina la quale li venne de sopra. Puoi menacciava de volere Ferrara e Bologna. Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate, che·lli teneva con seco e davali granne provisione. Moiti erano li baroni, moiti erano li sollati da pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti so’ li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra--. Granne era lo armiare. Vedesi levare cappucci de capo, vedesi Todeschi inchinare, conviti esmesurati; tromme e cerammelle, cornamuse e naccare sonare. Vedese tributi venire, muli con some scaricare, iostre e tornii e bello armiare, cantare, danzare, saitare, onne bello e doice deletto fare. Drappi franceschi, tartareschi velluti intagliare, panni lavorati, smaitati, ’naorati portare. Quanno questo signore cavalcava, tutta Verona crullava. Quanno menacciava, tutta Lommardia tremava. Infra le aitre magnificenzie soie se racconta che LXXX taglieri de credenza abbe una voita che voize pranzare in cammora. E onne tagliero abbe uno deschetto, onne deschetto abbe doi baroni. Iudici, miedici, letterati, virtuosi de onne connizione avea provisione in soa terra. La soa fama sonava in corte de Roma. Non hao simile in Italia. Ora se mannifica missore Mastino. E considerannose essere tanto potente, gloriavase, non conosce la frailitate umana. Quanno se vidde in tanta aitezza, fece fare palazza esmesurate in Verona. E per fare le fonnamenta guastao una chiesia: Santo Salvato’ abbe nome. Mai bene non li prese da puoi. E poi perse ogni cosa e venne a convenevole stato. Che la novità fu su questa via. Dopo la morte del messere Cane della Scala rimase un suo nipote: che si chiamava messere Mastino. Costui fu uno dei maggiori tiranni della Lombardia: quello che ebbe più città, più potenza, più castelli, più terre appartenenti al Comune, più grandezza. Ebbe Verona, Vicenza, Treviso, Padova, Civitale, Cremona (le ultime 2 non stettero mai nelle mani degli Scaglieri), Brescia, Reggio Emilia, Parma. In Toscana ebbe Lucca, la Lunigiana. Fu signore di 15 grosse città. Vinse Parma con la guerra. Mentre il suo esercito si metteva sopra qualche città, gli drizzava 40 ordigni bellici. Non si divideva mai, fin quando fu signore. Voleva essere signore per forza e per amore. Poi mise piede in Toscana. Ebbe Lucca e ingannò i fiorentini, per cui i fiorentini organizzarono quella rovina che gli venne da sopra. Dopo minacciava di volere Ferrara e BO. Ricambiava ai nobili che gli davano le città, quel che aveva con sé gli dava grande provvigione. Erano molti i baroni, i soldati a piedi e a cavallo, i buffoni, i falconieri, i cavalli nobili, sorta di cavalli, corsieri da giostra. Era grande l’armeggiare. Si vede levare il cappuccio dalla testa, si vede inchinare Todeschi, smisurati banchetti; (vede) suonare trombe e cennamelle, cornamuse e nacchere. Vede venire i tributi, (vede) scaricare gli asini con some, armeggiare giostre e tornei, cantare, saltare, e fare ogni bello e dolce piacere. Stoffe francesi, lavorare velluti tartareschi, portare panni lavorati, smaltati e indorati. Quando questo signore cavalcava, tutta Verona si scuoteva. Quando minacciava, tutta la Lombardia tremava. Tra le altre sue magnificenze si racconta che una volta che volle pranzare in camera ebbe 80 piatti di alta considerazione. E ogni piatto aveva una piccola mensa, ogni mesa aveva due baroni. Aveva della sua terra giudici, medici, letterati, virtuosi di ogni provenienza. La sua fama arrivava nella corte di Roma. Non ha persona simile l’Italia. Ora si magnifica il messere Mastino. E considerandosi tanto potente, gloriandosi, non conosce la fragilità umana. Quando si vide così potente, fece costruire un palazzo smisurato a Verona. E per fare le fondamenta ruppe una chiesa: che ebbe il nome di San Salvatore. Non gli andò più in seguito (?). Puoi comenzao a desprezzare li tiranni de Lommardia. Non curava de ire a parlamento con essi. Puoi fece fare una corona tutta adornata de perne, zaffini, balasci, robini e smaralli, valore de fiorini XX milia. Questa corona fece fare, perché abbe intenzione de farse incoronare re de Lommardia, e de fierro la fece de fatto, per industria e per sagacitate de sio pietto, a dare a intennere che per fierro de arme avea guadagnato sio reame. Quanno questo abbe fatto, l’animi delli tiranni de Lommardia furono forte turvati: bene penzano via de non essere subietti a loro paro. Questo missore Mastino fu cavaliero dello Bavaro, e fu omo assai savio de testa e iusto signore. Per tutto sio renno ivi securo con aoro in mano. Granne iustizia faceva. Fu un omo bruno, peloso, varvuto, con uno grannissimo ventre. Mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea da soa cossa. Onne dìe mutava robba. Doi milia cavalieri cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede armati, elietti, colle spade in mano ivano intorno a soa perzona. Mentre che sequitao la vertute, crebbe. Puoi che insuperbìo, comenzao a deluviare, anche comenzao a corromperese de lussuria. Forte deventao lussurioso. Che avesse detoperate cinquanta poizelle in una quaraiesima se avantao. Questi vizii lo fecero cadere de sio onorato stato. Puoi manicava la carne lo venerdìe e·llo sabato e·lla quaraiesima. Non curava de scommunicazione. Lo muodo che cadde de soa aitezza fu questo. Avea un sio frate, lo quale avea nome missore Alberto della Scala. Questo missore Alberto fu mannato a reiere Padova, ché·llo mannao a muodo reale. Conti, baroni, sollati e aitra moita iente abbe con seco. Bellissima fu soa compagnia. Questo missore Alberto teneva questa via. Entrava nelle monistera delle donne religiose. Demoravance tre o quattro dìe. Puoi visitava l’aitro. Donqua era alcuna bella monaca detuperava. Puoi usava paravole laide sempre e detoperose. Missore Marsilio da Carrara e missore Ubertiello da Carrara erano li maiuri de Padova, quelli li quali corta fi’ a mesa gamma corto fi’ allo inuocchio, le cappuccia con piccoli pizzi in capo, la capella della seta de sotto, appistigliati de pistiglioni de ariento ’naorati, correie smaitate in centa. Anzi in tua scusa manda lì un’ambasciata, dicendo che tutto ciò non abbiamo i veneziani per offesa: con ciò è il caso che voi usiate la vostra ragione in maniera netta, non volete perdere le ragioni del padovano. Non sforzate nessuno. Nel luogo impiegato vogliate fare il sale nel vostro terreno per avere la dogana e il molto denaro per le spese che occorrono per i soldati e per fare altre grandezze>. Questo osso mise in canna il messere Marsilio al messere Mastino. Il tiranno credette alle false dicerie, credendo si volare più in alto di quanto Dio consentisse. Allora non contento comandò che nella villa di Bovolenta, accanto alla marina, agli stagni fosse fatto un bel castello di legno che diligentemente fosse guardato per guardare i salinari. E fece fare gli stagni della salina e li mise ad operare. E liberamente fu cominciato a farsi il bel sale molto buono nel mondo. Deh, come veniva la preziosa opera! Gli operati andavano secondo regola. Intanto, come era stato ordinato, giunse a Venezia messere Marsilio, informato del fatto e giù come ambasciatore, come aveva domandato. Fu davanti al capo e ai maggiorenti, e disse quella ambasciata in quelle parole; ma gli mutò le punte perché li fece suonare di un altro suono e si un’altra sentenza e disse: <Signori veneziani, messere Mastino intende fare il sale nel suo terreno per avere quei soldi che voi avete e togliervi di mano per rendervi signori e per abbassare le vostre saline. Se perdete queste, non siete alcunché. Il frutto della Camera di Venezia è il sale. Aprite molto bene i vostri occhi nei vostri interessi>. Non disse più nulla. Disse e fece molto, che accese il fuoco tra veneziani e M. allora i veneziani fecero una legazione preziosa, molto adorna. Furono 12 maggiorenti di Venezia, grandissimi mercanti e ricche persone, sagge e discrete, tutte vestite di una roba, di panni distinti di rosso e di velluti verdi, e altri lavoratori foderati di vari (colori), molto disposti convenientemente. La gonna era lunga fino ai piedi, la sopravveste corta fino a metà gamba corta fino al ginocchio, il cappuccio con piccoli estremità in testa, il capello di seta di sotto, allacciati con orlature d’argento indorati, corregge smaltate in cintola. Ben pargo adornati de straniera devisanza. Con donzielli assai e aitra famiglia passano lo mare, e in terra ferma montano in loro piccoli palafrenotti e vengone a Verona. Venivano trottanno l’uno dereto a l’aitro como fussino miedici. Moita iente loro trasse a vedere. Granne maraviglia se fao omo de così nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma. Quanno li ambasciatori fuoro entrati in Verona, tutta Verona curre a vederli. Così li guardava omo fitto como fussino lopi. E questo perché l’abito loro era moito devisato dallo abito delli cortisciani; imperciò che portavano cotte de nuobili panni, strette alla catalana, forrate de frigolane endisine de sopra, cappe alamanne forrate de vari, cappucci alle gote con fresi de aoro intorno alle spalle, correie in centa con spranche d’ariento ’naorato, in piedi de caize. Moito vaco destri per la sala. Moito cavalcano adatti per la citate. Puoi se ne iro li dodici ambasciatori denanti a missore Mastino. Naturalemente la favella de Veneziani è regogliosa, e così regoglioso, senza umanitate, parlaro a missore Mastino e dissero: «Missore Mastino, lo Communo de Venezia te prega che non te vogli perdere Venezia per lo sale e non vogli fare quello che tuoi antecessori non fecero e quello che non è stato fatto in nostri dìe. Lo sale ène de Veneziani, non ène de Padovani. De fare cutale sale te conveo remanere, se non vòi turbare li uomini de Venezia e se vòi remanere nuostro amico». A questa ammasciata respuse lo Mastino e disse: «Verrete crai a pranzare in mea corte con meco e là averete la resposta». Lo sequente dìe lo convito fu apparecchiato grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de ottociento perzone. Alla prima tavola aitre scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre vascella. A questo convito Veneziani vennero, li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della sala, in veduta de tutta la corte per là venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. Così stavano assemmoti como fussino Patarini overo scommunicati--. Tutta la iente li resguardava como alocchi. Appaiono adornati con abbigliamento straniero. Con molti famigliari nobili e un’altra famiglia passando per il mare, e nella terra fermano montano sui loro piccoli palafreni e vengono a Verona. Venivano trottando l’uno dietro all’altro come se fossero medici. Molta gente arrivò per vederli. Grande meraviglia per un uomo di così nuovo abbigliamento. Pareva di vedere il gioco di Testaccio a Roma. Quando gli ambasciatori entrarono a Verona, tutti accorrono a vederli. Così li guardava l’uomo insistentemente come fossero lupi. E questo perché i loro abiti erano molto stranieri dall’abito dei cortigiani; perciò portavano tuniche di panni nobili, strette alla catalana, foderate di vari (colori), cappucci alle gote con fregi d’oro intorno alle spalle, corregge in cintola con spranghe d’argento indorato, ai piedi le calze. Vanno molto disinvolti per la stanza. Cavalcano molto per la città. Poi de ne andarono i 12 ambasciatori davanti al messere M. Naturalmente la parlata dei veneziani è rigoglioso, e così rigoglioso, senza umanità, parlarono al messere Mastino e dissero: < Messere M, il comune di Venezia ti prega che non ti perda Venezia per il sale e che non voglia fare quello che i tuoi predecessori non fecero e quello che non è stato fatto nei giorni passati. Il sale è dei veneziani, non è dei padovani. Per fare questo sale ti conviene rimanere, se non vuoi turbare gli uomini di Venezia e se vuoi rimanere nostro amico>. A questa ambasciata rispose Mastino e disse: < verrete domai a pranzare nella mia corte con me e là avrete la risposta>. Il seguente giorno il convito fu apparecchiato molto grande. In quella sala fu apparecchiato per più di 800 persone. Alla prima tavola non ci furono altre scodelle, se non di buon argento, né altre mezzine. Vennero i veneziani a questo convito, che tutti e 12 furono posti ad una tavola in piedi alla sala, con la vista di tutta la corte venuta lì. Lavarono le mani, non si levarono i loro larghi cappotti, anzi con essi si misero a tavola. L’uomo faceva molto ridere loro. Così stavano ammutiti come se fossero Patarini oppure scomunicati (appare evidente l’equivalenza, tipica nel 300’, tra i Patarini, appartenenti alla Pataria ossia un gruppo riformatore nella chiesa Ambrosiana nel 11° secolo, e gli eretici). Tutta la gente li contemplava come uccelli notturni. Stava missore Mastino in capo della sala, più aito che tutta l’aitra baronia, servuto a tavola como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire. Cavalieri a speroni de aoro servivano denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito facevano doice sonare. Bene pareva in paradiso demorare. Po’ le vivanne viengo buffoni riccamente vestuti. Tal cantava, tal ballava, tal mottiava. Onneuno se sforza Non se lassano dallo muro cacciare. Mustrano de avere core. Non curano de valestra né de menacce. Lo romore era granne. Lance e saiette volavano. Deh, quanto ène cosa orribile! Allora missore Pietro Roscio con soie belle masnate se tenne secreto e queto de fòra ad una porta la quale se dice porta de ponte Cuorvo. E là stette, mentre che la vattaglia era alla porta de Santa Croce. Questa porta de ponte Cuorvo avea in guardia missore Marsilio da Carrara. Su nella mesa terza-- lo fattore de missore Marsilio operze la porta e abassao li ponti, e mise drento missore Pietro Roscio senza colpo de spada. Ora ne veo per la strada alla piazza lo capitanio de Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria. Ià l’ora de terza era. In esso ponto missore Alberto se era levato da dormire. Cavalcava uno bello palafreno, vestuto con solo un guarnello, accompagnato con solo missore Marsilio. Una vastoncella in mano teneva. Per la terra iva trastullanno. Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad portam. Como missore Alberto accapitao in capo della strada, vidde che nella piazza iogneva granne stuolo, granne masnate de iente. Odìo tromme e ceramelle. Vidde lo grannissimo confallone de Santo Marco de Venezia. Maravigliaose forte e disse a missore Marsilio: «Que iente ène questa?» A ciò respuse missore Marsilio e disse: «Questo ène missore Pietro Roscio, lo quale hao auta gola de vederte». Disse missore Alberto: «Moreraio io?» Disse missore Marsilio: «No. Torna in reto. Va’ in la mea cammora». Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de missore Marsilio, e là fu enzerrato con una chiave. Veneziani la piazza presero e toizero l’arme e·lli cavalli a tutta la forestaria de missore Alberto. E presero esso con soa baronia e sì·llo mannaro in presone a Venezia. Il messere Mastino stava in capo alla sala, più alto di tutta l’altra baronia, servito a tavola come un re. Tutta la sua nobiltà vedeva la corte. Alla sua vista niente era nascosto. Ora di vedono venire vivande. I cavalieri con gli speroni d’oro servivano davanti. Facevano suonare liuti, viole, cornamuse e altri strumenti. Sembrava di stare in paradiso. Dopo le vivande vengono i buffoni vestiti riccamente. Costei cantavano, ballavano, celiavano. Ognuno si sforza… non si lasciano cacciare dal muro. Mostrano di avere un cuore. Non si curano di balestre ne di minacce. Il rumore era grande. Volavano lance e saette. Deh, quante cose orribili! Allora messere Pietro Roscio con le sue belle masnade si rifugiò e silenziosamente se ne andò fuori da una porta che si dice la porta di ponte Corvo. E là stette, mentre la battaglia era alle porte di S. Croce. Questa porta di ponte Corvo aveva come guardia messere M. da Carrara. Su nella metà terza (tra le 6 e le 9 dell’ora canonica: alle 7 e ½ del mattino) il sovrintendente del messere M aprì la porta e abbassò i ponti, e ci mise dentro P. R. senza colpirlo con la spada. Adesso si vede dalla strada alla piazza il capitano dei veneziani con una grossa cavalleria e soldati a piedi. Là era la 3° ora. In quel ponte A si era alzato dal dormire. Cavalcava un bel palafreno, vestito solo con una veste, accompagnato solo dal messere M. Aveva in mano un bastoncino. Andava trastullandolo per terra. ------------------------------------------------------------------ ------------------------------ Come messere A capitò in capo alla strada, vide che nella piazza giungeva un grande schiera, una grande moltitudine di gente. Senti le trombe e le cennamelle. Vide il grande gonfalone di S Marco di Venezia. Meravigliandosi fortemente disse a messere M: < che gente è questa?> a ciò rispose M e disse: < questo è messere Pietro Roscio, che ha avuto voglia di vederti>. Disse messere A: <morirò io?> disse messere M : <No. Torna indietro. Va nella mia camera>. Così fu fatto. Tornò messere A e si mise in camera di messere M e là fu serrato con una chiave. I veneziani presero la piazza e tolsero le armi e i cavalli a tutta la milizia di messere A. E presero lui con la sua baronia e così lo mandarono in prigione a Venezia. E là stette fi’ che la guerra fu finita. Allora apparze quella cometa della quale de sopra ditto ène. E presero Veneziani guardia delle porte de Padova. Sine mora iescono fòra e faco terribile guerra a quello della Scala. Vao missore Pietro Roscio ardenno e consumanno le terre. Prese per forza Monsilice, e là fu occiso--. Non per tanto lassano Veneziani de fare la dura guerra. Allora perdìo la citate de Brescia--. Onne perzona se·lli rebella. Nulla resistenzia fao. Missore Mastino consideranno la soa desaventura, desperato, con soie mano occise lo vescovo de Verona--, lo quale era de soa iente, e occiselo su sopra le scale dello vescovato. Albuino, vastardo de missore Cane, lo scannao--. Sotto lo capitale dello lietto de questo vescovo fu trovato uno spiecchio de acciaro con moite divise carattere. Nello manico era una figura. La lettera diceva: «Questo ène Fiorone--». Puoi li fu trovato un livricciuolo, nello quale stava pento un nimico de Dio, lo quale abracciava uno omo, e un aitro demonio li dava una cortellata in pietto, in quello luoco nello quale esso relevata avea la feruta. Questo fece missore Mastino senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l’erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva. Anche manicavano la carne, chi ne aveva, senza pane. De vino fu bona derrata Dell’aspra e crudele fame e della battaglia di Parabianco in Lombardia e dei novelli del modo di vestirsi. Dopo questa cometa, di cui è stato detto sopra, fu un anno molto umido, molto piovoso. Abbondarono molti regni, molti catarri nella gente. E per tre inverni ci fu molta neve, che copriva smisuratamente le città. Molte case, molti tetti a Bologna caddero per il grande peso che la neve provocava. Anche le estati erano umide, tanto che gli uomini non potevano uscire fuori di casa e di fare i propri mestieri e affari. I campi non furono lavorati. I grani e ogni legume che fu seminato fu perduto, perché affogavano per la superficie umida, non potevano curarli. Per cui seguitò sterilità e mal raccolta. E per quella mal raccolta seguitò la fame così orribile che è difficile da raccontare, da credere. (1338 carestia) questa fame avvenne per tutto il mondo. Il grano fu venduto a Roma per 21 libbre di monete di rubbio. Correva l’anno 1338. Scrive T L che in quel periodo ci fu una fame nella contrada di Roma così terribile che tanta gente, numerose persone, preferivano perdere la vita che vivere con la fame. Per cui avvolgevano il cappuccio davanti agli occhi per non vedere la loro morte e cosi si gettavano nel fiume Tevere e là morivano affogati, e con il morire rimediavano alla fame. In buona fede, questo non lo vidi avvenire in quel periodo. Ma molte donne gettarono il loro onore per avere del pane. Molta gente vendette la propria indipendenza per il pane. Furono venduti palazzi, possedimenti di campi e vigne, e venduti a poco prezzo, per avere il pane. Era grande il denaro che si contava per avere poco cibo. Molta gente mangiava i cavoli cotti senza pane. La povera gente mangiava i cardi (pianta erbacea) cotti con sale e l’erba porcina. Tagliavano la gramigna e le radici dei cardi marini e le cuocevano con la menta e le mangiavano. Andavano anche per i campi mangiando le rape. Un tale padre ogni mattina a ogni figlio dava una rapa per mangiare in sembiante al pane. Mangiavano anche la carne, chi ne aveva, senza pane. Di vino vi fu una buona quantità. Incresceme de contare tante tristezze. Le donne pusero ioso delle alegrezze e·lle cegnimenta e·lle adornamenta, vedenno la fame la quale sì terribilmente bussava. Chi abbe grano abbe tutte le adornamenta delle donne. In quello tiempo io me retrovai in Bologna e vedeva che quelli delle ville venivano in citate a comparare dello pane della gabella. Deh, como tornavano tristi, quanno non ne portavano! Manicava la iente pera secche e tritate, misticate colla farina, capora e vientri, anche lo sangue delli animali. E moite perzone fuoro trovate morte de fame. Moite perzone ivano gridanno de notte: «Pane, pane». De notte ivano, consideranno che erano perzone de alcuno lenaio; per la vergogna non volevano apparere; de dìe non volevano essere conosciute. Nella citate de Roma, se non fusse stata una nave de grano la quale succurze — per mare da Pisa venne —, tutta Roma periva. Doi miracoli granni incontraro in tiempo de così fatta carestia. Innella citate de Piacenza, in Lommardia, fu uno nobile omo de casa delli Visconti de Castiello Nuovo-- lo quale se trovava da vinti milia corve de grano. Era lo tiempo de maio, che la fava dao suso. Lo lunedìe fue che tutta Piacenza curze a soa casa, domannanno dello grano. Respuse lo nobile: «Sei livre voglio della corva». Lo martedìe venne la iente con sei livre. Quello li remannao senza grano e disse: «Sette livre ne voglio». Lo mercordìe tornao la iente per grano con sette livre. Quello disse: «Otto livre ne voglio». Lo iovedìe la iente veniva con otto livre. Quello ne domannava nove. Lo venardìe quelli ne vennero con nove livre de bolognini. Lo iniquo omo favellao e disse così: «Tornete a casa, iente molestiosa. Questo mio grano mai non venno, se de esso non aio dieci livre». Con granne tristezze fé tornare lo puopolo e·lla carovana a casa a sostenere fame. Ma lo buono e cortese Dio non voize così, ché·llo sabato ionze uno cavalieri, citatino de Piacenza — missore Manfredo de Lando avea nome —, con una nave de grano. Lo grano valeva livre cinque. La fava comenzava ad ingranare. L’aitro dìe lo grano fu a livre quattro. Lo terzo dìe fu a livre tre. Quanno lo nobile delli Visconti vidde questo, forte fu turvato. E incontinente tornao a casa e entrao in quello luoco dove sio grano era. Mi rincresce di contare le tante tristezze. Le donne posero giù le allegrie, le cinture e gli ornamenti, vedendo la fame che bussava in modo terribile. Chi ebbe il grano ebbe tutti gli ornamenti delle donne. In quel periodo mi ritrovai in Bologna e vedeva che quelli delle campagne venivano in città a comprare il pane con l’imposta. Deh, come tornavano tristi, quando non ne portavano! La gente mangiava pere secche e tritate, masticate con la farina, corpi e ventri, anche il sangue degli animali. E molte persone furono trovate morte di fame. Molte persone andavano gridando di notte: <pane, pane>. Di notte andavano, considerando che erano persone di qualche lignaggio; per la vergogna non volevano apparire; di giorno non volevano essere riconosciute. Nella città di RM, se non ci fosse stata una nave di grano che soccorse- venne per il mare di Pisa-, tutta Roma moriva. Due grandi miracoli si incontrarono nel periodo di carestia. Nella città di Piacenza, in Lombardia, ci fu un nobile uomo della casa dei Visconti di Castel Nuovo che aveva 20.000 corbe di grano. Era il periodo di maggio, che da la fava. Il lunedì successe che tutta Piacenza corse a casa sua, domandando del grano. Rispose il nobile: <voglio sei libre della corba>. Il martedì venne la gente con 6 libre. Quello rimasto senza grano disse: <ne voglio 7>. Il mercoledì tornò la gente per il grano con 7 libre. Quello disse: < ne voglio 8>. Il giovedì la gente veniva con 8 libre. Quello ne domandava 9. Il venerdì la gente venne con 9 libre di monete. Il disonesto uomo parlò e disse cosi: <tornatevene a casa, gente molesta>. Il mio grano non venderò mai, se di esso non ho 10 libre.> con grande tristezza fece tornare a casa a sostenere la fame il popolo e la moltitudine di gente. Ma il buon e cortese Dio non volle così, perché il sabato giunse un cavaliere, cittadino di Piacenza- messere Manfredo si Landa- con una nave di grano. Il grano valeva 5 libre. La persona cominciava ad ingranare. L’altro giorno il grano era a 4 libre. Il terzo giorno fu a tre libbre. Quando il nobile dei Visconti vide questo, ne fu fortemente turbato. E non contento tornò a casa e entrò in quel luogo dove c’era il suo grano. E considerao la moita moneta la quale de quello grano àbbera auta, se avessi allargata la mano alli necessitosi. Puro favellao e disse: «Ahi grano mio, io so’ destrutto». E avenno la mente più a l’avarizia che alla pietate, iettao nello trave de mieso dello tetto, sopra lo sio grano, uno capestro e là, in mieso dello sio grano, se appese per la canna. Nella contrada de Roma, in uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi--, incontrao un aitro miracolo, como io intesi da perzone fidedegne. Essenno questa terribile carestia, tutta la poveraglia de Roma, femine e uomini e zitielli, ne fuiro per le castella. Là se ne sparzero. In questo Castiglione fu uno che abbe nome Ianni Macellaro. E fu lo primo che a Santo Spirito de Roma donasse massaria de vestiame. Questo fu ricco massaro. Figlioli non avea, ricchezze moita: fanti, fantesche assai, pecora, vuovi, iumente, campi seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentìo. Quanno venne lo tiempo che la fava era verde in erva, onne massaro mannava uno vanno, che nulla perzona montassi in soa fava. Questo Ianni per contrario mannao lo vanno, che onne chivielli isse a sio campo de fava, aitro non sparagnassi che li fusti delle fave, manicassino allo piacere. Ora vedesi traiere de iente affamata. Corvinam servant pauperes famelici--. L’oste pusero in quello campitiello. Per tutto dìe là demoravano a manicare. Lo patrone a cavallo in soa iumenta bene li visitava onne dìe e sì·lli salutava. Puoi li diceva che manicassino bene e portassino della fava a casa a loro piacere. Puoi dava uno panetto per omo. Allora tornava. In quello muodo consolava li bisognosi. Ora passao la carestia e venne lo tiempo della leta fertilitate. Li poveri a Roma tornaro. La fava de questo castiello fu carpita. Puoi fu vattuta. Li fusti della fava de questo buono omo fuoro puosti nella ara, nelli quali cosa nulla de frutto era. Mentre che li fusti se battevano, Dio immise la soa granne abunnanzia e frutto in quelli fusti. Ora vedesi fava abunnare. Tanta fu la fava, la quale da quelle gamme fu coita, che parze veracemente che la fava delli aitri castellani se partisse delle proprie are e venisse nella ara dove li fusti se vattevano. E considerò i molti soldi che avrebbe avuto quel grano, se avesse dato una mano ai bisognosi. Parlò e disse: < ahi il grano mio, io sono distrutto.> e avendo la mente piena maggiormente di avarizia che di pietà, lo gettò nella trave nel mezzo del tetto, sopra il suo grano, una fune e là, in mezzo al suo grano, si appese per la gola. Nella contrada di Roma, in un castello che si dice Castiglione degli Alberteschi, si incontrò un altro miracolo, come io appresi da persone fededegne. Essendoci questa terribile carestia, tutta la povertà di Roma, femmine e uomini e zitelli, se ne fuggirono per il castello. Là se ne sparsero. A Castiglione ci fu un uomo che si chiamava Giovanni Macellaro. E fu il primo che a S. Spirito di Roma donò tributo di bestiame. Questo era un ricco massaro. Non aveva figli, ma molta ricchezza, fanti, molte domestiche, pecore, buoi, giumenta, campi seminati, pozzi pieni di grano. Tutte queste cose gli consentì Dio. Quando venne il tempo che la fava era verde nell’erba, ogni massaro mandava un bando, che nessuna persona potesse montare nella sua fava. Questo Gianni al contrario mandò un bando, che ciascuno che venisse al suo campo di fava, altro non risparmiasse che i fusti di fave, mangiassero a loro piacimento. Ora si vede accorrere la gente affamata. ------------------------------------------------------ gli eserciti si misero in quel campo. Per tutto il giorno stettero là a mangiare. Il padrone a cavallo nella sua giumenta li guardava ogni giorno e li salutava. Poi gli diceva che mangiassero bene e che si portassero fava a casa a loro piacimento. Poi dava un panetto ad ogni uomo. Allora tornava. In quel modo consolava i bisognosi. Ora passò la carestia e venne il periodo della lieta fertilità. I poveri tornarono a Roma. La fava di questo castello fu strappato. Poi fu abbattuta. I fusti della fava di questo buon uomo furono posti nell’ara, nella quale non c’era nulla di frutto. Nel frattempo che i fusti si battevano, Dio immise la sua grande abbondanza e i frutti in quei fusti. Ora si vedono abbondare le fave. Fu talmente tanta la fava che da quella gamba fu colta, che parse veracemente e la fava degli altri castellani si allontanò dalle proprie are e venne nell’ara dove i fusti si abbattevano. Così Dio liberamente mustrao che bene li piace la elemosina de buono core nello bisuogno e che esso cortesia fao a chi soveo alle necessitati aitrui e che per uno ne renne ciento, como nello Vagnelio dice-. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro, la prima domenica de quaraiesima, quanno fu la orribile sconfitta in Lommardia, fra Como e Milano, nelli campi de Parabianco--. La quale novitate fu per questa via. Puoi che Veneziani àbbero ottenuta la vittoria sopra missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì cassaro tutti li sollati da pede e da cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo, fecero la granne compagnia. Loro capo e connuttore era uno famoso Todesco — Malerva avea nome ?—, prode de perzona, saputo de guerra. Cavalieri a speroni de aoro ce erano assai. Erance lo conte Orlando-- e lo conte Guarnieri--, li quali da puoi fuoro capora de compagnia. Erano da tre milia cavalieri e da quattro milia pedoni, fanti, masnadieri, senza aitra innumerabile iente la quale sequitava. Uno Granne capestro ène la moneta. Allora prestamente sonao soie tromme e deose sopra ad essi. Poca resistenzia abbe. E deo per terra lo confallone de missore Lodrisi e de Malerva e prese missore Lodrisi per la perzona. In quella resistenzia fu occiso missore Ianni dello Fiesco de Genova. Puoi che fu fatto presone missore Lodrisi e fu rotta soa schiera, tutto lo campo fu vento senza aitra contradizzione. Tornao in Milano con triomfo e granne danno; In quella battaglia fu sconfitto messere Lucchino, zio del messere Azzone, capo della gente, e preso dalla persona fu vincitore messere Lodrisi con il suo capitano, il Malerba. 44 centinaia di uomini furono uccisi, senza gli affogati nel fiume e nei gorghi della neve: Comaschi, trentini, bergamaschi, gente della città, a piedi per la maggior parte, che per l’impedimento dato dalla neve non potevano fuggire. 36 centinaia di cavalli furono massacrati, senza i molti feriti. Ora vedi come soccorse la sorte al messere Lucchino! Stava dentro Milano messere A armato con tutto il popolo. Per questo non voleva uscire. Stava riservato ai bisogni dietro un suo parente, messere Gianni Fieschi di Genova (conte di Lavagna), suo cognato (di Luchino Visconti), con 500 borgognoni di buona taglia in sua compagnia. Come la novità della sconfitta giunse, uscì fuori da Milano con 500 borgognoni e con 400 tedeschi e giunse ai campi di Parabiago. Per prima cosa, raccolse tutti quelli che erano fuggiti dalla schiera. Così li aggiunse ad uno, quelli che poté. Per seconda cosa, provedette a come stava l’esercito e vedette che la gente della compagnia non era ordinata, anzi stava sparsa nel campo, chi di qua, chi di là, sopra il guadagno dello spogliare. Per terza cosa, si accordò con Malerba e ordinò che non combattesse, e in cambio gli donò dieci fiaschi pieni di monete, in sembiante di presentargli un buon vino di Malvascia (del tradimento di Mlaerba nessuna mansione nelle altre fonti, secondo le uali dopo l’attacco del 21 febbraio che sorprese Luchino e dopo la cattura di questi le sorti dello scontro si capovolsero per il sopraggiungere da Milano di 300 cavalieri sabaudi che venivano da Torino e per la resistenza opposto dal bolognese Ettore da Panico che raccolse i dispersi) Un grande patibolo è la moneta. Allora presto suonò le sue trombe e si mise sopra di essi. Ebbe poca resistenza. E mise a terra il gonfalone del messere L e di M e prese messere L per la persona. In quella resistenza fu ucciso messere G. dopo che fu imprigionato messere L e fu rotta la schiera, tutto il campo fu vinto senza altra contraddizione. Tornò a Milano con trionfo e con grande danno. ca, como ditto de sopra ène, quarantaquattro centinara de perzone moriero, senza li aitri pericolati delle ferute. Vedesi caricare che·sse faceva. Avevano le carra piene de queste corpora morte e sì·lle traievano dello campo e sì·lle portavano a loro sepoiture. Missore Lodrisi la vita non perdìo, ma fu renchiuso in perpetuo carcere in un castiello lo quale se dice Santo Columbano--. Là dato li fu onne diletto lo quale demannava: de sonare, cantare, magnare, de femine; salvo che essire non poteva de presone. Quelli sollati della compagnia fuoro tutti derobati. Perdiero arme e cavalli. Io ne viddi venire de questi bene da doiciento cinquanta a pede. Tale avea speroni alla correia, tale una targetta, tale uno cimiero e alcuno menava ronzino, secunno le connizione. Alli Borgognoni fu data paca doppia e granni doni. Malerva fu lassato. Pochi dìe stette che missore Azo Visconte, signore de Milano, morìo e succedéo innella signoria missore Lucchino, sio zio--. Ora comenza a signoriare missore Lucchino Visconte, lo quale abbe la maiure parte de Lommardia: Parma, Piacenza, Lode, Bergamo, Brescia, Milano, Crema e Civitale. E visse in signoria anni--in tanta pace e iustizia, che non se trovava in terreno chi se crullasse. Coll’aoro in mano iva l’omo franco. Fu omo severo senza alcuna pietate. Mai non perdonava. Secunno lo peccato, secunno la fallenza puniva--. Questo fu de tanta crudelitate che fece manicare alli suoi cani uno guarzone todesco lo quale li aveva presentate cerase, perché aveva feruto un sio cane lo quale li aveva abaiato. E non abbe remissione né per puerizia né per caritate dello patre, lo quale era conestavile, sio amico, né per moneta. Questo missore Lucchino, benché guardie avessi de uomini da pede e da cavallo a muodo regale, nientedemeno abbe una speziale e nova guardia con seco. che, come è stato detto sopra, 44 centinaia di persone morirono, senza gli altri a rischio con ferite. Si vede il caricare che si faceva. Avevano i carri pieni di questi corpi morti e così li toglievano dal campo e li portavano alla loro sepoltura. Messere L non perse la vita, ma fu rinchiuso eternamente in un carcere in un castello che si chiama san Colombano (Lodrisio, catturato con i due figli e con Malerba fu rinchiuso prima in un carcere nel castello di Milano e poi in quello di S. Colombano dove lo fece uscire nel 1351 l’arcivescovo Giovanni) Là gli fu dato ogni piacere che domandava: di suonare, cantare, mangiare, femmine; tranne che uscire dalla prigione. Quei soldati della compagnia furono tutti derubati. Persero le armi e i cavalli. Io ne vidi venire di questi 250 a piedi. Qualcuno aveva gli speroni a correggia, uno una targhetta, uno un elmo ornato e qualcuno dare cavalli, secondo la condizione. Ai borgognoni fu data paga doppia e grandi doni. Malerba fu rilasciato. Pochi giorni stesse (in prigione) che messere Azzone V, signore di milano, morì e succedette alla signoria messere L, suo zio (la morte di Azzone V e a successione dello zio Luchino avvenne il 16 agosto 1339 a 37 anni) Ora comincia a regnare messere L V che ebbe la maggior pare della Lombardia: Parma, Piacenza, Lodi, Bergamo, Brescia, Milano, Cremona e Civitale. E visse anni di signoria in tanta pace e giustizia che non si trovava in chi si scuoteva. Con l’oro in mano andava l’uomo fiero. Fu un uomo severo senza alcuna pietà. Non perdonava mai. Secondo il peccato, secondo la mancanza. Questo fu di così tanta crudeltà che fece mangiare ai suoi cani un fanciullo tedesco che gli aveva presentato delle ciliegie, perché aveva ferito un suo cane che gli aveva abbaiato. E non ebbe remissione né per la fanciullezza né per carità del padre, che era conestabile, suo amico, né per soldi. Questo messere L, benché avesse guardie di uomini a piedi e a cavallo secondo il modo regale, ebbe una niente di meno una speciale nuova guardia con sé. La guardia soa erano doi cani alani granni e terribili, gruossi como lioni, lanuti como pecora. L’uocchi avevano rosci e terribili. Questi doi cani alani sempre lo sequitavano per la corte, l’uno dalla parte ritta, l’aitro dalla parte manca. In mieso dello palazzo avea una forte torre. dentro dalla torre era una spaziosa cammora. Quanno missore Lucchino se posava in quella cammora, li cani staievano descioiti. Sempre circondavano la torre. Nulla perzona a l’uscio se poteva accostare. Denanti alla torre stava la granne sala. Alla porta stava la guardia. L’aitra guardia stava alla porta generale della corte nello terrio. L’aitra guardia staieva nella piazza. Quanno missore Lucchino manicava solo, staieva a tavola, li cani tuttavia con esso, granni quarti de carne dao ora a l’uno, ora a l’aitro. Quanno missore Lucchino staieva in pede, la moita baronia li faceva intorno piazza con silenzio per temenza delli cani. Nullo se crulla, nullo parla; ca se per ventura lo signore un poco guardasse alcuno con malo esguardo, sùbito li cani li forano sopra in canna, derannolo per terra. De tale guardia canina nullo se maravigli, ca questa cosa nova non ène. Scrive Valerio Massimo che Massinissa fu rege de Numidia e fu moito amico e fidele serviziale dello puopolo de Roma. Questo re Massinissa sempre avea in guardia de soa perzona doi granni cani, granni mastini, e non se renneva securo senza essi, benché avessi guardie de pedoni e de cavalieri, avesse lo potente e ricco reame de Numidia, sopra tutto questo avesse la bona amicizia de Romani, per li quali era signore, era salvo, securo e temuto. Alcuna voita fu demannato questo perché faceva. Respuse e disse: «L’omo, che vole essere libero naturalmente, non sao mantenere fidelitate. Lo cane, lo quale non conosce libertate, è fidele a sio patrone». Anche questo missore Lucchino fu omo moito iusto. Né per aoro né per ariento lassava de fare iustizia, sì che soa terra era franca. Abbe uno sio figlio vastardo: missore Bruzo avea nome. La sua guardia erano due cani alani grandi e terribili, grossi come leoni, folti come pecore. Avevano gli occhi rossi e terribili. Questi due cani alani lo seguivano sempre in corte, uno dalla parte destra, l’altro dalla parte sinistra. In mezzo al palazzo aveva una grande torre. Dentro alla torre vi era una spaziosa camera. Quando messere L si metteva in quella camera, i cani gli stavano sciolti. Circondavano sempre la torre. Nessuna persona si poteva accostare all’uscio. Davanti alla torre vi era la grande sala. Alla porta stava una guardia. L’altra guardia stava alla porta generale della corte nel terrapieno. L’altra guarda stava in piazza. Quando messere L mangiava solo, stava a tavola, i cani con esso, grandi quarti di carene dà ad uno ora all’altro. Quando messere L stava in piedi, la grande baronia stava intorno alla piazza in silenzio per il timore dei cani. Nessuno si scuote, nessuno parla; che se per sbaglio il signore guardasse qualcuno con un brutto sguardo, subito i cani gli saltano sopra, sbattendolo per terra. Di questa guardia canina nessuno si meraviglia, che questa cosa non è cosa nuova. Scrive V M che Massinissa fu re di Numidia e fu molto amico e fedele serviziale del popolo romano. Questo re M aveva sempre alla guardia della sua persona due grandi cani, grandi mastini e non si sentiva sicuro senza questi, benché avesse guardie a piedi e a cavallo, e avesse il potente e ricco reame di Numidia, soprattutto che avesse una buona amicizia con i romani, per i quali era re, salvo, sicuro e temuto. Qualche volta gli fu domandato perché facesse questo. Rispose e disse: “L’uomo, che vuole essere libero per natura, non sa mantenere la fedeltà. Il cane che non conosce la libertà, è fedele al suo padrone”. Questo messere L fu un uomo anche molto giusto. Non lasciava né per oro né per argento fare giustizia, così che la sua terra era onesta. Ebbe un figlio bastardo: messere Bruzio si chiamava (o Brizio figlio naturale di Luchino e conoscente del Petrarca, podestà di Lodi nel 1336, fu vittima dell’improvviso mutamento di fortuna causato dall’assassinio del padre il 24 gennaio 1349, finendo in esilio in Veneto dove morì nel 1356) A questo missore Bruzo donao la signoria de Lodi. A quella citatella lo mannao a regnare. Accadde che uno ientile omo occise un aitro. Fu preso e devease decollare. Li parienti de questo malefattore parlaro con missore Bruzo e dissero così: «Missore Bruzo, a ti bisognano denari. Non perda la perzona lo presonieri vuostro. Ecco quinnici milia fiorini apparecchiati». Questo odenno missore Bruzo de colpo fu mollato. Cavalcao da Lode a Milano. Fu denanti allo patre, sì se inninocchiao e domannao grazia, perché esso era povero cavalieri. Poteva guadagnare quinnici milia fiorini, se allo malefattore salvava la vita. Questo odenno lo patre, missore Lucchino, deo de cenno a un sio donziello, che li portassi dalla cammora un sio elmo. L’elmo era moito forbito e relucente. De sopre era uno bello cimiero, de velluto vermiglio copierto. Eranonce scritte lettere de aoro. Quanno l’elmo fu venuto, disse: «Bruzo, lieii queste lettere». Le lettere fuoro lesse. Dicevano: «Iustizia». Disse: «Dunqua noi in apparenzia la iustizia portemo, in effetto no? Che vòi che quinnici milia fiorini pesino più che·llo elmo mio, lo quale pesa più che·lla mea signoria? Va’ e torna a Lode e fa’ la iustizia. E se questa non fai, io la farraio de ti». Moito voleva che issi omo netto in sio terreno. Moito amao lo puopolo menuto. Resse anni e in soa signoria morìo e rassenao la bacchetta megliore e maiure che non la prese. In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, sì de alla iustizia contra soa voluntate. L’omicidiario la testa perdìo. Da puoi se fece venire denanti lo duca sio figlio, allo quale disse queste paravole: «Duca, noi simo condescesi a toa voluntate a bona fede; ché·lla troppo granne iustizia, dove non se trova remissione, ène pessima crudelitate». Questo re sempre teneva galea apparecchiata per fuire in Provenza, se faceva mestieri; la quale galea se chiamava la galea roscia. Questo re, como abbe receputa la corona, voize reacquistare la Cecilia, la quale sio patre per lussuria perduta avea. Granne esfuorzo de iente fece. Ciento milia perzone abbe. Armao sio navilio per passare a recuperare la Cecilia. Fu grande fisico e filosofo (la sapienza del re costituiva materia di ammirazione presso i dotti del tempo, come Petrarca, Boccaccio o Barbato da Sulmona). L’avaro non voleva vedere alcuna cosa come il suo denaro si spendeva. E di più, convertiva le pene personali in denaro. Questo re ebbe un suo figlio che fu duca di Calabria. Fu un uomo molto giusto e diceva: “ Il re Carlo, nostro antenato (Carlo I d’Angiò, re di Sicilia 1263-1285), acquistò e mantenne questo reame per le prodezze, mio antenato (Carlo II d’Angiò, re di Sicilia dal 1285 al 1309 privato di questa dalla sollevazione dei Vespri) per le larghezze, mio padre per sapienza. Dunque io lo voglio mantenere per giustizia”. Il duca cercava di serbare un’eccelsa giustizia. Accadde che un barone del regno uccise uno dei cavalieri. Fu chiamato a corte dal re a Napoli. Là fu tenuto in prigione e condannato alla decapitazione. Poi il re cambiò la sentenza in denaro personale, perché lo condannò per 15.000 once. La somma fu pagata. L’uomo tolto dal luogo incerto fu messo in un altro spazio libero e ampio. Quando il duca sentì questo, non contento entrò in quella prigione da dove questo era stato fatto uscire. Fece mettere a lui le catene. Miserabilmente stava come se volesse perdere la persona. Di là non volle uscire. Quando il padre sentì questo, conoscendo la volontà del figlio, condiscese alla giustizia contro la sua volontà. L’omicida perse la testa. Poi di fece venir davanti il duca suo figlio, al quale disse queste parole: “ Duca noi siamo condiscesi alla tua volontà per buona fede; perché è troppo grande la giustizia, dove non si trova remissione, è una pessima crudeltà”. Il re teneva sempre disposta la nave per fuggire in Provenza, si faceva esperienza; che la nave si chiamava nave rossa. Questo re, come ebbe ricevuta la corona, volle riconquistare la Sicilia, che suo padre aveva perso per lussuria. (la perdita della Sicilia da parte di Carlo II a favore di Federico d’Aragona dopo la guerra conseguente alla sollevazione dei Vespri era stata sancita ufficialmente con la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302). Allestì una grande schiera di gente. 100.000 persone ebbe. Armò la sua nave per passare a recuperare la Sicilia. ’Nanti che issi, iettao suoi arti, la sorte della geomanzia. Fuolli respuosto che dovea prennere la Cecilia. Ora ne vao lo navilio, e·llo stuolo se calao a Trapani. Là a Trapani--, facennose alcuna curreria, fu subitamente presa una donna la quale ne iva a marito. Fu demannata como avessi nome. Respuse: «Io so’ la triste Cecilia». Questo odenno lo re fu forte turvato. Disse ca era ingannato dalli suoi arti. La promessa adempita era. Sio stare non era utile. Procacciava dello tornare; ma tornare non poteva, né avere fodero poteva, perché lo mare era turvato. Granne bussa, granne tempestate faceva. La fortuna no·lli lassava partire, non li lassava portare foraggio. In terra de nemici li conveniva morire de fame. Vedi crudelitate che li convenne usare per scampare con soa oste. Lo pane aveano poco. Davase a mesura. Penzao de mancare iente, perché·lli bastasse più lo pane che avea. Eadem actio prava fuit et studiosa, como Aristotile dice--. Era drento, fra mare, una isoletta con selve, forza da longa dall’oste miglia dieci. Abbe galee e mise in esse forza da sei milia perzone, e deoli ferramenta da tagliare lena, accette e ronche, e mannaoli a quella isola sotto spezie de lena fare. Puoi che li sei milia fuoro portati là, fuoro lassati. Li legni tornaro. Là li lassaro senza pane. Là moriero de pura fame. Vedi crudelitate! Per passare tiempo sei milia perzone moriero de fame. Nullo li visitao, nullo li confortao. A questi fora stato de bisuogno la cappa de santo Alberto, la quale se li faceva tavola, per tornare a casa. Mancata che abbe lo re questa soa oste de queste perzone, esso cercava de tornare. Como le navi fuoro descioite, subitamente la tempestate desiettao lo navilio là e cà. Tutta notte viddero li pericoli de mare. Davanti ad essi, gettò i suoi sortilegi, la sorte della geomanzia. Gli fu risposto che doveva prendere la Sicilia. Ora va la nave e la truppa scese a Trapani. Là a Trapani (la spedizione narrata dal cronista catalano Ramon Muntaner e da G Villani iniziata con la partenza del re da Napoli il 14 luglio 1314 si conclude lo stesso anno con la tregua del 16 dicembre con Federico d’Aragona dopo l’inutile assedio di Trapani e una serie di disavventure determinate dalle difficoltà metereologiche e dalla scarsezza di viveri), non facendosi alcuna correggia, fu subito presa una donna che scappava dal marito. Le fu domandato il nome. Rispose: “io sono la triste Cecilia”. Udendo questo il re fu fortemente turbato. Disse che era ingannato dai suoi sortilegi. La promessa era accolta. Il suo stare li non era utile. Procacciava di tornare; ma di tornare non poteva, né poteva avere provviste, perché il mare era turbato. Grande tempesta faceva. La fortuna non li lasciava partire, non gli lasciava portare provviste. Nella terra dei nemici gli conveniva morire di fame. Gli convenne usare la crudeltà per scampare col suo esercito. Avevano poco pane. Lo avevano misurato. Pensò di mangiare la gente, perché gli bastasse più pane. Era dentro, nel mare, un’isoletta con boschi, forza di lunga per 10 miglia dall’esercito. Ebbe navi e mise in esse la forza di sei mila persone, e gli diede ferri per tagliare la legna, accette e ronche, e li mandò a quell’isola a fare una sotto specie di legna. Dopo che i 6.000 furono portati là, furono lasciati. I legni tornarono. Là li lasciarono senza mangiare. Là morirono di fame. Vedi che crudeltà! Per il passare del tempo 6.000 persone morirono di fame. Nessuno li visitò, nessuno li confortò. Per loro ci sarebbe stato bisogno della copertura di sant’Alberto, che se li portava in nave, per tornare a casa. (si tratta del beato Alberto degli Abati di Trapani, famoso per il miracoloso soccorso prestato a Messina ridotta alla fame dall’assedio di Roberto di Calabria). Il fallimento che ebbe il re col suo esercito di queste persone, egli cercava di tornare. Come le navi vennero disciolte, subito la tempesta gettò la nave qua e là. Tutta la notte videro i pericoli del mare. Dodici legni, dove lo re stava, per violenzia de fortuna vennero in puorto de Messina. Era l’aurora, lo dìe se faceva. Lo romore delli marinari era granne. Don Federico, cunato de re Ruberto--, excitato per tale romore, lo quale non mustrava opera de mercatanti, se levao da lietto e fecese alli balconi e guardanno vidde insegne regale. Conubbe ca re Ruberto, sio cunato, era iettato per la fortuna, lo quale venne per la Cecilia recuperare. La reina sequitao lo re e, ciò conoscenno, disse: «Ahi re, que farrete a mio frate?» Lo re abbe misericordia e non curao ca quelle dodici galee erano perdute. De soie mano non potevano campare. In quello stante, in su la mesa terza, acquetao la fortuna. Lo re con soie galee se trasse alquanto a reto, puoi tanto più che tornao a Napoli. In sio palazzo entrao. Mai non gìo più in armata, né per mare né per terra. Avea un sio ogliardino-- allato dello palazzo e là sempre stava a valestrare. Mentre che valestrava, penzava li fatti de sio reame. Mentre che iva de segnale a segnale, dava le resposte e·lle odienzie alle iente, commetteva li fatti e·lle cose le quali devea. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXLIII, venne a Roma a visitare le corpora delli santi e·lle basiliche sante la reina de Ongaria, matre de Lodovico re de Ongaria e de Antrea re de Puglia, sio frate--. Stette dìe tre in Roma e visitao tutte le santuarie e fece granni doni a tutte le chiesie. Frate Acuto, uno fraticiello de Ascisci lo quale fece lo spidale della Croce a Santa Maria Rotonna, fu lo primo che·lli domannassi elemosina per acconciare ponte Muolli, lo quale era per terra. La reina li donao tanta moneta, che lo ponte se refaceva con alcuno aiuto. Donne fuoro fatte le cosse nove e·lla torre e forano fatte le arcora, se non avessi auto impedimento. Puoi incomenzao a muitiplicare la poveraglia de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la importunitate delli petitori se abivacciao la reina e convenneli partire. 12 tavole, dove il re restava, per violenza della fortuna vennero nel porto di Messina. Era l’alba, si faceva giorno. Il rumore dei marinai era forte. Don Federico, cognato di re Roberto (per il trattato di Caltabellotta Federico d’Aragona, nominato re di Trinacria, aveva sposato una figlia di Carlo II d’Angiò, Eleonora), eccitato per questo rumore, che non mostrava l’opera dei mercante, si alzò dal letto e andò al balcone e guardando vide l’insegna regale. Riconobbe che re Roberto, suo cognato, era gettato dalla fortuna, che venne per recuperare la Sicilia. La regina seguì il re e conoscendo ciò disse: “Ahi re, che farete a mio fratello?” il re ebbe misericordia e non curò che quelle 12 navi erano perdute. Delle sue mani non potevano vivere. In quell’istante, alle 9.30, acquietò la fortuna. Il re con le sue navi torno indietro, poi tornò a Napoli. Entrò nel suo palazzo. Non andò più in battaglia, né per mare né per terra. Aveva un suo giardino al lato del palazzo e là soleva sempre balestrare. Mentre balestrava, pensava agli eventi del suo reame. Mentre andava da segnale a segnale, dava le risposte alle domande della gente, prescriveva i fatti e le cose che doveva. In questo periodo, correva l’anno 1343, venne a Roma a visitare il corpo dei santi e le basiliche sante la regina d’Ungheria, la madre di Ludovico re d’Ungheria e Andrea re di Puglia, suo fratello (il passaggio in Puglia e a Napoli col figlio Andreasso della regina d’Ungheria, figlia del re di Polonia, dopo la morte dell’anno precedente del marito Caroberto e dopo quella di re Roberto). Stette tre giorni a Roma e visitò i santuari e fece grandi regali a tutte le chiese. Frate Acuto, un fratello di Assisi che fece l’ospedale di santa Maria Rotonda della Croce, fu il pirmo che gli domandò l’elemosina per aggiustare il ponte Muolli che era per terra. La regina gli donò molti soldi, che il ponte si rifece con nessun aiuto. Dunque furono fatte cose nuove e la torre e furono fatti gli archi, senza aver avuto alcun impedimento. Poi cominciò a moltiplicarsi la povera gente di Roma ed era molto il morire, che non bastava il suo dare. Per l’importunità dei petitori si affrettò la regina e gli convenne partire. Puoi incomenzao a muitiplicare la poveraglia de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la importunitate delli petitori se abivacciao la reina e convenneli partire. Nam pauperes habent mores corvinos. Rustici montani mores habent lupinos. Moito la onoraro le donne de Roma. Moito ammirava l’abito de Romane. Partìose e gìo a Napoli a visitare sio figlio re Antrea, e visitaolo e là recipéo per la reina Iuvanna e per li conti dello renno quelle onoranze le quale diceraio là dove se tocca della morte de re Antrea. Questa reina veniva sopra una carretta. Quattro palafreni tiravano quella. Otto contesse sedevano con essa. Tutte guardavano ad essa. Nella aitra carretta venivano aitre damiscelle con veli ongareschi e con coronette d’aoro puro in capo. Cinquanta cavalieri a speroni d’aoro intorno, e aitri serviziali. Questa donna avea mozze quattro deta della soa mano ritta. E mozzaolille uno barone de Ongaria: Feliciano abbe nome. La novella fu così. Feliciano abbe una figlia, nome Elisabetta, la quale per compagnia della reina usava in corte regale. Lo cunato dello re carnaliter illam mediante regina cognovit. dello Garbo-, lo re de Marocco, lo re de Bellamarina, in aitro nome de Trebesten, e lo re de Granata. Questi fuoro li regi de Saracinia. Vero ène che·llo re de Granata non venne con questi, ché sio reame ène drento della Spagna; ma quanno sentìo la forza passata de Saracini, sì se rebellao e mosse, guerra drento nella Spagna. Questi quattro regi con tanta iente muossero e passaro lo mare e liberamente se posaro in terra ferma. Sei iornate de terreno occuparo de Cristiani con cavalli, asini, muli, camielli, femine infinite, siervi, arme, fodero de pane e aitro arnese da guerra. Francamente passano e pono l’oste sopra una citate de Spagna la quale se dice Taliffa, e dicono che quella ène cammora loro. Nelli lati e spaziosi campi destienno li paviglioni e iaccio in campo. Per fermo assedio fare portano ignegni e trabocchetta. Grossa era la iente. Non dubitano. Alquanto magnano, bevo. Loro tammuri sonano. Deh, como granne romore faco! Haco ignegni da aizare scale, da iettare macine. Dona Fatima, sentendo che avevano ucciso il suo bel figlio P per la mando di re A, pensò di fare la vendetta sopra i Cristiani e sopra re Alfonso. E per fare ciò non poteva che allestire una grande truppa, penso di farlo passare sopra i Cristiani, e così fece. Ebbe ordinato al loro papa, che in quel tempo aveva come nome Galiffa di Bagdad, sultano di Babilonia (B d’Egitto), che facesse un comando generale e l’indulgenza per tutti la Saracena, Parti, media, Turchia, per far passare la grande armata per prendere le terre dei cristiani e occupare e distruggere le chiese di Cristo e rielevare i templi per Maometto. Fu fatto così. Per tutta la Saracena vanno predicando i sacerdoti musulmani, cioè i preti, che portano lettere espresse da parte di Galiffa loro papa che si facesse il passo sopra i Cristiani. La gente fu radunata in gran modo a piedi e a cavallo. Furono 400.000 persona da battaglia. Furono tutti con mazze in mano e fionde: Persani, Arabi, Saraceni, neri, i Parti, i Dulciani. Queste furono le generazioni commosse da questa adunanza per fare il passo di qua dal mare. Furono quattro i re coronati che guidavano questa gente. Il primo fu re Garbo, il re del Marocco, il re di Bella marina, un altro nome di Trebesten e il re di Granada. Questi furono i re dei Saraceni. È vero che il re di Granada non andò con questi, perché il suo regno è dentro alla Spagna; ma quando sentì la forza appassionata dei Saraceni, si ribellò e mosse guerra dentro la Spagna. Questi quattro re si mossero con tanta gente e passarono il mare e liberamente si misero nella terra ferma. Occuparono per sei giorni il terreno dei Cristiani con cavalli, asini, muli, cammelli, infinite donne, servi, armi, provviste di pane e altri arnesi da guerra. Passarono in modo franco e posero l’esercito sopra una città di spagna che si chiama Tarida (in provincia di Cadice, vicino Rio S), e dicono che quella è loro territorio. Nei lati degli spaziosi campi distesero padiglioni e giacciono in campo. Con un fermo assedio fecero portare ingegni e trabocchetti. Molta era la gente. Non c’è dubbio. Mangiano e bevono tanto. I loro tamburi suonano. Deh, com’è forte il rumore che fanno! Hanno ingegni per alzare scale, per gettare grosse pietre. Loro campo, dove posaro, avea nome Cornacervina, campo spazioso, abunnevole de acqua, lena e erva, anche forte, ca·llo fortificava uno fiume lo quale se dice Rigo Salato. Questo fiume desparte Taliffa da Sibilia. Da vero che in questo campo non forano venuti né potuti venire per la stretta valle la quale passaro canto la costa, se non fussi che nella entrata dello paiese se pattiaro con un granne e potente barone dello reame: don Ianni Manuelle avea nome. Questo don Ianni Manuelle era delle più potente colonne de Spagna. La montagna era in sia balìa. Era questo don Ianni in errore collo re Alfonzo--, ché no·lli favellava e derobare faceva, perché reprenneva lo re, lo quale con soa reina stare non voleva, anche stava con una badascia — madonna Leonora avea nome-- —, como io’ diceremo. A questo don Ianni Manuello donaro li Saracini granne quantitate de doppie de aoro--, perché·lli concedessi lo passo; e così fu. De licenzia dello re Alfonzo don Ianni Manuello concedéo lo passo a Saracini, e vennero nelli campi de Cornacervina, como ditto ène, e là stavano ad oste a fermo assedio. Derizzaro trabocchi e fecero ignegni da ponere scale, con rote e funi. L’oste stette ben mesi tre. Taliffa se perdeva in tutto, se non se succurreva. Non se poteva recuperare. Quanno lo buono re Alfonzo se sentìo sopre l’oste e·llo esfuorzo granne, non dottao, anche se puse alla frontiera in Sibilia, la citate reale. Dicese che madonna santa Maria fussi nata in questa citate--. Ora non dorme lo re Alfonzo. Manna per succurzo allo papa. Manna alli regi li quali staco intorno ad esso, cioène a sio zio, don Dionisi de Lisvona canto mare, re de Puortogallo, allo re de Navarra, allo re de Aragona-. Manna commannamenta espresse a tutti suoi baroni che sequitinolo. A don Ianni Manuello fao commannamento tanto che non se parta, anche stea e chiuda la essuta e fera dereto, quanno lo stormo oderao. Ben se sollicita lo re. Ben chiama tutta la Spagna. Il loro campo, dove si soffermarono, si chiamava Cornacervina, un campo spazioso, abbondante di acqua, legna ed erba, anche molta, che lo fortificava un fiume che si dice Rio Salado. Questo fiume parte divide Tarifa dalla Sibilia. È vero che in questo campo non furono venuti né potuti venire per la stretta vale che passarono accanto la costa, se non fosse che nell’entrata del paese vennero a patti con un grande e potente barone del reame: don Giovanni Manuelle. Questo era uno dei più potenti colonnelli di Spagna. La montagna era sua. Questo don Giovanni era in astio con re A (il rancore di don Juan Manuel verso il suo signore nasceva dal fatto che questi per sposare Maria di Portogallo ne aveva ripudiato la figlia Costanza), perché non gli parlava e lo faceva derubare, perché riprendeva il re, che non voleva stare con la sua regina, anzi stava con una bagascia- Donna Leonor de Guzman- come giù diremo. A questo don Juan donò ai Saraceni una grande quantità di doppia moresca d’oro, affinchè quello gli concedesse il passo; e così avvenne. Per la licenzia del re Alfonzo don Juan concesse il passo ai Saraceni, e vennero nei campi di Cornacevina, come è stato detto, e là stavano con l’esercito in un fermo assedio. Drizzarono trabocchetti e fecero ingegni per porre scale, con ruote e corde. L’esercito stesse per ben 3 mesi. Tarifa si perdeva in tutto, non soccorreva. Non si poteva recuperare. Quando il buon re Alfonzo si sentì sopra l’esercito e la grande folla, non temette, anche se si mise alla frontiera in Sibilia, la città reale. Decise che donna Santa Maria fosse nata in questa città. (l’Anonimo riporta una voce: che Maometto avesse scritto a Gibilterra il Corano). Ora non dorme il re Alfonzo. Manda un soccorso al papa. Manda ai re che stanno intorno ad esso, cioè a suo zio, don Dionisi di Lisbona accanto al mare, re del Portogallo, al re di Navarra, al re di Aragona (l’unico che partecipò effettivamente alla battaglia fu Alfonso IV di Portogallo, suocero di Alfonso XI). Manda comandi espressi a tutti i suoi baroni che lo seguono. A don J M fa comando di non partire, anzi di stare e di chiudere l’uscita e indietreggiare, quando la battaglia udirà. Si sollecita bene il re. Chiama bene tutta la Spagna. Questi regi non fecero resposta, ma cavalcaro de sùbito con loro espediti cavalieri e pedoni. Mustrano lo loro buono volere e forza. Lo primo aiutorio fu quello de papa Benedetto: setteciento uomini d’arme de buono apparecchio, Todeschi e Franceschi, cavalli gruossi, bene armati, vennero crociati, assoluti de pena e de colpa. Lo secunno aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pampalona--, con cinque milia cavalieri adorni, buono capiello de acciaro in testa, bona targia in vraccio, tagliente guisarina da lato, lucente zagaglia in mano. Anche venne con pedoni vinti milia. Lo terzo aiutorio fu lo re de Aragona con cinque milia cavalieri fra Provenzani e Franceschi. Con esso fuoro quelli de Tolosa. Anche menao pedoni vinti milia. Anche ce fu don Dionisi sio zio con quelli della citate de Lisvona. Lo quarto aiutorio fu lo re de Puortogallo con quinnici milia cavalieri spagnuoli, currienti cavalli e dardi in mano. Lo quinto fu esso re Alfonzo, re de Castiello, con trenta milia cavalieri buoni, adorni, con cavalli spagnuoli de quelli de Castiglia, li quali se contano li più nuobili destrieri che siano, pedoni senza fine. Mentre che lo assedio era sopra Taliffa, lo re Alfonzo era in Sibilia con soa baronia. La fame e·llo caro era granne in Sibilia. La iente, la quale era venuta a servire, non poteva tanto demorare. La moneta non bastava. Forte se mormorava la iente de tanta tardanza. Allora lo re Alfonzo, represo da suoi baroni, deliverao iessire fòra alla vattaglia e cercare soa ventura. Spene abbe in Dio, lo quale non li fallìo. Esse fòra vigorosamente. In questa forma soa iente conestavilìo. Trenta milia cavalieri abbe de buono guarnimento, non più, ciento milia de pedoni. Era in mieso, fra soa iente e l’oste de Saracini, lo fiume lo quale se dice Salato. De·llà da Salato stao Cornacervina, dove staco trabacche e paviglioni, alfaniche e confalloni, iente assai, como ditto ène, con moiti tammuri. Da lo lato ritto de l’oste stavano le montagne de Ilerda, la veglia terra. Dallo lato manco stavano le pianure spaziose. Dereto li stava una stretta valle, la quale avevano passata per forza de moneta, como ditto ène. De sopre dalla valle staievano le montagne le quale teneva don Ianni Manuello. Denanti aveano lo fiume e·lli nimici. Lo passo dello fiume curatamente se guardava. Questi re non risposero, ma cavalcarono subito con i loro spediti cavalieri e soldati a piedi. Mostrano la loro volontà e forza. Il primo aiuto fu quello di papa Benedetto: allestì 700 uomini in armi, tedeschi e francesi, grossi cavalli, ben armati, vennero crociati, assolti da pene e colpe. Il secondo aiuto fu del re di Navarra con quelli di Pamplona (capitale del regno di Navarra), con 5.000 cavalieri attrezzati, con un buon cappello d’acciaio in testa, con uno scudo in braccio, con una tagliente spada, una lucente lancia in mano. Venne anche con 20.000 pedoni. Il terzo aiuto fu del re di Aragona con 5.000 cavalieri fra provenzali e francesi. Con lui ci furono quelli di Tolosa. Meno anche 20.000 pedoni. tv anche don Dionisi suo zio con quelli della città di Lisbona. il quarto aiuto fu del re di Portogallo con 15.000 cavalieri spagnoli, che correvano a cavallo e con dardi in mano. il quinto fu lo stesso re Alfonso, re del castello, con 30.000 cavalieri adornati, con cavalli spagnoli di quelli di Castiglia che si contano come i I più nobili destrieri che ci siano, pedoni Infiniti. mentre l'assedio era sopra tarifa il re Alfonso era in sibilia con la sua baronia. la fame E la carestia erano grandi in sibilia. La gente che era venuta a servire, Non poteva tanto dimorare. I soldi non bastavano. Si diceva che la gente era in ritardo. Allora il re Alfonzo, rimproverato dai suoi baroni De libero di uscire fuori dalla battaglia e cercare la sua Ventura. avevano speranza in Dio che non sbagliò. questi uscirono vigorosamente. In questo modo dispose la sua gente. 30.000 cavalieri ebbe di buon rifornimento, non di più, 100.000 a piedi. Era in mezzo, tra la sua gente e l’esercito dei Saraceni, il fiume che si dice Salato. Lì vi era Cornacervina, dove stavano tende da campo e padiglioni, tende e gonfaloni, molta gente, come è stato detto, con molti tamburi. Al lato destro dell esercito vi erano le montagne di Lérida (sulle alture catalane), la vecchia terra. Dal lato sinistro vi erano le spaziose pianure. Dietro vi era una stretta valle, che avevano passato con i soldi, come è stato detto. Sopra alla valle vi erano le montagne che aveva don Juan Manuel. Davanti avevano il fiume e i nemici. Il passo del fiume si guardava accuratamente. Lo re Alfonzo tenne questa via. Imprimamente mannao li setteciento cavalieri papali crociati a passare lo fiume. Treciento rompessino lo passo e commattessino colle guardie. Doiciento se ponessino dallo lato della currente dell’acqua a sostenere la forza dello fiume, che·lla pedonaglia potessi passare; li doiciento remanessino a guardare lo passo, aitro non facessino. Non era piccolo pericolo passare lo fiume, lo guado rompere. Tutti fuoro destrieri eletti. A questa iente aitro confallone dato non fu, se non uno confallone collo campo bianco e·lla croce vermiglia. Su la croce era lo crucifisso. Po’ li setteciento crociati sequitao esso re Alfonzo a cavallo in uno cavallo ferrante liardo. Dicese che fussi lo più bello e megliore dello munno. In soa compagnia abbe cavalieri dieci milia, che, rotto lo passo, fossi lo primo lo re con soa iente alla vattaglia. Po’ lo re Alfonzo sequitao lo re de Aragona con cinque milia insegne, subitamente li venne meno lo core e·lla vertute. Tutti fuoro rotti. Non puoco resistere. Ora se voitano, dacose alla fuga. Terribile cosa è loro fuire. Fugo senza alcuna remissione. Non è speranza se non nelle gamme. Ora vedesi occidere, ora vedesi maciello fare. Granne tagliare se fao de quella canaglia della iente saracina. Questa sì ène la nobile sconfitta de Spagna, infra moite poche memorabile. LX milia corpora de Saracini fuoro morte, XL milia li presoni. A queste cose lo re non fu, né·lle sentìo, per lo poco dubio lo quale avea nella soa forte schiera. Commattéo puoi che la novitate pervenne alla forte schiera e·llo dubio fu palesato. Stava in guardia della porta dello regale paviglione uno omo — Serafin avea nome — più granne che li aitri tre piedi, macro, tutto nervoso, longhe le gamme, nero lo voito, vestuto de uno perponto de iuba de seta. In mano teo una mazza de fierro ’naorata. Questo Serafin, a cui era fidata la perzona dello re, dubitao de nunziare la mala novella. Puro la manifestao alla reina. Mossese la reina: Ricciaferra avea nome. Passa denanti allo re. Delli suoi uocchi fontana de lacrime descenneva. E disse: «Su re, ca·lla ventura ène de donno Alfonzo». Lo re iocava a scacchi. Questo odenno fu turbato. Più non disse, più non odìo. Bastaro doi paravole. Vestuto de una de aoro longa fi’ alli piedi, barretta de aoro in capo con prete preziose, bacchetta d’aoro in mano, salle a cavallo, prenne lo camino de casa soa. (NONA: LE TRE DEL POMERIGGIO) Era intorno affasciato da sette milia Turchi con vastoni de fierro inaorati in mano, vestuti de iube de sannato sopre ponte de ballacchino, armati alla imperiale. Anche ivano aitri cavalieri con lance, con fierri lati, lucienti. Denanti a questi ivano assai cembali sonanti e aitri strumenti senza fine. Regale pareva la forza e lo suono. Più denanti vaco dieci milia iannetti currenno e sparienno da onne lato dardi, como fao la spinosa alli cani. Nulla perzona ad essi se accosta, sì granne ène lo fioccare delli dardi. E moita aitra iente da pede e da cavallo con granne fortezze, con sole armature lo sequita. A questo muodo ne vao fuienno dello stormo Salim, lo re de Bellamarina. Rompe e passa onne para per forza della nobilitate de soa cavallaria. Lassao Ricciaferra, la soa donna, la reina. Lassao onne cosa desperata. Sei dìe durao la fuga. Sei dìe durao la incaiza. Così iace seminata la iente morta como le pecora. Po’ la partenza dello re la reina fece destennere panni bianchi de seta in terra. Là fece ponere tutta la moneta e·lle gioie regale. Là essa sedeva con cinquanta soie soffragane concubine dello sio re. Uno cavalieri spagnuolo — Arcilasso avea nome —, armato e bene a cavallo con una lancia in mano curreva per lo campo. In sio furore entrao lo Alfanic, cioène lo paviglione dello re. Occurzeli la reina. Quanno questo Spagnuolo vidde la reina sedere in figura de tristizia (puro la soa vista dignitate mustrava), lassase e deoli de una lancia. Da oitra in parte la passao. De colpo l’abbe morta. Torna in reto e per lo campo fao granne male. Una maraviglia fu, che·llo ferrante dello re Alfonzo, della cui bellezza alcuna cosa ditto ène, da puoi che fune in quello campo, mai non posao, mai non fu potuto tenere. Contra voluntate delli circustanti allo freno portao lo re nello paviglione dello re de Bellamarina e là restette de furiare. Così fece como avessi auto senno umano. Quanno lo re Alfonzo allo paviglione regale fu ionto, trovao la reina, la quale morta iaceva e in mieso de soie soffragane stava, le quale piagnevano e guardavano quello cuorpo. Erance una la quale era cristiana — avea nome Maria —, nata de una villa la quale hao nome Obeda. Era circondato da 7.000 turchi con bastoni di ferro indorato in mano, vestiti con giubbetti di zendado sopra le punte di seta, armati al modo imperiale. Andavano anche altri cavalieri con lance, con larghi ferri, lucenti. Davanti a questi andavano molti cembali/tamburelli suonanti e altri strumenti infiniti. Il suono e la forza sembravano regali. Più avanti vanno 10.000 giovanetti correndo e sparando da ogni parte i dardi, come fa il porcospino ai cani. Nessuna persona si avvicina ad essi, è così grande il fioccare dei dardi. E molta altra gente a piedi e a cavallo con molte fortezze, lo segue con le armature. In questo modo va fuggendo dalla schiera Salim, il re di Bella marina. Rompe e passa ogni ostacolo con forza della nobiltà della sua cavalleria. Lasciò donna Fatima, la sua donna, la regina. Lasciò ogni cosa disperata. Durò 6 giorni la fuga. 6 giorni durò l’inseguimento. Così giace seminata la gente morta come le pecore. Dopo la partenza del re la regina fece distendere i panni bianchi di seta a terra. Là fece porre tutti i soldi e le gioie regali. Là ella sedeva con 50 sue subordinate concubine del suo re. Un cavalieri spagnolo- si chiamava Garcilasso (G de la Vega), armato correva per il campo a cavallo con una lancia in mano. Con suo furore entrò Alfanic, cioè il padiglione del re. Gli capitò la regina. Quando questo spagnolo vide la regina sedere con volto di tristezza (mostrava pure il suo aspetto dignitoso), lasciò e gli diede una lanci. Oltre quella parte la passò. In un colpo la uccise. Torna indietro e per il campo fece un grande male. Una meraviglia accadde, che quel ferrante di re Alfonzo, della cui bellezza è stata detta qualche cosa, da che fu in quel campo, non passò mai, mai non fu potuto tenere. Contro la volontà dei circostanti portò il re nel padiglione del re di Bella marina e là restò per infuriare. Così fece come se avesse avuto senno umano. Quando il re Alfonzo fu giunto al padiglione regale, trovò la regina, che giaceva morta e stava in mezzo alle sue subordinate, che piangevano e guardavano quel corpo. Vi era una che era cristiana, si chiamava Maria, nata in una città chiamata Ubeda (nella Spagna meridionale, in provincia di Jaén in Andalusia, riconquistata da 1 secolo dai Mori). Estima quanta fu la iente! Lo re Alfonzo abbe lo paviglione regale con tutto quello drento. Lo paviglione avea nome Alfanic. Treciento cammore avea. Era de panno de lino attorniato de corame roscio con corde de seta invernicate d’aoro. Mai non vedesti più mirabile né più bella cosa. Nello fastigio de sopre, dalla parte de fòra, tutto stava puosto a lune, drento de diverzi colori. Non se pote quello lavoriero contare. Drento dallo Alfanic fu trovata la Ricciaferra, la reina morta per Arcilasso, como ditto ène, la quale fu vennuta a sio marito moito aoro inzalata in una cassa. Puoi ce fuoro trovati li tesauri regali, la quarta parte; le tre furate erano. Milli e doiciento muli portaro quelle, e fuoro doppie. Disseme chi le vidde, chi le despese che quelle doppie erano d’aoro e erano in forma de piattielli de ariento, poca cosa meno che·lle patelle dello calice dello aitare. Anche fra quello tesauro fu trovata la lettera della indulgenzia, la quale li avea conceduta lo loro granne papa — Galiffa de Baldali aveva nome —, nella quale prometteva a chi moriva in questo passo la resurezzione a terzo dìe. Puoi prometteva sette mogliere vergine nello santo paradiso. Puoi li prometteva de farli stare abbracciati con santo Macometto e con santo Elinason. Stima quanta gente vi fu! Il re Alfonzo ebbe il padiglione regale con tutto quello dentro. Il padiglione si chiamava Alfanic. Aveva 300 camere. Era adornato con un panno di lino di cuoio rosso con corde di seta inverniciate d’oro. Mai non vidi cosa più mirabile e bella. Nella parte finale della costruzione di sopra, dalla parte di fuori, stava tutto a posto, dentro di diversi colori. Non si può contare quel lavoro. Dentro Alfanic fu trovata donna Fatima, la regina morta per mano di Garcilasso, come è stato detto, che fu venduta a suo marito per molto oro in una cassa salata. Dopo vi furono trovati i tesori regali, la quarta parte; le altre tre erano state rubate. 1.200 portarono quelle, e furono doppie. Me lo disse chi le vide, chi le dispese che quelle doppie erano d’oro ed erano sottoforma di piatti d’argento, poca cosa meno che quei piatti del calice dell’altare. Tra quel tesoro fu trovata anche la lettera dell’indulgenza, che il grande papa aveva concessa loro- si chiamava Galiffa de Baldali- nella quale prometteva a chi moriva in questo posto la resurrezione nel terzo giorno. Poi prometteva 7 mogli vergini nel santo paradiso. Poi gli prometteva di farli stare abbracciati con Maometto e santo Alinoechacan. Fine 11: “Anche li mannao vinti de quelli Saracini presonieri con quelle arme, con quello abito, con quelli cavalli colli quali fuoro presi.”  effettivamente dopo la battaglia del Salado il re Alfonso inviò alla corte papale Joan Martinez de Leyua con la sua bandiera, con alcune di quelle prese ai Saraceni, col suo cavallo munito delle insegne reali e con alcuni Mori prigionieri. “Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore, anno Domini MCCC , como se dicerao. La iente era moita.” è l’anno 1355 dopo l’incoronazione di Carlo IV avvenuta il 5 aprile. “Durao lo assedio mesi diciotto e fu auta per fame. In quella citate entrao lo re Alfonzo e soa iente.”  l’entrata dei Cristiani in Algeciras dopo un assedio iniziato alla fine di agosto 1342 e quindi di poco più lungo dei 18 mesi dichiarati dall’Anonimo, avvenne il 26 marzo 1344.
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