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Struttura e Gerarchie degli Angeli nel Paradiso di Dante, Appunti di Italiano

Una dettagliata descrizione della struttura del paradiso di dante, con particolare attenzione alle gerarchie angeliche. Vengono descritti i vari livelli del paradiso, i ruoli degli angeli, gli arcangeli, i principati, le virtù e le potestà, oltre alla loro relazione con dio. Inoltre, vengono esposti i problemi teologici affrontati dal poeta, come la natura della beatitudine e la punizione degli ebrei. Una visione unica e profonda della visione cristiana del mondo e dell'universo.

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 27/02/2024

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eva-de-santis-1 🇮🇹

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Scarica Struttura e Gerarchie degli Angeli nel Paradiso di Dante e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 1 L’universo di Dante DIO serafini cherubini troni dominazioni virtù potestà principati arcangeli angeli GERARCHIE ANGELICHE credenti in Cristo credenti in Cristo venuto venturo CANDIDA ROSA purgatorio terra aria inferno aria Gerusalemme I CIELO: LUNA II CIELO: MERCURIO III CIELO: VENERE IV CIELO: SOLE V CIELO: MARTE VI CIELO: GIOVE VII CIELO: SATURNO VIII CIELO: STELLE FISSE IX CIELO: PRIMO MOBILE EMPIREO Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 2 La struttura del paradiso DIO serafini cherubini troni dominazioni virtù potestà principati arcangeli angeli GERARCHIE ANGELICHE bambini credenti credenti in in Cristo Cristo venuto venturo bambini CANDIDA ROSA I cielo o della Luna: spiriti inadempienti II cielo o di Mercurio: spiriti attivi III cielo o di Venere: spiriti amanti IV cielo o del Sole: spiriti sapienti V cielo o di Marte: spiriti militanti VI cielo o di Giove: spiriti giusti VII cielo o di Saturno: spiriti contemplanti VIII cielo o delle Stelle Fisse: trionfo di Cristo e di Maria IX cielo o Primo Mobile: trionfo degli angeli EMPIREO Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 5 La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto nel qual si volge quel c’ha maggior fretta; 121 e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. 124 Vero è che, come forma non s’accorda molte fiate a l’intenzion de l’arte, perch’a risponder la materia è sorda, 127 così da questo corso si diparte talor la creatura, c’ha podere di piegar, così pinta, in altra parte; 130 e sì come veder si può cadere foco di nube, sì l’impeto primo l’atterra torto da falso piacere. 133 Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d’un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo. 136 Maraviglia sarebbe in te se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, com’a terra quiete in foco vivo”. 139 Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso. 142 121. La Provvidenza, che dà tale assetto [a tutti gli es- seri creati], con la sua luce fa sempre quieto (=appaga) il cielo (=l’empìreo), dentro il quale ruota quello (=il primo mobile) che ha una velocità più grande. 124. Ed ora lì [nell’empìreo], come a luogo decretato [da Dio per noi], ci porta la virtù di quella corda (=la forza di quell’impulso), che dirige sempre a lieto fine tutto ciò che scocca. 127. È vero che, come la forma non si ac- corda molte volte all’intenzione dell’artista, perché la materia è sorda (=è restia a riceverla); 130. così da questo corso si allontana talvolta la creatura, che ha il potere di andare in un’altra direzione, [pur essendo] co- sì spinta [dall’istinto naturale]. 133. E come si può ve- der cadere [sulla terra] il fuoco di una nube (=il fulmi- ne), così l’impeto primo si rivolge alla terra, deviato dal falso piacere [dei beni mondani]. 136. Non devi meravigliarti, se giudico bene, per il tuo salire al cielo, più di quanto [non ti meraviglieresti] per un ruscello, che dall’alto del monte scende giù in basso. 139. Nel tuo caso farebbe meraviglia se, privo d’impedimenti, tu fossi rimasto giù [in terra], come [farebbe meraviglia] sulla terra la quiete in una fiamma viva». 142. Quindi rivolse il viso verso il cielo. I personaggi Colui che tutto move è Dio, interpretato aristoteli- camente come il Motore Immobile che infonde il movimento all’universo: tutti gli esseri, animati e i- nanimati, tendono a Lui, in quanto Egli li attrae come fine ultimo. Il Dio cristiano però ha crato ed ama le sue creature. Alla fine della Divina commedia viene presentato nuovamente come «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Pd XXXIII, 145). Apollo e le muse secondo la mitologia greca proteg- gevano le arti. Abitavano il Parnàso, un monte della Grecia centrale ad essi consacrato, che aveva due ci- me, Citeróne ed Elicóna. Marsia, un satiro della Frigia, è abilissimo a suonare la cornamusa, tanto da sfidare Apollo. Le muse fan- no da giudici. Il dio lo sconfigge. Per punirlo della sua presunzione, lo lega ad un albero, lo scuoia e lo cuce dentro la sua pelle. Beatrice di Folco Portinari (1265-1290), che va sposa a Simone de’ Bardi, è la donna a cui Dante de- dica la Vita nova (1292-93), una specie di diario in cui il poeta parla del suo rinnovamento spirituale provocato dall’amore verso di lei. Dopo la morte del- la donna Dante ha una crisi spirituale, da cui l’amico Guido Cavalcanti cerca di farlo uscire. Nel poema diventa il simbolo della fede e della teologia, perciò essa, non più Virgilio, è destinata a guidare il poeta nel viaggio attraverso il paradiso. Il passaggio delle consegne avviene significativamente in cima al para- diso terrestre (Pg XXX, 49-51), il punto estremo che la ragione umana può raggiungere. Alla fine dell’o- pera la donna però cede il posto a san Bernardo, sim- bolo della fede mistica. Soltanto la fede mistica per- mette l’incontro con Dio. Glauco è un pescatore della Beozia. Un giorno vede che i pesci, che ha posato su un prato sconosciuto, ritornano in vita e si gettano nell’acqua dopo che ne hanno mangiato l’erba. Egli li imita e si trasforma in divinità marina. La fonte di Dante è Ovidio, Metam. XIII, 898-968. Commento 1. Il canto si sviluppa in queste fasi: a) il poeta invo- ca Apollo e le muse; b) pone a Beatrice una domanda (che cos’è quella musica che ode) e riceve da essa la risposta (è la musica provocata dal movimento delle sfere celesti, perché essi sono ormai in cielo); c) pone un’altra domanda (come può essere in cielo lui, cor- po pesante) e riceve la risposta (egli va nel luogo na- turale – il paradiso – stabilito da Dio per gli uomini); d) la donna però coglie l’occasione per esporre l’ordine dell’universo (Dio ha posto dentro ad ogni essere un istinto, che lo conduce al suo fine; il fine dell’uomo è quello di andare in paradiso), che è la parte più importante del canto. 2. Il canto inizia con Dio; la cantica come l’intera o- pera termina ancora con Dio (Pd XXXIII, 145). Dio è presentato nello stesso modo: nel primo caso come Colui che muove tutto l’universo, nel secondo come l’Amore che muove il sole e le altre stelle. Egli quin- di muove tutto l’universo, che pervade con il suo amore. Il Dio di Aristotele è puro pensiero, pensiero immateriale, e pensa sempre e unicamente se stesso, non potendo pensare qualcosa di inferiore diverso da sé. È la sfera estrema, che attira a sé tutti gli altri es- seri. Il Dio cristiano invece è esterno al mondo, che ha creato dal nulla, ed ha un rapporto d’amore con il mondo e con le creature: il suo amore pervade e pe- netra tutto l’universo, non escludendo alcuna crea- tura, nemmeno i demoni, che sono strumenti della sua volontà. Anch’Egli attrae tutti gli esseri come fi- ne, ma Egli lo fa consapevolmente e volontariamen- te. 2.1. La terzina iniziale dà la percezione fisica della gloria e dell’energia, più che della potenza, di Dio Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 6 che dall’empìreo si espande e si diffonde per tutto l’universo. Nel canto ci sono numerosi altri versi che danno la stessa sensazione fisica. Questi versi si pos- sono chiamare, per l’energia che contengono e che esprimono, «versi splendenti». Essi s’incontrano uni- camente nel Paradiso. Sono il risultato finale di una prassi versificatoria che caratterizza tutta la Divina commedia: i versi sintetici, che contengono molti fat- ti in poche parole; e i versi sovradensi, che conten- gono molti riferimenti in poche parole. Un verso so- vradenso, per quanto ancora molto semplice, è il ver- so iniziale dell’opera: il protagonista ha 35 anni, cioè è nel mezzo del cammino della vita, è se stesso, è simbolo dell’umanità errante, che cerca la via della salvezza ecc. Un esempio di versi sintetici, ancora molto semplice, sono i pochi versi – lo «scorcio» – con cui il poeta parla dell’anonimo fiorentino che si suicida nelle sue case (If XIII, 139-151), soprattutto l’ultimo verso; i pochi versi in cui Dante e Virgilio escono dall’inferno (If XXXIV, 127-132); i pochi versi che racchiudono la vita di Pia de’ Tolomei (Pg V, 130-136) e di Piccarda Donati (Pd III, 97-108). Ma si potrebbe anche dire che questi casi sono speci- fici, che colpiscono in modo particolare, perché la verità è molto più profonda e complessa: tutta la Di- vina commedia è sintetica e gli eventi trovano lo svi- luppo – il respiro o lo spazio vitale – nei tre versi concatenati della terzina o nei multipli della terzina. Ad esempio la prima terzina dell’opera racchiude un evento specifico e quindi presenta il fenomeno dei pochi versi (a 35 anni il poeta si è smarrito in una selva). Ma presenta anche molti altri aspetti: la vita come cammino; la vita dell’individuo rapportata alla vita umana, alla vita di tutta l’umanità; quindi il peri- colo, espresso in modo appariscente con un colore, il nero, simbolo anche del peccato (la selva è oscura); infine la sbadataggine del protagonista, che ha perso la retta via. I singoli versi sono densi o sovradensi, e si condensano nella struttura della terzina. E vicever- sa: la struttura della terzina accoglie versi densi o so- vradensi. Ma questi sono soltanto i mattoni dell’ope- ra... 3. Dante invoca Apollo e le muse, che sono divinità pagane, perché non c’è l’equivalente nel mondo cri- stiano. Nella vastissima mitologia cristiana non c’è spazio per le arti. Nell’Antico testamento Dio era il Dio degli eserciti. Aveva a disposizione ben nove co- ri di angeli, che potevano svolgere sia attività militari sia attività di lode. Perciò non aveva tempo per le ar- ti. Nel Nuovo testamento Cristo pensava a fare mira- coli e a intrattenere il popolo minuto con le parabole, oltre che con pane e pesce, perciò non ha il tempo di pensare all’arte. Gli apostoli, che dovevano preoccu- parsi di evangelizzare il mondo, si trovavano nella stessa situazione di inadempienza. Per di più, a parte Giovanni, avevano una modesta cultura. Erano pesca- tori, cambiavalute, soldati, appartenevano insomma al basso popolo. Con il tempo i santi e le sante si specializzano a proteggere il fedele per questa o quel- la malattia, ma non si preoccupano né, tanto meno, diffondono il culto dell’arte. La Chiesa però nel cor- so dei secoli colma questa lacuna teorica e riempie le chiese di opere d’arte mirabili, eseguite dai migliori artisti sul mercato e senza badare a spese, a maggiore gloria di se stessa e soprattutto di Dio. 4. La terza cantica contiene fin dall’inizio versi capa- ci di sostituirsi alla realtà che indicano o che voglio- no esprimere. Il poeta, giunto a compiere la sua im- presa più impegnativa (ha bisogno sia di Apollo sia delle muse), riesce a creare il «linguaggio splenden- te», capace di esprimere le sensazioni, le emozioni e l’esperienza della parte finale del viaggio. I versi ab- bagliano il lettore ed il poeta ne è consapevole (Pd II, 1-15). Egli ha esplorato sistematicamente le possibi- lità del linguaggio, i rapporti del linguaggio con la realtà, con l’intelletto, con la memoria. Il rapporto normale del linguaggio con la realtà è quello descrit- tivo (un termine indica una cosa). Ma poi si passa ol- tre, al linguaggio onomatopeico, al linguaggio simbo- lico, al linguaggio pluristratificato e/o condensato, ai quattro sensi delle scritture, al linguaggio profetico... Non basta. Con i «versi splendenti» egli riesce a ri- succhiare la realtà dentro la parola, quindi a superare il linguaggio onomatopeico, e a colpire direttamente la mente e la memoria del lettore. 4.1. «Poca favilla gran fiamma seconda: Forse di retro a me con miglior voci Si pregherà, perché Cirra (=Apollo) risponda» (vv. 34-36). Il verso è entrato nel linguaggio comune: da una piccola causa deriva- no grandi conseguenze. I due termini, favilla e fiam- ma, sono onomatopeici, ma danno anche l’idea visi- va dell’oggetto che rappresentano: coinvolgono tutti i sensi, memoria compresa. È uno dei «versi splenden- ti» del canto. 4.2. «Trasumanar significar per verba Non si poria, però l’essemplo [di Glauco] basti A cui esperïenza grazia [divina] serba [dopo la morte]» (vv. 70-73). Il verbo trasumanar dà la sensazione fisica e mentale del superare la condizione umana. È un altro dei «versi splendenti» del canto. Il tema dei limiti del linguaggio, incapace di esprimere l’esperienza oltre- mondana provata dal poeta, viene ripreso più volte in Pd XXXIII. La visione di Dio è ineffabile come è i- neffabile lo stesso Dio. I limiti delle parole e del lin- guaggio sono un riflesso dei limiti della ragione u- mana: «State contenti, umana gente, al quia; Ché, se potuto aveste veder tutto, Mestier non era parturir Maria» («O genti umane, accontentatevi di sapere che le cose stanno così, perché, se aveste potuto ve- der tutto, non sarebbe stato necessario che Maria par- torisse Cristo») (Pg III, 37-39). 5. I due dubbi del canto esprimono l’estrema curiosi- tà e l’infinito desiderio di sapere di Dante e del Me- dio Evo. Il poeta è affascinato dalla sete di sapere dell’umanità pagana, rappresentata da Ulisse, che sfida l’ignoto oltre le colonne d’Ercole, pur di cono- scere i vizi ed il valore degli uomini (If XXVI, 112- 120). Egli la sente intensissima dentro di sé, ma ne sente anche i limiti invalicabili: oltre la ragione c’è la fede e la rivelazione, e soltanto la fede può salvare e rendere completa la vita umana. Guido da Montefel- tro ha cercato di pianificare la salvezza dell’anima con la fredda ragione, ma ha fallito ed è finito all’inferno (If XXVII, 73-123). Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 7 6. Il canto recupera la teoria pitagorica secondo cui le sfere celesti, muovendosi, provocano un suono musi- cale: Pitagora di Samo (570 a.C.-?), filosofo e mate- matico, scopre che i corpi, vibrando, emettono suoni e che i suoni tra loro hanno rapporti numerici; da ciò conclude che anche i corpi celesti, muovendosi, pro- ducono suoni armoniosi. Ma soprattutto esso presen- ta estesamente la teoria di Aristotele (386-323 a.C.) secondo cui l’universo è ordinato e tutti gli esseri, sia inanimati sia animati, hanno un istinto che li porta al loro fine. Questa teoria è ora inserita in un contesto cristiano: il poeta fa sua l’interpretazione di Aristote- le in chiave cristiana attuata da Tommaso d’Aquino (1225-1274). 7. L’ordine dell’universo è esposto proprio in Pd I, perché il poeta sta salendo in cielo e deve dare un’idea complessiva dell’universo. La fisica e la me- tafisica di Aristotele, riviste da Tommaso attraverso la rivelazione, spingevano a vedere l’universo come un κóσµος, cioè come un tutto ordinato, creato da Dio con un atto d’amore e che ritornava a Lui. Perciò Dio ha posto in tutti gli esseri, da quelli meno perfetti a quelli più perfetti, un istinto che li guida al loro fi- ne. Il fine ultimo dell’uomo è il ritorno in paradiso, e quindi è lo stesso Dio. 8. La concezione dell’universo proposta da Dante fonde la teoria delle cause di Aristotele con la teolo- gia e la rivelazione cristiane. L’universo risulta orga- nizzato, organico, interconnesso, gerarchico e per- vaso dal fine. Il poeta propone una gerarchia degli esseri (esseri inanimati, esseri vegetali, esseri animali, esseri razionali, esseri spirituali), tutti uniti dal fine che incorporano e che li spinge verso Dio, l’attrattore supremo, che agisce sul mondo dall’esterno del mondo. L’istinto che incorpora porta inevitabilmente ogni essere al fine stabilito da Dio per lui. Ma nell’uomo, come negli angeli, esiste il libero arbitrio (o la libertà di scelta), che può spingere verso beni terreni e quindi a mancare al fine. E l’uomo se ne av- vale (come, prima di lui, gli angeli, che si ribellarono a Dio e che furono cacciati dai cieli). L’uomo lo ha fatto nel paradiso terrestre (la disobbedienza di Ada- mo ed Eva) e tende a farlo costantemente. La pro- pensione umana verso i beni mondani appare più vol- te nel corso del poema. Uno di momenti più intensi è Pd XI, 1-12 (gli uomini – i laici come gli ecclesiastici – passano il tempo a caccia dei beni mondani, mentre il poeta si prepara sa salire al cielo). 8.1. Nelle tre cantiche Dante arricchisce in più modi questa concezione dell’universo: riferisce il suo viag- gio alle stagioni dell’anno, ai pianeti, alle stelle e alle costellazioni, ne indica le sfere cristalline (dove giun- gono le anime del paradiso per incontrare il poeta), si addentra in complicate descrizioni astronomiche. E usa il sole, la Luna e le stelle per indicare lo splendo- re, la bellezza o qualche altra caratteristica degli spi- riti che incontra. Gli occhi di Beatrice splendevano più delle stelle (If II, 55), Beatrice è il sole che per primo gli riscaldò il petto (Pd III, 1), Francesco d’Assisi è un sole (Pd XI, 50). 9. Secondo la Chiesa, e il poeta concorda, Dio ha creato l’uomo libero di scegliere, poiché soltanto se è libero di scegliere è responsabile delle sue azioni e quindi acquista merito per le azioni e per le opere in- traprese. La libertà di scelta però è sia libertà di sce- gliere il bene, sia libertà di scegliere il male. L’uomo è meritevole quando sceglie il bene; è condannabile quando sceglie il male. La volontà umana però è at- tratta dai beni terreni, che promettono una felicità che poi non mantengono. E l’uomo ha una propensione verso di essi (alla quale spesso non sa resistere) da quando la sua volontà è stata indebolita dal peccato originale. 10. Al tempo di Dante la fisica spiegava la caduta dei gravi con la teoria dei luoghi naturali: un corpo pe- sante cade verso il basso, perché questo è il suo luo- go naturale; ugualmente, la fiamma di una torcia va verso l’alto, perché quello è il suo luogo naturale. Gli elementi naturali erano quattro ed erano abbinati: terra e acqua, aria e fuoco. Questa teoria si collegava con la teoria geocentrica: la terra è al centro dell’uni- verso, il sole e tutti i pianeti le girano intorno; la terra è soggetta al divenire, il cielo è immutabile. La sfera della Luna fa da spartiacque. Perciò la teoria eliocen- trica di N. Copernico (1543), ripresa poi da G. Gali- lei (1609), ha un carattere rivoluzionario: distrugge l’universo sorto con Aristotele (386-323 a.C.) e in- corporato nella visione cristiana del mondo elaborata da Tommaso d’Aquino (1225-1274), divenuta poi la visione ufficiale della Chiesa cattolica. 11. Il canto termina con Dante che fissa gli occhi ver- so il viso luminoso di Beatrice. Questa soluzione è adoperata più volte nel corso dell’ultima cantica. Il poeta si sprofonda negli occhi della donna e prova un anticipo di ciò che proverà sprofondandosi nell’es- senza divina. Nei canti iniziali il poeta aveva usato reiterati svenimenti (If III, 135; V, 142). 12. Paradossalmente Dante anticipa la fisica classica: Dio pervade tutto l’universo, la forza di gravità di Newton farà poi lo stesso… La struttura del canto è semplice: 1) il poeta invoca Apollo e le muse, per portare a termine l’ultima fati- ca; quindi 2) chiede spiegazione a Beatrice della mu- sica celeste che ode; 3) Beatrice risponde che il suo- no è prodotto dalle sfere celesti e che stanno andando verso il cielo più veloci della folgore; 4) il poeta chiede allora come può egli, che è anima e corpo, andare verso l’alto; 5) Beatrice può così descrivere l’ordine che pervade tutto l’universo: Dio ha posto in ogni essere un istinto che lo spinge al suo fine; 6) il fine dell’uomo è quello di andare verso l’alto, perciò il poeta non si deve meravigliare, se è giunto in cielo. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 10 Questi organi del mondo così vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di sù prendono e di sotto fanno. 121 Riguarda bene omai sì com’io vado per questo loco al vero che disiri, sì che poi sappi sol tener lo guado. 124 Lo moto e la virtù d’i santi giri, come dal fabbro l’arte del martello, da’ beati motor convien che spiri; 127 e ‘l ciel cui tanti lumi fanno bello, de la mente profonda che lui volve prende l’image e fassene suggello. 130 E come l’alma dentro a vostra polve per differenti membra e conformate a diverse potenze si risolve, 133 così l’intelligenza sua bontate multiplicata per le stelle spiega, girando sé sovra sua unitate. 136 Virtù diversa fa diversa lega col prezioso corpo ch’ella avviva, nel qual, sì come vita in voi, si lega. 139 Per la natura lieta onde deriva, la virtù mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva. 142 Da essa vien ciò che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa è formal principio che produce, 145 conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro”. 148 121. Questi organi del mondo (=cieli) vanno, come ormai vedi, di grado in grado: prendono dal cielo su- periore e influiscono sul cielo inferiore. 124. Guarda bene ormai come io vado per questo luogo (=ragio- namento) al vero che tu desideri, così che tu poi sap- pia passare il guado (=continuare il mio ragionamen- to) da solo. 127. Il moto e la virtù [attiva] delle sante sfere, come [deriva] dal fabbro l’arte del martello, deve spirare dai beati motori. 130. E il cielo che è abbellito da tante luci (=il cielo delle Stelle Fisse) ri- ceve l’immagine e si fa suggello di quell’intelligenza profonda (=i Cherubini), che lo fa girare. 133. E, come l’anima, che è dentro alla vostra polvere (=cor- po), si esprime per [mezzo di] membra differenti e ordinate a facoltà diverse (=i sensi), 136. così l’intel- ligenza [motrice dei Cherubini] dispiega il suo influs- so, reso molteplice per [mezzo del]le stelle, facendo ruotare se stessa [ma mantenendo] la sua unità. 139. La diversa virtù [dei Cherubini] si unisce in modi di- versi con il prezioso (=incorruttibile) corpo [celeste], che ella ravviva, nel quale si lega come la vita in noi. 142. Per la natura lieta, da cui deriva, la virtù [attiva dei Cherubini] mescolata al corpo celeste riluce come la letizia [dell’animo] nella pupilla dell’occhio. 145. Da questa [virtù mista], non dal denso e dal raro, proviene ciò che appare differente fra una stella e un’altra: essa è il principio formale, che produce, 148. secondo la sua capacità, l’oscuro e il chiaro». I personaggi Minerva è sorella di Giove e simbolo della sapienza. Gli Argonauti, cioè i marinai della nave Argo, si spingono nella Colchide, per impadronirsi del vello d’oro. Essi si stupiscono, quando vedono Giasone, il loro capo, aggiogare due buoi dalle corna di ferro, arare un campo e seminarvi denti di serpente, per portare a termine l’impresa. Dai denti nascono uomi- ni armati. La fonte di Dante è Ovidio, Metam. VII, 100 sgg. Caino è figlio di Adamo e di Eva, i progenitori del- l’umanità (Gn 4, 1-16). Uccide per invidia il fratello Abele, che sacrificava a Dio i prodotti e gli animali migliori. Dio gli chiede dov’è suo fratello. Egli ri- sponde che non è responsabile di suo fratello. Dio allora lo punisce segnandolo. Nel Medio Evo si pen- sa che la Luna abbia impressa l’immagine di Caino con una corona di spine, per ricordare agli uomini quell’antico fatto di sangue e spingerli ad un compor- tamento di solidarietà. Dante rifiuta questa credenza popolare sulle macchie lunari e propone un’interpre- tazione in sintonia con la fisica del suo tempo. I Cherubini sono la schiera angelica più elevata. Le schiere angeliche sono nove e sono ordinate in una gerarchia: Cherubini, Serafini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli, Angeli. Dante tratta degli angeli (creazione, natura, divisioni ecc.) in Convivio, II, v, e in Pd XXVII-XXIX. Commento 1. Dante invita il lettore a seguirlo da vicino, perché, se perde la sua scia, non è più capace di proseguire. Egli stesso nella selva oscura dubitava di avere le capacità d’intraprendere il viaggio nell’al di là (If II, 10-12), e Virgilio lo rimprovera: «S’io ho ben la tua parola intesa», Rispuosemi del magnanimo quell’om- bra, «L’anima tua è da viltade offesa; La qual molte fiate l’omo ingombra Sì che d’onrata impresa lo rivolve» («Se ho ben capito le tue parole» rispose l’ombra di quel grande, «la tua anima è offesa da vil- tà, la quale molte volte impedisce l’uomo, così che lo distoglie da un’impresa onorata») (vv. 43-47). Ora è rinfrancato dal lungo viaggio percorso e dal controllo che nel corso della composizione delle prime due cantiche è riuscito ad avere sui suoi strumenti espres- sivi. 2. I piccoli artifici di retorica adoperati agli inizi dell’Inferno, come l’allitterazione «Ahi, quanto a dir qual era è cosa dura Esta selva selvaggia e aspra e forte Che nel pensier rinova la paura!» (If I, 4-6), ce- dono ora il posto a versi capaci di trasmettere sensa- zioni ed immagini al di là della parola: «Poca favilla gran fiamma seconda» (Pd I, 34), «Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce...» (Pd I, 43-44) o «Tra- sumanar significar per verba non si poria» (Pd I, 70- 71). Il tripudio per i risultati ottenuti emerge fin dagli inizi di Pd II, che rimanda sia e soprattutto agli inizi di Pd I, 1-9, dove il poeta parla della gloria di Dio che pervade tutto l’universo, sia alla lunga invoca- zione ad Apollo di Pd I, 13-36, che sùbito dopo se- gue. Nel séguito Dante riesce a trasformare le parole in puro movimento ed in pura luce. Ad esempio la danza circolare degli spiriti amanti (Pd VIII, 16-30) o la gioia di Cacciaguida per l’incontro con il poeta (Pd XV, 28-36). Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 11 3. La spiegazione delle macchie lunari mostra che cosa la scienza medioevale intendeva per spiegazione di un fatto naturale: l’osservazione del fenomeno e il suo inserimento in un contesto più vasto, in questo caso l’universo. Nella spiegazione erano coinvolti i principi primi e il loro influsso sul fatto naturale che doveva essere spiegato. Le spiegazioni che Dante po- ne in bocca a se stesso e che fa confutare da Beatrice sono esempi di spiegazioni limitate perché parziali. Il coinvolgimento dei principi primi era inevitabile: tut- to proviene da essi e tutto ritorna ad essi. E ogni fatto trova la sua spiegazione in rapporto ad essi e in rap- porto al contesto più vasto in cui è inserito. Il princi- pio primo supremo è lo stesso Dio, che interviene nell’universo attraverso i suoi ministri, ad esempio gli angeli che imprimono movimento ai cieli. Dietro questa teoria della spiegazione sta la teoria aristoteli- ca delle cause (causa materiale, formale, efficiente e finale), ma anche la convinzione, comune al pensiero greco e a quello cristiano, che l’universo sia estre- mamente piccolo e fatto a misura d’uomo. Questa convinzione era ancora più forte nel Medio Evo, per il quale Dio non imprimeva soltanto il movimento al mondo (come il Dio di Aristotele), ma lo aveva an- che creato con un atto d’amore e si preoccupava co- stantemente di esso e degli uomini. 3.1. Liquidare la spiegazione dantesca delle macchie lunari dicendo che per la scienza di oggi essa è sba- gliata o dicendo, un po’ più sensatamente, che quella era la scienza medioevale, significa non capire né che cosa è la scienza né quali sono i limiti di ogni teoriz- zazione. Il lettore deve mettersi dal punto di vista di Dante e del lettore medioevale, per i quali quella spiegazione delle macchie lunari costituiva le frontie- re ultime e più rivoluzionarie della scienza del tempo. E deve tenere presente che la scienza, in ogni epoca, è ricerca, è tensione verso teorie più profonde, più complesse, più unificanti; non è mai una verità acqui- sita una volta per tutte (come pretendeva Kant o co- me voleva Comte) e trasformata in dogma, in so- stituzione dei dogmi religiosi. La scienza è un succe- dersi di teorie, che gli scienziati successivi dichiarano più vere delle precedenti senza il rischio di poter es- sere smentiti. E in teoria dovrebbe essere o dovrebbe succedere che le nuove teorie sono più vere e più va- ste delle precedenti. Ma spesso si deve aggiungere: che in vari modi i gruppi di ricerca o i gruppi scienti- fici più forti impongono alla più vasta comunità scientifica, che le fa sue. Ma sull’onestà intellettuale degli scienziati non si deve mai giurare, anche se essi passano il tempo a dire che le loro idee, diversamente dalle altre categorie di individui, sono scientifica- mente dimostrate ed oggettive. Anch’essi pensano bene di tirar acqua al loro mulino, soprattutto se la ricerca scientifica può (e ormai deve) lucrare di e- normi finanziamenti per poter essere svolta e se i suoi risultati o le sue applicazioni possono avere (e nor- malmente hanno) un valore economico sterminato. 3.2. Sul carattere storico della scienza insiste Galilei, che contrappone le verità mutevoli della scienza alle verità immutabili della teologia. Non si deve dimen- ticare però che i risultati successivi sono stati ottenuti perché gli scienziati successivi hanno avuto le capaci- tà di partire dai risultati acquisiti e di andare oltre. L’immagine illuministica che il presente si può para- gonare a un nano che monta sulle spalle di un gigante e perciò vede più lontano, può rendere bene la situa- zione, anche se la storia non è rettilinea e progressiva, come essi interessatamente credevano. 4. L’esposizione dell’ordine dell’universo (Pd I), la spiegazione delle macchie lunari (Pd II), poi il pro- blema della felicità dei beati (Pd III), il problema dell’ereditarietà (Pd VIII) ecc. mostrano che per Dan- te nessun ambito del sapere si sottrae alla poesia. Nelle due cantiche precedenti aveva dato grande spa- zio alla poesia del paesaggio e dei fenomeni naturali. Ad esempio le fiamme che cadono come la neve (If XIV, 28-30), le fiammelle che riempiono e rendono tutta splendente l’ottava bolgia (If XXVI, 25-33), il diavolo che scatena un temporale (Pg V, 103-129). Alla fine della cantica trasforma in poesia anche l’esperienza ineffabile della visione di Dio (Pd XXXIII, 67-145). 5. L’universo medioevale è costituito da tante sfere concentriche, ognuna delle quali è mossa da un mo- tore angelico. I fisici del Medio Evo prendono da A- ristotele la concezione dell’universo come costituito da 53 o 57 sfere eccentriche, cristalline e trasparenti, sulle quali erano incastonati i pianeti, che così non cadevano gli uni sugli altri. Peraltro danno un aspetto visibile, materiale, ai motori che imprimono il mo- vimento ai cieli: angeli, arcangeli ecc. La sfera più esterna, il Motore Immobile in Aristotele, il Dio Cre- atore nella visione cristiana, imprime alle sfere sotto- stanti il movimento del fine, cioè tutte le cose si muovono verso di Lui perché attratte da Lui. 5.1. Il punto cruciale della visione aristotelica dell’u- niverso è la teoria del movimento: un corpo è mosso da sé o da un altro corpo. Nell’esperienza concreta si vedono soltanto corpi che sono mossi da altri corpi. Perciò, poiché non si può procedere all’infinito nella ricerca del corpo che imprime movimento agli altri corpi, ci deve essere un motore primo (o iniziale) che imprime il movimento a tutti gli altri e che non riceve il movimento da alcun altro. Questo motore primo, che dà movimento a tutto l’universo, non ha movi- mento in sé ed è immateriale, è il Motore Immobile, cioè Dio. 5.2. La teoria del movimento mostra che la fisica ari- stotelica e medioevale parla soltanto di moto assoluto e non ammette la possibilità che un corpo abbia di per sé un movimento. La fisica che nasce con G. Ga- lilei (1564-1642) parla invece di moto relativo a un sistema di riferimento e introduce il principio di rela- tività: un corpo si muove o resta fermo in relazione a un qualsiasi sistema inerziale di coordinate spaziali. Quindi parla di corpi che restano nel loro stato di quiete o di moto e introduce il principio d’inerzia: un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto ret- tilineo ed uniforme finché una forza esterna non vie- ne a turbare tale stato. 6. La Luna gode di uno stato giuridico particolare: divide in due parti l’universo, quello di sopra e quel- lo di sotto. Il mondo sopra la Luna è immutabile ed Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 12 eterno. Il mondo sotto la Luna è invece corruttibile. La terra appartiene totalmente a questo secondo mondo. Mondo della corruzione o, meglio, usando la terminologia aristotelica, della generazione e della corruzione, significa mondo di ciò che è e che non è, mondo del contingente, mondo del divenire, mondo di ciò che trapassa da uno stato ad un altro stato. L’osservazione scientifica mostrava che i cieli sono immutabili e che la terra era mutevole. Le stelle ca- denti non s’inserivano facilmente in questa interpre- tazione dell’universo, perciò esse erano interpretate come riflessi luminosi sulla volta celeste. E tutto gi- rava intorno alla terra. Quando G. Galilei (1609-10) annuncia che le macchie lunari sono montagne, che esistono corpi celesti che girano non intorno alla ter- ra, ma intorno a Giove, che in cielo è un numero di stelle molto più grande di quello che si vede ad oc- chio nudo, incomincia la fine dell’astronomia aristo- telico-tolemaica e della visione aristotelico-tomistica del mondo. Crolla una visione del mondo durata qua- si duemila anni (340 a.C.-1610 d.C.). Galilei abban- dona la logica medioevale e usa un nuovo metodo, il metodo matematico-sperimentale, che combina in modo efficace matematica ed esperimento. La Chiesa sente il pericolo (nel 1517 Lutero le aeva sottratto l’Europa centrale): le nuove idee fanno crollare dalle radici il sapere tradizionale. E si oppone come può, prima minacciando e poi imprigionando lo scienziato pisano. Ma inutilmente. La rivoluzione scientifica si diffonde, ma... non fa crollare niente. Né fa cambiare la vita di alcuno, né dei nobili, né del clero, né degli scienziati, né del popolo. I marinai invece, muniti di sestante, si spostano con più sicurezza sulle onde del mare e possono osare viaggi più lunghi. 7. Questo canto di contenuto scientifico e metodo- logico va collegato ad altri canti del poema, almeno a Pg III, 31-39 (ambiti e limiti della ragione umana), Pg V, 103-123 (teoria della formazione dei tempora- li), Pg IV, 124-132 (teoria della verità). Pg III, 31- 39, va poi integrato con If XXVI, il canto di Ulisse: l’eroe greco sfida l’oceano, per andare ad esplorare il mondo disabitato. Dopo cinque mesi di navigazione vede una montagna altissima. Egli e i suoi compagni esultano. Ma presto la gioia si trasforma in pianto, perché dalla montagna sorge un turbine che affonda la nave. La metafora è evidente: Ulisse, che è vivo e che non è stato battezzato, non può scendere sulle spiagge della montagna del purgatorio. 8. La spiegazione delle macchie lunari segue quella dell’ordine dell’universo e precede quella dell’ere- ditarietà (Pd VIII, 85-148). Gli altri canti trattano problemi teologici: se i beati della Luna sono meno felici dei beati più vicini a Dio (III, 58-90), la distin- zione tra volontà assoluta e volontà relativa (IV, 64- 117), il problema se i voti possono essere mutati (V, 1-63), il problema se la redenzione umana poteva av- venire soltanto attraverso la passione e la morte di Gesù Cristo sulla croce (VII, 25-120). Problemi di fisica e problemi dottrinari sono intercalati e trattati estesamente: la terza cantica richiede argomenti di- versi, più elevati di quelli trattati nelle altre cantiche. Richiede anche un tono diverso e un rapporto più di- staccato con quest’«aiuola che ci fa tanto feroci» (Pd XXII, 151), da cui ormai il poeta si sta allontanando. 9. Il canto non è certamente uno dei più apprezzati: il poeta mette in versi una questione scientifica e una dimostrazione secondo la scienza del suo tempo. In realtà non si deve guardare in questo modo il canto. Si deve guardare da un altro punto di vista: il punto unitario da cui il poeta parte per scrivere tutta l’opera, cioè la tesi che nulla e nessun ambito del sa- pere come della realtà può e deve sottrarsi alla poesi- a. 10. Il canto rimanda agli altri canti che affrontano questioni scientifiche: il sorgere del temporale (Pg V), la formazione del copo nel grembo materno (Pg XXV), l’ordine dell’universo (Pd II), la teoria della ereditarietà (Pd VIII) ecc. La struttura del canto è semplice: 1) Dante invita il lettore a seguirlo da vicino, altrimenti corre il rischio di perdersi; 2) Dante e Beatrice corrono veloci verso il cielo della Luna; 3) il poeta chiede la causa delle macchie lunari, escludendo l’interpretazione popolare che si tratti del viso di Caino; 4) Beatrice confuta al- cune ipotesi avanzate dal poeta, quindi dà la risposta corretta: 5) esse dipendono dal modo in cui le intelli- genze motrici dei cieli si uniscono con i corpi celesti. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 15 Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave, Maria’ cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. 121 La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, 124 e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgorò nel mio sguardo sì che da prima il viso non sofferse; 127 e ciò mi fece a dimandar più tardo. 130 121. Così mi parlò, poi cominciò a cantare l’Ave Ma- ria, e cantando svanì come per acqua cupa svanisce una cosa pesante. 124. La mia vista, che la seguì tan- to quanto fu possibile, dopo che la perse si rivolse all’oggetto di maggior desiderio (=Beatrice) 127. e si concentrò totalmente in lei. Ma quella sfolgorò tanto nel mio sguardo, che da principio i miei occhi non ressero [il suo fulgore]. 130. E ciò mi fece più lento a domandare. I personaggi Narciso è un giovane bellissimo, di cui parla la mito- logia greca. Specchiandosi nell’acqua, s’innamora della propria immagine, cade nell’acqua e muore. Gli dei lo trasformano nel fiore che porta il suo nome. La fonte di Dante è Ovidio, Metam. VI, 407-510. Piccarda Donati (seconda metà del sec. XIII) è fi- glia di Simone e sorella di Corso e di Forese. Si fa suora nel convento delle clarisse di Monticelli, presso Firenze. Il fratello Corso la fa rapire per darla in mo- glie a Rossellino della Tosa, suo compagno di parti- to. Di lei non si sa altro. Dante è imparentato con la famiglia Donati, poiché la moglie Gemma è figlia di Manetto Donati. Chiara d’Assisi (1194-1253) appartiene a una nobile famiglia di Assisi. È poco più giovane di Francesco d’Assisi, ed è da lui amata e a lui devota. Fonda l’ordine monacale delle clarisse, che s’ispira ai valori francescani di povertà, carità, umiltà, castità e sem- plicità. Costanza d’Altavilla (1154-1198) è figlia di Rugge- ro II di Sicilia. Sposa l’imperatore Enrico VI di Sve- via (1186), a cui porta in dote la Sicilia. È madre di Federico II (1194-1250), messo tra gli eretici (If X, 119). Dante riprende una leggenda, tendente a scredi- tare il partito imperiale, secondo cui è sottratta al chiostro e costretta a sposare Enrico VI. Commento 1. Dante incontra la prima schiera di anime nel cielo della Luna. Esse sono così diafane, che egli pensa di averle alle spalle e si volta (vv. 7-24). Le anime han- no perso completamente il loro aspetto materiale e sono divenute pura luce, puri spiriti. Lo stesso vale per le anime che incontra proseguendo il viaggio in paradiso. Il poeta ha saputo caratterizzare in modo semplice ed efficace l’atmosfera e le anime dei tre regni oltremondani: l’oscurità dell’inferno, la concre- tezza della materia, la deformazione fisica e spiritua- le, l’egoismo dei dannati; la luce primaverile del pur- gatorio, la speranza, la coralità delle anime purganti; la luce del paradiso, l’immaterialità delle anime, che hanno quasi completamente perso il loro antico a- spetto, la loro partecipazione e la loro totale comu- nione alla vita divina. 2. Piccarda Donati si avvicina a Dante ed è sollecita a rispondere alle domande del poeta. Essa ricorda an- cora la sua scelta di vivere ritirata nel convento e la violenza che subisce ad opera del fratello Corso, che la fa rapire per darla in sposa ad un compagno di partito. Ma quella violenza subìta in vita è ormai lontana, è divenuta un pallido ricordo, che non la fe- risce più. Ora prova la beatitudine di vivere in comu- nione con Dio e con gli altri beati. Questa beatitudine ripaga ampiamente delle sofferenze provate quan- d’era sulla terra: la nuova bellezza, che ha acquistato in cielo, la rende irriconoscibile al poeta. Alla fine del canto ella svanisce cantando l’Ave Maria. 2.1. Il canto fa parte della serie dei canti abbinati: ri- manda a Pg XXIV, dove il poeta incontra Forese Donati, il fratello di Piccarda. In quell’incontro si parla anche della donna, di cui si dice che è già in cielo. Si parla anche di Corso Donati, di cui si antici- pa la fine all’inferno, dove è trascinato da un cavallo- demonio. Si tratta di una anticipazione, che provoca curiosità e attesa nel lettore. Altri canti abbinati sono quello di Ulisse e Guido da Montefeltro, due fraudo- lenti tra loro molto diversi (If XXVI e XXVII); quel- lo di Guido da Montefeltro (If XXVII) e del figlio Bonconte (Pg V) ecc. 3. Nel canto il poeta affronta un difficile problema teologico: le anime sono beate nel cielo in cui si tro- vano oppure vorrebbero salire in un cielo più elevato, per essere più vicine a Dio (vv. 64-87)? La risposta, data da Piccarda, è che la beatitudine delle anime consiste nell’essere concordi alla volontà di Dio, per- ché ciò che Egli ha deciso è giusto: «E ‘n la (=nel far la) sua volontà è nostra pace» (v. 85). Beatrice resta silenziosa per tutto il canto; ricompare soltanto alla fine, più luminosa che mai. 4. La storia di Piccarda è racchiusa in soli 12 versi (vv. 97-108). È breve come la storia dell’anonimo fiorentino, morto suicida (If XIII, 139-151), o come la storia di Pia de’ Tolomei (Pg V, 130-142). La pra- tica della sintesi caratterizza l’opera fin da If I, 1: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...». I «pochi versi» hanno un impatto particolarmente efficace e potente nella memoria del lettore: vi s’imprimono in modo permanente. La loro efficacia è poi accentuata dal fatto che si dispiegano nella terzina, in quell’in- volucro e in quella catena che è la terzina dantesca. 5. Piccarda si esprime poi in un verso che dice e non dice, ma allude: «Iddio si sa qual poi mia vita fusi» (v. 108). Proprio come le parole del conte Ugolino della Gherardesca: «Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno» (If XXXIII, 75), che costituiscono il caso più potente ed efficace di allusione di tutta la Divina commedia. E spingono il lettore a chiedersi se il di- giuno ha ucciso il conte o se lo ha spinto a cibarsi dei suoi figli. Piccarda, sia per pudore sia per non rinno- vare l’antico dolore, allude soltanto alle sofferenze Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 16 della sua vita fuori del convento. Il lettore allora si attiva, e immagina. Sarebbe rimasto passivo, se l’anima avesse fatto l’elenco delle sue sofferenze. E Piccarda sarebbe stata noiosa e prosaica se le avesse esposte. Dante è entrato nella psicologia della donna come del lettore: ciò a cui si allude e ciò che si im- magina colpisce molto di più di ciò che si vede. 5.1. Accanto alle forme di allusione linguistica si collocano le forme di allusione di tipo profetico, co- me quella del Veltro (If I, 100-111) o le profezie sul futuro del poeta che costellano le prime due cantiche. Un caso particolare di allusione è il riassunto: il poeta dice in due parole quel che vuol fare conoscere, per impedire che acquisti importanza a spese di qual- cos’altro: riassume il suo viaggio a Brunetto Latini, l’antico maestro (If XV, 46-54), e a Catone, il guar- diano del purgatorio (Pg I, 58-65), e riassume in soli 13 versi il viaggio di uscita dall’inferno (If XXXIV, 127-139). Dante sa che le cose soltanto accennate hanno un impatto emotivo molto più intenso delle cose dette esplicitamente. E vi ricorre consapevol- mente. Ad esempio la profezia di Farinata (If X, 121- 132) o la richiesta a Cacciaguida di chiarire le profe- zie che gli sono state dette (Pd XV, 106-120). 6. Dante fa presentare Costanza d’Altavilla a Piccar- da. Era ricorso più volte a questo espediente: ad e- sempio Virgilio parla delle anime dei lussuriosi (If V, 52-72), frate Alberigo dei Manfredi parla prima di se stesso e poi di Branca Doria (If XXXIII, 136- 147), Oderisi da Gubbio parla prima di se stesso e poi di Provenzan Salvani (Pg XI, 118-142). In ségui- to l’imperatore Giustiniano parla prima dell’impero e poi di Romeo di Villanova (Pd VI, 127-142). In questo modo evita la monotonia di un dialogo conti- nuo tra lui e il personaggio incontrato. 7. Il canto è pieno di donne: Beatrice che accompa- gna il poeta, Piccarda che parla con lui e che gli parla di Costanza d’Altavilla. L’atmosfera è nobile e rare- fatta. Ognuna di esse ha una storia personale alle spalle. E la gioia del cielo non rende meno dramma- tica la vita e la violenza subìta sulla terra da Piccarda come da Costanza. In If II, 52-126, Virgilio gli aveva parlato delle tre donne del cielo – la Vergine Maria, santa Lucia e Beatrice – che si erano rivolte a lui, per invitarlo ad andare in aiuto al poeta che si era smarri- to nella selva oscura. Tre è un numero perfetto, ma è anche il numero che sul piano narrativo istituisce di- namismo al canto, a un episodio, a un racconto. 8. Come Piccarda, anche Guido da Montefeltro alla fine del dialogo si allontana da Dante (If XXVII, 130-132). La donna però è tripudiante di gioia, Gui- do invece è ancora bruciato per essersi fatto inganna- re dal papa Bonifacio VIII, che gli aveva chiesto un consiglio fraudolento. Lo stesso comportamento è inserito in due contesti diversi. Dante quindi riprende e modifica un modulo narrativo già sperimentato. Il poeta era ricorso a questa soluzione fin dai primi can- ti: lo svenimento di If III, 133-136, e V, 139-142, è inserito in contesti diversi che gli fanno assumere si- gnificati diversi. 9. Come in altri canti, il poeta affronta una questione teologica, filosofica e scientifica, a cui accosta una questione di tipo diverso, in genere la storia dell’anima che ha davanti. In questo caso il canto ha questa struttura narrativa: Piccarda parla di una que- stione teologica (se le anime della Luna desiderano essere più vicine a Dio); poi parla della sua vita; e infine parla di un’altra anima, Costanza d’Altavilla. Il collegamento è costituito dal fatto che le due anime non hanno rispettato i voti, perché rapite dal conven- to in cui si erano ritirate. Nei canti dell’Inferno que- sta struttura è più scoperta. 10. La scelta di Dante di mettere Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla nel cielo della Luna acquista un senso pregnante se si tiene presente che pone nel cie- lo di Venere – un cielo per un certo verso più alto – le anime di Cunizza da Romano e di Raab. La prima non sapeva mai dire di no a chi chiedeva con cortesi- a; la seconda faceva la prostituta e con retto senso degli affari si concedeva ad amici e nemici e non provava disgusto a fare la spia: vende agli ebrei i suoi concittadini in cambio di avere salva la vita lei e i suoi clienti. Il suo merito? Favorì la venuta di Cristo e Cristo, riconoscente, andò a prelevarla nel limbo per portarla nel cielo di Venere. O degli spiriti aman- ti. 11. Le due donne rimandano a tutte le altre donne che il poeta incontra nel corso del viaggio: donne che finiscono all’inferno (Semiramide, Elena, Didone, Feancesca e Paolo, Taidè ecc.), donne che finiscono in Purgatorio (Pia de’ Tolomei, Sapìa da Siena ecc.) e donne che vanno in paradiso (Piccarda Donati, Co- stanza d’Altavilla, la ninfomane Cunizza da Romano, la prostituta Raab ecc.). E poi c’è Beatrice, matelda, la Vergine Maria… 12. Il canto procede nel canto successivo: il poeta ha due dubbi (qual è la sede dei beati; e perché le anime inadempienti ai voti devono purgarsi se hanno subìto violenza), a cui Beatrice risponde. Un terzo dubbio è rimandato nel canto successivo. Questa espansione di un canto in un altro richiama sia il canto di Capoc- chio e di maestro Adamo (If XXIX-XXX) sia il canto di Ugolino della Gherardesca (If XXXII-XXXIII). La struttura del canto è semplice: 1) Dante incontra Piccarda Donati; 2) Piccarda dice che il cielo acco- glie le anime di coloro che non hanno adempiuto i voti e che la felicità di tutte le anime consiste nel conformarsi alla volontà di Dio; 3) l’anima poi rac- conta del voto che non ha compiuto (è stata rapita dal convento e costretta a sposarsi); 4) anche l’anima di Costanza d’Altavilla, vicina a lei, ha subìto la stessa violenza; infine 5) Piccarda, cantando l’Ave Maria, scompare. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 17 Canto IV Intra due cibi, distanti e moventi d’un modo, prima si morria di fame, che liber’omo l’un recasse ai denti; 1 sì si starebbe un agno intra due brame di fieri lupi, igualmente temendo; sì si starebbe un cane intra due dame: 4 per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo, da li miei dubbi d’un modo sospinto, poi ch’era necessario, né commendo. 7 Io mi tacea, ma ‘l mio disir dipinto m’era nel viso, e ‘l dimandar con ello, più caldo assai che per parlar distinto. 10 Fé sì Beatrice qual fé Daniello, Nabuccodonosor levando d’ira, che l’avea fatto ingiustamente fello; 13 e disse: “Io veggio ben come ti tira uno e altro disio, sì che tua cura sé stessa lega sì che fuor non spira. 16 Tu argomenti: “Se ‘l buon voler dura, la violenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?”. 19 Ancor di dubitar ti dà cagione parer tornarsi l’anime a le stelle, secondo la sentenza di Platone. 22 Queste son le question che nel tuo velle pontano igualmente; e però pria tratterò quella che più ha di felle. 25 D’i Serafin colui che più s’india, Moisè, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, 28 non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti che mo t’appariro, né hanno a l’esser lor più o meno anni; 31 ma tutti fanno bello il primo giro, e differentemente han dolce vita per sentir più e men l’etterno spiro. 34 Qui si mostraro, non perché sortita sia questa spera lor, ma per far segno de la celestial c’ha men salita. 37 Così parlar conviensi al vostro ingegno, però che solo da sensato apprende ciò che fa poscia d’intelletto degno. 40 Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio, e altro intende; 43 e Santa Chiesa con aspetto umano Gabriel e Michel vi rappresenta, e l’altro che Tobia rifece sano. 46 Quel che Timeo de l’anime argomenta non è simile a ciò che qui si vede, però che, come dice, par che senta. 49 Dice che l’alma a la sua stella riede, credendo quella quindi esser decisa quando natura per forma la diede; 52 e forse sua sentenza è d’altra guisa che la voce non suona, ed esser puote con intenzion da non esser derisa. 55 S’elli intende tornare a queste ruote l’onor de la influenza e ‘l biasmo, forse in alcun vero suo arco percuote. 58 1. Posto tra due cibi, nella stessa misura distanti e at- traenti, l’uomo, dotato di libero arbitrio, morirebbe di fame prima di mettere sotto i denti l’uno o l’altro. 4. Così starebbe un agnello tra due lupi feroci ed affama- ti, temendo ugualmente [l’uno e l’altro]; così starebbe un cane da caccia tra due daini. 7. Pertanto, se io tace- vo, non mi rimprovero né mi elogio, poiché ero sospin- to nella stessa misura dai miei dubbi e perciò ero ne- cessitato (=non avevo possibilità di scelta). 10. Io tace- vo, ma il mio desiderio era dipinto nel viso, e con esso la mia domanda, molto più esplicita che se l’avessi formulata con le parole. 13. Beatrice fece [con me] quello che fece il profeta Daniele, liberando Nabucco- donosor dall’ira, che lo aveva reso ingiustamente cru- dele; 16. e disse: «Io vedo bene come l’uno e l’altro desiderio ti trascinano, tanto che la tua preoccupazione ostacola se stessa a tal punto che non spira fuori [di bocca]. 19. Tu argomenti [in questo modo]: “Se la buona volontà perdura, per quale motivo la violenza altrui mi fa diminuire la misura del merito?”. 22. Anco- ra ti dà motivo di dubitare il fatto che le anime sembra- no tornare alle stelle, secondo l’affermazione di Plato- ne. 25. Queste sono le questioni che premono con u- guale forza sulla tua volontà, perciò tratterò prima quella che contiene più veleno [nei confronti della dot- trina cristiana]. 28. Quello dei Serafini che sta più vici- no a Dio, Mosè, Samuele e quello dei due Giovanni (=il Battista e l’Evangelista) che vuoi prendere, io dico, non [esclusa nemmeno] la Vergine Maria, 31. non han- no le loro sedi in un cielo diverso da quello di questi spiriti che or ora ti sono apparsi, né in questa loro bea- titudine restano un numero maggiore o minore di anni; 34. ma tutti abbelliscono [con la loro presenza] il pri- mo cielo (=l’empìreo) e godono della loro vita beata in misura diversa, secondo la loro capacità di sentire più o meno intensamente [l’ardore di carità che] lo Spirito Santo [desta in loro]. 37. Qui (=nel cielo della Luna) esse si mostrarono, non perché sia data loro in sorte questa sfera, ma per dare a te un segno concreto della sfera celeste che ha meno salita (=che è più lontana dall’empìreo). 40. Così conviene (=è necessario) parla- re al vostro ingegno, perché soltanto dai segni sensibili esso apprende ciò che poi fa degno di [conoscenza per] l’intelletto. 43. Per questo scopo la Sacra Scrittura si adatta alle vostre capacità intellettuali, e attribuisce a Dio piedi e mani, e intende altro (=la realtà spirituale); 46. e la Santa Chiesa vi rappresenta con l’aspetto uma- no l’arcangelo Gabriele e Michele, e quell’altro che guarì Tobia. 49. Quello che nel Timeo Platone afferma sulle anime non corrisponde a ciò che qui si vede, poi- ché pare che egli intenda [letteralmente] quel che dice. 52. Dice che l’anima ritorna alla sua stella e crede che essa sia stata strappata da qui quando la natura la diede [ad un corpo] come forma [vitale]. 55. Ma forse la sua affermazione è diversa da quello che le parole dicono e può contendere un’idea niente affatto ridicola. 58. Se egli intende che a queste ruote [dei cieli] vanno fatti ri- salire il merito e il demerito degli influssi [buoni o cat- tivi degli astri sugli uomini], forse il suo arco colpisce in parte la verità. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 20 Commento 1. Il canto è il canto dei dubbi: due dubbi, due rispo- ste e un chiarimento, e un terzo dubbio che avrà ri- sposta soltanto nel canto successivo. Dante si allon- tana dalla realtà concreta dell’inferno, dimentica la realtà concreta della sua vita e passa o si rifugia nel mondo delle questioni scientifiche o teologiche. Si stacca dalla realtà. Il viaggio è un itinerarium mentis in Deum. Egli insiste sul dubbio, poi però vuole dare al dubbio una risposta che sia possibilmente la rispo- sta definitiva. Ma la risposta è stata formulata dopo attenta riflessione e tenendo conto di tante variabili e di tante possibilità. Alle spalle c’è la mente possente di Tommaso d’Aquino, che su ogni questione (o pro- blema) cercava le varie risposte (o le varie soluzioni), le esaminava e poi elaborava una risposta che tenesse conto di tutte le obiezioni. In questo modo è salvato non soltanto l’atteggiamento curioso, aperto e pro- blematico nei confronti della realtà, ma anche il mo- mento conclusivo, quello in cui si devono tirare le somme. Non si può passare il tempo a dubitare e sol- tanto a dubitare. Un René Descartes (1596-1650), che insiste sul dubbio e che, per dimostrarsi origina- le, lo trasforma in dubbio iperbolico (peraltro soltan- to apparente), dimostra che sta copiando roba altrui, vecchia di tre secoli. Dimostra di essere incapace di apportarvi un contributo originale (porta all’eccesso quel che trova). Dimostra che non ha capito e per due motivi il dubbio dei pensatori medioevali: a) il dub- bio deve spingere a fare quel lavoro di ricerca e quel- la formulazione di ipotesi, che portano poi alla scelta dell’ipotesi vera o dell’ipotesi preferibile, e cioè alla soluzione del dubbio; e b) dal dubbio si deve andare oltre, fuori del dubbio, ma in modo genuino, non in modo capzioso. Usare il dubbio per dimostrare l’esistenza del soggetto dubitante – dubito, ergo sum – è pura follia. Significa ritenere credibili le fandonie del barone di Münchhausen, che frena la caduta dalla Luna sulla Terra afferrandosi per il colletto della giacca. 1.1. In Pd IV, 118-138, Dante dimostra una consape- volezza ancora maggiore del significato metodologi- co del dubbio e del fatto che si debba uscire assolu- tamente dal dubbio, per giungere ad una verità preci- sa e dimostrata: la ricerca va di colle in colle e poi si ferma sulla vetta più alta. 2. «Posto tra due cibi... Così un agnello... Così un cane da caccia...». Poi c’è la conclusione: allo stesso modo si trovava il poeta tra due dubbi, che gli sem- bravano di uguale gravità e di uguale importanza. Ed egli non sapeva decidersi da quale iniziare per do- mandare spiegazioni a Beatrice. L’inizio del canto ripete per tre volte un complesso problema di logica medioevale che normalmente va sotto il nome di A- sino di Buridano. Buridano era un logico che aveva un asino. Per dimostrare un principio di logica, il principio di ragion sufficiente (o di indecidibilità), prese l’asino e lo mise davanti a due mucchi di fieno, perfettamente uguali e alla stessa distanza. La tesi era che l’asino non aveva nessun motivo per scegliere il primo o il secondo, avrebbe girato il capo dal primo al secondo e dal secondo al primo, finché sarebbe morto di fame. Alla fine il logico perdeva l’asino ma dimostrava la sua tesi: anche l’animale agisce in base al principio di ragion sufficiente. Contento lui di aver perso l’asino... 2.1.Che cosa diceva questo principio? Diceva che niente può esistere, accadere o essere vero, se non vi è un motivo sufficiente affinché esso sia così e non diversamente. Questa è la formulazione posteriore di Gottlieb W. Leibniz (1646-1716), il maggiore o forse l’unico continuatore della logica medioevale in epoca moderna. Insomma anche l’asino deve avere un mo- tivo che lo spinga in una direzione, verso un mucchio di fieno, o in un’altra, verso l’altro mucchio. Questo principio è di fondamentale importanza nella teoria della decisione: davanti a più soluzioni quale solu- zione si deve scegliere e in base a quali motivazioni (o a quali giustificazioni)? O anche: che cosa si deve fare quando non c’è alcun motivo per preferire una soluzione a un’altra? Sono problemi che coinvolgono anche la realtà spicciola di ogni giorno. Dante riesce a trasformare in alta poesia anche una fredda que- stione di logica! 3. Il poeta propone un’interpretazione della Bibbia – ma è l’interpretazione ufficiale della Chiesa – che sa- rà ben accolta anche in séguito (vv. 43-48): Dio è rappresentato con mani e piedi, altrimenti il credente non riuscirebbe a farsene un’adeguata rappresenta- zione. Essa sarà fatta propria da G. Galilei nella lette- ra sulla corretta interpretazione della Bibbia inviata alla granduchessa Maria Cristina di Lorena (1614). Galilei però incontra notevoli resistenze quando pro- pone la tesi che la Bibbia contiene verità di fede e non di scienza (E precisa: le verità di fede, una volta individuate dai teologi, non subiscono più modifiche; invece le verità di scienza sono storiche, cioè posso- no mutare, si trovano nel gran libro della natura e sono scritte in caratteri matematici). La cosa non a- vrebbe scandalizzato un lettore medioevale, per il quale i testi andavano normalmente letti secondo i quattro sensi delle scritture (letterale, allegorico, mo- rale e anagogico). In questo modo veniva addolcito il nucleo duro del pensiero antico. Dante dà subito do- po un saggio di interpretazione morbida del pensiero antico (vv. 49-69). Dietro di lui sta la mente possente di Tommaso d’Aquino, che sulle varie questioni rac- coglieva tutte le soluzioni e poi le reinterpretava per fare emergere il nucleo di verità ed eliminare le parti accessorie. In tal modo salva il patrimonio del passa- to (ed evita le fratture) e non si preclude l’apertura al futuro (perché attua una rivoluzione strisciante). Nes- sun pensatore è stato più di lui rivoluzionario e con- servatore. Galilei invece vuole troncare di netto con il passato, perciò provoca l’immediata e inevitabile reazione della Chiesa, che lo processa e lo costringe all’abiura. La posizione della Chiesa, sempre la stes- sa di secolo in secolo, è comprensibile e ragionevole: le tesi divergenti – quelle scientifiche come quelle eretiche – provocano conflitti sociali. Per evitare i conflitti e i danni conseguenti, la soluzione migliore è reprimere. Reprimere e nello stesso tempo recupera- re le tesi dell’avversario: il gesuita Roberto Bellar- mino (1542-1621) stava reinterpretando la teoria co- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 21 pernicana nei termini di comoda ipotesi matematica... Machiavelli era del tutto d’accordo: tra due mali (uc- cidere qualche pistoiese o avere una sanguinosa guer- ra civile) si deve scegliere sempre il minore (Princi- pe, XVII, 1). 4. Il primo dubbio (vv. 28-39) è un’idea originale del poeta: i beati abbandonano la loro sede celeste, per venire ad incontrarlo. In questo modo il paradiso vie- ne un po’ movimentato e soprattutto il poeta acquista importanza: egli va da Dio, i beati vanno da lui, che è un personaggio importante. È il terzo uomo, dopo Enea e san Paolo, che va in cielo ancor vivo. La Ma- donna non fa testo, perché è la madre di Dio... Nell’affrontare questo problema ha la possibilità di citare Platone, rettificarne le tesi o migliorarne l’in- terpretazione. E sostenere la dottrina ortodossa sul- l’origine delle anime: sono create direttamente da Dio. Per un cristiano il difetto maggiore delle teorie o dei testi platonici è che sono di un’estrema sugge- stione e bellezza ed è difficilissimo resistere al loro fascino. Oltre a ciò molte idee platoniche potevano fare concorrenza al pensiero aristotelico. Ad esempio la teoria della conoscenza, la teoria delle idee, l’importanza della matematica, il molto più moderato razionalismo ecc. Il pensiero cristiano molto salomo- nicamente si è nutrito dell’uno (Agostino) e dell’altro (Tommaso d’Aquino). 4.1. Affrontando il dubbio, il poeta ha la possibilità di descrivere l’ordinamento morale del paradiso (vv. 28-41). Dell’ordinamento dell’inferno Virgilio aveva parlato in If XI, 16-111; dell’ordinamento del purga- torio aveva parlato in Pg XVII, 85-139. 5. Platone nel Timeo sostiene la tesi che le anime vi- vevano nell’iperuranio, cioè oltre il cielo. Da qui so- no precipitate e si sono incorporate in un corpo. Il trauma della nascita ha fatto in genere loro dimenti- care la vita e le conoscenze precedenti. Esse però de- siderano inconsciamente ritornare al cielo da cui sono precipitate. Intanto qui sulla terra esse vivono dentro la prigione del corpo, dal quale soltanto la morte le potrà liberare. Dante cerca d’interpretare Platone in senso cristiano: le anime non discendono dal cielo, sono create da Dio sulla terra e risentono degli influs- si celesti. È il consueto aggiustamento per recuperare in ambito cristiano la cultura antica. 6. Il secondo dubbio (vv. 70-117) è un grave pro- blema teologico ed anche giuridico: che cosa vuol dire resistere alla violenza? Piccarda Donati e Co- stanza d’Altavilla hanno o non hanno resistito alla violenza? O, altrimenti, hanno o non hanno in qual- che modo favorito l’aggressore? Sono o non sono corresponsabili con la violenza subita? La risposta di Dante va valutata non per un unico aspetto (ad esem- pio quello che insiste sulla complicità del violentato con il violentatore), ma tenendo presente tutti gli a- spetti. La risposta è questa: «Esse hanno subìto vio- lenza e sono state strappate dal chiostro. Però è anche vero che, una volta finita questa violenza, esse non hanno fatto nulla per ritornare nel chiostro. Eppure niente glielo impediva. Dunque a questo punto si so- no rese complici del violentatore. Indubbiamente hanno ceduto per evitare un male o conseguenze più gravi. Ma questa motivazione non le sottrae all’ac- cusa di complicità. Esse dovevano comportarsi come la fiamma del fuoco, che va sempre verso l’alto, no- nostante tutti i tentativi per farla andare verso il bas- so. Insomma dovevano avere la stessa forza di volon- tà di Muzio Scevola, che punì con il fuoco il suo braccio, o del diacono Lorenzo, che si fece abbrusto- lire dall’una e dall’altra parte. Indubbiamente – con- tinua il poeta – questi esempi di volontà sono eroici e rarissimi, ma la conclusione non cambia: esiste com- plicità perché non c’è stata una totale e assoluta resi- stenza alla violenza». La conclusione è stata conse- guita esaminando il fatto nella sua complessità e nella successione delle azioni, cioè con una teorizzazione molto complessa. Strada facendo il poeta è giunto anche a chiarire un altro concetto: la distinzione tra volontà assoluta e volontà condizionata. E, attri- buendo alle due donne una volontà condizionata, umanizza il loro comportamento, cioè mostra che è consapevole che così succede e succederà sempre nella realtà. E che egli ad ogni modo non può arren- dersi alla realtà: anche la teoria ha le sue esigenze e la sua importanza. E bisogna salvare l’inevitabile in- transigenza dei principi; e comprendere – essere in- dulgenti con – quanto succede a livello umano nella realtà. I primi non possono ammettere eccezioni, per- ché le eccezioni distruggono i principi. Insomma un giusto equilibrio tra teoria e prassi, intransigenza sul piano dei principi e comprensione su quella della vi- ta, anche se di primo acchito sembra che il poeta fac- cia di tutta l’erba un fascio e riduca la colpa del vio- lentatore e aumenti quella del violentato. 6.1. I due casi di Muzio Scevola e del diacono Lo- renzo non sono particolarmente pertinenti Le due donne subiscono dall’esterno violenza e poi si trova- no nella situazione di ritornare in convento, cosa che non fanno, sentendo su di loro la minaccia della vio- lenza. Muzio Scevola invece infligge a se stesso vio- lenza, per punire la sua mano che aveva sbagliato (in realtà era stata la sua ragione a sbagliare) e resiste al- la violenza che egli stesso sta facendo a se stesso. Il diacono Lorenzo sta ormai subendo violenza. Poteva sottrarsi alla violenza prima di finire sulla graticola, se abiurava la sua fede davanti a una minaccia così terribile, cosa che non ha fatto: non ha ceduto alle minacce. A parte tutto questo, quel che conta è che sia il primo sia il secondo abbiano dimostrato una vo- lontà assoluta, un’assoluta determinazione davanti alla violenza che subivano. 6.2. Quest’apparente intransigenza teorica rivela un grande acume nel poeta: c’è un ampio territorio sco- nosciuto e inesplorabile, nel quale il violentato si può trincerare e giustificare: «Ho ceduto, perché non po- tevo resistere alla violenza; dunque io non sono col- pevole». Dante pone l’accento proprio su questo ter- ritorio, si chiede e ci chiede: quanto deve resistere il violentato alla violenza? E risponde: finché la violen- za è in atto, deve cedere alla violenza; quando la vio- lenza non è più in atto, deve sùbito reagire. La correi- tà – non deve sfuggire – non riguarda il primo mo- mento (perciò non è necessario diventare dei Muzio Scevola); riguarda il secondo momento. Il fatto è che Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 22 psicologicamente il lettore o il giudice fonde e con- fonde i due momenti, poiché per definizione e per reazione normale il violentato suscita sempre la soli- darietà, la compassione e la comprensione del pub- blico che viene a conoscere la violenza che ha subìto. La giustificazione che il violentato non poteva resi- stere alla violenza può quindi essere effettivamente una giustificazione di comodo, per riversare la colpa sul violentatore (l’opinione comune sarebbe dalla parte del violentato) e per nascondere una insuffi- ciente resistenza al male e alla violenza. Per evitare questo facile, possibile e comodo lassismo, il poeta diventa apparentemente intransigente: si deve resiste- re alla violenza come vi hanno resistito Muzio Scevo- la e il diacono Lorenzo o, meglio, ci si deve compor- tare come si comporta il fuoco. I due esempi risulta- no immediatamente eccessivi allo stesso poeta (in- credibili e leggendari per noi), che commenta: i casi di questa volontà assoluta sono rarissimi. Ma proprio questo loro carattere estremo mostra che essi sono proposti come modello assoluto, intransigente e idea- le di comportamento. 6.3. L’attenzione alla complessità della realtà e alla molteplicità delle reazioni dell’animo umano emerge in particolare nell’osservazione psicologica messa in bocca a Piccarda secondo cui Costanza non ha mai dimenticato nel cuore il velo monacale: «Ma poi che pur al mondo fu rivolta Contra a suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciol- ta» (vv. 115-117). Altrove aveva detto: «Sta come torre ferma, che non crolla Già mai la cima per sof- fiar di venti» (Pg V, 14-15). Ma nel corso del poema egli stesso dà molti esempi di titubanza, incertezza e violenza. L’animo umano è debole... 6.4. Il secondo dubbio potrebbe essere benissimo portato come esempio di teoria complessa capace di spiegare una realtà complessa, corretto comporta- mento scientifico, modello di comportamento didat- tico, corretto comportamento da parte di un giudice, straordinaria fusone tra logica astratta (o logica giuri- dica o modello didattico) e poesia. Eppure esso pre- senta alla radice qualcosa di più importante. Ciò che conta per l’individuo è certamente quel che l’indi- viduo subisce dal mondo esterno e quel che l’indi- viduo fa subire al mondo esterno. Ma il punto di vi- sta dell’individuo non è unico e non è assoluto. Esi- stono altri, infiniti altri punti di vista. Ad esempio può esistere il punto di vista della Curia romana (e, al suo interno, del papa), esiste il punto di vista dell’Impero (e al suo interno di questo o di quel se- gretario, di Pier delle Vigne o dei suoi accusatori). Sono tutti punti di vista importanti, soprattutto per i diretti interessati, ma sono tutti punti di vista parziali, che in quanto tali il poeta non può fare suoi. Esiste un punto di vista più generale, che il poeta tende co- stantemente a fare suo: non per niente è grande di- scepolo di Tommaso d’Aquino. Questo punto di vi- sta è il punto di vista della società; e la società, alme- no per Dante, non è qualcosa di teorico e di astratto, è l’insieme dei socii, in relazione ai quali esiste un bene comune. Resistendo con più determinazione al- la violenza, Piccarda o Costanza avrebbero operato meglio in direzione del bene comune, avrebbero dato il loro contributo affinché si realizzasse il bene co- mune. Avrebbero contribuito alla lotta contro la vio- lenza. L’individuo è sì importante, ma il bene comu- ne, il giusto bene di tutti gli individui che compon- gono la società, è in tutti i sensi molto più importan- te. Anche qui emerge quel giudizio complesso che il poeta aveva applicato fin dagli inizi al caso di Fran- cesca e Paolo. Il bene di un individuo è inferiore al bene di molti individui, cioè della società. Un discor- so ovvio e ragionevolissimo, basato su una matema- tica elementare, che in tempi moderni è stato avvolto da ragionamenti nebbiosi, parlando di individuo da una parte e di società astratta (o ipostatizzata) dal- l’altra. In tal modo era possibile contrapporre e sce- gliere il bene dell’individuo, perché tanto dall’altra parte non c’era niente, non c’era la moltitudine di al- tri individui, c’era soltanto una parola vuota o un concetto astratto. E la ferma volontà di fare gli inte- ressi piccoli, egoistici e antisociali dell’individuo e di danneggiare la società, cioè l’insieme di tutti gli altri individui. Questo indubbiamente è un grande risulta- to e un grande progresso del pensiero moderno e del pensiero laico, rispetto all’oscurantismo del pensiero medioevale! 6.5. A questo punto si può capire e valutare meglio il «velo del cuore» di Costanza: la fedeltà al voto (o, meglio, alla decisione presa, alla promessa fatta), che si vive dentro il cuore è senz’altro importante, ma è importante soltanto per l’individuo, non per la socie- tà: la società non avverte nessun effetto, nessun bene- ficio, nessuna diminuzione della violenza causata da questo atteggiamento interiore. E il bene della società è il bene maggiore, perché è il bene di molti indivi- dui. Per la società è importante che l’individuo non rubi, non che l’individuo non abbia intenzione di ru- bare. Il giudice e la società valutano e si preoccupano delle azioni, non delle intenzioni. Chi sposta il di- scorso sulle intenzioni, sulla riparazione di un danno mediante le intenzioni, sulla giustificazione di un de- litto perché alle spalle c’erano magari buone inten- zioni agisce contro il bene della società e vuole sol- tanto difendere gli interessi antisociali dell’individuo. Chi ha rubato, ha rubato; non si può dire: è stato l’ambiente sociale a spingerlo a rubare, quindi chi ruba non può essere punito, perché responsabile è l’ambiente sociale (che in ogni caso, anche se colpe- vole, non può essere punito). E così la colpa c’è, ma nessuno è colpevole, nessuno è punito (o bloccato nelle sue attività criminali), i crimini aumentano e la moltitudine degli individui è danneggiata. 6.6. La stessa cosa vale per Francesca: certamente un amante come Paolo era per lei più piacevole del ma- rito, che era frigido e le preferiva i tornei e la caccia al falcone. Ma il politico, il credente non possono preoccuparsi dei piaceri individuali, devono pensare ai molti, alla società, al bene di tutti. Da questo punto di vista la scelta della donna è da condannare. Poi anche le altre donne si comportano così, poi anche i mariti (che già tradiscono le mogli) aumentano i tra- dimenti, e la società cade nel disordine. Bisogna stroncare il male fin sul nascere ed evitare che si dif- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 25 Canto VI “Poscia che Costantin l’aquila volse contr’al corso del ciel, ch’ella seguio dietro a l’antico che Lavina tolse, 1 cento e cent’anni e più l’uccel di Dio ne lo stremo d’Europa si ritenne, vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; 4 e sotto l’ombra de le sacre penne governò ‘l mondo lì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne. 7 Cesare fui e son Iustiniano, che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano. 10 E prima ch’io a l’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento; 13 ma ‘l benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizzò con le parole sue. 16 Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede era, vegg’io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. 19 Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi; 22 e al mio Belisar commendai l’armi, cui la destra del ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. 25 Or qui a la question prima s’appunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, 28 perché tu veggi con quanta ragione si move contr’al sacrosanto segno e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone. 31 Vedi quanta virtù l’ha fatto degno di reverenza; e cominciò da l’ora che Pallante morì per darli regno. 34 Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. 37 E sai ch’el fé dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. 40 Sai quel ch’el fé portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; 43 onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi ebber la fama che volontier mirro. 46 Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi che di retro ad Annibale passaro l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. 49 Sott’esso giovanetti triunfaro Scipïone e Pompeo; e a quel colle sotto ‘l qual tu nascesti parve amaro. 52 Poi, presso al tempo che tutto ‘l ciel volle redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. 55 E quel che fé da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna e ogne valle onde Rodano è pieno. 58 1. «Dopo che Costantino volse l’aquila imperiale contro il corso del cielo (=spostò la capitale dell’im- pero da Roma a Bisanzio), che essa aveva seguiìto dietro l’antico (=Enea), che sposò Lavinia, 4. per più di duecento anni l’uccello di Dio rimase nella parte estrema dell’Europa, vicino ai monti, dai quali in o- rigine uscì. 7. E sotto l’ombra (=tutela) delle sacre penne di lì governò il mondo, passando di mano in mano (=da un imperatore all’altro) e, cambiando co- sì, giunse nella mia mano. 10. Fui Cesare (=impera- tore) e son Giustiniano. E, per volere del primo amo- re (=lo Spirito Santo) che io sento, tolsi dalle leggi il troppo ed il vano. 13. Prima che all’opera [legislati- va] fossi intento, credevo che in Cristo ci fosse un’unica natura, non di più, e di questa fede ero con- tento. 16. Ma il benedetto Agàpito, che fu sommo pastore (=papa), con le sue parole mi raddrizzò verso la vera fede. 19. Io gli credetti. E, ciò che era nella sua fede, io vedo ora così chiaro, come si vede che ogni contraddizione ha un termine falso e l’altro ve- ro. 22. Non appena mossi i piedi con la Chiesa [nella vera fede], a Dio per grazia piacque d’ispirarmi il grande lavoro, e mi dedicai tutto ad esso. 25. Affidai le armi (=il comando dell’esercito) a Belisario, al quale il favore del cielo fu così congiunto, che fu se- gno che io dovessi distogliermi [da quel compito]. 28. Ora qui, alla prima domanda, si conclude la mia risposta. Ma la natura di essa mi costringe a far se- guire qualche aggiunta, 31. affinché tu veda con quanta ragione (=a torto; detto in senso ironico) si muovano contro il sacrosanto segno [dell’impero] sia il ghibellino, che se ne appropria [per interessi di par- te], sia il guelfo, che si oppone ad esso. 34. Conside- ra quanto valore [degli antichi romani] l’ha reso de- gno di rispetto, a cominciare dal momento in cui Pal- lante morì per dargli il regno. 37. Tu sai che esso fe- ce ad Albalonga la sua dimora per trecento anni ed oltre, finché i tre [albani] e i tre [romani] combatte- rono ancora per esso. 40. E tu sai che cosa fece, dal rapimento delle sabine (=da Romolo) al doloroso ol- traggio di Lucrezia (=a Tarquinio il Superbo), ad o- pera dei sette re, che vinsero tutt’intorno le genti vi- cine. 43. Sai quel che fece, [quando fu] portato dai grandissimi romani [nelle guerre] contro Brenno, contro Pirro, contro gli altri prìncipi e contro i gover- ni collegiali (=le repubbliche). 46. Per queste [guerre] Manlio Torquato e Lucio Quinzio, che dai riccioli trascurati fu chiamato Cincinnato, i Decii ed i Fabii ebbero la fama, che io volentieri onoro. 49. Esso at- terrò l’orgoglio degli arabi (=Cartagine), che dietro ad Annibale passarono le Alpi, dalle quali, o Po, tu discendi. 52. Sotto di esso, ancor giovanetti, ottenne- ro il trionfo [militare] Scipione l’Africano e Pompeo Magno; e a quel colle [di Fiesole], sotto il quale tu nascesti, esso apparve amaro (=perché la città fu di- strutta). 55. Poi, avvicinandosi il tempo in cui il cielo volle ricondurre tutto il mondo ad una pace simile alla sua, Cesare lo impugnò per volere di Roma. 58. E quel, che esso fece dal Varo fino al Reno (=la con- quista della Gallia) [nelle mani di Cesare], videro l’Isère, la Loira e la Senna e ogni valle, delle cui ac- que il Rodano è pieno. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 26 Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna e saltò Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua né penna. 61 Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. 64 Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e là dov’Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. 67 Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. 70 Di quel che fé col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne l’inferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. 73 Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. 76 Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. 79 Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch’a lui soggiace, 82 diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; 85 ché la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, gloria di far vendetta a la sua ira. 88 Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. 91 E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. 94 Omai puoi giudicar di quei cotali ch’io accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. 97 L’uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e l’altro appropria quello a parte, sì ch’è forte a veder chi più si falli. 100 Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sott’altro segno; ché mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte; 103 e non l’abbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli ch’a più alto leon trasser lo vello. 106 Molte fiate già pianser li figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli! 109 Questa picciola stella si correda di buoni spirti che son stati attivi perché onore e fama li succeda: 112 e quando li disiri poggian quivi, sì disviando, pur convien che i raggi del vero amore in sù poggin men vivi. 115 Ma nel commensurar d’i nostri gaggi col merto è parte di nostra letizia, perché non li vedem minor né maggi. 118 61. Quel che fece, dopo che [con Cesare] uscì da Ra- venna e passò il Rubicone, fu opera così vasta ed e- stesa, che non la seguirebbero né la lingua né la pen- na. 64. Esso rivolse l’esercito [di Cesare] verso la Spagna, poi verso Durazzo e colpì così duramente a Fàrsalo, che [persino] sul caldo Nilo (=in Egitto) si sentì del dolore (=l’uccisione di Pompeo Magno). 67. Esso rivide [la città di] Antandro e il [fiume] Si- meonta, da dove [con Enea] si mosse, e il luogo in cui Ettore giace [sepolto]. E poi si scosse (=riprese il volo) con danno di Tolomeo [che perse il regno d’Egitto]. 70. Dall’Egitto scese veloce come una fol- gore su Giuba [re della Mauritania], quindi volse nel vostro occidente, dove sentiva la tromba di guerra dei pompeiani. 73. Di quel, che fece con l’imperatore seguente (=Ottaviano Augusto), Bruto è testimone con Cassio all’inferno, e Modena e Perugia furono dolenti. 76. Ne piange ancora la trista Cleopatra, che, fuggendogli davanti, prese la morte immediata e a- troce dal serpente velenoso. 79. Con costui corse fino al Mar Rosso; con costui pose il mondo in tanta pace, che fu chiuso il tempio di Giano. 82. Ma ciò che il segno, che mi fa parlare, aveva fatto prima e che a- vrebbe fatto poi per la società umana, che è sottopo- sta ad esso, 85. appare di poco conto e oscuro (=sen- za gloria), se si guarda con l’occhio chiaro e con il cuore libero [da passioni ciò che fece] in mano al ter- zo imperatore (=Tiberio), 88. perché la giustizia [sempre] viva, che m’ispira, gli concesse, in mano a quel che io dico (=Tiberio), la gloria di fare [giusta] vendetta alla sua ira [per il peccato originale]. 91. Ora qui meravìgliati di ciò che ripeto: dopo, con Ti- to, corse a far [giusta] vendetta della vendetta del peccato antico. 94. E, quando il dente longobardo morse la santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno vincendo la soccorse. 97. Ormai puoi giudicare di quelli, che io accusai più sopra, e dei loro errori, che sono la causa di tutti i vostri mali. 100. I guelfi op- pongono i gigli gialli [di Francia] al simbolo dell’im- pero; i ghibellini si appropriano di quel simbolo [per farne un simbolo] di partito, così che è difficile vede- re chi sbaglia di più. 103. Facciano i ghibellini, fac- ciano la loro attività [politica] sotto un altro segno, perché segue sempre male quel segno colui che lo separa dalla giustizia. 106. E non l’abbatta questo nuovo re Carlo II d’Angiò con i suoi guelfi, ma abbia timore degli artigli, che tolsero l’orgoglio a leoni (=sovrani) più potenti. 109. Molte volte già piansero i figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio cambi le armi (=il simbolo dell’impero) con i suoi gigli! 112. Questa piccola stella (=Mercurio) si ador- na dei buoni spiriti, che sono stati attivi e che perciò hanno lasciato onore e fama sulla terra. 115. Quando i desideri poggiano qui, deviando così [da Dio], allo- ra i raggi del vero amore devono rivolgersi meno in- tensi verso l’alto. 118. Ma una parte della nostra leti- zia consiste nel veder commisurate le ricompense con il merito, perché non le vediamo né minori né mag- giori. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 27 Quindi addolcisce la viva giustizia in noi l’affetto sì, che non si puote torcer già mai ad alcuna nequizia. 121 Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. 124 E dentro a la presente margarita luce la luce di Romeo, di cui fu l’ovra grande e bella mal gradita. 127 Ma i Provenzai che fecer contra lui non hanno riso; e però mal cammina qual si fa danno del ben fare altrui. 130 Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, Ramondo Beringhiere, e ciò li fece Romeo, persona umìle e peregrina. 133 E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegnò sette e cinque per diece, 136 indi partissi povero e vetusto; e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, 139 assai lo loda, e più lo loderebbe”. 142 121. Così la viva giustizia [di Dio] addolcisce il de- siderio [di beatitudine], tanto che non può mai essere volto ad alcun atteggiamento d’invidia. 124. Voci di- verse fanno dolci note, così diversi gradi [di beatitu- dine] nella nostra condizione producono una dolce armonia tra questi cieli. 127. E dentro questa mar- gherita (=Mercurio) risplende la luce di Romeo di Villanova, del quale l’opera grande e bella fu mal gradita. 130. Ma i baroni di Provenza, che operarono contro di lui [calunniandolo], non hanno riso, [poiché caddero sotto gli angioini]. Perciò cammina (=agisce) male chi considera dannoso [per sé] il ben fare degli altri. 133. Quattro figlie ebbe [il conte] Raimondo Berengario, e ciascuna divenne regina. Ciò gli fece (=gli fu ottenuto da) Romeo, persona umile e stranie- ra. 136. E poi le parole ingiuste [dei cortigiani invi- diosi] lo spinsero a chiedere i conti a questo giusto, che gli consegnò sette più cinque al posto di dieci. 139. Quindi se ne partì povero e vecchio. E, se il mondo sapesse la forza d’animo che egli ebbe nel mendicare la sua vita a tozzo a tozzo, 142. molto lo loda, e di più lo loderebbe.» I personaggi Flavio Valerio Costantino il Grande (280-337) è im- peratore dal 306. Con l’editto di Milano (213) pone fine alle persecuzioni contro i cristiani, concede loro la libertà religiosa ed anzi fa del cristianesimo la reli- gione di Stato. Partecipa personalmente al concilio di Nicea (325) e reprime con ferocia l’eresia donatista. Nel 326 sposta la capitale dell’Impero da Roma a Bi- sanzio, poi Costantinopoli (oggi Istanbul). Trasforma l’Impero romano in romano-cristiano, e la monarchia in potere assoluto di origine divina. Si converte al cristianesimo poco prima di morire. Dante lo colloca nel cielo di Giove (Pd XX, 55-60), ma lo ritiene re- sponsabile di aver spostato la capitale contr’al corso del ciel e di aver donato al papa la città di Roma e i territori circostanti, dando inizio al potere temporale della Chiesa (If XIX, 115-117). Giustiniano (482-565) diventa imperatore dell’im- pero romano d’oriente nel 527. Grazie a valenti col- laboratori riforma l’amministrazione statale e riorga- nizza l’esercito. Riconquista l’Africa ai vandali (532- 34); l’Italia agli ostrogoti (535-53); e parte della Spa- gna ai visigoti (554). La guerra greco-gotica provoca gravi distruzioni nella penisola. L’Italia è conquistata, ma resta soltanto per pochi anni sotto l’impero d’o- riente: nel 569 la parte settentrionale è conquistata dai longobardi, che si spingono anche verso i territori pontifici. Fa costruire la basilica di Santa Sofia a Co- stantinopoli, di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. La sua opera maggiore è il Corpus juris civilis justinianei (529-534), che raccoglie e ri- sistema in un corpo omogeneo tutte le leggi e i senato consulti romani. Pallante, Romolo, Tarquinio, Orazi e Curiazi, C. Giulio Cesare, Ottaviano Augusto ecc. sono i per- sonaggi più significativi della storia di Roma. Cleopatra, regina d’Egitto, si allea con Antonio con- tro Ottaviano. Quando Ottaviano sconfigge Antonio, si suicida (30 a.C.). Carlo II d’Angiò (1285-1308) succede al padre Carlo I sul trono del regno di Napoli. Romeo di Villanova (1170ca.-1250) è ministro e gran siniscalco di Raimondo Beringhieri (o Berenga- rio) IV, ultimo duca di Provenza. Per il conte ricon- quista Nizza e soprattutto assicura matrimoni vantag- giosi alle quattro figlie, che sposano quattro sovrani: Luigi IX, re di Francia; Enrico III, re d’Inghilterra; Riccardo di Cornovaglia, re di Germania; Carlo I d’Angiò, re di Sicilia. L’ultima va in sposa a Carlo I d’Angiò, quando il conte è ormai morto. Al marito porta in dote la Provenza. Quella delle sue umili ori- gini e della vecchiaia vissuta in povertà è una leggen- da di poco posteriore alla sua morte. Commento 1. Il canto ha una struttura molto semplice: Giusti- niano traccia la storia dell’Impero, che si sviluppa sotto la supervisione della Provvidenza divina. Infine racconta la storia di Romeo di Villanova, che, calun- niato dai cortigiani presso il suo datore di lavoro, presenta il resoconto e se ne va a mendicare un pezzo di pane. La storia dell’Impero incomincia con Enea, che fugge da Troia. Ha l’inizio vero e proprio con Giulio Cesare ed Ottaviano Augusto, i fondatori dell’Impero. Ha un momento particolarmente signifi- cativo con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito e con la dispersione degli ebrei. Prosegue con l’infelice decisione dell’imperatore Costantino di spostare la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio. Riprende con Carlo Magno. E si conclude con l’in- vettiva dell’imperatore contro guelfi e ghibellini dei tempi di Dante. 1.1. La storia dell’Impero s’interseca però con la sto- ria della Chiesa, l’altra istituzione voluta da Dio: Ot- taviano Augusto fa chiudere il tempio di Giano poi- ché l’Impero è pacificato (è sottinteso che sotto di lui nasce Gesù Cristo); Tito punisce gli uccisori di Cri- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 30 egli non può conoscere né comprendere e che deve soltanto accettare. 8. Giustiniano, che è grande imperatore (quindi un politico di professione) ed anche grande giurista (ha raccolto le leggi e i decreti), è la figura più adatta per fare la storia dell’Impero e soprattutto per svolgere la funzione di giudice dei guelfi e dei ghibellini con- temporanei al poeta. La condanna degli uni come de- gli altri risulta più forte e più efficace. 9. Pd VI conclude i canti politici: quello dell’Inferno dedicato a Firenze, quello del Purgatorio dedicato all’Italia, questo dedicato all’Impero. Il poeta affron- ta i problemi dal piccolo al grande, dalla città comu- nale in cui è nato e vissuto, alla comunità più vasta che deve raccogliere tutte le popolazioni d’Europa. La situazione che gli appare sotto gli occhi è disa- strosa e richiede interventi radicali. Firenze è dilania- ta dalle lotte intestine tra i guelfi bianchi e i guelfi ne- ri (If VI, 58-87). L’Italia è ugualmente dilaniata dalle fazioni politiche, inoltre è sconvolta dalla Chiesa che invade il potere politico e dal potere politico che è lontano (Pg VI, 91-117). L’Impero ormai di fatto non esiste più: gli imperatori tedeschi hanno poco potere, poco prestigio, sono inetti o si occupano sol- tanto della Germania. Perciò il poeta ne fa la storia e mette in bocca a un grande imperatore del passato parole di durissima condanna verso i guelfi, che si schierano con la Francia contro l’Impero, e verso i ghibellini, che usano il simbolo imperiale per interes- si di parte (Pd VI, 97-111). L’idea di uno Stato uni- versale (che nella realtà è in crisi, aggredito dalla Chiesa e dagli Stati nazionali) resiste ed affascina il poeta, che vuole i cristiani uniti nella fede, ma anche uniti sotto le stesse insegne imperiali. E vuole l’imp- ero anche se vede le miserie delle corti: Pier delle Vigne è costretto a suicidarsi (If XIII, 58-75), Romeo di Villanova è costretto ad andarsene (Pd VI, 133- 142). Tuttavia il rinnovamento spirituale, sia politico sia religioso, è vicino: il poeta ritiene che questo sia la missione che gli è stata assegnata con il viaggio nell’oltretomba (Pd XVII, 100-142), che compie per terzo, dopo Enea e dopo san Paolo (If II, 10-36). 9.1. Il canto rimanda a un canto politico particolare, il canto L, cioè Pg XVI, il canto di Marco Lombardo, un personaggio che non ha lasciato notizie di sé. Marco, addolorato, si chiede: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» (v. 97); e quindi indica nella Chiesa che invade il potere politico e nel potere poli- tico che invade il potere spirituale la causa del disor- dine nella società: «Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo, Due soli aver, che l’una e l’altra strada Facean vedere, e del mondo e di Deo. L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada Col pasturale, e l’un con l’altro insieme Per viva forza mal convien che vada; Però che, giunti, l’un l’altro non teme: Se non mi credi, pon mente a la spiga, Ch’ogn’erba si conosce per lo seme» («Roma, che fece il mondo civile, era solita avere due soli, che facevano vedere l’una e l’altra strada, quella del mondo e quella di Dio. Un sole ha spento l’altro; ed è giunta la spada con il pastorale; ed il primo, [messo] insieme a viva forza con il se- condo, è destinato a procedere male, poiché, se sono riuniti [nella stessa persona], uno non teme più l’altro. Se non mi credi, poni mente alla spiga, poiché ogni erba si riconosce per le [caratteristiche del] seme [che l’ha generata]») (Pg XVI, 106-114). 9.2. La teoria qui esposta è detta teoria dei due soli. Essi sono il papa (il pastorale) e l’imperatore (la spa- da). Ognuno di essi indicava la strada specifica e guidava l’uomo. Tra loro non esisteva conflitto, per- ché ognuno stava al suo posto, non invadeva l’ambito dell’altro e svolgeva il suo compito. Ma – lamenta Marco Lombardo – il papato ha invaso l’ambito im- periale e non è bene che il papa abbia nelle sue mani il potere spirituale e quello temporale. Ciò è contro la natura e dà luogo ad arbitri. 9.3. L’invettiva, dolente, va messa insieme con il rimprovero che il poeta muove a Costantino: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, Non la tua conver- sion, ma quella dote (=Roma e i territori circostanti) Che da te prese il primo ricco patre!» («Ahi, o Co- stantino, di quanto male fu causa, non la tua conver- sione [al cristianesimo], ma quella dote che da te pre- se il primo ricco padre, papa Silvestro I!») (If XIX, 115-117). Una critica dello stesso tipo si trova nell’invettiva contro i signori d’Italia nei versi in cui il poeta se la prende con la Chiesa che ha invaso il potere civile: «Ahi gente che dovresti esser devota, E lasciar seder Cesare in la sella, Se bene intendi ciò che Dio ti nota, Guarda come esta fiera è fatta fella Per non esser corretta da li sproni, Poi che ponesti mano a la predella» («Ahi, o gente [di Chiesa], che dovresti esser devota e lasciar sedere Cesare (=l’im- peratore) sulla sella, se comprendi bene quello che Dio ti dice nel Vangelo, guarda come questa fiera (=il cavallo, cioè l’Italia) è divenuta ribelle, perché non è [più] guidata con gli sproni, dopo che tu impu- gnasti le briglie») (Pg VI, 91-96). 10. La storia dell’Impero qui delineata va confrontata con la storia delle quattro età dell’uomo delineata in If XIV, 94-120, e con la storia profetica della Chiesa delineata in Pg XXXII, 106-160. Le tre storie vanno lette simultaneamente e tra loro integrate. Sulla storia dell’umanità, che è storia di decadenza da una mitica età dell’oro alla corruzione del presente, il poeta proietta la storia della Chiesa e la storia dell’Impero, le due istituzioni che Dio ha suscitato per permettere all’uomo di conseguire la felicità terrena e quella ul- traterrena. 11. Il canto rimanda alla concerzione della storica professata dalla Chiesa o dal cristianesimo: la storia umana è storia di salvezza, dalla crezione del mondo e dei progenitori dell’umanità fino alla fine del mon- do e al giudizio universale; essa è retta dalla divina Provvidenza, poiché gli uomini da soli sono incapaci di raggiungere i fini stabiliti da Dio. Sulla falsariga di questa visione provvidenziale della storia il mondo laico costruisce la sua visione della storia. Copiare è più facile che creare. Per Vico la storia è paragonabi- le a una spirale: i momenti successivi riproducono ad un livello più elevato i momenti precedenti; la storia è quindi progresso, ma non lineare. Per gli illuministi (1730-1790) la storia è progresso continuo e inarre- stabile; in tal modo essi affermano come inarrestabile Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 31 e storicamente legittimo il dominio sociale della bor- ghesia. Per F.W. Hegel (1770-1831) la storia è il di- spiegarsi nel mondo dello Spirito Assoluto, una divi- nità laica che sostituiva la divinità del popolino igno- rante che credeva alle favole della religione. Per K. Marx (1818-1883), un giornalista di second’ordine che si spacciava per rivoluzionario e per economista, la storia era storia di lotte di classe, che si sarebbe conclusa con la conquista del potere politico da parte del proletariato e con l’istaurazione di una società senza classi. Insomma il paradiso laico in terra… A. Comte (1798-1857) era invece su posizioni scienti- ste: grazie alla sociologia l’uomo poteva realizzare il terzo stato della storia umana, quello positivo, dopo lo stato teologico e quello metafisico. Anche qui una storia ottimistica e progressiva. Ch. Darwin (1809- 1882) era invece a favore della selezione naturale e dell’affermazione del più adatto, che riguardavano sia le piante e gli animali, sia l’uomo. Come diceva Platone, l’uomo ha bisogno di favole per vivere. E che siano favole religiose o favole laiche, poco inpor- ta. Senza favole o, con linguaggio più elevato, senza speranza l’uomo percepirebbe la sua vita come vuota e senza senso. Resta i problema: il pensiero laico moderno, ammesso che esista, esisterebbe senza le grandi costruzioni filosofiche e teologiche inalzate dai pensatori cristiani? 12. Il canto ha la stessa struttura di If XXXIII: inizia in medias res (Giustiniano fa la storia dell’impero) e continua con argomenti attinenti (le critiche a guelfi e a ghibellini; e la storia edificante di Romeo di Villa- nova). Ugualmente If XXXIII inizia in medias res (il conte Ugolino della Gherardesca racconta la sua sto- ria) e continua con argomenti attinenti (l’invettiva contro i pisani; l’incontro con frate Alberigo dei Manfredi che racconta il suo tradimento e quello di Branca Doria; l’invettiva contro i genovesi). La struttura del canto è semplice: 1) l’imperatore Giustiniano tratteggia la storia dell’Impero da Enea a Giulio Cesare, da Ottaviano Augusto a Tiberio, a Carlo Magno; poi 2) critica i guelfi (che si oppongo- no all’Impero) e i ghibellini (che usano il simbolo dell’Impero per interessi di parte) dei tempi di Dante; infine 3) tesse l’elogio di Romeo di Villanova: ca- lunniato dai baroni, mostra al conte Raimondo Be- rengario di avere sposato le figlie a quattro sovrani e di avere aumentato il patrimonio; 4) poi lascia il con- te, per andare a vivere mendicando un tozzo di pane. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 32 Canto VIII Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; 1 per che non pur a lei faceano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche ne l’antico errore; 4 ma Dione onoravano e Cupido, quella per madre sua, questo per figlio, e dicean ch’el sedette in grembo a Dido; 7 e da costei ond’io principio piglio pigliavano il vocabol de la stella che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. 10 Io non m’accorsi del salire in ella; ma d’esservi entro mi fé assai fede la donna mia ch’i’ vidi far più bella. 13 E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quand’una è ferma e altra va e riede, 16 vid’io in essa luce altre lucerne muoversi in giro più e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne. 19 Di fredda nube non disceser venti, o visibili o no, tanto festini, che non paressero impediti e lenti 22 a chi avesse quei lumi divini veduti a noi venir, lasciando il giro pria cominciato in li alti Serafini; 25 e dentro a quei che più innanzi appariro sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi di riudir non fui sanza disiro. 28 Indi si fece l’un più presso a noi e solo incominciò: “Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. 31 Noi ci volgiam coi principi celesti d’un giro e d’un girare e d’una sete, ai quali tu del mondo già dicesti: 34 ‘Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete’; e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, non fia men dolce un poco di quiete”. 37 Poscia che li occhi miei si fuoro offerti a la mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di sé contenti e certi, 40 rivolsersi a la luce che promessa tanto s’avea, e “Deh, chi siete?” fue la voce mia di grande affetto impressa. 43 E quanta e quale vid’io lei far piùe per allegrezza nova che s’accrebbe, quando parlai, a l’allegrezze sue! 46 Così fatta, mi disse: “Il mondo m’ebbe giù poco tempo; e se più fosse stato, molto sarà di mal, che non sarebbe. 49 La mia letizia mi ti tien celato che mi raggia dintorno e mi nasconde quasi animal di sua seta fasciato. 52 Assai m’amasti, e avesti ben onde; che s’io fossi giù stato, io ti mostrava di mio amor più oltre che le fronde. 55 Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch’è misto con Sorga, per suo segnore a tempo m’aspettava, 58 1. Il mondo soleva credere con suo pericolo che la bella ciprigna (=Venere) irraggiasse il folle amore [dei sensi], girando nel terzo epiciclo (=cielo). 4. Perciò le genti antiche [avvolte] nell’antico errore non tributavano soltanto a lei l’onore di sacrifici e di preghiere votive, 7. ma onoravano anche Dióne e Cupìdo, quella come sua madre, questo come figlio. Dicevano che egli sedette in grembo a Didone; 10. e da costei, dalla quale io faccio iniziare [il mio canto], prendevano il nome della stella, che il sole vagheggia [standole] ora dietro (=alla sera) ora davanti (=al mattino). 13. Io non mi accorsi di salire in essa, ma d’esserci dentro mi fece assai fede la mia donna, che io vidi farsi più bella. 16. E, come in una fiamma si vede una scintilla e come in una voce si distingue la [seconda] voce, quando una è ferma e l’altra si alza e si abbassa [di nota], 19. così io vidi in quella luce [di Venere] altre luci (=i beati) muoversi in una danza circolare, correndo [chi] più e [chi] meno, secondo – io credo – la loro visione interiore [di Dio]. 22. Da una nuvola fredda non discesero vènti, visibili o invi- sibili, tanto rapidi, che non apparissero impediti e lenti 25. a chi avesse visto quelle luci divine venire a noi, interrompendo la danza circolare prima iniziata nel cielo dei Serafini (=l’empìreo). 28. Dentro a quel- le luci, che apparvero per prime, risuonava «Osan- na!», così che poi non fui mai senza (=ebbi sempre) il desiderio di riudirlo. 31. Quindi una luce (=Carlo Martello d’Angiò) si fece più vicina a noi e cominciò [a parlare] da sola: «Siamo tutti pronti a compiacerti, affinché tu gioisca di noi. 34. Noi ci muoviamo con i Principati in un unico giro, in un unico ritmo e in un’unica sete [di Dio]. Ad essi tu [quand’eri] nel mondo ti rivolgesti dicendo: 37. O voi, che con la sola forza dell’intelletto muovete il terzo cielo (=Venere). E siamo così pieni d’amore, che, per compiacerti, non sarà meno dolce un po’ di quiete». 40. Dopo che i miei occhi si volsero riverenti alla mia donna ed ella li fece contenti e sicuri della sua approvazione, 43. si rivolsero alla luce, che si era tanto promessa, e: «Deh, chi siete?» disse la mia vo- ce, improntata a grande affetto. 46. Io vidi l’anima farsi più grande e più splendente per la nuova alle- grezza che si aggiunse alla sua allegrezza, quando parlai! 49. Così divenuta, mi disse: «Il mondo mi eb- be giù per poco tempo; e, se questo tempo fosse stato maggiore, molto male non ci sarebbe. 52. La mia le- tizia mi tiene celato a te: m’irraggia intorno e mi na- sconde come il baco da seta fasciato dal bozzolo. 55. Mi amasti molto, e ne avesti bene il motivo, perché, se fossi stato giù (=sulla terra) [più a lungo], io ti mostravo del mio amore ben più che le foglie (=anche i frutti). 58. Quella riva sinistra, che è bagna- ta dal Rodano dopo che si è mescolato con la Sorga (=la Provenza meridionale), mi aspettava a suo tem- po come signore. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 35 suo mondo, anche se egli ne vede chiaramente i difet- ti e fa uso di parole dure nei confronti dei sovrani, compreso il fratello di Carlo Martello. Il fatto è che il poeta non ha mai tradito né ha mai voluto tradire le sue origini di appartenente alla piccola nobiltà, pur vedendo la vittoriosa avanzata delle arti minori, che escludono dal potere nobili e magnati e che negli Or- dinamenti di giustizia – riveduti – di Giano della Bella (1294) aprono soltanto un piccolo spiraglio alla piccola nobiltà decaduta, a condizione che s’iscriva ad un’arte. E di questa classe continua a professare i valori tradizionali come la liberalità e la prodezza, come risulta anche nell’incontro con Corrado Mala- spina (Pg VIII, 109-139), per quanto radicalmente contrastanti con il mondo degli affari e dell’econo- mia borghese, in rapidissima espansione. 3. Dante coglie il problema dell’ereditarietà e lo in- terpreta in un contesto provvidenziale: la Provviden- za – la natura attiva delle sfere celesti – manda sulla terra tutte le capacità di cui la società umana ha biso- gno per funzionare correttamente. E quindi ci sono le condizioni per una vita sociale giusta e ordinata. Nel- la realtà le cose però vanno male. Se ciò succede, la colpa è degli uomini, che non fanno un uso razionale delle risorse, cioè che piegano le risorse ad usi con- trastanti con quelli a cui sono predestinate. In Pd XV, 97-129, il poeta fa tratteggiare al trisavolo Caccia- guida la città ideale: la Firenze di due secoli prima, che viveva in pace, era sobria e pudìca e i cui cittadi- ni non abbandonavano le mogli per andare in Francia a commerciare. In questo canto traccia sinteticamente quali devono essere le funzioni e quindi le classi so- ciali: i politici, i militari, gli ecclesiastici e infine gli artigiani (vv. 124-126). Insomma si tratta di una so- cietà profondamente tradizionale, in cui si trova a suo agio Carlo Martello (e lo stesso poeta). La società fiorentina, italiana ed europea di fine Trecento è in- vece una società molto più complessa, in cui gli arti- giani e i commercianti fanno sentire tangibilmente la loro presenza e il loro potere. Il fiorino conquista l’Europa e gli Ordinamenti di giustizia di Giano del- la Bella (1294) costringono le forze tradizionali (no- bili e magnati) ad iscriversi a un’arte, se vogliono partecipare alla vita politica. 4. Il problema dell’ereditarietà emerge come un fatto empirico sorprendente, che colpisce l’attenzione e la curiosità degli uomini: Esaù e Giacobbe sono figli dello stesso padre Isacco, eppure sono totalmente di- versi per aspetto fisico e per carattere (caso tratto dal- la Bibbia). Romolo e Remo sono fratelli gemelli, ep- pure sono totalmente diversi, tanto che sono fatti di- scendere da una divinità, Marte, poiché soltanto una divinità può aver trasmesso le sue capacità a Romolo (caso tratto dalla storia romana). I due esempi che fanno riflettere sono tratti indifferentemente dalla Bibbia e dalla storia romana, come succede in molti altri casi. 5. La soluzione prospettata da Dante al problema dell’ereditarietà è questa: se i figli seguissero sempre la natura dei padri, la società sarebbe danneggiata. Interviene allora la Provvidenza, che distribuisce tra gli uomini le capacità che servono al buon funziona- mento della società. Essa però è cieca e non distingue la casa del ricco dalla casa del povero, perciò può succedere che due gemelli, che dovrebbero essere to- talmente uguali, presentano l’aspetto fisico e il carat- tere completamente diversi. In tal modo l’uguaglian- za al padre viene modificata, ora poco ora tanto, dal ruolo che è piovuto dal cielo. La Provvidenza quindi diventa una specie di lotteria: c’è chi è fortunato e chi sfortunato, chi ci guadagna e chi ci perde. E c’è chi impreca contro la Provvidenza, perché non si sente trattato bene. È chiaro che non si può né si deve pro- testare contro l’operato della Provvidenza divina... Ma Dante lo fa, e protesta veemente contro «la gente nuova e i sùbiti guadagni» (If XVI, 73-75). Nel dia- logo con Brunetto Latini, si era detto pronto ai colpi che avrebbe ricevuto dalla fortuna (If XV, 91-96).. 6. Con la teoria dell’ereditarietà Dante insomma in- troduce una causa esterna – la natura attiva delle sfere celesti – per spiegare perché i figli sono diversi dai padri, una causa che coinvolge la presenza di Dio nel mondo. La stessa cosa era successa con le macchie lunari (Pd II, 49-148). Ci sono due conseguenze pa- radossali che egli non coglie: a) la moglie può dire che il figlio è diverso dal padre per intervento della Provvidenza; e b) un individuo molto dotato può pre- tendere cariche pubbliche normalmente negate alla sua condizione sociale. Nel primo caso succederebbe normalmente che il padre non crede alla moglie e, colpito sul vivo se il figlio assomiglia al vicino di ca- sa, si mette a urlare di rabbia, ricordando l’adagio se- condo cui pater semper incertus. Nel secondo caso l’individuo interessato direbbe che le sue pretese so- no suffragate dalla volontà della Provvidenza. Egli può però farsele riconoscere soltanto imponendosi e imponendole con la forza. Di qui inevitabili conflitti sociali. Ciò vuole dire che, forse inavvertitamente, Dante giustifica i rivolgimenti sociali, che tuttavia lo hanno danneggiato (gli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella). E la cosa non gli fa per niente piacere: nella maturità abbandona le tesi stilnovisti- che e ritorna ad una visione tradizionale e nobiliare della società (Pd XV-XVII). Dei rivolgimenti sociali parla bene soltanto in riferimento a Cangrande della Scala, di cui il trisavolo Cacciaguida dice: «Per opera sua molta gente sarà trasformata e cambieranno con- dizione ricchi e poveri» (Pd XVII, 89-90). Ma per deferenza verso l’amico. È ragionevole pensare che chiunque altro al suo posto avrebbe fatto lo stesso. E che egli stesso, come chiunque altro, si sarebbe adira- to contro la moglie se si fosse sentito pater incertus. 6.1. Resta il fatto che, per spiegare la presenza di fi- gli diversi dal padre, egli fa due cose: a) attribuisce il diritto a chiunque abbia capacità diverse dal padre (=superiori) di farle valere in ambito sociale; e b) implicitamente riconosce che chi ha capacità inferiori rispetto al padre dovrebbe cedere il suo posto, so- cialmente altolocato, ai nuovi prediletti della Provvi- denza. Tuttavia nel secondo caso è impensabile che costui lo faccia senza combattere, senza coinvolgere poco o tanto il resto della famiglia, che può essere compatta nel difendere gli interessi dell’individuo e i suoi stessi interessi. In sostanza Dante cerca di evitare Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 36 i conflitti sociali e invece lascia aperta una possibilità teorica estremamente grave, giustificata dal fatto che è stata la Provvidenza a decidere che un uomo oscu- ro salga su un trono e, viceversa, un figlio di sovrano debba (o dovrebbe) fare una fine oscura. Eppure egli di fatto predilige l’ereditarietà sociale (i figli, uguali o diversi dai padri, ereditano per diritto di sangue le cariche politiche dei padri) piuttosto che quella stabi- lita dalla Provvidenza... 7. La teoria dell’ereditarietà naturale e provvidenziale mal si concilia con quanto Dante aveva detto come poeta stilnovista e con le capacità che attribuisce alla cultura. Nella giovinezza egli aveva sostenuto, contro le forze tradizionali, che la gentilezza è d’animo, non di sangue; non si eredita, ma si conquista con il pro- prio impegno personale. Ma a quel tempo egli era fi- ducioso nel futuro che gli si prospettava davanti. In If V, 127-138, cioè verso il 1308, egli ritiene ancora che la cultura abbia una grandissima capacità di pla- smare le coscienze, nel bene come nel male. France- sca e Paolo scoprono l’amore, l’attrazione e la bel- lezza reciproca a causa di un libro, non per le loro inclinazioni naturali, né per l’intervento della Provvi- denza! Il fatto è che ora, verso il 1320, Dante ha ab- bandonato la visione ottimistica e spensierata della vita che aveva nella giovinezza e vede gli uomini e la storia umana dall’alto, con freddezza scientifica, e cerca di proporre una spiegazione scientifica dei fatti: la Provvidenza pensa al bene della società, gli uomini invece tendono a farsi del male e a impiegare irrazio- nalmente i talenti e le risorse esistenti. 8. Al di là del linguaggio teologico e dei riferimenti alla Provvidenza, Dante vuole dire che la società fun- ziona bene a queste condizioni: a) se ognuno resta al suo posto; b) se ognuno svolge bene la sua funzione (l’Impero svolge le sue funzioni, la Chiesa le sue, ogni classe sociale e ogni individuo le sue); e c) se si mette l’individuo giusto al posto giusto. Insomma se le capacità sono valorizzate e socialmente utilizzate. L’individuo ottiene la carica in cui riesce meglio, che gli permette di dare più servizi e che gli dà maggiori soddisfazioni personali. Per questo motivo conviene a tutti che chi è inclinato alla politica faccia l’uomo politico, chi è inclinato alla vita religiosa diventi reli- gioso... Sotto sotto il poeta propone una visione me- ritocratica o (in senso etimologico) aristocratica della promozione sociale, da proiettare sulla società (fio- rentina) ideale descritta in Pd XVI. L’idea non è malvagia, poiché in questo modo la società in gene- rale trae il maggiore vantaggio dalle capacità degli individui. Ma deve anche essere chiaro che un indivi- duo o una classe, che si sentano danneggiati dalla meritocrazia o che ritengano la meritocrazia di se- condaria importanza, non possono accettare volentie- ri questa prospettiva. Essi potrebbero muovere due obiezioni, ugualmente valide: a) la meritocrazia pro- voca mutamenti sociali, ma la stabilità o la non con- flittualità sociale è il valore prioritario; e b) noi siamo nobili di antica data, ciò che conta è la nobiltà di san- gue, chi propone la meritocrazia basata sulle capacità personali lo fa perché non è neanche un parvenu e cerca una giustificazione qualsiasi per entrare sulla scena politica e sociale e per giustificare le sue prete- se economiche. 8.1. Oltre a questo, una carica, ambita per il prestigio e per il denaro che dà, attira l’interesse e il desiderio anche di coloro che non sono tagliati a ricoprirla e che tuttavia hanno gli strumenti (la forza, il denaro, gli appoggi, la determinazione, la sfrontatezza) per impossessarsene. 8.2. In questa visione però è curiosamente assente la capacità della cultura di plasmare e di modificare le capacità innate dell’individuo. E questa non è soltan- to una tesi del Dolce stil novo (la nobiltà non è nobil- tà di sangue, che si eredita, ma gentilezza d’animo, che si acquista con i propri meriti e con il proprio impegno). È anche la visione che emerge da If V, 124-138: Francesca e Paolo s’innamorano per merito (o per colpa) del libro, non spinti dalle forze innate; ed è ancora la cultura che fa loro scoprire la reciproca bellezza e il piacere che reciprocamente si danno (vv. 100-105). Dante ora non ha più la fiducia stilnovisti- ca nella cultura, tanto che in Pg XXIV, 52-54, cam- bia anche la definizione di Dolce stil novo, incen- trandola sull’ispirazione amorosa: il poeta diventa una specie di scrittore sacro, che scrive quando sente dentro di sé l’ispirazione amorosa. 8.3. Insomma le cose sono sempre molto più com- plesse di quanto si desidera. E anche le soluzioni so- no molto più difficili – non molto più complesse – di quanto si vorrebbe. Nella società ci sono individui che cercano di giustificare teoricamente le loro prete- se economiche ed altri che si risparmiano la fatica e usano direttamente la forza, che giustifica tutto. Lo stesso vale per le classi. Un uomo capace può dire: io ho il diritto di emergere, le mie capacità e gli interes- si della società lo giustificano. Un nobile può dire: io ho il diritto di essere mantenuto, ho il sangue blu, e mi sono conquistato questo diritto con il mio titolo nobiliare. Sul piano teorico si può dire quel che si vuole, quel che conta sono i rapporti di forza di un individuo come di una classe emergente. Chiaramen- te l’individuo e la classe consolidata vede – ma non è una regola – i suoi interessi difesi e garantiti dall’or- dine costituito; l’individuo e la classe emergente in- vece si devono scontrare e devono aggirare l’ordine costituito, che impedisce la loro affermazione e osta- cola i loro interessi. 9. Questo canto è uno dei più sorprendenti della Di- vina commedia: mostra lo straordinario spirito di os- servazione non soltanto di Dante e del Medio Evo, ma anche del mondo antico: già gli antichi avevano colto la differenza tra fratelli gemelli come Esaù e Giacobbe e come Romolo e Remo; e avevano cerca- to una spiegazione. Il mondo tradizionale, ad econo- mia agricola, non ha molti strumenti per affrontare le avversità della vita e sopravvivere. Il più efficace è lo spirito di osservazione, coadiuvato da una grande memoria e dalla comunicazione orale. Poiché l’alfa- betizzazione era scarsa e riservata soltanto agli intel- lettuali, si cercava di sfruttare la memoria, che era potenziata con le mnemotecniche, cioè con le tecni- che che favorivano la memorizzazione delle informa- zioni. La soluzione data dal poeta è in una certa mi- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 37 sura prevedibile: la Provvidenza distribuisce tutte le funzioni che servono; l’uomo poi fa quel che vuole e sbaglia, poiché mette gli individui sbagliati al posto sbagliato. D’altra parte l’uomo ha il libero arbitrio, cioè ha la possibilità di fare anche scelte sbagliate; ed ha una sensibilità, innata o acquisita, particolarmente forte verso i beni mondani. 9.1. Il valore della percezione dantesca del problema della ereditarietà aumenta considerevolmente se poi si aggiunge che lo studio scientifico della questione viene ripreso in sordina verso il 1865 da un monaco ungherese molto curioso e pieno di tempo libero. Il monaco curioso è Gregor Mendel (1822-1884), che studia come si trasmettono i caratteri nei piselli. Le ricerche sono fatte ben 555 anni dopo, e da un eccle- siastico, non da un esponente della scienza ufficiale! Con Mendel nasce la genetica moderna. Che la spie- gazione proposta dal poeta sia scavalcata dalla scien- za moderna e sia dimostrata “falsa”, dovrebbe essere ovvio e auspicabile: se in 550 la scienza non cambia, che scienza è!? A quanto pare in tutti questi secoli gli scienziati e gli zoologi avevano fatto il pieno della vis dormitiva. 10. Altre questioni scientifiche affrontate sono: le cause dei temporali (Pg V), la generazione del bam- bino ((Pg XXV), l’ordine dell’universo (Pd I), la spiegazione delle macchie lunari (Pd II), il principio di indecidibilità (o Asino di Buridano, Pd IV), la quadratura del cerchio (Pd XXXIII). Ad esse si ag- giungono numerose questioni filosofiche e teologi- che. Nessun ambito della natura e del sapere è quindi estraneo alla poesia. 11. Dante si accorge di salire ad un nuovo cielo per- ché gli occhi di Beatrice diventano più splendenti (vv. 113-15). Anche in If II, 55 («Lucean li occhi suoi più che la stella...»), c’è questo elemento stilno- vistico. Ora però il controllo dei dialoghi, del suono dei versi e delle immagini è assoluto. Dante non sta più provando gli effetti, li domina e li piega ai suoi desideri. 12. Anche Carlo Martello è irriconoscibile come l’anima di Piccarda Donati. In paradiso l’aspetto fisi- co è scomparso, è sostituito dalla luce che avvolge ogni anima. La struttura del canto è semplice: 1) Dante vede numerose luci che si muovono in una danza circolare; 2) una di esse, Carlo Martello, si avvicina e racconta la sua vita; 3) poi critica i suoi discendenti avari; 4) Dante allora chiede come mai da padri liberali sono nati figli avari; 5) Carlo Martello dà la spiegazione: la Provvidenza invia sulla terra tutte le capacità che servono al buon funzionamento della società; 6) ma gli uomini non seguono le loro inclinazioni, e fanno sacerdote chi è nato a portare la spada; così la società funziona male. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 40 Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l’alta vittoria che s’acquistò con l’una e l’altra palma, perch’ella favorò la prima gloria di Iosuè in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. 124 La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ‘nvidia tanto pianta, 127 produce e spande il maladetto fiore c’ha disviate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore. 130 Per questo l’Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni. 133 A questo intende il papa e ‘ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabriello aperse l’ali. 136 Ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette, 139 tosto libere fien de l’avoltero”. 142 121. Fu ben giusto lasciar lei in qualche cielo, come segno della grande vittoria che fu acquistata con la crocifissione, 124. perché ella favorì la prima glorio- sa impresa di Giosuè in Terra Santa, la quale tocca poco la memoria del papa [Bonifacio VIII]. 127. La tua città (=Firenze), che è pianta di colui (=Lucifero) che per primo volse le spalle al suo creatore e la cui invidia [verso gli uomini] provoca tanti pianti, 130. produce e spande il fiore maledetto (=il fiorino), che ha fatto deviare le pecore e gli agnelli, perché ha fatto del pastore un lupo. 133. Per questo fiore il Vangelo e i Padri della Chiesa sono dimenticati e soltanto sul- le Decretali (=i testi del diritto canonico) si studia, come appare dai loro margini [annotati e consunti]. 136. Ad ottenere questo fiore si applicano il papa e i cardinali: i loro pensieri non vanno a Nazareth, dove l’arcangelo Gabriele aprì le ali. 139. Ma il Vaticano e le altre parti insigni di Roma, che sono state cimitero per la milizia (=i martiri della fede) che seguì Pietro, 142. saranno presto liberi dall’adulterio.» I personaggi Cunizza da Romano (1197ca.-1279ca.) è figlia di Ezzelino II e sorella di Ezzelino III. Sposa per motivi diplomatici il conte Rizzardo di San Bonifacio di Ve- rona. Gli effetti del matrimonio non durano a lungo e la famiglia invita il trovatore Sordello da Goito, che era alla corte di Rizzardo e che l’aveva cantata, a ra- pirla e a riportarla a casa. Ha la fama di avere una na- tura passionale incontrollabile, che la spinge a facili amori. Si sposa tre volte ed ha una vita tumultuosa. In vecchiaia, crollata la potenza della sua famiglia, si ritira a Firenze e si converte ad opere di bene. Di lei non restano altre notizie. Dante la incontra nella sua giovinezza. Ezzelino III da Romano (un colle nel territorio di Bassano del Grappa) (1194-1259) è il feroce e spie- tato tiranno ghibellino della Marca trevigiana. Diver- samente dalla sorella Cunizza, ha un carattere che lo spinge alla violenza. Folchetto da Marsiglia (?-1231) è un trovatore che frequenta la corte di grandi signori come Riccardo Cuor di Leone, Raimondo di Tolosa e Alfonso VIII di Castiglia. Verso la fine del secolo lascia l’attività poetica e la vita mondana ed entra nell’ordine cister- cense. È abate di Thoronet e dal 1205 vescovo di To- losa, dov’è diffusa l’eresia albigese. È uno dei fauto- ri della crociata contro gli eretici (1207-14). A diffe- renza di san Domenico, di cui è collaboratore, è in prima fila nella repressione cruenta dell’eresia, tanto da meritarsi la fama di persecutore. I padovani sono sconfitti nel 1314 e nel 1316 da Cangrande della Scala, vicario dell’imperatore e si- gnore di Verona, mentre tentano d’impadronirsi di Vicenza. Rizzardo da Camino (?-1312) è signore di Treviso, superbo e orgoglioso, ben diverso dal padre, il buon Gherardo, a cui succede nel 1306. Muore nel 1312 per mano di sicari guelfi. Alessandro Novello, vescovo di Feltre, nel 1314 fa imprigionare alcuni fuoriusciti ferraresi della fami- glia Fontana, che si erano rifugiati in città e contava- no sulla sua protezione. Poi li consegna ai ferraresi, che li fanno pubblicamente decapitare e impiccare. Li tradisce forse per compiacere Pino della Tosa, vica- rio angioino e pontificio di Ferrara, anche se con essi non ha alcun motivo d’inimicizia. I Troni sono una delle nove schiere angeliche. Le altre, in ordine gerarchico, sono: Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Ar- cangeli, Angeli. Dante tratta degli angeli (creazione, natura, divisioni ecc.) in Pd XXVII-XXIX. Didone, regina di Cartagine, è figlia di Belo. Giura fedeltà al marito Sichèo, quando egli muore. Ma s’innamora di Enea, che aveva perso la moglie Creù- sa nell’incendio di Troia e che era approdato vicino a Cartagine. Si suicida quando questi riparte per volere degli dei. La fonte di Dante è Virgilio, Eneide, I, 621, e IV, 552. Fillide di Tracia è detta Rodopea da Rodope, monte della Tracia presso il quale abitava. S’innamora di Demofoonte e si uccide perché si sente da questi in- gannata e tradita. La fonte di Dante è Ovidio, Her., II. Ercole, pur essendo già sposato con Deidamìa, s’in- namora follemente di Iole, figlia di Eurito, re della Tessaglia. Iole riesce a farlo vestire da donna, a fargli fare lavori femminili e a farlo ballare con le altre donne. È detto Alcìde perché nipote di Alceo. La fon- te di Dante è Ovidio, Her., IX. Raab è una prostituta della città di Gerico. Aiuta gli esploratori di Giosuè che erano venuti a spiare la cit- tà. Quando Giosuè conquista la città, lei e tutti coloro che si sono rifugiati nella sua casa sono risparmiati dall’eccidio. Poi rivolge il suo amore a Dio (Gs 2, 1- 21). Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 41 Commento 1. Dante ribadisce la sua fede combattiva, perciò da una parte celebra l’impegno anche cruento di Fol- chetto contro gli eretici, dall’altra critica il papa, i cardinali ed i fedeli, che rivolgono i loro pensieri al fiorino. In Pd XV, 144, critica ancora il papato, per- ché non organizza una crociata, per riconquistare il Santo Sepolcro agli infedeli. Nel contempo ribadisce la sua fedeltà all’imperatore e celebra Cangrande del- la Scala, vicario dell’imperatore, che punirà i pado- vani. La sua fede combattiva lo porta a mettere con spregiudicatezza nel cielo di Venere anche una figura come Raab, non tanto perché prostituta o, meglio, ex prostituta, quanto perché morta prima di Cristo e quindi senza essere stata battezzata. Ma l’aiuto dato a Giosuè e quindi, alla lontana, alla nascita di Gesù Cristo ha come premio adeguato la sua uscita dal limbo e l’ascesa in paradiso. 2. Cunizza da Romano nella giovinezza è totalmente dominata dal fuoco dell’amore passionale, che essa non sa né può controllare se non soddisfacendolo. Insomma è una ninfomane. Ha una vita movimentata (tre matrimoni e molti amori); e, si dice, era di tanta generosità, che bastava chiedere con cortesia e lei ri- cambiava con l’amore. In vecchiaia però i suoi desi- deri mutano e, secondo la leggenda, si dedica ad ope- re di bene. Come tutti gli spiriti amanti del cielo di Venere essa riesce alla fine a rivolgere a oggetti ade- guati il suo amore sovrabbondante. La sua conver- sione è sincera e non un tentativo di pianificare la salvezza dell’anima, come quello attuato (e fallito) da Guido da Montefeltro (If XXVII, 67-132). Dante è estremamente provocatorio a mettere in paradiso, nel cielo degli spiriti amanti, questa donna, che in vita è stata una poco di buono e che ha cambiato costumi a causa dell’età, non con la forza della volontà. Essa poi è in buona compagnia: lì vicino c’è Raab, una prostituta professionista, che faceva pagare le sue prestazioni. Ma le vie del Signore, come quelle della poesia, sono infinite... Ugualmente il poeta si è di- stinto nel fare incetta di papi e nel metterli all’inferno tra i simoniaci (If XIX, 52-87). Sul piano narrativo e poetico, il contrasto non poteva essere più intenso. 3. Cunizza è diversa dalle altre donne incontrate: Francesca da Polenta (If V), Taidè (If XVIII), Pia de’ Tolomei (Pg V), Sapìa di Siena (Pg XIII), l’e- nigmatica Matelda (Pg XXVIII-XXXIII), Piccarda Donati (Pd III) e la stessa Beatrice, che sta accompa- gnando il poeta. Dante si preoccupa di tracciare un profilo psicologico diverso per i vari personaggi. 4. In questo caso il poeta traccia anche un profilo di- verso per l’amore che le donne hanno manifestato verso il mondo. Francesca s’innamora della propria e dell’altrui bellezza, che la cultura le ha fatto scoprire. Pia de’ Tolomei ama ancora il marito, che pure l’ha uccisa. Sapìa di Siena si è vendicata dell’offesa che il marito ha ricevuto da Provenzan Salvani ed ora rico- nosce l’errore ed è pentita. Matelda mostra il mondo dell’innocenza e fuori della storia, che non verrà più: l’eden prima del peccato di Adamo ed Eva. Beatrice è la molteplice figura con molteplici funzioni che ac- compagna il poeta nella giovinezza ed ora nel viaggio in paradiso. Cunizza è la donna ardente d’amore fisi- co per se stessa e per il prossimo. Raab invece, con un maggiore senso della contabilità, preferisce mette- re in offerta sul mercato i suoi servizi amorosi ed as- sicurarsi una lieta vecchiaia con la sua clientela. 5. Il poeta dedica il canto alla Marca trevigiana, che allora comprendeva Padova, Treviso, Feltre. In If XXVII, 34-54, parlando con Guido da Montefeltro, traccia invece un ampio panorama della situazione politica della Romagna. La situazione politica di tutta l’Italia è sintetizzata nell’invettiva contro i signori d’Italia di Pg VI, 76-151. Il poeta prende in ogni ca- so le difese dell’Impero contro i sostenitori o i rap- presentati del papato. 6. Folchetto da Marsiglia è uno dei più feroci perse- cutori degli eretici di Alby, che sono massacrati nel 1214. Sia per la corruzione della Chiesa sia per moti- vi sociali l’eresia è una forma di protesta, che cerca di recuperare valori civili e religiosi ufficialmente non praticati. Spesso gli eretici cercano di ritornare all’insegnamento del Vangelo e a un genuino atteg- giamento di solidarietà verso il prossimo. La reazione delle forze ufficiali è in genere violentissima: autorità politiche e religiose si aiutano a sterminare le sette. Dante, che da una parte critica la corruzione della Chiesa (come gli eretici) e dall’altra approva Folco (che li stermina), può sembrare in contraddizione. La situazione è invece più complessa: egli critica la Chiesa dall’interno della Chiesa e non intende uscire dalla Chiesa. Invece gli eretici escono dalla Chiesa non tanto con il loro comportamento quanto profes- sando una religione più semplice, che ad esempio nega i dogmi della fede, in quanto non presenti nel Vangelo. In sostanza per il poeta la soluzione corretta è quella percorsa da Francesco d’Assisi (1181-1226), che cerca di riformare la Chiesa dall’interno e chiede per due volte al papa l’approvazione della regola francescana. Oppure da Domenico di Calaruega (1170/75-1221), che opera allo stesso modo. La ce- lebrazione di Folco è seguìta dalla celebrazione pri- ma di Francesco d’Assisi (Pd XI), poi di Domenico di Calaruega (Pd XII), i due prìncipi che Dio ha su- scitato per accorrere in aiuto alla Chiesa in difficoltà. 7. Raab, una prostituta collocata in paradiso – essa è anzi l’anima più splendente del cielo di Venere –, mostra il coraggio teorico e pratico di Dante, che non aveva esitato a mettere un suicida, Catone di Utica, come guardiano del purgatorio. Addirittura la mette in paradiso senza che essa sia stata battezzata (quindi andando ancor più contro ogni sensata previsione) e facendo intervenire direttamente la divinità: dopo la resurrezione Gesù Cristo scende nel limbo e vi fa u- scire tutti gli spiriti nati prima della sua passione e morte sulla croce ma meritevoli di salire al cielo per le loro azioni. Dopo questa discesa nessun’altra ani- ma può uscire più dal limbo. Tra coloro che sono e- sclusi da questo privilegio speciale è lo stesso Virgi- lio e gli spiriti magni del mondo antico (If IV, 30-93 e 118-144). Virgilio è profondamente dispiaciuto e addolorato di non poter mai entrare in comunione con Dio (If I, 121-126; e Pg III, 37-45). Ma la legge divina è spietata. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 42 8. Cunizza e Raab sono una splendida coppia di don- ne di malaffare. La prima ha una vita dissoluta fino alla vecchiaia, quando il corpo non regge più (e il crollo del potere familiare suggerisce prudenza). La seconda è una prostituta, che con senso della giustizia si vende a concittadini e a nemici (gli affari sono af- fari), e non si fa scrupolo a tradire i concittadini per salvare la pelle a sé e ai suoi clienti più affezionati. E che dopo la conquista di Gerico cambia vita perché può contare sui proventi assicurati da coloro che ha salvato, ben contenti di pagarla perché l’hanno scam- pata bella! Dante le mette insieme con Folco, un ve- scovo assassino, che sterminava chi non la pensava come lui, senza distinguere tra uomini, donne e bam- bini. Un’allegra compagnia, vicina a due donne co- strette ad abbandonare il monastero (Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla), a un imperatore che fa una guerra che provoca carestie ed epidemie in Italia e si vanta di aver raccolto le leggi romane (Giustiniano), a un sovrano che faceva incetta di corone (Carlo Martello d’Angiò), al maggiore teologo della Chiesa (Tommaso d’Aquino), occupato a tessere l’elogio di Francesco d’Assisi, ma ghiotto più di Ciacco (If VI), e al più grande mistico medioevale (Bonaventura da Bagnoregio), occupato a far l’elogio di Domenico di Calaruega e nella vita dedito a risolvere le sue beghe di convento. Segue l’uomo – si fa per dire – più sa- piente del mondo che davanti a una donna che gli passava davanti perdeva la testa e le correva dietro (Salomone). Ma con che cosa pensava? Il poeta entra per la prima volta – si fa per dire – nella normalità con Cacciaguida, che canta i bei tempi passati ed ha la buona idea di rimproverare chi abbandona la mo- glie per andare a commerciare in Francia. Da parte sua preferisce andare a farsi ammazzare in Terra San- ta, nel tentativo, fallito, di far fuori un po’ di arabi... 8.1. Messe così, tutte queste situazioni e tutti questi personaggi diventano ben diversi, scendono dal pie- distallo in cui sono stati posti e si collocano nelle bassure della vita terrena. Ma che cosa è successo? Perché davanti all’esposizione di Dante il lettore resta affascinato e fa proprie le manipolazioni del poeta? e perché, presentati nell’altro modo, essi diventano in- vece abominevoli e spregevoli? Il motivo è semplice: la teoria, come la parola, plasma i fatti. Il fatto è sempre, e resta sempre, materia bruta, disponibile per ogni uso e per ogni manipolazione. E Dante è colui che più di ogni altro sa usare la magia e l’onnipoten- za della parola e della poesia. 8.2. Protagora di Abdera (480-410ca. a.C.), un sofi- sta e retore antico, scrisse un Elogio di Elena con cui difendeva la moglie di Paride dall’accusa di essere la causa della guerra decennale di Troia, che ha portato alla distruzione della città nemica ma anche tanti lutti tra gli achei. La difesa era semplice ed efficace: la donna non poteva resistere al fascino delle parole di Paride, che, venuto a visitare Sparta, la convince a seguirlo in Asia Minore. Forse le cose stanno così o forse anche, rispetto a Menelao, Paride era un bravo amante. In ogni caso il marito legittimo pensava troppo alle armi e ai tornei e troppo poco alla mo- glie. E la moglie si sentiva giustamente trascurata: era la donna più bella del mondo ed egli non la degnava di uno sguardo. E si era dimostrato anche impruden- te: era ovvio che doveva curare i beni di sua proprietà e i suoi interessi ed era ovvio che con una donna così bella doveva preoccuparsi costantemente di coloro che si avvicinavano alla moglie con cattive intenzio- ni. 9. L’invettiva contro Firenze, il fiorino, la corruzione dei fedeli e degli ecclesiastici ribadisce i valori socia- li, politici e religiosi in cui il poeta crede. Questi va- lori trovano la loro più estesa formulazione nell’in- contro con il trisavolo Cacciaguida (Pd XV-XVII). Essa è molto tranquilla, quasi un tópos obbligato, ed è ben lontana dalla violenza di altre invettive che a- veva caratterizzato le cantiche precedenti. Ad esem- pio quella contro l’Italia di Pg VI, 76-151, che inizia così: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, Nave senza nocchiere in gran tempesta, Non donna di province, ma bordello!». 10. Nel canto compare il papa Bonifacio VIII, che il poeta considera la causa del suo esilio: Folchetto da Marsiglia, prima poeta e poi frate domenicano, lo ac- cusa di pensare al denaro e di non pensare a liberare il sepolcro di Cristo (vv. 127-142). Il papa però è un filo conduttore del poema: in If VI, 67-69, Ciacco, un borghese fiorentino, lo accusa di schierarsi con i guelfi neri e di favorire il colpo di Stato di costoro. In séguito le sue comparse sono molto più significative e sempre accompagnate da una valutazione negativa: il poeta ricorda che trasferisce il vescovo Andrea de’ Mozzi da Firenze a Vicenza e con questa associazio- ne coinvolge il pontefice nel degrado morale del ve- scovo (If XV, 112-114); discendendo la costa per andare a vedere i papi simoniaci, fa sapere che finirà all’inferno, anche se non è ancora morto (If XIX, 52- 63); lo definisce «lo principe d’i novi Farisei» (If XXVII, 85), facendo riferimento al Vangelo, dove Gesù rimprovera i farisei di essere sepolcri imbianca- ti, (Mt 23, 13-36), e lo accusa d’aver ingannato Gui- do da Montefeltro, un capitano di ventura esperto in inganni. Il papa però riappare anche nelle altre canti- che: in Pg XX, 85-93, Ugo Capeto, re di Francia, parla della sua futura cattura ad Anagni ad opera di un emissario di Filippo il Bello, re di Francia; in Pd XXVII, 19-27, san Pietro lo accusa di usurpare la se- de papale e di aver fatto di Roma una cloaca. 11. Dante pone in cielo anche altri due pagani: l’im- peratore M. Ulpio Traiano (53-117 d.C.) e il troiano Rifeo (Pd XX, 67-126). Il primo nel Medio Evo ha fama di avere grandi virtù umane, tanto che il papa Gregorio I Magno (535-604) prega per lui e chiede a Dio di salvarlo. Così l’imperatore ottiene la grazia di resuscitare, di credere, di farsi battezzare e di ritor- nare a morire. Rifeo invece è un’invenzione di Dante. Nell’Eneide (II, 425-27) è definito «il più giusto dei troiani e il più rispettoso dell’equità». Dio gli dà il dono di credere alla sua venuta futura e il pagano ha la forza di credere e di salvarsi. Dante vuole insistere anche in questo caso sui disegni imperscrutabili di Dio e sulla giustizia divina, che valuta positivamente e premia il giusto, anche se non ha la fede. Egli però procede sotto le ali di Tommaso d’Aquino, secondo Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 45 e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di dì in dì l’amò più forte. 61 Questa, privata del primo marito, millecent’anni e più dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; 64 né valse udir che la trovò sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch’a tutto ‘l mondo fé paura; 67 né valse esser costante né feroce, sì che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. 70 Ma perch’io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertà per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. 73 La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi; 76 tanto che ‘l venerabile Bernardo si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo. 79 Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace. 82 Indi sen va quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia che già legava l’umile capestro. 85 Né li gravò viltà di cuor le ciglia per esser fi’ di Pietro Bernardone, né per parer dispetto a maraviglia; 88 ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religione. 91 Poi che la gente poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe, 94 di seconda corona redimita fu per Onorio da l’Etterno Spiro la santa voglia d’esto archimandrita. 97 E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro, 100 e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno, redissi al frutto de l’italica erba, 103 nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. 106 Quando a colui ch’a tanto ben sortillo piacque di trarlo suso a la mercede ch’el meritò nel suo farsi pusillo, 109 a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede; 112 e del suo grembo l’anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara. 115 Pensa oramai qual fu colui che degno collega fu a mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno; 118 61. E davanti alla curia episcopale di Assisi e davanti al padre si unì [in matrimonio] con lei. Poi di giorno in giorno l’amò più forte. 64. Questa, privata del primo marito (=Cristo), fu per millecent’anni e più spregiata e ignorata e fino a costui rimase senza esser richiesta in sposa. 67. Né valse [a farla amare] udir che la trovò sicura con il pescatore Amiclàte, facendo risuonare la sua voce, colui (=C. Giulio Cesare) che fece paura a tutto il mondo. 70. Né valse [a farla a- mare] l’essersi mostrata perseverante e coraggiosa, così che, quando Maria rimase giù [sotto la croce], ella pianse con Cristo [morto nudo] sulla croce. 73. Ma, affinché io non proceda in modo troppo oscuro, per questi amanti intendi ormai Francesco d’Assisi e madonna Povertà in questo lungo discorso. 76. La loro concordia e i loro volti lieti facevano che amore, meraviglia e dolci sguardi fossero causa di santi pen- sieri, 79. tanto che il venerabile Bernardo di Quinta- valle si scalzò per primo e corse dietro a tanta pace e, correndo, gli parve di essere lento. 82. Oh ricchezza ignota [agli uomini]! Oh bene fecondo [di tanti frut- ti]! Si scalza Egidio, si scalza Silvestro dietro lo spo- so (=Francesco d’Assisi), tanto la sposa (=la Povertà) piace. 85. Quindi se ne va a Roma quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia, che già cingeva l’umile corda. 88. Né la viltà di cuore gli fece abbassare le ciglia perché era figlio di Pietro Bernardone, né perché appariva tanto spregevole da suscitare meraviglia; 91. ma regalmente espresse la sua intenzione a papa Innocenzo III, e da lui ebbe la prima approvazione alla sua regola [e al nuovo ordi- ne] religioso. 94. Poiché la gente povera crebbe die- tro a costui, la cui vita mirabile si canterebbe meglio nella gloria del cielo [che sulla terra], 97. il santo de- siderio di questo pastore fu cinto dallo Spirito Eterno (=fu approvato definitivamente) ad opera del papa Onorio III. 100. E, poiché, per la sete del martirio, alla superba presenza del sultano predicò Cristo e gli altri che lo seguirono, 103. e poiché trovava la gente troppo immatura alla conversione e per non stare là [in Egitto] invano, ritornò a raccogliere il frutto dell’erba italiana. 106. Sul monte dirupato [della Verna] tra Tevere ed Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo (=le stigmate), che le sue membra portarono per due anni. 109. Quando a colui (= Dio), che lo a- veva destinato ad operare tanto bene sulla terra, piac- que di trarlo su in cielo per dargli la ricompensa (=la vita eterna), che egli meritò facendosi umile, 112. ai suoi frati, come ad eredi legittimi, raccomandò la donna a lui più cara, e comandò che l’amassero con fedeltà. 115. E dal suo (=della Povertà) grembo l’anima splendente si volle muovere, per tornare al suo regno (=il cielo); e al suo corpo non volle altra bara [che la Povertà]. 118. Pensa ormai quale fu co- lui (=Domenico di Calaruega) che fu degno compa- gno [di Francesco] nel mantenere la barca di Pietro (=la Chiesa) in alto mare nella giusta direzione. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 46 e questo fu il nostro patriarca; per che qual segue lui, com’el comanda, discerner puoi che buone merce carca. 121 Ma ‘l suo pecuglio di nova vivanda è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote che per diversi salti non si spanda; 124 e quanto le sue pecore remote e vagabunde più da esso vanno, più tornano a l’ovil di latte vòte. 127 Ben son di quelle che temono ‘l danno e stringonsi al pastor; ma son sì poche, che le cappe fornisce poco panno. 130 Or, se le mie parole non son fioche, se la tua audienza è stata attenta, se ciò ch’è detto a la mente revoche, 133 in parte fia la tua voglia contenta, perché vedrai la pianta onde si scheggia, e vedra’ il corrègger che argomenta 136 «U’ ben s’impingua, se non si vaneggia»”. 139 121. Questi fu il fondatore del nostro ordine. Perciò chi lo segue, come egli comanda, puoi comprendere che carica buona merce [per ottenere la salvezza eter- na]. 124. Ma il suo gregge è divenuto ghiotto di nuo- ve vivande, così che sarà inevitabile che si disperda per pascoli diversi [da quelli indicati da lui]. 127. E quanto più le sue pecore vanno lontane e vagabonde da lui, tanto più tornano all’ovile prive di latte (=la sana dottrina teologica). 130. Ci sono bensì di quelle che temono il danno e che si stringono al pastore, ma sono così poche, che poco panno è sufficiente per fa- re le loro cappe. 133. Ora, se le mie parole non sono fioche, se il tuo ascolto è stato attento, se richiami alla memoria ciò che ho detto, 136. il tuo desiderio sarà in parte accontentato, perché vedrai dove la pianta domenicana si scheggia (=si spunta per l’inos- servanza della regola) e vedrai che cosa significhi la correzione: 139. “Dove ben ci s’impingua, se non si vaneggia [dietro ai beni temporali]”». I personaggi Tommaso d’Aquino (1225-1274) nasce a Rocca- secca (Frosinone) nella famiglia dei conti d’Aquino. Entra nell’ordine domenicano, non ostante l’opposi- zione della famiglia. Studia prima a Parigi, poi a Co- lonia. Insegna a Parigi, poi a Roma (1261-68), quindi ancora a Parigi, dal 1272 a Napoli. Scrive numerose opere, le più importanti sono la Summa contra Genti- les (Compendio contro i pagani) e la Summa theolo- giae (Compendio di teologia). È soprannominato Doctor angelicus. Combatte con estremo vigore le eresie e difende con uguale determinazione le sue tesi filosofiche contro le correnti agostiniane. Egli sinte- tizza pensiero aristotelico e pensiero cristiano, con l’intenzione di togliere ogni motivo di contrasto tra cultura classica e rivelazione. Come il Dio di Aristo- tele, anche il Dio cristiano attira a sé tutte le creature come causa finale, ma è esterno al mondo, ha creato il mondo con un atto d’amore, ed ama le creature. Propone di chiarire con la ragione le verità della fede, finché ciò è possibile; soltanto dopo deve intervenire la fede. Perciò delinea precisamente l’ambito della ragione e l'ambito della fede. Tra le due peraltro non vi possono essere conflitti, poiché provengono am- bedue da Dio. Propone cinque vie razionali per di- mostrare l’esistenza di Dio. E riesce a dare una inter- pretazione razionale alla rivelazione cristiana, in mo- do da costruire un sistema filosofico che stia alla pari con i grandi sistemi pagani. Nelle sue opere, caratte- rizzate da una grandissima chiarezza, egli usa un me- todo di discussione assai efficace: di un problema in- dica le varie soluzioni proposte, le discute ad una ad una, ne mostra pregi e limiti, quindi le reinterpreta nella soluzione finale che propone. È il più grande teologo della Chiesa: inizialmente le sue tesi sono combattute, ma in séguito diventano il pensiero uffi- ciale della Chiesa. Muore a Fossalta, mentre si sta di- rigendo al concilio di Lione, in séguito a una malatti- a, che fa parlare di avvelenamento ad opera di Carlo I d’Angiò. Dante si rifà costantemente al suo pensiero. Francesco d’Assisi (1181-1226), figlio di Pietro Bernardone, un lanaiolo di Assisi, ha una giovinezza spensierata, a cui pone fine una crisi religiosa (1205). Entra in conflitto con la famiglia e nel 1207 rinuncia pubblicamente ai beni paterni: nel duomo di Assisi, alla presenza del vescovo, indossa un rozzo saio. Ini- zia a vivere in eremitaggio, richiamando intorno a sé sempre nuovi compagni. Nel timore di eresie, la Chiesa lo sollecita a scrivere una regola, in modo da trasformare il movimento in un ordine monastico. Egli scrive la regola e ne ottiene una prima approva- zione verbale da Innocenzo III (1209). Incominciano sùbito però le pressioni affinché egli scriva una se- conda regola, meno rigida. Intanto sorge l’ordine femminile delle clarisse (da Chiara d’Assisi, la santa che è sempre vicina a Francesco) e il terzo ordine francescano, aperto anche ai laici. Francesco compie viaggi di predicazione in Spagna e in Medio Oriente (1219). L’ordine però è ormai spaccato in frati rigo- risti e frati che vogliono una regola più moderata. Pur amareggiato, accetta di modificare la regola. La nuo- va regola è approvata da Onorio III (1223). Oltre alle due regole, scrive il Cantico delle creature e il Te- stamento. Bernardo da Quintavalle (1170ca.-1273), Egidio d’Assisi (1190-1262) e Silvestro d’Assisi (1170- 1241) sono i primi discepoli di Francesco. Domenico di Calaruega (1170/75-1221), presso Burgos (Spagna), fonda l’ordine domenicano negli stessi anni in cui è attivo Francesco d’Assisi. Il suo ordine diventa l’ordine dei frati predicatori: esso cer- ca in questo modo di diffondere le verità di fede, di combattere gli eretici e di riportarli dentro la Chiesa. I Cherubini e i Serafini sono due delle nove schiere angeliche, ordinate in una complessa gerarchia: Che- rubini, Serafini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli, Angeli. Dante affronta la que- stione degli angeli (creazione, natura, divisioni ecc.) in Convivio, II, v, e in Pd XXVII-XXIX. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 47 Ubaldo Baldassini (?-1160) si ritira in eremitaggio su monte Ansciano, il colle di Gubbio, prima di di- ventare vescovo di Gubbio dal 1129 al 1160. Amiclàte è un povero pescatore, che dimostra la sua indifferenza nei confronti del potere di Giulio Cesa- re. Al dittatore risponde che non deve temere se la- scia aperta la porta di casa, perché la povertà lo mette al sicuro da qualsiasi rapina o rischio di morte. La fonte di Dante è Lucano, Phars. V, 519-531. Commento 1. Il canto ha la stessa struttura del canto successivo: qui un frate domenicano presenta la vita di Francesco d’Assisi e gli ideali dell’ordine francescano, quindi rimprovera i frati del suo ordine, che si sono allonta- nati dalla regola del fondatore; lì un frate francescano presenta la vita di Domenico di Calaruega e gli ideali dell’ordine domenicano, quindi rimprovera i frati del suo ordine, che si sono allontanati dalla regola del fondatore. Le simmetrie però si presentano anche a livelli ulteriori. Ad esempio Francesco sposa Madon- na Povertà (un motivo consueto dell’agiografia fran- cescana), Domenico sposa la Fede al fonte battesima- le (un’idea originale del poeta). 1.1. Dante mette Tommaso d’Aquino, il massimo te- ologo della Chiesa, e Francesco d’Assisi, che propo- ne un ideale di vita basato sull’umiltà e sull’amore verso il prossimo, nel quarto cielo, il Sole, dove sono collocati gli spiriti sapienti. Tommaso si rivolge alla vita teoretica, Francesco alla vita pratica. Ma altre fi- gure sono più vicine a Dio: l’avo Cacciaguida, che muore in Terra Santa, combattendo per la fede (Pd XV-XVII), Benedetto da Norcia, che unisce la pre- ghiera e le opere (Pd XXII). A suo avviso la vita conventuale o dedita alla propria perfezione o alla riflessione teologica non è completa. Invece Caccia- guida e Benedetto hanno condotto una vita dedita alla diffusione combattiva della fede oppure che univa vita attiva e vita contemplativa. Proprio questa loro vita li ha resi meritevoli di essere posti più vicino a Dio. Anche in questo caso emerge la centralità della vita terrena. Ed essa condiziona la collocazione nel cielo. 1.2. Chi vuole avvicinarsi maggiormente a Dio non deve percorrere la via della fede o della fede raziona- le: non sono sufficienti. Deve percorrere la via della fede mistica, rappresentata da san Bernardo di Chia- ravalle. Alla fine del viaggio è lui che invoca la Ver- gine Maria affinché il poeta abbia la visione mistica di Dio (Pd XXXIII, 1-39). La fede nella rivelazione e la fede razionale della teologia sono superiori alla ra- gione, ma sono inferiori alla fede mistica, che si è completamente staccata da ogni forma di dimostra- zione e di argomentazione. 2. L’apostrofe iniziale non ha la durezza delle invet- tive dell’Inferno e del Purgatorio, perché il poeta ora si pone dal punto di vista di colui che si è ormai stac- cato dai problemi terreni e dalle debolezze umane; e guarda la terra e gli uomini con l’atteggiamento e con la consapevolezza di colui che ormai appartiene al cielo. Nelle due cantiche precedenti era ancora l’uo- mo che cerca la sua strada e che sente costantemente i dolori, le tensioni, i conflitti, i problemi del mondo terreno in cui vive, quest’«aiuola che ci fa tanto fero- ci» (Pd XXII, 151). 3. Tommaso d’Aquino è la fonte costante delle pro- blematiche filosofiche e teologiche – ed anche della loro soluzione – che il poeta trasforma in versi. Tom- maso è presente fin da If VI, 100-108, quando il poe- ta chiede a Virgilio se i dannati dopo il giudizio uni- versale soffriranno di più o di meno. Virgilio lo ri- manda immediatamente ad Aristotele, letto attraverso Tommaso, da cui ha appreso il sapere filosofico e scientifico. 4. Francesco d’Assisi e Domenico sono i prìncipi della Chiesa suscitati dalla Provvidenza, sempre at- tenta alle vicende umane. L’ordine francescano e quello domenicano operano dall’interno della Chiesa quel rinnovamento di cui la Chiesa, divenuta troppo sensibile ai beni mondani, aveva da secoli bisogno. All’esterno della Chiesa numerose sette ereticali con- dannavano la corruzione ecclesiastica e si richiama- vano ad una interpretazione più genuina del messag- gio evangelico. 4.1. L’esempio più esteso d’intervento della Provvi- denza divina nella storia umana è costituito dalla ri- costruzione della storia dell’Impero tracciata dall’im- peratore Giustiniano (Pd VI, 1-96): nella storia uma- na appare un disegno che porta prima al sorgere dell’Impero, poi al sorgere della Chiesa. Le due isti- tuzioni sono necessarie, perché la prima deve preoc- cuparsi della salvezza terrena dell’uomo; la seconda della salvezza ultraterrena. Tuttavia i disegni di Dio non sono sempre comprensibili per l’uomo e l’uomo deve rassegnarsi a non capire (Pg III, 31-39). 5. Francesco propone come ideali di vita l’umiltà, la castità e la povertà. Dante insiste unicamente sulla povertà, con la quale identifica l’ordine. L’interpre- tazione che divide l’ordine in spirituali e conventuali riguarda proprio il modo d’intendere la regola: in modo più rigido o meno rigido, cioè in modo tale che i frati potessero possedere qualche bene persona- le e che essa potesse attirare un maggior numero di seguaci. In questo modo l’ordine poteva divenire un centro di potere, a proprio vantaggio e con vantaggio della Chiesa. Francesco è costretto a rendere meno rigorosa la regola sùbito dopo la prima approvazione papale (1209). E tuttavia il prezzo pagato adesso e nello scontro successivo tra le due tendenze dell’or- dine dovrebbe essere considerato modesto rispetto ai risultati: una diffusione capillare dell’ordine e dei suoi valori nella società del tempo ed anche nelle u- niversità, dove i frati francescani contendevano le ca- riche ai frati domenicani. 5.1. Dante è assai aderente alla vita di Francesco, che riprende nella visione che ormai ne dava l’agiografia francescana. D’altra parte nei punti cruciali anche la sua visione della religione e della Chiesa vuole essere in sintonia con gli insegnamenti della Chiesa. Rinno- vare e correggere sì, ma dall’interno della Chiesa. Aveva messo nel cielo di Marte (Pd IX, 82-142) il vescovo Folchetto da Marsiglia, il feroce persecutore degli albigesi. La stessa cosa fa nel canto seguente con la vita di Domenico di Calaruega. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 50 Canto XII Sì tosto come l’ultima parola la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar cominciò la santa mola; 1 e nel suo giro tutta non si volse prima ch’un’altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; 4 canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel ch’e’ refuse. 7 Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, 10 nascendo di quel d’entro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga ch’amor consunse come sol vapori; 13 e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con Noè puose, del mondo che già mai più non s’allaga: 16 così di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e sì l’estrema a l’intima rispuose. 19 Poi che ‘l tripudio e l’altra festa grande, sì del cantare e sì del fiammeggiarsi luce con luce gaudiose e blande, 22 insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi ch’al piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; 25 del cor de l’una de le luci nove si mosse voce, che l’ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; 28 e cominciò: “L’amor che mi fa bella mi tragge a ragionar de l’altro duca per cui del mio sì ben ci si favella. 31 Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: sì che, com’elli ad una militaro, così la gloria loro insieme luca. 34 L’essercito di Cristo, che sì caro costò a riarmar, dietro a la ‘nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, 37 quando lo ‘mperador che sempre regna provide a la milizia, ch’era in forse, per sola grazia, non per esser degna; 40 e, come è detto, a sua sposa soccorse con due campioni, al cui fare, al cui dire lo popol disviato si raccorse. 43 In quella parte ove surge ad aprire Zefiro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, 46 non molto lungi al percuoter de l’onde dietro a le quali, per la lunga foga, lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, 49 siede la fortunata Calaroga sotto la protezion del grande scudo in che soggiace il leone e soggioga: 52 dentro vi nacque l’amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; 55 e come fu creata, fu repleta sì la sua mente di viva vertute, che, ne la madre, lei fece profeta. 58 1. Non appena la fiamma benedetta (=Tommaso d’Aquino) prese a dire l’ultima parola, la santa coro- na [dei beati] riprese la danza circolare. 4. E non a- veva compiuto un intero giro, che un’altra ghirlanda [di beati] la racchiuse, e accordò movimento a mo- vimento e canto a canto. 7. Il canto in quelle dolci trombe (=anime canore) vince tanto le nostre muse (=i poeti) e le nostre sirene (=le donne), quanto il primo raggio [supera] il raggio riflesso. 10. Come due archi concentrici e dagli stessi colori s’incurvano attraverso una nuvola trasparente, quando Giunone comanda alla sua ancella (=Iride) [di scendere sulla terra], 13. e quello esterno nasce da quello interno, a guisa della voce di quella ninfa vagante, che amore consumò come il sole [consuma] i vapori, 16. e qui [sulla terra] fanno che la gente sia sicura, per il patto che Dio fece con Noè, che mai più il mondo sarà al- lagato [dal diluvio]; 19. così le due ghirlande di quel- le rose eterne giravano intorno a noi, e così la ghir- landa esterna corrispose a quella interna. 22. Dopo che la danza e l’altra grande espressione [di beatitu- dine] sia del cantare [all’unisono] sia del mandarsi bagliori a vicenda con gaudio e con affetto, 25. si fermarono insieme nello stesso momento e con vo- lontà concorde – proprio come gli occhi che insieme devono chiudersi e aprirsi davanti al piacere che li fa muovere –, 28. dal cuore (=dall’interno) di una delle nuove luci uscì una voce (=Bonaventura da Bagnore- gio), la quale mi fece apparire come l’ago [della bus- sola, che si volge] alla stella polare, nel farmi volgere verso di lei. 31. E cominciò: «L’amore che mi fa bel- la mi spinge a ragionare dell’altra guida (=Domenico di Calaruega), per la quale qui si parla bene della mia. 34. È giusto che, dove è l’uno, s’introduca l’altro, in modo che, come essi combatterono insieme [per la Chiesa], così la loro gloria risplenda insieme. 37. L’esercito di Cristo, che un così caro prezzo co- stò riarmare [contro il peccato], si muoveva lento, dubbioso e ridotto di numero dietro l’insegna [della croce], 40. quando l’imperatore che sempre regna (=Dio) venne in soccorso alla milizia, che era vacil- lante, per sola sua grazia, non perché ne fosse degna. 43. E, come s’è detto, soccorse la sposa con due campioni, al cui esempio (=Francesco) e alla cui pre- dicazione (=Domenico) il popolo smarrito si ravvide. 46. In quella parte [della Spagna], dove il dolce Zefi- ro sorge ad aprire le novelle fronde delle quali si ve- de l’Europa rivestire, 49. non molto lontano dalla ri- va percossa dalle onde, dietro le quali, per il lungo suo corso, il sole talvolta (=nel solstizio d’estate) si nasconde ad ogni uomo, 52. sorge la fortunata città di Calaruega sotto la protezione del grande scudo [dei re di Castiglia], nel quale un leone giace sotto [un castello] ed [un altro leone] sta sopra [un altro castello]. 55. Dentro vi nacque l’appassionato amante della fede cristiana, il santo atleta benigno con i suoi ed implacabile con i nemici. 58. E, non appena fu creata, la sua anima fu così ripiena di potente virtù, che, ancora in grembo, diede alla madre capacità pro- fetiche. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 51 Poi che le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte intra lui e la Fede, u’ si dotar di mutua salute, 61 la donna che per lui l’assenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto ch’uscir dovea di lui e de le rede; 64 e perché fosse qual era in costrutto, quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. 67 Domenico fu detto; e io ne parlo sì come de l’agricola che Cristo elesse a l’orto suo per aiutarlo. 70 Ben parve messo e famigliar di Cristo: che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto, fu al primo consiglio che diè Cristo. 73 Spesse fiate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: ‘Io son venuto a questo’. 76 Oh padre suo veramente Felice! oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! 79 Non per lo mondo, per cui mo s’affanna di retro ad Ostiense e a Taddeo, ma per amor de la verace manna 82 in picciol tempo gran dottor si feo; tal che si mise a circuir la vigna che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo. 85 E a la sedia che fu già benigna più a’ poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, 88 non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, 91 addimandò, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. 94 Poi, con dottrina e con volere insieme, con l’officio appostolico si mosse quasi torrente ch’alta vena preme; 97 e ne li sterpi eretici percosse l’impeto suo, più vivamente quivi dove le resistenze eran più grosse. 100 Di lui si fecer poi diversi rivi onde l’orto catolico si riga, sì che i suoi arbuscelli stan più vivi. 103 Se tal fu l’una rota de la biga in che la Santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua civil briga, 106 ben ti dovrebbe assai esser palese l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma dinanzi al mio venir fu sì cortese. 109 Ma l’orbita che fé la parte somma di sua circunferenza, è derelitta, sì ch’è la muffa dov’era la gromma. 112 La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme, è tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta; 115 e tosto si vedrà de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagnerà che l’arca li sia tolta. 118 61. Dopo che furono fatte le nozze tra lui e la Fede al sacro fonte [battesimale], dove si diedero come dote la reciproca salvezza, 64. la donna, che diede il con- senso per lui (=la madrina), vide in sogno il mirabile frutto che doveva uscire da lui e dai suoi eredi (=l’ordine domenicano). 67. E, affinché fosse nel nome qual era [nella realtà], da qui (=dal cielo) si mosse una ispirazione [ai genitori], per chiamarlo con il possessivo [di Dominus], al quale apparteneva interamente. 70. Domenico fu chiamato. Ed io ne parlo come dell’agricoltore, che Cristo scelse nel suo orto (=la Chiesa), per farlo prosperare. 73. Apparve sùbito inviato e discepolo di Cristo, perché il primo amore, che in lui si manifestò, fu verso il primo con- siglio dato da Cristo (=l’esser poveri). 76. Spesse volte, tacito e desto, fu trovato in terra dalla sua nu- trice, come se dicesse: “Io son venuto per questo (=per esser povero e per fare penitenza)!”. 79. Oh, suo padre veramente Felice! Oh, sua madre veramen- te Giovanna, se il nome, [rettamente] interpretato, va- le quello che dice! 82. Non per il mondo, a causa del quale ora ci si affanna dietro all’Ostiense (=Enrico di Susa, cioè il diritto canonico) e dietro a Taddeo d’Alderotto (=la medicina), ma per l’amore della ve- ra sapienza 85. in breve tempo diventò grande dotto- re, tanto che si mise a curare e a difendere la vigna (=la Chiesa), che sùbito imbianca (=si secca), se il vignaiolo (=il papa) è negligente. 88. E alla sede [pontificia], che un tempo fu più benigna [di ora] verso i poveri giusti, non per colpa di lei, ma per col- pa di colui che ci siede sopra, che ora traligna, 91. domandò non di dare [ai poveri] il due o il tre per sei (=un terzo o la metà), non di avere le rendite del pri- mo [beneficio] vacante, né “le decime che sono dei poveri di Dio”; 94. ma domandò contro il mondo er- rante (=gli eretici) la licenza di combattere per quella fede, con la quale ti fasciano queste ventiquattro piante (=le anime intorno a Dante). 97. Poi con la dottrina e con la volontà insieme, si mosse con il mandato apostolico (=del papa), quasi un torrente che la sorgente posta in alto spinge [con irruenza a valle]. 100. Ed il suo impeto colpì nella sterpaglia eretica, più vivamente qui [in Provenza], dove le re- sistenze erano più grosse. 103. Da lui sorsero poi di- versi ruscelli, dai quali viene irrigato l’orto cattolico, così che i suoi arboscelli (=i fedeli) si mantengano più vivi [nella fede]. 106. Se fu tale una ruota della biga, sulla quale la santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua guerra civile, 109. ti dovrebbe essere ben assai palese l’eccellenza dell’altra (=Francesco), della quale Tommaso d’Aquino fece cortesemente l’elogio, prima del mio arrivo. 112. Ma il solco, che la parte esterna della ruota (=il fondatore) ha scavato, è completamente abbandonato, così che [ora] c’è la muffa dove [prima] c’era la gromma [del buon vino]. 115. La sua famiglia, che si mosse dritta con i piedi sulle sue orme, è tanto cambiata, che getta il piede davanti verso il piede dietro (=va a ritroso). 118. E presto si vedrà dal raccolto la cattiva coltivazione, quando il loglio (=l’erbaccia) si lagnerà di essere tol- to dal granaio (=la Chiesa). Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 52 Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”; 121 ma non fia da Casal né d’Acquasparta, là onde vegnon tali a la scrittura, ch’uno la fugge e altro la coarta. 124 Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che ne’ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. 127 Illuminato e Augustin son quici, che fuor de’ primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. 130 Ugo da San Vittore è qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; 133 Natàn profeta e ‘l metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato ch’a la prim’arte degnò porre mano. 136 Rabano è qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino, di spirito profetico dotato. 139 Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse l’infiammata cortesia di fra Tommaso e ‘l discreto latino; 142 e mosse meco questa compagnia”. 145 121. Dico bene che chi esaminasse a foglio a foglio il nostro volume (=ad uno ad uno i frati del nostro or- dine) troverebbe ancora pagine, dove leggerebbe: “Io sono quel che solevo essere”; 124. ma non sarà né da Casale (=spirituale) né d’Acquasparta (=convenuta- le), da dove vengono tali interpreti della regola fran- cescana, che uno la fugge, l’altro la fa più rigida. 127. Io sono l’anima di Bonaventura da Bagnoregio, che nei grandi uffici [ricoperti] posposi sempre le preoccupazioni temporali [a quelle spirituali]. 130. Qui [con me] ci sono Illuminato da Rieti e Agostino d’Assisi, che furono tra i primi scalzi poverelli, che, cingendo il capestro (=il cordone francescano), si fe- cero amici di Dio. 133. Ugo da san Vittore è qui con loro, e Pietro Mangiatore e Pietro Ispano, che giù [sulla terra] risplende per i dodici libri [delle Summu- lae logicales]; 136. il profeta Natan e il patriarca Giovanni Crisostomo e Anselmo d’Aosta e quel Do- nato, che si degnò di porre la mano alla prima arte (=la grammatica) 139. Rabano Mauro è qui, e ri- splende alla mia sinistra l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di spirito profetico. 142. Ad esaltare un così grande paladino mi spinsero l’infiammata cortesia e l’assennato discorso di Tommaso d’Aqui- no. 145. E con me spinsero questa compagnia (= gli spiriti della seconda ghirlanda)». I personaggi Bonaventura da Bagnoregio (Viterbo) (1221-1274) entra nell’ordine francescano forse nel 1243. Studia e insegna a Parigi. Lascia l’insegnamento nel 1257, quando diventa guida dell’ordine. Cerca di mediare le due tendenze degli spirituali e dei conventuali, in cui ormai l’ordine è spaccato. Scrive numerose opere. La più importante è il commento alle Sententiae (Sentenze) di Marco Lombardo. Lo scritto più famo- so è l’Itinerarium mentis in Deum (Itinerario della mente verso Dio). È soprannominato Doctor sera- phicus ed è il massimo rappresentante delle correnti mistiche medioevali, che si riallacciano al neoplato- nismo e a sant’Agostino e che affermano la superiori- tà della fede sulla ragione. Nel 1273 è nominato ve- scovo di Albano e cardinale. Muore l’anno dopo du- rante il concilio di Lione. Domenico di Calaruèga (1170/75-1221), presso Burgos (Spagna), appartiene alla nobile famiglia dei Guzman. Studia teologia, divenendo famoso per la sua conoscenza di questioni dottrinali. Fonda l’ordine dei frati domenicani, impegnati sul piano teologico a predicare la sana dottrina della fede e a difendere le verità cristiane dagli eretici. Predica in particolare contro gli albigesi (1205 e 1207-14). È estraneo però alla crociata contro gli albigesi (1207-14), nella quale si distingue per ferocia Folchetto da Marsiglia, suo collaboratore. Nel 1215 si reca a Roma con Folchet- to, per avere dal papa Innocenzo III il riconoscimento del suo ordine. Lo ottiene l’anno successivo. Il suo ordine si divide poi in tre famiglie: i frati predicatori, le suore domenicane, il terz’ordine domenicano, a- perto ai laici. Iride è l’ancella di Giunone. Scendendo sulla terra per portare i messaggi della dea, lascia con l’arco- baleno una traccia del suo passaggio. L’arcobaleno è fatto sorgere da Dio come segno del nuovo patto di alleanza stipulato con Noè e la sua famiglia dopo il diluvio universale, con cui aveva punito gli uomini per la loro corruzione (Gn 8, 20- 22). Enrico di Susa (?-1271) è detto Ostiense perché cardinale e vescovo di Ostia dal 1261. Insegna diritto canonico a Bologna e a Parigi, e scrive la Summa su- per titulis Decretalium (Compendio sopra i capitoli delle Decretali), un’opera fondamentale di diritto ca- nonico, che ha una grandissima diffusione e un gran- dissimo influsso nel Medio Evo. Taddeo d’Alderotto (1215-1295) è un famoso me- dico di Firenze, autore di molti libri adoperati nelle scuole del tempo. Spirituali e conventuali sono le due correnti in cui si divide l’ordine, quando Francesco è ancora in vita: i primi vogliono restare fedeli alla regola ed anzi la interpretano in termini più rigidi, i secondi invece la vogliono adattare ai tempi e ai nuovi problemi reli- giosi e sociali che l’ordine deve affrontare. Dante sceglie Umbertino da Casale (Pisa) (1159ca.-dopo il 1325) come rappresentante degli spirituali, Matteo d’Acquasparta (Terni)(1240ca.-1302) come rappre- sentante dei conventuali. Illuminato da Rieti (1190ca.-1260ca.) e Agostino d’Assisi sono tra i primi seguaci di Francesco d’As- sisi. Ugo da san Vittore (Yprès 1147ca.-Parigi 1141) nel 1133 entra nell’abbazia di San Vittore presso Parigi. È filosofo e mistico. È seguace di sant’Agostino e Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 55 ria nella prima metà del canto successivo (il conte Ugolino della Gherardesca, XXXII-XXXIII). Nel Purgatorio si fa accompagnare da un personaggio per tre canti (Sordello da Goito, VI-VIII) e da un al- tro per 13 (Stazio, XXI-XXXIII). Nel Paradiso in- contra un personaggio in un canto e gli fa occupare tutto il canto successivo (Giustiniano, V-VI), dedica ben tre canti ad uno stesso personaggio (Cacciaguida, XV-XVII) e ad un certo punto lascia Beatrice per un nuovo personaggio (san Bernardo, XXXII), quindi resta da solo davanti alla corte celeste (XXXIII). 8.2. Egli applica costantemente il principio della va- rietà sia al livello di struttura sia al livello di conte- nuto (papi messi all’inferno, donne di malaffare e prostitute messe in paradiso), perché il compito del poeta è quello di plasmare la realtà che tocca, per in- teressare senza tregua il lettore, e il compito del ri- formatore politico e religioso è quello di riplasmare la realtà sociale e spirituale con gli strumenti offerti dalla poesia. Il poeta, il politico, il mistico sono i tre aspetti fondamentali con cui Dante si presenta al let- tore. E tutti e tre hanno la stessa radice e gli stessi scopi: riformare, mutare, modificare, riportare gli uomini a percorrere la strada abbandonata del bene. 9. I giudizi di Dante sull’ordine francescano e sul- l’ordine domenicano, oltre che sui singoli individui, e in generale sugli ecclesiastici vanno confrontati con i giudizi di altri autori, che li danno da punti di vista profondamente diversi. In al modo emerge il caratte- re profondamente ideologico dei giudizi del poeta come dei giudizi degli altri autori 9.1. Nello Specchio di vera penitenza, una raccolta di prediche edificanti, il frate domenicano J. Passavanti (1302ca.-1357) difende ad oltranza gli ecclesiastici contro i laici e contro il sapere laico, anche se ricono- sce gli errori, cioè i peccati, degli ecclesiastici. E, in sintonia con il suo pubblico popolare, ha una visione estremamente povera dei peccati (ridotti a lussuria, superbia, avarizia o attaccamento alla ricchezza), del- la vita terrena e di quella ultraterrena. 9.2. Nel Decameron, una raccolta di 100 novelle, G. Boccaccio (1313-1375) dà una valutazione laica e terrena del comportamento degli ecclesiastici. E tra- sforma il papa Bonifacio VIII, l’acerrimo nemico di Dante, in un grande principe, sensibile alla ricchezza e ai valori del mondo, che con abilità manda avanti gli affari della Chiesa. In sostanza egli non dà giudizi morali sui comportamenti degli ecclesiastici. Egli si schiera con i nobili (che però non lo vogliono nelle loro file), pur essendo di estrazione borghese; ma, quando serve, è ugualmente tagliente sia con i reli- giosi che con i laici. Invece condanna senz’appello il popolo credulone e assetato di miracoli, che merita soltanto d’essere imbrogliato. 9.3. Nel Novellino, una raccolta di 50 novelle, Ma- succio Guardati, detto Salernitano (1410/15-1475), un nobile napoletano, esprime un atteggiamento irre- ligioso, blasfemo, ferocemente anticlericale e porno- grafico verso i nemici di classe, tanto che l’Uditore, un alto ecclesiastico che si occupava della propagan- da ostile alla Chiesa, distrugge di sua mano il mano- scritto autografo, poco prima o forse poco dopo la morte dell’autore. A una nobiltà che pratica gli ideali di liberalità, di prodezza e di amicizia, l’autore con- trappone un mondo ecclesiastico dissoluto, dedito agli imbrogli, ai piaceri della carne e avido di denaro. 9.4. In un breve trattato di politica, intitolato il Prin- cipe (1512-13) N. Machiavelli (1469-1527) intende staccare la politica dalla morale e darle uno statuto di scienza autonoma: la politica ha le sue leggi, che non concordano necessariamente con quelle della morale. L’uomo politico deve infrangere le leggi della mora- le, quando ciò torna utile al bene dello Stato e al mantenimento del potere. La religione è strumento di potere, perché permette di controllare gli uomini. Il principe deve mostrare di avere (non è necessario che li abbia) quegli atteggiamenti ispirati alla benevolen- za, all’umanità e al rispetto dei valori religiosi, che lo rendono ben accetto ai suoi sudditi. 10. Dante continua le variazioni sul nome detto (è il caso generale), non detto (il poeta tace il suo a Sapìa da Siena), detto in un secondo momento (il suo e quello di Matelda), anonimo (l’anonimo fiorentino). Qui ora il nomen è omen (Domenico, Felice, Gio- vanna), è una previsione e un augurio per il futuro. D’altra parte la Bibbia daà un significato forte all’attribuzione del nome, e normalmente nella scelta del nome ai figli si pensa a un personaggio famoso a cui i figli dovrebbero assomigliare. Sicuramente mol- ti autori non sarebbero divenuti famosi con il loro nome originale (Italo Svevo, Alberto Moravia). Così hanno deciso di cambiarlo. La struttura del canto è semplice: 1) il frate france- scano Bonaventura da Bagnoregio parla della vita e dell’opera di Domenico di Calaruega, che sposa la Fede; 2) tesse l’elogio dei frati domenicani; quindi 3) critica i frati del suo ordine che hanno reso più rigida o reso più facile la regola; infine 4) fa il nome di al- cuni frati francescani e di alcuni mistici che sono lì con lui in cielo. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 56 Canto XV Benigna volontade in che si liqua sempre l’amor che drittamente spira, come cupidità fa ne la iniqua, 1 silenzio puose a quella dolce lira, e fece quietar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. 4 Come saranno a’ giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? 7 Bene è che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spoglia. 10 Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or sùbito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, 13 e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond’e’ s’accende nulla sen perde, ed esso dura poco: 16 tale dal corno che ‘n destro si stende a piè di quella croce corse un astro de la costellazion che lì resplende; 19 né si partì la gemma dal suo nastro, ma per la lista radial trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. 22 Sì pia l’ombra d’Anchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio s’accorse. 25 “O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei, sicut tibi cui bis unquam celi ianua reclusa?”. 28 Così quel lume: ond’io m’attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; 31 ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. 34 Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch’io non lo ‘ntesi, sì parlò profondo; 37 né per elezion mi si nascose, ma per necessità, ché ‘l suo concetto al segno d’i mortal si soprapuose. 40 E quando l’arco de l’ardente affetto fu sì sfogato, che ‘l parlar discese inver’ lo segno del nostro intelletto, 43 la prima cosa che per me s’intese, “Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno, che nel mio seme se’ tanto cortese!”. 46 E seguì: “Grato e lontano digiuno, tratto leggendo del magno volume du’ non si muta mai bianco né bruno, 49 solvuto hai, figlio, dentro a questo lume in ch’io ti parlo, mercè di colei ch’a l’alto volo ti vestì le piume. 52 Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch’è primo, così come raia da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei; 55 e però ch’io mi sia e perch’io paia più gaudioso a te, non mi domandi, che alcun altro in questa turba gaia. 58 1. La volontà di fare il bene, nella quale si risolve sempre l’amore [divino] che ispira sentimenti retti, come la cupidigia la fa diventare volontà di fare il male, 4. fece tacere quella dolce lira (=il coro dei be- ati) e fece fermare le sante corde, che la mano di Dio allenta e tende. 7. Come potranno essere sorde alle giuste preghiere [dei vivi] quelle anime che, per in- vogliarmi ad esprimere i miei desideri, furono con- cordi a tacere? 10. È giusto che soffra senza fine [nell’inferno] colui che, per amore di una cosa che non duri eternamente, si spoglia di quell’amore [di- vino]. 13. Come per i sereni (=cieli) tranquilli e puri guizza di tanto in tanto un fuoco improvviso, che fa muover gli occhi che guardavano sicuri, 16. e appare una stella che muti il suo posto, se non che dalla par- te dove esso si accende non scompare alcuna stella, ed essa dura poco; 19. così dal braccio, che si stende a destra, corse ai piedi di quella croce un astro (=un’anima splendente) della costellazione che lì ri- splende. 22. Né la gemma (=l’anima) si staccò dal suo nastro (=la croce), ma si mosse lungo i due brac- ci, [in modo] che parve [come] un fuoco dietro ad alabastro. 25. Con lo stesso affetto l’ombra di Anchi- se si offrì [agli occhi di Enea], se merita fiducia la nostra maggior musa (=Virgilio), quando essa nei Campi Elisi scorse il figlio. 28. «O sangue mio, o sovrabbondante grazia di Dio infusa [in te], a chi come a te fu mai dischiusa due volte la porta del cie- lo?» 31. Così disse quella luce. Perciò io la fissai at- tentamente. Poi rivolsi lo sguardo alla mia donna e rimasi stupefatto per le parole di quella luce e per il volto di lei: 34. dentro ai suoi occhi ardeva un sorriso tale, che io pensai di toccare con i miei il culmine della mia gloria e del mio paradiso (=beatitudine). 37. Quindi lo spirito, piacevole da udire e da vedere, aggiunse alle prime parole cose, che io non compresi, tanto parlò profondamente. 40. Né si nascose a me per sua scelta, ma per necessità, perché il suo pensie- ro andò oltre il limite della comprensione umana. 43. E, quando l’ardore dell’affetto intensissimo si fu sfo- gato al punto che le sue parole discesero al livello del nostro intelletto, 46. la prima cosa che da me si com- prese fu: «Benedetto sia tu, o [Dio] uno e trino, che sei tanto cortese (=generoso) verso la mia discenden- za!». 49. E proseguì: «Un gradito e lungo desiderio [di vederti], sorto [in me] leggendo nel grande volu- me (=in Dio), dove non si muta mai né la pagina bianca né quella bruna (=scritta), 52. tu, o figlio, hai soddisfatto dentro questa luce, in cui ti parlo, grazie a colei che ti vestì le piume per questo gran volo. 55. Tu credi che il tuo pensiero venga a me da colui che è primo (=Dio), così come deriva dal [numero] uno il cinque ed il sei (=gli altri numeri). 58. Perciò non mi domandi chi io sia e perché io appaia verso di te più festoso di ogni altro spirito di questa gaia schiera. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 57 Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi di questa vita miran ne lo speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi; 61 ma perché ‘l sacro amore in che io veglio con perpetua vista e che m’asseta di dolce disiar, s’adempia meglio, 64 la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volontà, suoni ‘l disio, a che la mia risposta è già decreta!”. 67 Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer l’ali al voler mio. 70 Poi cominciai così: “L’affetto e ‘l senno, come la prima equalità v’apparse, d’un peso per ciascun di voi si fenno, 73 però che ‘l sol che v’allumò e arse, col caldo e con la luce è sì iguali, che tutte simiglianze sono scarse. 76 Ma voglia e argomento ne’ mortali, per la cagion ch’a voi è manifesta, diversamente son pennuti in ali; 79 ond’io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e però non ringrazio se non col core a la paterna festa. 82 Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia preziosa ingemmi, perché mi facci del tuo nome sazio”. 85 “O fronda mia in che io compiacemmi pur aspettando, io fui la tua radice”: cotal principio, rispondendo, femmi. 88 Poscia mi disse: “Quel da cui si dice tua cognazione e che cent’anni e piùe girato ha ‘l monte in la prima cornice, 91 mio figlio fu e tuo bisavol fue: ben si convien che la lunga fatica tu li raccorci con l’opere tue. 94 Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. 97 Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. 100 Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, che ‘l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. 103 Non avea case di famiglia vòte; non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ‘n camera si puote. 106 Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto nel montar sù, così sarà nel calo. 109 Bellincion Berti vid’io andar cinto di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza ‘l viso dipinto; 112 e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. 115 Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. 118 61. Tu credi il vero, perché i piccoli e i grandi di questa vita [beata] vedono nello specchio (=in Dio) in cui manifesti il tuo pensiero prima di pensarlo. 64. Ma, affinché l’amore divino, nel quale io veglio con una visione perpetua e che mi fa provare la sete del dolce desiderio [di risponderti], si adempia meglio, 67. la tua voce sicura (=senza incertezze), coraggiosa e lieta esprima con le parole la tua volontà, esprima il tuo desiderio, ai quali la mia risposta è già pronta!». 70. Io mi rivolsi a Beatrice, [per chiederle di parlare]; ella udì [la mia richiesta] prima che io parlassi, e mi sorrise un cenno di consenso, che fece crescere le ali al mio desiderio. 73. Poi cominciai così: «Il senti- mento e l’intelletto, non appena la prima uguaglianza (=Dio, i cui attributi raggiungono tutti lo stesso grado infinito di perfezione) vi apparve (= non appena sali- ste al cielo), si fecero dello stesso peso (=uguali, sep- pure a un grado non infinito) per ciascuno di voi, 76. perché il sole (=Dio), che v’illuminò e che vi arse, è così uguale nel fuoco [dell’amore] e nella luce [della sapienza], che tutte le [altre] uguaglianze a Lui simili (=angeli e beati) sono insufficienti [rispetto a Lui]. 79. Ma la facoltà di sentire e quella di ragionare nei mortali, per il motivo (=l’imperfezione umana) che a voi è manifesto, hanno una diversa capacità di volare (=la ragione non è all’altezza del sentimento). 82. Perciò io, che sono mortale, mi sento in questa disu- guaglianza, e ringrazio soltanto con il cuore per que- sta paterna accoglienza. 85. Ben ti supplico, o vivo topazio che ingemmi questo gioiello prezioso (=la croce), di farmi sazio (=di rivelarmi) del tuo nome». 88. «O fronda mia, nella quale mi compiacqui sola- mente aspettandoti, io fui la tua radice (=il tuo capo- stipite)» in questo modo iniziò a rispondermi. 91. Poi continuò: «Colui (=Alighiero I), dal quale la tua fa- miglia ha preso il nome e che per cent’anni e più ha girato il monte [del purgatorio] nella prima cornice (=quella dei superbi), 94. fu mio figlio e fu tuo bisa- volo: è ben necessario che tu gli accorci la lunga fati- ca con le tue opere. 97. Firenze dentro la cerchia an- tica, dove essa sente ancora suonare l’ora terza e la nona, viveva in pace, sobria e pudìca. 100. Non si usavano collane, non corone [per il capo], non gonne ricamate, non cinture che fossero più vistose della persona [che le portava]. 103. Nascendo, la figlia non faceva ancor paura al padre, perché il tempo [delle nozze] e la dote non superavano, né questa né quello, la misura. 106. Non c’erano case [con stanze] vuote, non vi era ancor giunto Sardanapàlo a mostrar ciò che si può fare in camera (=dentro casa). 109. Non era ancor vinto monte Mario (=Roma) dal vostro monte Uccellatoio; e quello, com’è [stato] vinto nell’ascesa, così sarà vinto nella decadenza. 112. Io vidi Bellincion Berti andare cinto di cuoio e d’osso e la sua donna venir [via] dallo specchio senza il viso dipinto. 115. E vidi la famiglia dei Nerli e quella dei Vecchietti esser contente di [indossar un mantello di] pelle non foderata e le sue donne [lavorare] al fuso e al pennecchio. 118. Oh fortunate!, ciascuna era certa della sua sepoltura e ancora nessuna era [stata] lascia- ta sola nel letto [dal marito partito] per la Francia. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 60 vento della storia però travolge Dante, ma travolge implacabilmente anche ogni generazione che si af- faccia sulla scena politica e sociale. Le nuove genera- zioni premono per trovare spazio, ricchezza e potere. E le vecchie generazioni devono cedere la mano pro- prio quando, dopo una vita di lotte, hanno raggiunto il potere e la sicurezza tanto desiderati. La vecchiaia è una debolezza e la giovinezza è una forza inarrestabi- le. D’altra parte anch’esse si erano comportate allo stesso modo con le generazioni precedenti... 6. Il tema della famiglia e della paternità è un filo conduttore della Divina commedia. Cavalcante de’ Cavalcanti pensa al figlio ed è insensibile ai valori politici di Farinata degli Uberti (If X, 52-81). Il conte Ugolino della Gherardesca è incarcerato dai pisani nella torre della Muta e qui fatto morire di fame con i figli (If XXXIII, 43-78). Ulisse dimentica il figlio, che non aveva mai visto, il padre e la moglie, per conseguire «virtute e canoscenza» (If XXVI, 90- 102). Guido da Montefeltro pianifica la salvezza dell’anima, ma si danna (If XXVII); invece suo figlio Bonconte da Montefeltro, peccatore fino all’ultimo istante di vita, si salva invocando la Madonna (Pg V, 85-129). Una paternità particolare è quella spirituale: Dante si sente figlio spirituale di Virgilio (If I, 85-87; e Pg XXX, 49-51), su cui si è formato, e di Brunetto Latini (If XV, 79-87), che è stato il suo maestro e gli ha insegnato come l’uomo si eterna con la fama. In Pd VIII, 94-148, Dante poi affronta il problema dell’ereditarietà. Il padre per eccellenza resta in ogni caso il Padre che è nei cieli, a cui il poeta dedica una preghiera: «O Padre nostro, che ne’ cieli stai...» (Pg XI, 1-30). 7. La maternità ha uno spazio minore: sorprendente- mente la discendenza è sempre maschile, mai fem- minile, anche se è saggezza popolare che pater sem- per incertus (il padre è sempre sconosciuto; peraltro oggi con le tecniche di analisi del DNA è possibile individuarlo con assoluta certezza). In Pd VIII, 127- 135, il poeta afferma che la natura farebbe sempre i figli uguali ai generanti – cioè al padre –, se non in- tervenisse la Provvidenza. In Dante la donna per ec- cellenza, la Vergine Maria, è sì Madre, ma è contem- poraneamente rimasta una ragazza. È vergine e ma- dre. Ha quindi una duplice natura come suo figlio, Gesù Cristo, che è, insieme, Dio e uomo. Ad essa viene dedicata la splendida preghiera con cui inizia Pd XXXIII, 1-21: «Vergine Madre, figlia del tuo fi- glio...». 8. Anche altrove il poeta critica le donne che hanno una vita scostumata o che si truccano. In bocca al- l’amico Forese Donati mette queste parole: «Tempo futuro m’è già nel cospetto, Cui non sarà quest’ora molto antica, Nel qual sarà in pergamo interdetto A le sfacciate donne fiorentine L’andar mostrando con le poppe il petto» («Mi è già davanti agli occhi il tempo futuro, rispetto al quale il momento presente non sarà molto lontano, nel quale dal pulpito [delle chiese] sarà vietato alle sfacciate donne fiorentine andare [in giro] mostrando le poppe e il petto») (Pg XXIII, 98-102). 9. Per Dante Cacciaguida è il padre assoluto, la sua prima radice, il capostipite della sua famiglia. Da parte sua il trisavolo lo chiama affettuosamente «san- gue mio» (v. 28) e «fronda mia» (v. 88). E gli fa la genealogia della famiglia Alighieri, come nella Bib- bia si fa la genealogia del popolo d’Israele: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe...». Nelle so- cietà tradizionali i fatti erano fissati cronologicamen- te facendo riferimento alla genealogia della famiglia. E soltanto le famiglie regali o le grandi famiglie co- noscevano il tempo lungo, che si estendeva nel passa- to per qualche generazione. Il popolo non andava al di là dei riferimenti a due generazioni passate e a qualche riferimento ai sovrani entrati nella cultura popolare. Il tempo oggettivo, scandito dall’orologio, il tempo pubblico usato dallo Stato e il tempo lungo degli storici, riferito agli anni del calendario, nascono lentamente. Nel 532 d.C. Dionigi il Piccolo (500ca.- 555) risistema la cronologia della storia universale prendendo come data di riferimento la nascita di Ge- sù Cristo. Le nuove misure del tempo si affermano soltanto nelle società industrializzate alla fine del- l’Ottocento. Da quel momento inizia la supremazia del tempo oggettivo e meccanico sul tempo scandito dal passaggio delle generazioni (il tempo storico) e dal passaggio delle stagioni dell’anno (il tempo cicli- co della società agricola). 9.1. Il canto mostra la centralità della famiglia (l’a- scendenza e la discendenza), alla quale l’individuo come cellula transeunte apparteneva. Ciò era emerso fin da If X, 42, quando Farinata chiede a Dante non chi è, ma chi sono i suoi antenati. Questa convinzio- ne sta alla base del canto successivo, quando il poeta chiede al trisavolo di parlargli delle famiglie fiorenti- ne del suo tempo. 10. La struttura del canto è simile a quella di altri canti, ad esempio al canto di Ulisse (If XXVI) o al canto dell’invettiva all’Italia (Pg VI): un inizio eleva- to, un interludio preparatorio, quindi il nucleo centra- le e una conclusione secca. 11. La militanza di Cacciaguida al servizio dell’im- peratore e la morte come martire della fede mostrano una vita ideale e i due poli tra i quali essa si svolge. Peraltro il trisavolo (e il poeta) critica i mariti che abbandonano la moglie per andare in Francia a commerciare. Ma egli abbandona la sua per andare in Terra Santa a farsi ammazzare... Chi ha più ragione? Oppure tutti gli ideali sono ugualmente giustificabili? Il fatto è che per Dante, appartenente alla piccola no- biltà, il commercio è volgare, non è un valore, e la ricchezza che produce provoca mutamenti e quindi tensioni sociali. Tutte cose da evitare. Per il commer- ciante invece il denaro serve per arricchire se stesso e la sua famiglia, per mostrare in pubblico il suo suc- cesso professionale e il suo tenore di vita, per osten- tare la sua ricchezza e le sue capacità personali, le sue case e i suoi palazzi e per cambiare classe sociale. I più bei palazzi, di cui Firenze può andar fiera, sono stati costruiti da questa gentaglia... 12. Il poeta vede soltanto l’aspetto religioso della crociata. In realtà la crociata, soprattutto la prima, ha un significato molto più complesso: è l’Europa che si riprende economicamente, demograficamente e tec- nologicamente, e che inizia, dopo secoli di ripiega- mento su se stessa, una politica aggressiva ai suoi Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 61 confini, contro i nemici che la terrorizzavano. È il modo per incanalare la violenza e le tensioni sociali che caratterizzavano il continente. È l’espressione di curiosità verso mondi lontani nello spazio e nel tem- po, di cui i libri, in particolare la Bibbia, parlavano. È la possibilità di riprendere i commerci interrotti da secoli. Contemporaneamente alle crociate si diffon- dono i viaggi per mare che portano a nuove scoperte geografiche ed aprono la strada ai commerci. Due se- coli dopo questiviaggi portano alla scoperta dell’A- merica (1492). Dante si dibatte in una insuperabile contraddizione: apprezza il coraggio e l’amore per il sapere di Ulisse, che va ad esplorare il mondo senza gente (un viaggio di sola conoscenza, non un viaggio per aprire nuovi mercati) e non si accorge che le nuo- ve conoscenze cambiano inevitabilmente e radical- mente quella società che egli vorrebbe immutabile ed eterna, cioè fuori della storia. Platone (427-347 a.C.), più avveduto di lui, nella Leggi (un testo che il poeta ignora), per eliminare i cambiamenti sociali, immagi- na che la cultura debba essere statica e che di tanto in tanto tutti debbano ritornare a riassimilare la cultura che si era stabilito che fosse valida per sempre. 13. Dante è spinto dall’esilio a sentire con maggiore intensità le sue radici fiorentine. Così rimpiange la Firenze antica, quella del trisavolo Cacciaguida, che viveva in pace, era sobria e pudìca: la vita era tran- quilla, i mariti non abbandonavano le mogli per an- dare in Francia a commerciare, la ricchezza era mo- derata, non c’era corruzione politica e morale, la cul- tura era costituita dalle storie degli antichi romani, le donne si dedicavano all’educazione dei figli e la vita religiosa era intensa. Il poeta rimpiange questa socie- tà ideale e irreale, situata fuori dello spazio e del tempo, perché la Firenze e il tempo in cui vive sono travolti da rapidi e violentissimi mutamenti, che spazzano via il modo di vivere della sua giovinezza (e della sua generazione), quando era il maggiore e- sponente del Dolce stil novo. Così ripropone con no- stalgia e con rimpianto gli antichi valori, compresa l’idea di crociata, che caratterizzavano la Firenze an- tica. Ma ormai il loro tempo è passato. La Chiesa e l’Impero entrano in una crisi sempre più grave. Il pa- pato è spostato ad Avignone (1305-78) e poi va in- contro al Grande Scisma (1378-1416), che si conclu- de soltanto con il concilio di Costanza (1416-20). L’Impero perde potere a favore degli Stati nazionali, che dimostrano la loro aggressività con Carlo VIII re di Francia, che invade l’Italia (1494). La società ita- liana ed europea subisce un collasso pauroso con la peste nera del 1349-51, che fa 25 milioni di morti su una popolazione di 100 milioni. Il poeta è un soprav- vissuto. Eppure proprio per questo motivo vede me- glio dei suoi contemporanei che le nuove strade in- traprese dall’economia e dalla società non portano a uno sviluppo soddisfacente, armonico, equilibrato, tale da far dimenticare il presente e il passato. 14. Davanti alla idealizzazione del passato fatta dal poeta ci si può chiedere come a suo volta il passato si comportava. Molto probabilmente allo stesso modo: condannava il presente e si rifugiava in un passato ancora più remoto, che praticava i valori di liberalità e di prodezza… In realtà soltanto abbondanza di ric- chezza, cioè il presente, poteva permettere di profes- sare quei valori. E insomma nel presente esisteva un benessere maggiore e più diffuso. E allora perché in- vidiare il passato? Perché ogni generazione invidia il passato? Nel caso di Dante ci può essere un motivo rpeciso: è stato emarginato dalla storia ed è stato sconfitto. Ma normalmente si invidia il passato per- ché il passato non è il passato degli altri, è il proprio passato, il passato della propria giovinezza, quando avevamo grandi sperazne e grandi progetti per il fu- turo. E forse siamo riusciti a realizzare le une e gli altri, forse no, ma non importa. Quel che conta è che essi non ci hanno dato quelle soddisfazioni che ci a- spettavamo e noi continuiamo a invidiare l’ebrezza e la gioia dell’attesa, che soltanto la giovinezza può da- re. Da adulti abbiamo molti beni, ma non proviamo la soddisfazione che provavamo quando assaggiava- mo in quantità minore quei beni, perché era la prima volta che li assaggiavamo. Indubbiamente l’animo umano è contorto. La struttura del canto è semplice: 1) Dante incontra il trisavolo Cacciaguida; 2) il trisavolo fa la storia della famiglia degli Alighieri; quindi 3) tesse l’elogio della Firenze del suo tempo, che viveva in pace, era sobria e pudìca; infine 4) parla della sua vita: è bat- tezzato nel battistero di san Giovanni; quindi si met- te al servizio dell’imperatore; partecipa alla crociata per liberare il Santo Sepolcro; e muore in Terra San- ta, combattendo per la fede; e 5) ciò lo fa andare di- rettamente in paradiso. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 62 Canto XVI O poca nostra nobiltà di sangue, se gloriar di te la gente fai qua giù dove l’affetto nostro langue, 1 mirabil cosa non mi sarà mai: ché là dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. 4 Ben se’ tu manto che tosto raccorce: sì che, se non s’appon di dì in die, lo tempo va dintorno con le force. 7 Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie, in che la sua famiglia men persevra, ricominciaron le parole mie; 10 onde Beatrice, ch’era un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra. 13 Io cominciai: “Voi siete il padre mio; voi mi date a parlar tutta baldezza; voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io. 16 Per tanti rivi s’empie d’allegrezza la mente mia, che di sé fa letizia perché può sostener che non si spezza. 19 Ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che si segnaro in vostra puerizia; 22 ditemi de l’ovil di San Giovanni quanto era allora, e chi eran le genti tra esso degne di più alti scanni”. 25 Come s’avviva a lo spirar d’i venti carbone in fiamma, così vid’io quella luce risplendere a’ miei blandimenti; 28 e come a li occhi miei si fé più bella, così con voce più dolce e soave, ma non con questa moderna favella, 31 dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave’ al parto in che mia madre, ch’è or santa, s’alleviò di me ond’era grave, 34 al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi sotto la sua pianta. 37 Li antichi miei e io nacqui nel loco dove si truova pria l’ultimo sesto da quei che corre il vostro annual gioco. 40 Basti d’i miei maggiori udirne questo: chi ei si fosser e onde venner quivi, più è tacer che ragionare onesto. 43 Tutti color ch’a quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e ‘l Batista, eran il quinto di quei ch’or son vivi. 46 Ma la cittadinanza, ch’è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l’ultimo artista. 49 Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine, 52 che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d’Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l’occhio aguzzo! 55 Se la gente ch’al mondo più traligna non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, 58 1. O poca nostra nobiltà di sangue, se fai inorgoglire di te la gente quaggiù (=sulla terra), dove i nostri sen- timenti languiscono, 4. per me tu non sarai mai una cosa sorprendente, poiché là dove i nostri desideri non cambiano direzione, dico nel cielo, io me ne glo- riai. 7. Tu sei proprio come un mantello che ben pre- sto si accorcia, così che il tempo con le forbici lo ta- glia tutt’intorno, se non se ne aggiunge di giorno in giorno. 10. Dal «voi », che per la prima volta si usò a Roma [in segno di riverenza], [uso] che la sua gente ha quasi abbandonato, ricominciarono le mie parole. 13. Perciò Beatrice, che era un po’ discosta, sorri- dendo, parve quella [donna] che tossì al primo errore che si narra di Ginevra. 16. Io cominciai: «Voi siete il mio progenitore. Voi mi date tutta la baldanza per parlare. Voi mi sollevate a tale altezza, che io sono più che io. 19. Per tanti rivi si riempie di allegrezza il mio animo, che prova letizia verso di sé, perché può sostenerla senza spezzarsi. 22. Ditemi dunque, o mia cara primizia (=capostipite), quali furono i vostri an- tenati e quali furono gli anni che si segnarono nella vostra puerizia; 25. parlatemi della città di San Gio- vanni (=Firenze) quanto allora era estesa e quali era- no le famiglie degne di [occupare] le cariche più im- portanti». 28. Come allo spirare dei venti il carbone si ravviva nella fiamma, così io vidi quella luce ri- splendere ai miei blandimenti (=complimenti). 31. E, come ai miei occhi si fece più bella, così con voce più dolce e soave, ma non con questa moderna favel- la (=nel fiorentino arcaico), 34. mi disse: «Dal giorno in cui fu detto “Ti saluto, o Maria” (=il giorno del- l’annunciazione alla Vergine Maria) al parto con cui mia madre, che ora è santa, si alleviò di me di cui era gravida, 37. alla costellazione del Leone 580 volte questo fuoco [di Marte] venne a rinfiammarsi sotto il suo piede (=nacqui il 25 marzo 1091). 40. I miei an- tenati ed io nascemmo in quella zona [di Firenze] che incontra prima dell’ultimo sestiere chi corre il vostro palio annuale (=il rione di Porta san Pietro in via de- gli Speziali). 43. Ti basti udire questo dei miei ante- nati: chi essi fossero e da dove vennero qui, è più o- nesto tacere che ragionare. 46. Tutti coloro, che a quel tempo tra Ponte Vecchio e il Battistero erano capaci di portare le armi, erano il quinto (=2.000 su una popolazione di 6.000 abitanti) di quelli che ora le possono portare. 49. Ma i cittadini, che ora sono me- scolati con gente [che proviene] da Campi, da Cer- taldo e da Figline, si vedevano puri fino all’ultimo artigiano. 52. Oh quanto sarebbe stato meglio che vi fossero [soltanto] vicine (=confinanti) quelle genti che io dico e che a Galluzzo e a Trespiano aveste i vostri confini. 55. Invece le avete dentro [le mura] e sostenete la puzza del villano di Aguglione e di quel- lo da Signa, che ha già l’occhio aguzzo per barattare! 58. Se la gente che al mondo più traligna (=gli uomi- ni di Chiesa) non si fosse comportata come una ma- trigna verso l’imperatore (=Enrico VII), ma se fosse stata come una madre benigna verso suo figlio, tal fatto è fiorentino e cambia e merca, 61 Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 65 Da questo momento Firenze si divide nelle due fa- zioni dei guelfi e dei ghibellini. Tutti coloro sono sei famiglie fiorentine (Pulci, Ner- li, Candonati, Giangalandi, Della Bella, Alepri) che hanno avuto l’investitura di cavaliere da parte di Ugo il Grande di Brandeburgo (?-1001) e che perciò han- no fatto proprio lo stemma più o meno modificato del signore che li ha nominati cavalieri. Ugo il Grande di Brandeburgo (?-1001) è marchese di Toscana e gran vicario dell’imperatore Ottone III. Muore il 21 dicembre 1001, giorno di san Tommaso. Il suo stemma aveva sette doghe vermiglie in campo bianco. Giano della Bella (seconda metà del sec. XIII), un nobile di parte guelfa, si schiera con il “popolo” e di- viene più volte priore di Firenze (1289, 1293). Con- tro i magnati e le arti maggiori promulga gli Ordina- menti di giustizia (1293, modificati nel 1294). Costo- ro ordiscono una congiura e lo costringono a rifugiar- si in Francia. In base agli Ordinamenti del 1294 i no- bili che vogliono entrare nella vita politica devono iscriversi ad un’arte. Dante è tra questi. Il giglio bianco in campo rosso è mutato nel giglio rosso in campo bianco dai guelfi quando nel 1251 cacciano i ghibellini dalla città. Commento 1. Dante fa un lungo elenco di famiglie fiorentine. Esso non deve apparire arido, poiché è parte della memoria dello stesso poeta, come di ogni suo concit- tadino e perché nel Medio Evo non esistevano gli in- dividui, ma le famiglie, di cui gli individui facevano parte come cellule transeunti. Eventualmente un indi- viduo fuori del comune come Bellincion Berti dava inizio ad una nuova famiglia. Ed è quello che succe- de. Questi fatti costituivano la cultura dei fiorentini; e il ricordo di questi fatti costituiva la memoria sociale o collettiva che tutti – nobili e borghesi, ricchi e po- veri – condividevano e in cui tutti s’identificavano. 1.1. La storia come genealogia della casa regnante proviene dal mondo antico, assiro-babilonese, egi- ziano, ebraico, greco e romano. Sul regno di un so- vrano o sull’elezione dei consoli erano datati gli av- venimenti importanti. I medioevali sono più demo- cratici (oppure non hanno un potere centrale forte) e fanno storia e memoria anche delle famiglie più im- portanti della città. La storia delle genealogie nel Set- tecento diventa storia politica (case regnanti, guerre e trattati di pace) e storia della Chiesa (storia di elezio- ni papali e di concili). Nell’Ottocento diventa anche storia economica. La storia della società è un acqui- sto soltanto di fine Novecento. 1.2. I critici che dimenticano queste cose concludono inevitabilmente che in questo canto il poeta fa un ari- do elenco delle famiglie nobili del passato. Non han- no capito niente. Non hanno capito che questa è la cultura di Dante, che questo era il modo di fare storia del tempo (e per molti altri secoli), che la genealogia (che aveva poi illustrissimi precedenti) costituiva la memoria collettiva di tutta la società. Oltre a ciò non colgono il fatto che parla Cacciaguida, ma è il poeta che prova una lacerante nostalgia per il buon tempo antico in cui sarebbe voluto vivere, poiché non gli dava tutte le preoccupazioni e i problemi del presen- te. 2. Il trisavolo, e dietro a lui il poeta, ricorda con invi- dia, con partecipazione e con nostalgia i tempi anti- chi, i tempi eroici della prima Firenze, che era picco- la, viveva in pace, era sobria e pudìca (Pd XV). Qui il poeta compie – come normalmente succede a tutti – un duplice errore: a) il passato è abbellito perché la memoria ricorda e gonfia gli aspetti belli, e rimuove gli aspetti brutti; b) il passato è il luogo ideale dove rifugiarsi, perché il presente è assolutamente insod- disfacente. E poi il passato è bello perché è il tempo della giovinezza e delle speranze nel futuro, mentre il futuro, cioè l’attuale presente, mostra inattuate tali speranze. Insomma, per evitare di commettere errori, si deve controllare che il bilancino con cui misuriamo il presente e il passato sia lo stesso. E che le variabili esaminate siano le stesse. Ma questa è la ragione… 2.1. Il passato però non è il passato della giovinezza, è un altro passato: è il passato della giovinezza rin- negato e sostituito e fatto confluire in un passato re- moto mitico, quello in cui viveva il suo trisavolo. Il passato della giovinezza effettivo è quello del Dolce stil novo e della gentilezza d’animo, cioè della pole- mica ad oltranza contro la nobiltà di sangue e la classe nobile che ad essa si appoggiava. Ora il poeta ha abbandonato le speranze giovanile ed ha ripiegato o si è rifugiato proprio in quel passato che nella gio- vinezza rifiutava. Un comportamento normale per tutti coloro che sono stati delusi e che perciò si ag- grappano con più forza proprio a quella realtà, a quei valori e a quegli ideali, che volevano abbandonare: «O poca nostra nobiltà di sangue...» (v. 1). La fuga è comprensibile sul piano psicologico, ma ciò non la rende più utile. Il ripiegamento sul passato era già emerso nella definizione postuma di Dolce stil novo, che trasformava il poeta in un individuo isolato e staccava la corrente dal suo contesto storico e sociale (Pg XXIV, 52-54): la polemica della cultura cittadi- na contro la cultura cortese tradizionale è scomparsa; e il poeta, come uno scrittore sacro, scrive sotto la dettatura (o l’ispirazione) del dio Amore. Ed ora ce- lebra nuovamente, in termini antistilnovistici, l’antica nobiltà di sangue. 2.2. Il trisavolo muore nel 1148ca., perciò ha la sfor- tuna di assistere in prima persona al sorgere delle contese che insanguineranno Firenze per tutto il Due- cento e oltre. Egli passa dalla vita nella Firenze idea- le, che era sobria e pudìca, alla vita nella Firenze sto- rica, dilaniata dai conflitti intestini. E il nipote si tro- va a vivere in questa Firenze ormai – a suo dire – de- caduta. Peraltro, se si elggono con attenzione le paro- le di Cacciaguida, si scopre subito che anche il passa- to era pieno di contraddizioni e di tensioni. Dante le vde ma non ne è colpito. È invececolppito dai con- flitti del presente, che lo coinvolgono. 3. La ricostruzione della storia cittadina rispecchia la ricostruzione, altrettanto mitica, della storia dell’u- manità, alla quale i medioevali credevano e che Dan- te racconta in If XIV, 94-120. È la storia, narrata da Virgilio, del «gran veglio» di Creta. Esso è gigante- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 66 sco, ha la testa d’oro fine, il dorso d’argento, le gam- be di bronzo e un piede di terracotta. Una goccia lo guasta lentamente. Esso rappresenta le età dell’uomo, da quella in cui gli uomini vivevano felici nel paradi- so terreste a quella del presente, caratterizzata da un’estrema decadenza, da cui non si può uscire. 4. Dante attribuisce la colpa dei conflitti intestini alla “gente nova” discesa da Fiesole o che si è inurbata e che si è preoccupata dei “sùbiti guadagni” (If XVI, 73-75). La polemica con gli “stranieri” si trova già in If VI, 64-66 (Ciacco parla di Firenze e delle cause dei conflitti sociali), in If XVI, 64-76 (parlando con Ja- copo Rusticucci il poeta accusa i rapidi guadagni dei nuovi venuti di aver provocato orgoglio a dismisura) e in If XV, 61-78 (Brunetto Latini si scaglia contro le bestie discese da Fiesole e contro i fiorentini). La po- lemica contro gli invasori è costante, anche se non manca il riconoscimento che il comportamento dei fiorentini di antica data non ha sempre favorito la pa- ce. Il riferimento è ad esempio a Buondelmonte de’ Buondelmonti. 5. La nascita, lo sviluppo e la decadenza, che conflui- sce nella morte o nella scomparsa caratterizza le città come le famiglie: Luni e Orbisaglia erano famose ed ora sono decadute; le seguono nella decadenza Chiusi e Senigaglia. Ugualmente è successo ad alcune fami- glie fiorentine. Il cambiamento si rivela all’improv- viso: una famiglia muore, un’altra nasce. E nella memoria c’è un filo interrotto in un caso, un filo che inizia ad allungarsi nell’altro. Il tempo meccanico è uniforme, ma il tempo della memoria ha una struttura molto anomala ed imprevedibile. 5.1. Questa visione di morte, ma anche di vita, av- viene peraltro sotto la supervisione della Provviden- za, la Fortuna cristiana. Dante aveva teorizzato l’in- tervento della Provvidenza in If VII, 73-96 (la Fortu- na provoca continui cambiamenti, innalzando un po- polo e abbattendone un altro senza che gli uomini possano far niente per opporvisi); e ne aveva mostra- to l’attuazione in Pd VI, 1-96 (l’imperatore Giusti- niano traccia la storia dell’impero che si sviluppa sot- to il diretto controllo della Provvidenza, che usa gli uomini per attuare i suoi fini imperscrutabili). 5.3. La prima tesi è esposta da Virgilio, che ne dà la formulazione più estesa del poema: 73. «Colui (= Dio) il cui sapere trascende tutto, fece i cieli e diede loro l’intelligenza angelica che li conduce, così che ogni intelligenza trasmette la luce al cielo specifico, 76. distribuendo in modo equo la luce. Similmente ai beni di questo mondo prepose un’amministratrice e una guida generale (=la Fortuna), 79. che permutasse a tempo debito i beni vani da un popolo all’altro e da una famiglia all’altra, oltre le capacità di opporre re- sistenza della ragione umana. 82. Per questo motivo un popolo domina e un altro è dominato, seguendo il giudizio di costei, che è nascosto come il serpente nell’erba. 85. Il vostro sapere non può contrastarla: essa provvede [ai cambiamenti], giudica [il momento opportuno] e persegue i suoi fini come le altre intelli- genze [perseguono] i loro. 88. Le sue permutazioni non conoscono sosta: la necessità [di trasferire i beni] la fa essere veloce. Perciò spesso avviene che qual- cuno cambi completamente la sua condizione [socia- le]. 91. Questa è colei che è tanto ingiuriata anche da coloro che dovrebbero lodarla. E [invece] a torto la ricoprono di biasimi e le attribuiscono una cattiva fama. 94. Ma essa continua a rimanere beata e non ode queste [denigrazioni]. Con le altre intelligenze angeliche muove lietamente la sua sfera e gode per la sua beatitudine» (If VII, 73-96). Il fatto che i cam- biamenti avvengano sotto la supervisione della Prov- videnza non rende più graditi agli interessati i cam- biamenti stessi. Chi è danneggiato dimentica imme- diatamente che qualcun altro è beneficato. E ugual- mente dimentica che tutto si svolge per un maggiore vantaggio della società umana. Pur con tutti i suoi di- fetti (ad esempio l’invidia dei cortigiani che spinge Pier delle Vigne al suicidio e Romeo di Villanova all’esilio), cioè con tutti i difetti umani, l’Impero permette un livello di vita molto maggiore che se non esistesse. Lo stesso discorso si può fare con la Chie- sa, che ha lo scopo di portare gli uomini alla felicità ultraterrena. 5.4. La seconda tesi presenta un particolare che la mette in contraddizione con la prima: l’imperatore Giustiniano tratteggia la storia dell’Impero dalle sue più lontane radici nella Troade fino a Carlo Magno ed afferma che la Provvidenza ha sempre usato i grandi personaggi come strumenti per i suoi fini. E tuttavia nota che l’imperatore Costantino ha spostato la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio «contr’al corso del ciel» (Pd VI, 1-2). Qualcosa quindi sembra in qualche modo sottrarsi al volere e al potere della ministra di Dio. In ogni caso gli interventi della Provvidenza devono conciliarsi con il libero arbitrio degli uomini, che è necessario, altrimenti gli uomini non sarebbero responsabili delle loro azioni, non a- vrebbero né meriti né demeriti. E al tema del libero arbitrio è dedicato in particolare Pd XVII, 37-42: «La contingenza, che non si stende fuori del vostro mondo materiale, è tutta dipinta nel cospetto eterno [di Dio]. Perciò da qui (=da Dio) essa prende neces- sità se non come dall’occhio in cui si specchia la na- ve che scende giù per un fiume impetuoso». Dio co- nosce il futuro, come aveva conosciuto il passato e il presente, ma non interviene, altrimenti eliminerebbe la libera scelta degli uomini. O, meglio, interviene in modo soft, con la Provvidenza, rispettando la libertà umana. Ciò porta facilmente a concludere che grazie all’intervento della Provvidenza il mondo è il miglio- re dei mondi possibili: se va male la colpa è degli uomini e la Provvidenza non è intervenuta in modo più massiccio proprio per rispettare la libertà uma- na... 5.5. La risposta alla contraddizione molto probabil- mente si trova in Pd I, 127-135: la Provvidenza indi- rizza ogni essere al suo fine, ma gli uomini si lascia- no distrarre dai beni terreni. Ed è ribadita in Pd VIII, 97-111, 127-148: la Provvidenza invia sulla terra tut- te le capacità che servono per la vita sociale, ma gli uomini costringono a farsi religioso chi è nato a cin- gere la spada e fanno sovrano chi è nato a dir predi- che; perciò la società è in preda al disordine. Il tema della Provvidenza e della Fortuna è più volte affron- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 67 tato nel poema, tanto da esserne un filo conduttore. Ciò mostra che esso era sentito in modo intenso e drammatico dall’autore. 6. Talvolta il poeta dimentica che la Fortuna è “mini- stra di Dio” (v. 84) e in If XV, 91-96, impreca contro la Fortuna avversa, anche se a parole dice che è pron- to ai colpi che tra poco gli arriveranno addosso... Qui, nelle parole di Cacciaguida, egli dà un giudizio negativo dei cambiamenti introdotti a Firenze dai “sùbiti guadagni” (If XVI, 73-75). Eppure i cambia- menti sono voluti dalla Provvidenza o… sono pro- dotti dal desiderio di ricchezza, dal desiderio dei beni mondanni degli uomini. È facile dire agli altri di pie- gare la testa davanti ai disegni imperscrutabili della Provvidenza divina, che sa trarre il bene anche dal male e che guida i destini dell’umanità intera; ma, quando tocca agli interessati o all’interessato, la rea- zione è fortemente negativa. Egli o essi se ne infi- schiano dell’umanità intera e delle magnifiche sorti e progressive, e pensa al suo utile particolare. Ci sono anche i precedenti: nella Bibbia: Sansone demolisce il tempio gridando che muoia pure lui e tutti i filistei. 7. Dante cita le maggiori famiglie fiorentine della prima metà del Duecento. Ma gli avvenimenti del passato sono pieni di riferimenti al presente. Il conta- dino d’Aguglione allude a Baldo d’Aguglione, il qua- le nel 1311 riforma gli Ordinamenti di giustizia, e- scludendo il poeta dai provvedimenti di amnistia. In Pg XII, 104-105, lo accusa – l’accusa è provata – di aver manomesso i registri della distribuzione del sale. Il contadino di Signa allude a Fazio dei Morubaldini, che passa dai bianchi ai neri e che è tra i fautori della riforma del 1311. Giano della Bella, dimentico del suo titolo nobiliare, è ritenuto responsabile di essersi schierato con il popolo e di aver fatto approvare gli Ordinamenti di giustizia (1293, mitigati nel 1294), che costringevano i nobili ad iscriversi a un’arte, per partecipare alla vita politica. A vent’anni di distanza il poeta dà un giudizio negativo su chi ha contribuito a erodere il potere della classe nobiliare e gli ordina- menti della Firenze antica; e a favorire l’invasione in città ad opera degli abitanti dei paesi limitrofi. Con- traddittoriamente però dà un giudizio positivo se l’autore dei cambiamenti è l’amico e protettore Can- grande della Scala, patigiano dell’imperatore: 76. Con lui vedrai colui (=Cangrande della Scala) che, nascendo, ha subìto così fortemente l’influsso di que- sta stella (=Marte), che diventerà famoso per le im- prese [militari]. 79. Non si sono ancora accorte di lui le genti, per la giovane età, perché soltanto da nove anni queste ruote (=i cieli) hanno girato intorno a lui. 82. Ma, prima che il guascone (=papa Clemente V) inganni l’imperatore Enrico VII (=prima del 1312), appariranno chiare dimostrazioni del suo valore nel non curarsi del denaro né delle fatiche [militari]. 85. Le sue magnificenze saranno allora conosciute, così che i suoi nemici non le potranno tacere. 88. Affìdati a lui ed ai suoi benefici. Per opera sua molta gente sarà trasformata e cambieranno condizione ricchi e poveri (Pd XVII, 76-90). Per gli amici si fanno le ec- cezioni. In precedenza le aveva fatte per Carlo Mar- tello d’Angio (1271-1295), un sovrano che faceva incetta di corone. Sicuramente coloro che per colpa di Cangrande vedevano le loro fortune rovesciate non provavano un sentimento di simpatia verso colui che ne era stato la causa. 7.1. Dante aveva incontrato numerosi fiorentini pri- ma nelle parole di Ciacco (If VI, 77-87), poi nei gi- roni dell’inferno: da Farinata degli Uberti (If X, 22- 120) ai cinque ladri fiorentini (If XXVI, 1-6). Ma la polemica contro i concittadini continua anche nelle altre cantiche, ad esempio in Pg VI, 127-151, dove li accusa di fare e di disfare le leggi, di mandare e di richiamare dall’esilio i cittadini. 8. Il poeta contrappone la Firenze del passato alla Fi- renze del presente. Di quella Firenze egli vede – sltanto – gli aspetti positivi. Invece i cittadini del tempo vedevano – soltanto – gli aspetti negativi... In- dubbiamente a) l’uomo vuole quello che non ha; e b) se fosse soddisfatto del presente, non si rifugerebbe nel passato. Ma si potrebbe formulare il problema anche in altro modo: il poeta da giovane era progres- sista e fiducioso nel futuro e da vecchio è divenuto reazionario e laudator temporis acti? La risposta è paradossale, è sì e nello stesso tempo no. il fatto è che da giovane era progressista perché aveva fiducia nel futuro: da vecchio non lo è più perché scopre che le speranze non si sono avverate e che il passato, pre- cedentemente condannato, non era così brutto come riteneva. Né era migliorabile come sperava. Ben inte- so, nella giovinezza aveva due possibilità: puntare sui valori del passato, puntare sui valori che si realizza- vano nel futuro. Ha fatto la prima scelta, ma questa scelta non era libera. Era dovuta al fatto che apparte- neva alla piccola nobiltà decaduta e che aveva (o ri- teneva di avere) più possibilità di successo puntando sul futuro anziché sul passato (altrimenti sarebbe ri- masto conservatore...). Tale scelta a sua volta ammet- teva tre possibilità: i valori si realizzavano (e allora tutto andava bene), i valori non si realizzavano (e al- lora subentrava l’inevitabile ripiegamento); i valori si realizzavano ma non erano così straordinari come de- siderava. Li aveva fatti suoi soltanto come arma per scardinare il successo, il potere, il prestigio delle classi benestanti, e cercarsi un posto al sole... In- somma si può sostenere sia che il poeta ha abbando- nato le aperture giovanili, sia che ha continuato per tutta la vita a cercare il locus amoenus e, non trovan- dolo nel futuro, lo ha cercato miticamente e astratta- mente nel passato, dove – esistente o inesistente che fosse – non poteva essere confutato né demolito: nul- la è più indistruttibile della favola bella! L’unica via d’uscita, da accompagnare alla fuga nel passato, di- venta cercarsi la fama presso i posteri. 9. Nella Firenze di Cacciaguida tutti si conoscevano e tutti avevano inevitabilmente gli stessi valori. La città era chiusa in se stessa. I conflitti esistevano, ma erano causati da valori personali e sociali in cui tutti si i- dentificavno. L’inurbamento distrugge questa situa- zione di equilibrio. E gli inurbati sono sentiti come invasori, come stranieri, che degradano o cambiano la vita cittadina e i suoi valori. Essi sono rozzi e vo- gliono accumulare ricchezza. Nello stesso tempo an- tiche familie nobiliari sono in decadenza economica. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 70 E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; 61 che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 64 Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso 67 Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che ‘n su la scala porta il santo uccello; 70 ch’in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo. 73 Con lui vedrai colui che ‘mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue. 76 Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; 79 ma pria che ‘l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni. 82 Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ‘ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. 85 A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; 88 e portera’ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai”; e disse cose incredibili a quei che fier presente. 91 Poi giunse: “Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ‘nsidie che dietro a pochi giri son nascose. 94 Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ‘l punir di lor perfidie”. 97 Poi che, tacendo, si mostrò spedita l’anima santa di metter la trama in quella tela ch’io le porsi ordita, 100 io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: 103 “Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 106 per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi. 109 Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, 112 e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; 115 e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico”. 118 61. E quel che più ti graverà le spalle sarà la com- pagnia malvagia e stupida, con la quale tu soffrirai in questa valle (=durante l’esilio). 64. Essa tutta grata, tutta matta ed empia si mostrerà contro di te; ma, poco dopo, essa, non tu, avrà perciò la tempia rossa [di sangue]. 67. Il suo modo d’agire darà la prova della sua bestialità, così che andrà a tuo onore l’aver fatto parte per te stesso. 70. Il tuo primo rifu- gio e il tuo primo asilo sarà la cortesia del gran lombardo (=Bartolomeo della Scala, signore di Ve- rona), che [nello stemma] sopra la scala porta il san- to uccello (=l’aquila imperiale). 73. Egli sarà così benigno nei tuoi riguardi, che, nel dare e nel chiede- re, tra voi due sarà primo chi, tra gli altri, è più len- to. 76. Con lui vedrai colui (=Cangrande della Sca- la) che, nascendo, ha subìto così fortemente l’influsso di questa stella (=Marte), che diventerà famoso per le imprese [militari]. 79. Non si sono ancora accorte di lui le genti, per la giovane età, perché soltanto da nove anni queste ruote (=i cieli) hanno girato intorno a lui. 82. Ma, prima che il gua- scone (=papa Clemente V) inganni l’imperatore En- rico VII (=prima del 1312), appariranno chiare di- mostrazioni del suo valore nel non curarsi del dena- ro né delle fatiche [militari]. 85. Le sue magnificen- ze saranno allora conosciute, così che i suoi nemici non le potranno tacere. 88. Affìdati a lui ed ai suoi benefici. Per opera sua molta gente sarà trasformata e cambieranno condizione ricchi e poveri. 91. E [da qui] porterai scritte nella memoria altre cose di lui e non le dirai». E disse cose incredibili [anche] per coloro che saranno presenti. 94. Poi aggiunse: «O figlio, queste son le spiegazioni di quel che ti fu det- to. Ecco le insidie che dietro a pochi giri (=anni) sono nascoste. 97. Non voglio però che tu porti in- vidia ai tuoi concittadini, poiché la tua vita si pro- lunga nel futuro ben più in là che la punizione delle loro perfidie». 100. Poiché, tacendo, l’anima santa si dimostrò pronta a metter la trama in quella tela che io le porsi ordìta (=mostrò di aver finito di ri- spondermi), 103. io cominciai, come colui che, du- bitando, brama un consiglio da una persona che di- scerne, vuole ed ama il bene: 106. «Ben vedo, o pa- dre mio, come il tempo avanza veloce verso di me, per darmi un colpo tale, che è più grave per chi più si abbandona [agli eventi senza premunirsi]. 109. Perciò è bene che io mi armi di previdenza, così che, se mi è tolto il luogo più caro, io non perda gli altri a causa dei miei versi pungenti. 112. Giù per il mondo amaro senza fine e per il monte dalla cui bella cima gli occhi della mia donna mi sollevarono 115. e poi per il cielo, di pianeta in pianeta, io ho appreso quel che, se io ridico, a molti risulterà di sapore forte ed acre. 118. E [tuttavia], se io sono timido amico al vero, temo di perder la fama tra co- loro che questo tempo chiameranno antico». Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 71 La luce in che rideva il mio tesoro ch’io trovai lì, si fé prima corusca, quale a raggio di sole specchio d’oro; 121 indi rispuose: “Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. 124 Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. 127 Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. 130 Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. 133 Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, 136 che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, 139 né per altro argomento che non paia”. 142 121. La luce in cui sorrideva il mio tesoro, che io trovai lì, si fece prima scintillante come uno specchio d’oro colpito da un raggio di sole; 124. quindi rispo- se: «La coscienza, offuscata da vergogna propria o altrui, certamente sentirà aspra la tua parola. 127. Ma, messa da parte ogni menzogna, rendi manifesto tutto ciò che hai visto e lascia pure grattare dov’è la rogna. 130. Perché, se la tua voce sarà molesta nel primo assaggio, darà poi un nutrimento vitale, quan- do sarà digerita. 133. Questo tuo grido sarà come il vento, che percuote di più le cime più alte; e ciò sarà un motivo non piccolo d’onore. 136. Perciò ti son mostrate in queste ruote (=i cieli), nel monte e nella valle dolorosa (=il purgatorio e l’inferno) soltanto le anime che son per fama note, 139. perché l’animo di colui che ascolta non si accontenta né presta grande fiducia per l’esempio che abbia la sua radice scono- sciuta e nascosta 142. né per altro argomento che non appaia evidente». I personaggi Fetónte viene a sapere dalla madre Climène che è fi- glio di Apollo, perciò chiede al padre di guidare il carro del sole. I cavalli si accorgono della sua guida inesperta e lo scaraventano giù dal carro. Egli preci- pita vicino al Po e muore. Le sorelle, che lo piango- no, vengono trasformate in pioppi. La fonte di Dante è Ovidio, Metam., I, 748 sgg. Il Guascone è papa Clemente V (1305-1314), che proviene dalla Guascogna (l’odierna Gironda, la re- gione di Bordeaux). Trasporta la sede pontificia ad Avignone (1305) e tiene un atteggiamento ostile nei confronti dell’imperatore Enrico VII, sceso in Italia (1310). In tal modo fa fallire la missione imperiale. Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo (1308-1313) nel 1310 viene in Italia per ristabilire il potere impe- riale e pacificare la penisola. Riesce a imporre un po’ di tasse e non ottiene alcun risultato. Dante ha grande fiducia in lui, ma poi è deluso. Poco dopo muore. Ippolito, figlio di Teseo e Ippolita, regina delle amaz- zoni, è cacciato da Atene con l’accusa di avere insi- diato la matrigna Fedra, che il padre aveva sposato in seconde nozze. In realtà era stata la matrigna a tentare il figliastro, che l’aveva respinta. Allora, per vendi- carsi e per paura di essere svergognata, sparge la vo- ce delle proposte di Ippolito, che provocano lo sde- gno della popolazione e di Teseo. La fonte di Dante è Ovidio, Metam., XV, 493 sgg.; e Seneca, Phaedra. La compagnia malvagia e stupida sono i guelfi bianchi, dai quali per divergenze politiche e strategi- che Dante si allontana dopo la disastrosa battaglia della Lastra (1304) con cui i fuoriusciti cercavano di rientrare in Firenze. Bartolomeo della Scala è signore di Verona (1301- 1304) e partigiano dell’imperatore. Accoglie il poeta negli anni dell’esilio (1315-20). Can Francesco della Scala, detto Cangrande (1291- 1329), è fratello di Bartolomeo della Scala. È asso- ciato al potere con il fratello Alboino (1308) e sem- pre con il fratello è nominato vicario imperiale di Ve- rona (1311). Dal 1312 regge da solo la città. Durante il suo governo con audaci azioni militari consolida ed espande il suo dominio. Conquista città e fortezze come Padova e Mantova. Dante è legato a Cangrande da una profonda amicizia, oltre che dalla riconoscen- za per la generosa ospitalità ottenuta (1315-20ca.). A Cangrande il poeta dedica il Paradiso, manda in let- tura i suoi canti e scrive una famosa lettera, l’Epi- stola XIII, di capitale importanza per la comprensio- ne della Divina commedia. Commento 1. Il canto ha un inizio elevato con un riferimento alla mitologia: «Quale venne a Climenè, per accertarsi Di ciò ch’avëa incontro a sé udito...», un riferimento che è ripreso successivamente con un altro riferimento classico (vv. 46-47). E prosegue senza il consueto momento di pausa o di passaggio, per giungere sùbi- to alla parte più importante: il poeta con un lungo gi- ro di parole pone al trisavolo la domanda che gli sta a cuore: «Nel corso del viaggio nei tre regni dell’oltre- tomba mi sono state fatte delle profezie sulla mia vita futura. Me le vuoi spiegare con parole chiare e com- prensibili, in modo che io possa prendere le mie pre- cauzioni?» (vv. 13-27). Cacciaguida scioglie le pro- fezie e gli indica quale sarà la sua vita futura: a Ro- ma, dove a tempo pieno si pratica la simonia, gli si sta preparando l’esilio ed egli saprà quant’è amaro aver bisogno dell’altrui ospitalità. Gli indica anche chi sarà il suo primo rifugio: Bartolomeo della Scala, signore di Verona e partigiano dell’imperatore. Lì a Verona conoscerà anche Cangrande, che ora ha sol- tanto nove anni, ma che è destinato a compiere im- prese incredibili anche per coloro che ne saranno spettatori. Le parole più importanti dell’avo riguar- dano però lo scopo del viaggio: il poeta chiede se dovrà dire tutto ciò che ha visto, che a molti risulterà Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 72 forte e amaro, oppure se dovrà essere timido amico del vero, ma allora ha paura di perder la fama presso coloro che chiameranno questo tempo antico. Cac- ciaguida allora gli dà l’investitura sovrastorica della sua missione: «Tu devi riferire tutto ciò che hai visto. In un primo momento le tue parole saranno amare, ma poi diventeranno un sano nutrimento e uno stimo- lo per chi le ascolta. Tu dovrai indicare agli uomini la retta via, la via che porta alla salvezza terrena e ultra- terrena. Per questo motivo nel corso del viaggio ti sono state mostrate solamente le anime più famose, perché la gente comune crede soltanto ai grandi e- sempi». L’investitura è molto lunga (vv. 124-142) e costituisce il punto di vista corretto, che lo stesso po- eta indica, per avvicinarsi alla Divina commedia. Il viaggio però non è ancora finito: il poeta deve ancora percorrere molti cieli, incontrare molte anime, essere sottoposto ad un esame sulla fede, sulla speranza e sulla carità, e fare l’ultimo e più grande incontro, quello con lo stesso Dio, del quale vuole avere una visione mistica. 2. Il canto si riallaccia a If II, 10-36, quando Dante chiede a Virgilio: «Prima di me sono venuti nei regni dell’oltretomba Enea e san Paolo. Il primo perché dalla sua discendenza doveva nascere l’Impero. Il se- condo perché doveva portare prove della fede. Ma io perché devo venirci? Chi lo permette? Io non mi sen- to all’altezza del viaggio che sto iniziando». In tal modo il poeta si attribuisce una missione provviden- ziale dopo Enea e dopo san Paolo: una missione che è ad un tempo terrena e ultraterrena. Che è ribadita dalla figura di Virgilio e di Beatrice, dai canti VI del- le tre cantiche e dal canto finale, in cui ha la visione mistica di Dio. 3. Dante ha saputo costruire gradualmente la suspense e la catarsi che si scioglie in questo canto: le profezie incominciano in If X, 79-81 (Farinata degli Uberti gli preannuncia l’esilio), continuano in If XV, 70-72 (Brunetto Latini gli preannuncia che guelfi neri e guelfi bianchi cercheranno di ucciderlo), quindi so- no riprese nel Purgatorio. Ed ora sono sciolte. Esse sono fuse con un altro problema, quello della fama: se il poeta tace, non avrà la fama presso coloro che chiameranno questo tempo antico. Il problema della fama presso i posteri è uno dei fili conduttori della Divina commedia. Viene toccato anche in altri due canti dell’opera. In If XV, 79-87, il poeta incontra il maestro Brunetto Latini e dice che ha ancora impres- sa nella memoria la cara e buona immagine paterna del maestro, perché gli ha insegnato come l’uomo si eterna con la fama. In Pg XI, 82-117, incontra il mi- niaturista Oderisi da Gubbio, il quale umilmente ri- conosce che la fama è come un soffio di vento, che ora spira di qui, ora di lì, e che muta nome perché muta lato; e che essa è come il battito di ciglia rispet- to all’eternità. Dante affronta il problema della fama indirettamente in If III, 37-69, dove condanna dura- mente gli ignavi, coloro che in vita non fecero nulla di bene, nulla di male che li rendesse meritevoli di essere ricordati dai posteri. «Non ti curar di lor, ma guarda e passa» (v. 51), fa dire con estrema durezza a Virgilio. La loro punizione è durissima e spregevole: inseguono senza sosta un’insegna che va ora da una parte ora dall’altra; sono senza nome e forniscono con il loro sangue il nutrimento a vermi ripugnanti. Per il poeta quindi la fama è un valore terreno da conseguire, anche se dal punto di vista dell’eternità essa è come un battito di ciglia. 4. Il problema della contingenza è molto complesso (vv. 37-45), interessa sia la fisica sia la filosofia. Io vedo che la terra è soggetta al cambiamento, mentre il cielo è immutabile; e concludo che il mondo sotto la Luna è soggetto al cambiamento, cioè al divenire; il mondo sopra la Luna rimane invece sempre uguale a se stesso, è immutabile. Dio conosce la contingenza (l’uomo conosce soltanto il mondo soggetto alla ne- cessità), ma la conosce come chi guarda una nave scendere un fiume impetuoso, trascinata dalle acque, e non può intervenire. Insomma Dio conosce il futu- ro, ma non interviene a modificarlo. Dio conosce il male futuro, ma non interviene per eliminarlo. Non può però essere accusato di aver permesso il male. D’altra parte, se intervenisse, eliminerebbe la libertà umana, perciò l’uomo non sarebbe più responsabile delle sue azioni e, di conseguenza, non avrebbe alcun merito o demerito per le buone come per le cattive azioni che compie. 4.1. Il problema del non intervento di Dio, che altri- menti minaccerebbe la libertà umana, va poi coordi- nato con un altro problema, quello della presenza della Provvidenza divina nella storia. Quest’altro problema riceve la sua formulazione teorica più arti- colata in If VI, 72-96 (la Fortuna, ministra di Dio, provoca incessanti cambiamenti nella società, senza che l’uomo possa opporvisi); e la sua esemplificazio- ne in Pd VI, 1-96 (l’imperatore Giustiniano traccia la storia dell’impero sotto la supervisione della Provvi- denza). Nel primo caso sembra che l’uomo debba piegarsi alla Fortuna; nel secondo caso sembra che sia libero di andare contro i decreti del cielo (l’impe- ratore Costantino trasporta la capitale da Roma a Co- stantinopoli). L’accostamento di questi due passi del poema non è scorretto, ma non deve portare alla con- clusione che i due passi sono tra loro in contrad- dizione. Ogni tesi va esaminata in sé e considerata per quello che di più profondo offre: l’esistenza irri- nunciabile della libertà di scelta; l’intervento della Provvidenza nelle vicende umane. Se si vuole cercare una mediazione tra le due tesi, basta andare in Pd VIII, 85-148: la Provvidenza manda sulla terra tutte le capacità che servono, ma gli uomini poi spingono a farsi religioso chi è nato a cingere la spada e fanno sovrano chi è nato a dir prediche. Perciò le cose van- no male. O, molto più indietro, in If XVI, 64-114: i cieli danno inizio alle azioni umane, ma poi è l’uomo che decide, ha la ragione e la libera volontà di sce- gliere il bene o il male; essa non è sottoposta all’in- flusso dei cieli. 5. Dante chiama i guelfi bianchi, fuorusciti con lui, «la compagnia malvagia e scempia» (v. 62), e riversa su di loro nove durissimi versi di offese non pro- priamente di genere retorico (vv. 61-69). Dietro le parole si sente una totale incomprensione reciproca, che dopo la sconfitta della Lastra (1304) diviene in- Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 75 Canto XXII Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre colà dove più si confida; 1 e quella, come madre che soccorre sùbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che ‘l suol ben disporre, 4 mi disse: “Non sai tu che tu se’ in cielo? e non sai tu che ‘l cielo è tutto santo, e ciò che ci si fa vien da buon zelo? 7 Come t’avrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che ‘l grido t’ha mosso cotanto; 10 nel qual, se ‘nteso avessi i prieghi suoi, già ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. 13 La spada di qua sù non taglia in fretta né tardo, ma’ ch’al parer di colui che disiando o temendo l’aspetta. 16 Ma rivolgiti omai inverso altrui; ch’assai illustri spiriti vedrai, se com’io dico l’aspetto redui”. 19 Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che ‘nsieme più s’abbellivan con mutui rai. 22 Io stava come quei che ‘n sé repreme la punta del disio, e non s’attenta di domandar, sì del troppo si teme; 25 e la maggiore e la più luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di sé la mia voglia contenta. 28 Poi dentro a lei udi’ : “Se tu vedessi com’io la carità che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. 31 Ma perché tu, aspettando, non tarde a l’alto fine, io ti farò risposta pur al pensier, da che sì ti riguarde. 34 Quel monte a cui Cassino è ne la costa fu frequentato già in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; 37 e quel son io che sù vi portai prima lo nome di colui che ‘n terra addusse la verità che tanto ci soblima; 40 e tanta grazia sopra me relusse, ch’io ritrassi le ville circunstanti da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse. 43 Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi. 46 Qui è Maccario, qui è Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo”. 49 E io a lui: “L’affetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri, 52 così m’ha dilatata mia fidanza, come ‘l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant’ell’ha di possanza. 55 Però ti priego, e tu, padre, m’accerta s’io posso prender tanta grazia, ch’io ti veggia con imagine scoverta”. 58 1. Sopraffatto dallo stupore, mi volsi verso la mia guida, come il bambino che ricorre sempre là dove (=la mamma) ha più fiducia. 4. E quella (=Beatrice), come una madre che soccorre sùbito il figlio pallido [per lo spavento] e affannato [per la corsa], con la sua voce, che lo suole ben disporre, 7. mi disse: «Tu non sai che sei in cielo (=in paradiso)? e non sai che il cielo è tutto santo, e ciò che vi si fa proviene dal buon zelo (=dalla carità)? 10. Come ti avrebbero tra- sformato il canto e il mio sorriso, ora lo puoi pensa- re, dopo che il grido [dei beati] ti ha così profonda- mente sconvolto. 13. In tale grido, se tu avessi inteso le sue preghiere, già ti sarebbe nota la vendetta (=il giusto intervento punitivo di Dio) che tu vedrai prima che tu muoia. 16. La spada di quassù (=della giustizia divina) non taglia in fretta né con lentezza, fuorché al giudizio di colui che l’aspetta con desiderio o con ti- more. 19. Ma rivolgiti ormai verso gli altri [beati], perché vedrai spiriti [che sulla terra furono] assai il- lustri, se sposti lo sguardo come io dico». 22. Come a lei piacque, girai gli occhi e vidi cento piccole sfere che insieme si facevano più belle con i raggi recipro- ci. 25. Io stavo come colui che reprime in sé il pun- golo del desiderio e che non si tenta di domandare, tanto ha paura di [chieder] troppo. 28. La più grande e la più lucente di quelle margherite (=spiriti) si fece avanti, per far contento il mio desiderio con le sue parole. 31. Poi dentro a lei udii: «Se tu vedessi come [vedo] io la carità che arde tra noi, esprimeresti [sùbi- to] i tuoi pensieri. 34. Ma, affinché tu, indugiando, non tardi a [raggiungere] la meta sublime [del tuo vi- aggio], io risponderò soltanto al tuo pensiero (=alla domanda che hai soltanto pensato), che sei così timo- roso di manifestare. 37. Quel monte, su cui sorge Cassino, un tempo fu frequentato sulla cima dalla gente che viveva nell’errore e che era mal disposta [ad accogliere la verità]. 40. Io sono colui (=san Be- nedetto) che per primo portò su di esso il nome di colui (=Cristo) che sulla terra portò la verità che tanto c’innalza (=ci fa diventare figli di Dio). 43. E sopra di me rifulse tanta grazia [divina], che io sottrassi i paesi circostanti all’empio culto che sedusse il mon- do. 46. Questi altri spiriti ardenti [di carità] furono tutti uomini contemplanti, accesi da quel calore (=la carità) che fa nascere i fiori e i frutti santi (=i buoni pensieri e le buone opere). 49. Qui [in questo cielo] è Maccario, qui è Romoaldo, qui sono i miei frati che dentro ai chiostri fermarono i piedi e tennero il cuore saldo [alla regola]». 52. Ed io a lui: «L’affetto che dimostri parlando con me e l’espressione di carità che io vedo e noto in tutti i vostri globi fiammeggian- ti, 55. ha dilatato la mia fiducia [in voi] così come il sole fa con la rosa, che diviene tanto aperta quanto è capace di aprirsi. 58. Perciò ti prego, e tu, o padre, fammi certo se io posso ricevere tanta grazia da ve- derti con l’aspetto che avevi sulla terra». Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 76 Ond’elli: “Frate, il tuo alto disio s’adempierà in su l’ultima spera, ove s’adempion tutti li altri e ‘l mio. 61 Ivi è perfetta, matura e intera ciascuna disianza; in quella sola è ogne parte là ove sempr’era, 64 perché non è in loco e non s’impola; e nostra scala infino ad essa varca, onde così dal viso ti s’invola. 67 Infin là sù la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve d’angeli sì carca. 70 Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa è per danno de le carte. 73 Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. 76 Ma grave usura tanto non si tolle contra ‘l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de’ monaci sì folle; 79 ché quantunque la Chiesa guarda, tutto è de la gente che per Dio dimanda; non di parenti né d’altro più brutto. 82 La carne d’i mortali è tanto blanda, che giù non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. 85 Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; 88 e se guardi ‘l principio di ciascuno, poscia riguardi là dov’è trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. 91 Veramente Iordan vòlto retrorso più fu, e ‘l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui ‘l soccorso”. 94 Così mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e ‘l collegio si strinse; poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse. 97 La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, sì sua virtù la mia natura vinse; 100 né mai qua giù dove si monta e cala naturalmente, fu sì ratto moto ch’agguagliar si potesse a la mia ala. 103 S’io torni mai, lettore, a quel divoto triunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e ‘l petto mi percuoto, 106 tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. 109 O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, 112 con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, quand’io senti’ di prima l’aere tosco; 115 e poi, quando mi fu grazia largita d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita. 118 61. Ed egli: «O fratello, il tuo desiderio di [vedere] co- se elevate si adempierà nell’ultima sfera (=l’empìreo), dove si adempiono tutti gli altri e il mio. 64. Ivi ciascun desiderio è portato alla perfezione, reso maturo e priva- to dei difetti; solamente in quella sfera ogni parte si trova dov’è sempre stata (=è immobile), 67. perché es- sa non è in alcun luogo (=non è nello spazio) e non ha poli [intorno a cui ruotare]; e la scala di questo cielo sale fino ad essa, perciò si sottrae ai tuoi occhi. 70. Fin lassù il patriarca Giacobbe vide [in sogno] che proten- deva la parte superiore, quando gli apparve così carica di angeli. 73. Ma, per salirla, ora nessuno stacca i piedi da terra, e la mia regola è rimasta [soltanto] per rovina- re le carte [dov’è scritta]. 76. Le mura [dei monasteri] che solevano esser badia (=luoghi di santa vita) sono divenute spelonche [di ladroni] e le vesti monacali son sacchi pieni di farina guasta. 79. Ma l’usura [più] grave non si alza tanto contro la volontà di Dio, quanto quel frutto (=le rendite dei monasteri) che fa il cuore dei monaci così folle [di cupidigia], 82. perché ciò, che la Chiesa custodisce, appartiene tutto alla gente (=i pove- ri) che domanda in nome di Dio; non [appartiene] ai parenti [degli ecclesiastici] né ad altri più indegni (=le concubine e i figli naturali). 85. La carne dei mortali (=la natura umana) è tanto soggetta alle blandizie, che giù (=sulla terra) il buon inizio non dura [il tempo che va] dalla nascita della quercia al momento in cui pro- duce la prima ghianda (=20 anni; cioè dura poco). 88. Pietro riunì i primi cristiani senz’oro e senz’argento, io riunii i miei seguaci con la preghiera e con il digiuno, Francesco [riunì] i suoi frati con l’umiltà. 91. E, se guardi il principio di ciascuna [famiglia] e poi guardi là dove si è spostata, vedrai la virtù divenuta vizio. 94. Tuttavia le acque del fiume Giordano fatte ritornare in- dietro e quelle del mar Rosso messe in fuga [davanti agli ebrei], quando Dio volle [intervenire], furono un fatto mirabile a vedere più di quello che qui sarà il soc- corso [divino contro questi mali]». 97. Così mi disse, poi si ricongiunse alla sua schiera e la sua schiera si strinse intorno a lui; quindi, come turbine, salì verso l’alto, roteando tutta. 100. La mia dolce donna mi spin- se dietro di loro con un solo cenno su per quella scala, tanto la sua virtù vinse il peso del mio corpo. 103. Né mai quaggiù, dove si sale e si scende con le forze della natura, fu un movimento così rapido che potesse ugua- gliare il mio volo. 106. O lettore, possa io tornare [do- po la morte] a quel devoto trionfo (=tra i beati) per [raggiungere] il quale io piango spesso i miei peccati e mi percuoto il petto, 109. tu non avresti messo e tolto il dito dal fuoco in tanto [tempo], in quanto io vidi la co- stellazione [dei Gemelli] che segue quella del Toro e mi ritrovai dentro di essa. 112. O stelle [dei Gemelli] che date la gloria, o luce piena d’influssi virtuosi, dalla quale io riconosco [che deriva] tutto il mio ingegno, quale che si sia, 115. con voi nasceva e con voi si na- scondeva colui (=il sole) che è padre di ogni vita mor- tale, quando io respirai per la prima volta l’aria tosca- na. 118. E poi, quando mi fu elargita [da Dio] la grazia di entrare nella nobile sfera (=l’ottavo cielo) che vi fa girare [intorno alla terra], la vostra regione mi fu data in sorte. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 77 A voi divotamente ora sospira l’anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sé la tira. 121 “Tu se’ sì presso a l’ultima salute”, cominciò Beatrice, “che tu dei aver le luci tue chiare e acute; 124 e però, prima che tu più t’inlei, rimira in giù, e vedi quanto mondo sotto li piedi già esser ti fei; 127 sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo s’appresenti a la turba triunfante che lieta vien per questo etera tondo”. 130 Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; 133 e quel consiglio per migliore approbo che l’ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. 136 Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell’ombra che mi fu cagione per che già la credetti rara e densa. 139 L’aspetto del tuo nato, Iperione, quivi sostenni, e vidi com’si move circa e vicino a lui Maia e Dione. 142 Quindi m’apparve il temperar di Giove tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro il variar che fanno di lor dove; 145 e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. 148 L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci; 151 poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. 153 121. A voi ora sospira devotamente la mia anima, per acquistare le capacità [che mi permettono di affronta- re] la difficile prova che la attira a sé. 124. «Tu sei così vicino alla beatitudine suprema (=Dio)» comin- ciò Beatrice, «che devi avere i tuoi occhi limpidi e penetranti. 127. Perciò, prima di addentrarti mag- giormente in lei, guarda in basso e osserva quanta parte dell’universo ho già messo sotto i tuoi piedi (=ti ho fatto percorrere); 130. così che il tuo cuore, quan- to più può, si presenti giocondo alla turba trionfante (=che celebra il trionfo di Cristo) che viene lieta per questo cielo concavo.» 133. Con gli occhi ripercorsi tutte le sette sfere e vidi questo globo tanto piccolo, che sorrisi per il suo vile aspetto. 136. Ed approvo come migliore quel giudizio che la considera meno [del cielo]. E chi pensa ad altre cose si può chiamare veramente forte d’animo. 139. Vidi la figlia di Lato- na (=la Luna) splendere senza quell’ombra (=le mac- chie) che fu la causa per la quale già la credetti [in parte] rara e [in parte] densa. 142. La vista di tuo fi- glio (=il sole), o Iperione, qui sostenni, e vidi come si muove intorno e vicino a lui [Mercurio, figlio di] Maia e [Venere, figlia di] Dione. 145. Di qui mi ap- parve Giove che contempera il freddo del padre Sa- turno e il caldo del figlio Marte. Di qui mi fu chiaro come [i due pianeti] spostano le loro posizioni [ri- spetto alle stelle fisse]. 148. Tutti e sette [i pianeti] mi mostrarono quanto sono grandi e quanto sono ve- loci, e quanto sono distanti le loro sfere. 151. Mentre mi volgevo con la costellazione immortale dei Ge- melli, la piccola aia, che ci fa tanto feroci, mi appar- ve tutta dalle catene montuose alle foci [dei fiumi] (=al mare). 154. Poi rivolsi gli occhi agli occhi belli [di Beatrice]. I personaggi Benedetto (Norcia 480-Montecassino 543) nasce da una nobile famiglia. Va a Roma per studiare ed è colpito dalla corruzione della Chiesa. Si ritira a vive- re da eremita in una grotta del monte Subiaco, atti- rando numerosi discepoli. Fonda vari monasteri, la cui vita è regolata dall’ideale ascetico della preghiera e del lavoro (Ora et labora). Il rigore della regola produce dissensi. Egli si ritira nuovamente a fare la vita dell’eremita, poi si reca a Montecassino, dove distrugge un tempio di Apollo e fonda il complesso, che diventa la sede principale dell’ordine. Qui muore. È proclamato santo. La sua opera ha un grandissimo influsso per tutto il Medio Evo: i monasteri diventa- no anche centri di cultura; inoltre trascrivono e tra- mandano ai posteri l’eredità culturale di Roma. Romualdo degli Onesti di Ravenna (956-1027) fonda il convento di Camàldoli e l’ordine dei frati camaldolesi (1018) seguendo la regola benedettina riformata. È proclamato santo. Macario di Alessandria (?-391) è uno dei maggiori esponenti del monachesimo orientale, che precede il monachesimo benedettino. Egli elabora una regola per i monaci egiziani e diffonde il monachesimo. Può essere anche Macario il Grande (o l’Egiziano) (?- 404). Ambedue sono monaci eremiti e seguaci di sant’Antonio. Giacobbe ha un sogno: gli pare di vedere una scala che va dalla terra al cielo, per la quale salivano e scendevano numerosi angeli (Gn. 28, 12). È detto patriarca, cioè capostipite, perché riceve da Dio l’ordine di cambiare il suo nome in Israele. Egli è quindi il padre di tutti gli israeliti. Pietro (Betsaida?-Roma 64/67 d.C.), un ex pescato- re, diventa il capo degli apostoli e da Cristo riceve l’investitura di capo della Chiesa: «Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa» (Mt. 16, 19). È il primo papa ed occupa il soglio pontificio per ben 32 anni. Muore martire. Francesco d’Assisi (1082-1126) dopo una giovinez- za spensierata ha una crisi religiosa che lo porta a ri- fiutare le ricchezze paterne e a fondare l’ordine dei frati minori, la cui regola è approvata prima verbal- mente da papa Innocenzo III (1209) e poi ufficial- mente da papa Onorio III (1123). La figlia di Latona è la Luna. Secondo la mitologia greca la dea Latona e Zeus generano Apollo e Arte- mide, poi identificati con il sole e la Luna. Iperione è il padre del sole. È una divinità greca, poi identificata con Zeus. Maia è la madre di Ermes, Mercurio presso i romani, il messaggero degli dei, il protettore dei viandanti ma anche dei ladri. Il padre è Zeus. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 80 raggiunge il culmine in Pd XXXIII, 34-36, quando san Bernardo chiede alla Madonna la grazia che con- servi sani i suoi affetti dopo il ritorno sulla terra. Il poeta riesce a dare tangibilmente la sensazione di di- stacco e di lontananza dalla terra e dalle passioni u- mane. Si tratta però di distacco, non d’indifferenza: egli ha provato in prima persona i sentimenti violenti e le passioni terrene, ed ora è riuscito finalmente a liberarsene e ad allontanarsi da esse. Con la terra egli vede anche il sole e gli altri pianeti, che girano intor- no ad essa. Ma la lontananza fisica ed emotiva rende piccoli, meschini ed insignificanti anche gli altri cor- pi celesti. 8. Il canto si riallaccia a Pd XI, dove Tommaso d’Aquino celebra l’ordine francescano e critica i frati del suo ordine, e a Pd XI, dove Bonaventura da Ba- gnoregio celebra l’ordine domenicano e critica i frati del suo ordine. Tutti e tre gli ordini presentano carat- teristiche simili: sono iniziatibene, ma dopo la prima generazione di frati o di monaci ci si è avviati verso una vita in contrasto con la regola posta alla base dell’ordine. La stessa cosa era successa acneh per i seguaci di Pietro e degli altri apostoli. La degrada- zione, il rilassamento dei costumi o l’oblio della re- gola è però comparso fin dagli inizi dell’umnità: nel paradiso terrestre, dove stavano bene e dove non a- vevano niente (o quasi) da fare, Adamo ed Eva rie- scono a comportarsi bene soltanto per poche ore. Sembra proprio che il male abbia un fascino superio- re al bene. 8.1. Il poeta mette in un cielo più alto Benedetto da Norcia rispetto a Tommaso d’Aquino, che celebra Francesco d’Assisi (Pd XI) e gli ideali di obbedienza, castità e umiltà, e Bonaventura da Bagnoregio, che celebra Domenico di Calaruega, impegnato a tempo pieno nella conversione degli eretici (Pd XII). Il mo- tivo è facile da capire: Ora et labora, la proposta di vita del monaco, è superiore alla vita teoretica, rap- presentata da Tommaso, e alla vita pratica rappresen- tata da Francesco. 9. in questo canto e in quello successivo il poeta su- bisce una metamorfosi: si stacca sempre più dalla ter- ra per divenire parte del cielo. La metamorfosi avvie- ne anche fisicamente: in un baleno Dante e Beatrice si trovano nella costellazione dei Gemelli. Il riassunto del canto è semplice: 1) il poeta è colpi- to dal canto dei beati; 2) Beatrice gli preannuncia che, prima di morire, assisterà alla giusta punizione di Dio contro gli ecclesiastici corrotti; 3) l’anima più luminosa gli si avvicina e risponde alla sua muta do- manda: 4) è Benedetto da Norcia ed ha cacciato i cul- ti pagani da Montecassino; 5) il poeta chiede al santo di vedere il suo aspetto terreno; 6) questi risponde che il desiderio sarà realizzato soltanto in paradiso; poi 7) si lamenta della corruzione che ha invaso i suoi monasteri, ma contro di essa interverrà diretta- mente Dio; poi ritorna alla sua compagnia; 8) Dante e Beatrice si trovano in un attimo nella costellazione dei Gemelli; 9) Beatrice lo invita a guardare in basso; 10) il poeta vede la terra, che appare insignificante; poi rivolge gli occhi alla donna. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 81 Canto XXIII Come l’augello, intra l’amate fronde, posato al nido de’ suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, 1 che, per veder li aspetti disiati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, 4 previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l’alba nasca; 7 così la donna mia stava eretta e attenta, rivolta inver’ la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: 10 sì che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual è quei che disiando altro vorria, e sperando s’appaga. 13 Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir più e più rischiarando; 16 e Beatrice disse: “Ecco le schiere del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto ricolto del girar di queste spere!”. 19 Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia sì pieni, che passarmen convien sanza costrutto. 22 Quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, 25 vid’i’ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l’accendea, come fa ‘l nostro le viste superne; 28 e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. 31 Oh Beatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: “Quel che ti sobranza è virtù da cui nulla si ripara. 34 Quivi è la sapienza e la possanza ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terra, onde fu già sì lunga disianza”. 37 Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape, e fuor di sua natura in giù s’atterra, 40 la mente mia così, tra quelle dape fatta più grande, di sé stessa uscìo, e che si fesse rimembrar non sape. 43 “Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se’ fatto a sostener lo riso mio”. 46 Io era come quei che si risente di visione oblita e che s’ingegna indarno di ridurlasi a la mente, 49 quand’io udi’ questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che ‘l preterito rassegna. 52 Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnia con le suore fero del latte lor dolcissimo più pingue, 55 per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; 58 1. Come l’uccello – [dopo essersi] riposato nel nido con i suoi dolci nati, tra le amate fronde, durante la notte che ci nasconde le cose –, 4. che, per vedere il loro aspetto desiderato e per trovare il cibo con cui li nutre (nel far ciò le gravi fatiche gli sono gradite), 7. anticipa il tempo [ponendosi] su un ramo sporgente e con ardente affetto aspetta il sole, guardando fisso soltanto che l’alba nasca; 10. così la mia donna stava [con la testa] eretta e [con lo sguardo] attento, rivolta verso la parte del cielo sotto la quale il sole mostra meno fretta (=a mezzogiorno). 13. Così, vedendola tutta assorta e protesa, mi feci come colui che con il desiderio vorrebbe altre cose e [intanto] si accontenta di questa speranza. 16. Ma passò poco tempo tra l’uno e l’altro [momento], voglio dire tra la mia atte- sa e la vista del cielo che si veniva rischiarando sem- pre più; 19. e Beatrice disse: «Ecco le schiere [dei beati, che sono state redente] dal trionfo di Cristo [sulla morte e sul peccato] e [che sono] tutto il frutto raccolto [sulla terra] dagli influssi di queste sfere!». 22. Mi parve che il suo volto ardesse tutto, ed aveva gli occhi così pieni di letizia, che devo passare oltre senza [nemmeno cercare di] descriverlo. 25. Quale nelle notti serene di plenilunio Trivia (=la Luna) sor- ride tra le ninfe eterne (=le stelle) che dipingono il cielo in tutte le sue parti, 28. io vidi sopra migliaia di luci (=i beati) un sole (=Cristo) che le accendeva tutte quante, come il nostro sole fa con le stelle del cielo. 31. E attraverso quella viva luce la sua sostanza lu- minosa traspariva tanto chiara nei miei occhi, che essi non la sostenevano. 34. Oh Beatrice, mia dolce e cara guida! Ella mi disse: «Quel che ti supera è una forza dalla quale nulla si può difendere. 37. Qui (=in que- sta luce) è la sapienza e la potenza divina che aprì la strada tra il cielo e la terra, il desiderio della quale fu così lungo». 40. Come il fulmine si sprigiona dalla nube e si dilata, così che non vi sta più dentro, e con- tro la sua natura [di andare verso l’alto] va in giù ver- so la terra, 43. così la mia mente, fatta più grande [stando] tra quelle sublimi vivande (=spiriti), uscì di se stessa e non sa ricordare che cosa fece. 46. «Apri gli occhi e guarda come sono divenuta. Tu hai vedute cose, che ti hanno reso capace di sostenere il mio sor- riso.» 49. Io ero come colui che si risveglia da un so- gno dimenticato e che s’ingegna invano di riportarlo alla memoria, 52. quando udii questo invito, degno di [essere accolto con] tanta gratitudine, che non si cancellerà mai più dal libro (=la memoria) che regi- stra le cose passate. 55. Se ora risuonassero tutte quelle lingue (=i poeti) che Polimnia (=la musa della poesia epica) con le [muse sue] sorelle fece più pin- gui con il loro dolcissimo latte (=l’ispirazione poeti- ca), 58. per aiutarmi, non si verrebbe alla millesima parte del vero, cantando il santo sorriso [di Beatrice] e quanto esso faceva splendente il suo santo aspetto. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 82 e così, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. 61 Ma chi pensasse il ponderoso tema e l’omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott’esso trema: 64 non è pareggio da picciola barca quel che fendendo va l’ardita prora, né da nocchier ch’a sé medesmo parca. 67 “Perché la faccia mia sì t’innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora? 70 Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino”. 73 Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de’ debili cigli. 76 Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei; 79 vid’io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri. 82 O benigna vertù che sì li ‘mprenti, sù t’essaltasti, per largirmi loco a li occhi lì che non t’eran possenti. 85 Il nome del bel fior ch’io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l’animo ad avvisar lo maggior foco; 88 e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che là sù vince come qua giù vinse, 91 per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. 94 Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l’anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, 97 comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s’inzaffira. 100 “Io sono amore angelico, che giro l’alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; 103 e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia più la spera suprema perché lì entre”. 106 Così la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. 109 Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che più ferve e più s’avviva ne l’alito di Dio e nei costumi, 112 avea sopra di noi l’interna riva tanto distante, che la sua parvenza, là dov’io era, ancor non appariva: 115 però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levò appresso sua semenza. 118 61. E così, raffigurando il paradiso, il sacro poema deve tralasciare [di parlarne], come fa chi trova il suo cammino interrotto [da qualche ostacolo]. 64. Ma chi pensasse alle difficoltà dell’argomento e alle deboli spalle mortali (=di Dante) che se lo caricano, non lo biasimerebbe se trema sotto di esso. 67. Non è un tratto di mare per una piccola barca quel che va fen- dendo la mia ardita prora, né per un nocchiero che risparmia le sue forze. 70. «Perché il mio volto t’innamora con tanta forza, che tu non ti rivolgi al bel giardino (=i beati) che fiorisce sotto i raggi di Cristo? 73. Qui è la rosa (=la Vergine Maria) nella quale il verbo divino si fece carne; qui sono i gigli (=gli apo- stoli) al cui profumo (=sotto la cui guida) [il mondo] intraprese il buon cammino.» 76. Così disse Beatrice. Ed io, che ero tutto pronto ad ascoltare i suoi consi- gli, volsi ancora gli occhi [a Cristo, che con la sua luce metteva] a dura prova le mie deboli ciglia. 79. Come sotto un raggio di sole, che passi limpido at- traverso una nube squarciata, i miei occhi protetti dall’ombra videro talvolta un prato di fiori; 82. così vidi più schiere di anime splendenti, illuminate dall’alto dai raggi ardenti (=da Cristo), senza che si vedesse la fonte di tale sfolgorio. 85. O benigna virtù (=Cristo) che così stampi su di loro la tua impronta, ti sollevasti verso l’alto (=verso l’empìreo), per dare spazio ai miei occhi, che [per la tua presenza] non erano capaci [di vedere i beati]. 88. Il nome della Vergine, il bel fiore che io sempre invoco mattina e sera, concentrò tutto il mio animo a fissare il fuoco più grande (=la Vergine stessa, dopo l’ascesa di Cri- sto). 91. E come in ambedue i miei occhi si dipinse la qualità e la quantità della viva stella (=Maria) che lassù vince [tutti i beati] come quaggiù vinse [tutti gli uomini], 94. attraverso il cielo discese una fiamma di luce (=l’arcangelo Gabriele), a forma di cerchio a guisa di corona, la cinse e si girò intorno ad ella. 97. Qualunque melodia, che risuoni più dolce quaggiù (=sulla terra) e attiri l’anima più a sé, parrebbe un tuono che squarcia le nubi, 100. se paragonata al can- to di quella lira (=l’arcangelo Gabriele) che incoro- nava il bel zaffìro (=Maria), del quale il cielo più lu- minoso (=l’empìreo) s’ingemma. 103. «Io sono l’an- gelo ardente d’amore e cingo l’alta letizia che spira dal ventre che fu dimora del nostro desiderio (=Cri- sto); 106. e continuerò a cingerti, o signora del cielo, fino a che seguirai tuo figlio e farai più fulgida la sfe- ra suprema (=l’empìreo) perché tu vi entri.» 109. Co- sì la melodia della corona circolare (=l’arcangelo Gabriele) si concludeva e tutti gli altri spiriti splen- denti facevano risuonare il nome di Maria. 112. Il manto reale (=il nono cielo, quello più esterno) di tutti i cieli del mondo, che più ferve e più si ravviva nell’alito e nelle leggi di Dio, 115. aveva la superfi- cie concava sopra di noi tanto distante, che la sua presenza, là dove io ero, non appariva ancora. 118. Perciò i miei occhi non ebbero la capacità di seguire la fiamma incoronata [di Maria] che si levò dietro a suo figlio. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 85 della Vergine è ripresa e ampliata poco dopo, quando l’arcangelo Gabriele discende dall’alto e cinge la Madonna con una corona di luce (vv. 103-108). L’arcangelo Gabriele però arricchisce ed amplifica la scena precedente e ripete l’annuncio, fatto nel Vange- lo, dell’incarnazione di Dio nel grembo della Vergi- ne. Questa ripetizione di un fatto s’inserisce nel ceri- moniale liturgico che caratterizza il cristianesimo in misura forse superiore a tutte le altre religioni: i mo- menti fondamentali (annunciazione, incarnazione, na- scita, battesimo, morte, resurrezione di Cristo ecc.) sono collocati fuori del tempo e dello spazio e fissati per sempre nella memoria mediante cerimonie, invo- cazioni, atti liturgici, che si ripetono ad oltranza e che plasmano la mente ed il cuore del credente. 6. Diversamente dall’Olimpo greco, il cielo cristiano è mascolino: la Vergine Maria, l’unico elemento femminile, è di origine umana e per meriti speciali – è Madre di Cristo, cioè di Dio – è assunta in cielo in anima e corpo. D’altra parte le società tradizionali occidentali erano patrilineari, invece quelle indiane davano un’importanza ben maggiore all’elemento femminile: il principio maschile e femminile, yin e yang, erano complementari ed esistevano dentro la realtà. Ci sono però alcune differenze significative: a) la Santissima Trinità cristiana è completamente aliena dalla super attività sessuale di Zeus (o di Giove), che feconda donne ed animali, assumendo anche l’aspet- to di animale e addirittura di pulviscolo d’oro per co- ronare i suoi amplessi amorosi; lo Spirito Santo mette incinta soltanto Maria Vergine, e per motivi seri, da ragion di Stato; b) il colpo di Stato di Zeus contro il padre Saturno ha successo, mentre quello di Lucifero contro l’eterno Padre finisce male: l’angelo ribelle viene sbattuto all’inferno; e c) gli dei dell’Ellade abi- tano l’Olimpo, un monte di modesta altezza, sempre immerso nelle nuvole, e si occupano in modo fasti- dioso delle vicende umane, schierandosi in campi opposti alle spalle degli uomini; il Dio cristiano inve- ce è esterno al mondo, che ha creato, si preoccupa del bene degli uomini, soprattutto delle classi meno ab- bienti, e addirittura manda sulla terra suo figlio a mo- rire per salvare l’umanità. 7. Il canto insiste su molteplici aspetti della natura: l’uccello che aspetta l’alba, i pleniluni sereni, i vapori ignei, il prato coperto di fiori, il bambinello. Il poeta esprime con immagini prese dalla natura e rende alla portata della vita quotidiana l’esperienza mistica che sta provando in cielo. Il legame tra la terra e il cielo è ribadito da Cristo, che ha due nature, dalla Madonna, che è Vergine e Madre terrena di Dio, dai beati, che conquistarono il cielo con una vita di fede e di buone opere sulla terra, infine da san Pietro, che tiene le chiavi del regno dei cieli. Il cielo è pieno di vita ter- rena e la terra è piena di vita ultraterrena. I due mondi sono complementari. La scala di Giacobbe li unisce. E sono unificati da una rete vastissima di simboli, che li trasformano in un terzo mondo, il mondo dell’immaginario. La realtà è complessa e soltanto una strategia complessa permette di catturarla. Un rapporto diretto, descrittivo, biunivoco tra nomen e res è impensabile e destinato all’insuccesso (Il nome peraltro indica e svela l’essenza della cosa). Il Medio Evo percepisce la complessità della realtà ed attua costantemente strategie efficaci per affrontarla. 7.1. Questa fusione di umano e di divino non è peral- tro una prerogativa del cristianesimo: le altre religioni (sumerica, assira, babilonese, egiziana, greca, roma- na, indiana ecc.) sono sulle stesse posizioni. L’uomo ricorre al divino per spiegare il mondo e per trovare una difesa al suo stato di debolezza chiedendo aiuto alla divinità: con l’offerta di sacrifici il fedele cerca di cambiare la realtà di questo mondo, che altrimenti non sa come modificare. E che non è capace affatto di modificare. Ciò vuole dire che il mondo degli dei è in funzione del mondo degli uomini, non viceversa. L’Olimpo, la sede degli dei, era un monte di modesta altezza, che sorgeva poco più a nord di Atene. Gli dei avevano l’antipatica abitudine d’impicciarsi degli af- fari degli uomini e di concupirne le donne. Gli inferi poi sono tristissimi e la gloria acquistata sulla terra non li rende più sopportabili. Elena, la più bella delle donne, è uguale a tutti gli altri scheletri; ed Achille è disposto a rinunciare alla sua gloria, pur di ritornare per un momento sulla terra. 8. La corte celeste è fatta di schiere di anime che or- mai hanno perso la loro identità terrena: sono luci in diretto contatto con Dio, cioè con Cristo, da cui trag- gono il proprio splendore. Il poeta si riallaccia al pas- so del Vangelo in cui Cristo si presenta come la vite, mentre i fedeli sono i tralci. E la vite dà la linfa vitale (Gv. 15, 1-5). 9. Nel canto Dante parla con Beatrice, che gli indica i beati, ma non ha alcun contatto né con la Madonna né con Cristo. Il rapporto è ancora a distanza, perché non è ancora giunto il momento di un incontro ravvi- cinato. Il momento giusto sarà alla fine del viaggio, quando il poeta vedrà Dio, il fine dei suoi desideri, e sprofonderà nell’essenza divina (Pd XXXIII, 67- 145). In tale canto saranno ripresi e portati a compi- mento anche altri motivi, qui soltanto accennati: le difficoltà di portare a termine la parte finale del Pa- radiso e l’inadeguatezza (vv. 64-66) delle pur consi- derevoli capacità poetiche dell’autore (Pd II, 1-15). Il riassunto del canto è semplice: 1) Beatrice indica a Dante i beati redenti da Cristo; 2) il poeta vede mi- gliaia di luci, dominate dalla luce di Cristo, che le supera tutte; poi 3) la donna invita il poeta a guardar- la, perché ora i suoi occhi sono capaci di farlo; ma 4) il volto di Beatrice è indescrivibile; 5) la donna lo in- vita a guardare Cristo, la Vergine e i beati; il poeta la ascolta; 6) Cristo sale all’empìreo, così Dante può fissare gli occhi sulla Vergine; 7) l’arcangelo Gabrie- le sotto forma di corona luminosa circonda il capo della Madonna, mentre tutti i beati cantano il nome di Maria; poi 8) essa sale al cielo seguendo suo Figlio, mentre i beati cantano O regina del cielo; 9) qui in cielo essi stanno ottenendo il premio che si acquista sulla terra versando lacrime e disprezzando i beni mondani. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 86 Canto XXIV “O sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba sì, che la vostra voglia è sempre piena, 1 se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, 4 ponete mente a l’affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa”. 7 Così Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, a volte, a guisa di comete. 10 E come cerchi in tempra d’oriuoli si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente quieto pare, e l’ultimo che voli; 13 così quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. 16 Di quella ch’io notai di più carezza vid’io uscire un foco sì felice, che nullo vi lasciò di più chiarezza; 19 e tre fiate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. 22 Però salta la penna e non lo scrivo: ché l’imagine nostra a cotai pieghe, non che ‘l parlare, è troppo color vivo. 25 “O santa suora mia che sì ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi disleghe”. 28 Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizzò lo spiro, che favellò così com’i’ ho detto. 31 Ed ella: “O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, 34 tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. 37 S’elli ama bene e bene spera e crede, non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi dov’ogne cosa dipinta si vede; 40 ma perché questo regno ha fatto civi per la verace fede, a gloriarla, di lei parlare è ben ch’a lui arrivi”. 43 Sì come il baccialier s’arma e non parla fin che ‘l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, 46 così m’armava io d’ogne ragione mentre ch’ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. 49 “Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che è?”. Ond’io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; 52 poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch’io spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. 55 “La Grazia che mi dà ch’io mi confessi”, comincia’ io, “da l’alto primipilo, faccia li miei concetti bene espressi”. 58 1. «O voi che come compagni siete stati scelti per la grande cena dell’Agnello benedetto, il quale vi ciba così, che il vostro desiderio è sempre appagato, 4. se per grazia di Dio questi (=Dante) pregusta le briciole che cadono dalla vostra mensa, prima che il tempo gli prescriva la morte, 7. ponete mente all’immenso desiderio [che prova] e irroratelo un po’ [con quella rugiada che estingue la sete]: voi bevete sempre dalla sorgente [della sapienza] da cui proviene quel che e- gli pensa.» 10. Così disse Beatrice. Quelle anime lie- te si disposero come sfere che giravano sopra un asse fisso, fiammeggiando, a volte, a guisa di comete. 13. E, come le ruote nei congegni degli orologi girano tanto velocemente, che a chi osserva la prima appare immobile e l’ultima che voli; 16. così quelle anime, danzando in modo diverso, mi facevano stimare il loro grado di beatitudine, secondo la loro velocità e la loro lentezza. 19. Da quella ruota, che io notai di più pregio, io vidi uscire un fuoco (=san Pietro) così felice, che non ne lasciò alcun altro più splendente. 22. Per tre volte ruotò intorno a Beatrice con un can- to tanto divino, che la mia fantasia non è capace di ripetere. 25. Perciò la mia penna salta [oltre] e non lo descrivo: la nostra immaginazione, nonché le nostre parole, ha colori troppo vivaci per [riprodurre] tali sfumature. 28. «O mia santa sorella, che con tanta devozione ci preghi, per il tuo ardente affetto mi spingi a staccarmi da quella bella sfera [di beati].» 31. Dopo essersi fermato, il fuoco benedetto indiriz- zò la parola alla mia donna, che parlò così come io ho detto. 34. Ed ella: «O luce eterna di quel grande uomo a cui Nostro Signore lasciò le chiavi, che egli portò sulla terra, di questo gaudio meraviglioso [che è il paradiso], 37. esamina costui, come ti piace, sui punti lievi e gravi che riguardano la fede, per la quale tu camminavi sopra il mare. 40. Non ti è nascosto se egli ama bene (=correttamente), spera bene e crede [bene], perché hai gli occhi fissi qui (=in Dio) dove ogni cosa si vede riflessa [come in uno specchio]. 43. Ma, poiché questo regno ha acquistato i suoi cittadini per mezzo della vera fede, è bene che egli abbia l’occasione di parlare di lei, per glorificarla». 46. Come il baccelliere (=l’assistente), in attesa che il maestro proponga la questione, si arma e non parla, per raccogliere [nella sua memoria] le prove, non per trarre le conclusioni; 49. così io mi armavo di ogni argomento, mentre ella parlava, per esser pronto [a rispondere] a tale inquirente e a tale professione [di fede]. 52. «Dimmi, o buon cristiano, fatti manifesto: che cos’è la fede?» Perciò io alzai la fronte verso quella luce da cui spirava questa domanda; 55. poi mi volsi verso Beatrice, ed essa mi fece sùbito cenno di mandare fuori l’acqua dal mio fonte interno (=di rispondere). 58. «La Grazia divina, che mi permette di fare la mia professione di fede» io cominciai, «da- vanti al suo primo campione (=san Pietro), faccia che i miei concetti siano bene espressi [dalle parole].» Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 87 E seguitai: “Come ‘l verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, 61 fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi; e questa pare a me sua quiditate”. 64 Allora udi’ : “Dirittamente senti, se bene intendi perché la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomenti”. 67 E io appresso: “Le profonde cose che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di là giù son sì ascose, 70 che l’esser loro v’è in sola credenza, sopra la qual si fonda l’alta spene; e però di sustanza prende intenza. 73 E da questa credenza ci convene silogizzar, sanz’avere altra vista: però intenza d’argomento tene”. 76 Allora udi’ : “Se quantunque s’acquista giù per dottrina, fosse così ‘nteso, non lì avria loco ingegno di sofista”. 79 Così spirò di quello amore acceso; indi soggiunse: “Assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e ‘l peso; 82 ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa”. Ond’io: “Sì ho, sì lucida e sì tonda, che nel suo conio nulla mi s’inforsa”. 85 Appresso uscì de la luce profonda che lì splendeva: “Questa cara gioia sopra la quale ogne virtù si fonda, 88 onde ti venne?”. E io: “La larga ploia de lo Spirito Santo, ch’è diffusa in su le vecchie e ‘n su le nuove cuoia, 91 è silogismo che la m’ha conchiusa acutamente sì, che ‘nverso d’ella ogne dimostrazion mi pare ottusa”. 94 Io udi’ poi: “L’antica e la novella proposizion che così ti conchiude, perché l’hai tu per divina favella?”. 97 E io: “La prova che ‘l ver mi dischiude, son l’opere seguite, a che natura non scalda ferro mai né batte incude”. 100 Risposto fummi: “Di’, chi t’assicura che quell’opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giura”. 103 “Se ‘l mondo si rivolse al cristianesmo”, diss’io, “sanza miracoli, quest’uno è tal, che li altri non sono il centesmo: 106 ché tu intrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu già vite e ora è fatta pruno”. 109 Finito questo, l’alta corte santa risonò per le spere un ‘Dio laudamo’ ne la melode che là sù si canta. 112 E quel baron che sì di ramo in ramo, essaminando, già tratto m’avea, che a l’ultime fronde appressavamo, 115 ricominciò: “La Grazia, che donnea con la tua mente, la bocca t’aperse infino a qui come aprir si dovea, 118 61. E seguitai: «O padre, come ci ha lasciato scritto la penna veritiera del tuo caro fratello (=san Paolo), che insieme con te mise Roma sulla retta via [della salvezza], 64. la fede è la sostanza (=il fondamento) delle cose che speriamo e l’argomento (=la prova) delle cose che non appaiono [ai nostri sensi]. Questa a me sembra la sua essenza». 67. Allora udii: «Tu senti in modo corretto, se intendi bene perché egli (=san Paolo) la pose prima tra le sostanze e poi tra gli argomenti». 70. Ed io di rimando: «I profondi miste- ri che qui [in cielo] mi mostrano il loro aspetto, agli occhi di laggiù (=degli uomini) sono così nascosti, 73. che la loro verità è ammessa soltanto per fede, sopra la quale si fonda la speranza [della beatitudine celeste]. Perciò la fede prende il nome di sostanza. 76. E da questa fede ci conviene sillogizzare (=è ne- cessario che noi procediamo con le deduzioni), senza poter contare su altri occhi [per vedere]. Perciò essa assume il nome di argomento». 79. Allora udii: «Se tutto ciò, che giù [tra gli uomini] si acquista attraver- so l’insegnamento, fosse compreso bene [come lo hai compreso tu], lì non ci sarebbe spazio per le discus- sioni inutili dei sofisti». 82. Così parlò quello [spiri- to] acceso d’amore; poi soggiunse: «Hai passato molto bene [tra le tue mani] la lega e il peso di questa moneta (=hai esaminato molto bene la fede). 85. Ma dimmi se tu ce l’hai nella tua borsa (=la moneta e la fede)». Ed io: «Sì, ce l’ho, così lucida e così rotonda, che non ho alcun dubbio sul suo conio (=sulla sua autenticità)». 88. Dalla luce profonda che lì splende- va uscì questa risposta: «Questa cara gioia (=la gemma preziosa della fede), sopra la quale ogni virtù si fonda, 91. da dove ti venne?». Ed io: «L’ispira- zione dello Spirito Santo, che, come pioggia abbon- dante, è diffusa sulle vecchie e sulle nuove perga- mene (=Vecchio e Nuovo testamento), 94. è un sillo- gismo (=argomento) che me lo ha fatto concludere in modo così stringente che in proposito ogni altra di- mostrazione mi pare superflua». 97. Io udii poi: «L’Antico e il Nuovo testamento, che ti fanno così concludere, perché tu li consideri ispirati da Dio?». 100. E io: «La prova, che mi dischiude il vero, sono le opere seguìte (=i miracoli), per le quali la natura non scalda mai il ferro né batte l’incudine». 103. Mi rispose: «Dimmi, chi ti assicura che quelle opere sia- no avvenute? Te lo giura (=dimostra) quello stesso libro (=la Bibbia) che si vuole provare, non altri». 106. «Se il mondo pagano si rivolse al cristianesimo» dissi, «senza miracoli, quest’unico miracolo è tale, che gli altri non valgono la centesima parte di esso: 109. tu entrasti nel campo povero e senza mezzi, per seminare la buona pianta che un tempo fu vite (=fu ben coltivata) e che ora è divenuta pruno (=è selvati- ca).» 112. Quando finii di parlare, la santa corte cele- ste si mise a cantare in tutti i gruppi il salmo Ti lo- diamo, o Dio con quella dolce melodia che lassù si canta. 115. E quel principe che, esaminandomi nella fede [passando] di domanda in domanda, mi aveva ormai tratto al punto in cui ci avvicinavamo alle ul- time fronde (=le conclusioni finali), 118. ricominciò: «La Grazia divina, che guida con amore la tua mente, ti ha fatto parlare come si doveva parlare, Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 90 nell’essenza divina. Il poeta attua precisamente que- sto itinerarium mentis in Deum, e alla fine del viag- gio ha la visione estatica di Dio. 5.1. I vv. 130-147 contengono tutte le verità di fede del cristianesimo. Non sono molte. In séguito esse saranno compendiate nella Professio fidei tridenti- nae, con cui si conclude il Concilio di Trento (1545- 1563). Nei secoli successivi vengono aggiunte alcune altre verità: la ragione non deve fare gravi rinunce. In compenso si può dispiegare per tutto l’universo. Quando esce dall’universo, procede inizialmente da sola (la ragione teologica), poi procede con l’aiuto della rivelazione, cioè è aiutata dall’esterno, dalle Sa- cre scritture – l’Antico e il Nuovo testamento, i Van- geli ecc. –, che sono state ispirate direttamente da Dio. Il cristianesimo può giustamente e con orgoglio dire che non è venuto a distruggere il mondo e la cul- tura precristiana – la cultura classica –. È venuto a completare quella cultura, che era manchevole, per- ché non conosceva né il battesimo, né la rivelazione, né la grazia. Certi completamenti però sono più grandi e più rivoluzionari delle più grandi rivoluzio- ni, fatte come tali. 5.2. San Pietro (e Dante) è estremamente aderente all’apologetica cristiana dei primi secoli, che aveva ingaggiato una durissima lotta contro gli avversari sul piano della produzione letteraria. L’argomentazione del santo è stringente (vv. 85-111): a) la fede cristia- na si basa sulle Sacre scritture; b) le Sacre scritture sono ispirate direttamente dallo Spirito Santo, perciò sono assolutamente veritiere; c) la prova che sono i- spirate da Dio è costituita dai miracoli che esse rac- contano; d) il ragionamento circolare (l’ispirazione divina è confermata dai miracoli; e i miracoli con- fermano l’ispirazione divina) è aggirato grazie al mi- racolo più grande: e) «Se il mondo pagano si rivolse al cristianesimo (=si convertì) senza miracoli, que- st’unico miracolo è tale, che gli altri non valgono la centesima parte di esso» (vv. 106-081). 5.3. Il Dio di questa professione di fede è un Dio aristotelico-cristiano: è uno e trino, ed esterno al mondo, che ha creato; ma è Motore Immobile, che attira a sé tutte le creature come fine ultimo della re- altà. 6. La fede è definita sostanza (=il fondamento) delle cose che speriamo (la resurrezione della carne e la vita eterna) e argomento (=la prova) delle cose che non appaiono ai nostri sensi, cioè che restano invisi- bili agli occhi degli uomini. Il linguaggio usato da Paolo e recepito da Dante è immaginoso e paradossa- le, poiché deve esprimere cose ai limiti delle sue ca- pacità espressive. Anche altrove il poeta denuncia i limiti del linguaggio umano (Pd XXXIII, 55-57, 58- 60, 67-75, 106-108, 121-123, 139-141, 142-145). In effetti esistono anche le cose indicibili, che inevita- bilmente suscitano perplessità. Anche il linguaggio è uno strumento e in quanto tale presenta dei limiti. Ma che cosa c’è oltre il linguaggio? 7. Nel Tractatus logico-philosophicus (1922) Lud- wig Wittgenstein (1889-1851), il grande logico e fi- losofo del linguaggio e forse anche il più grande filo- sofo del Novecento, ha risposto inavvertitamente il mistico. Il mistico non si descrive, si presenta, si mo- stra, appare. Esso è duplice: dentro il linguaggio (il linguaggio non può descrivere se stesso) e fuori del linguaggio, nel mondo. Anzi è il mondo, l’enigma del mondo, perché tale diventa il mondo, quando viene percepito come totalità. Il pensatore viennese aggiunge anche molte altre cose interessanti: se una domanda si può formulare, si può formulare anche la risposta. Ma le domande riguardano soltanto le realtà che esistono dentro il mondo (Dante avrebbe detto nel mondo sotto la Luna, soggetto al divenire, e in quello sopra la Luna, sempre uguale a se stesso): non si può porre nessuna domanda sul mondo dall’e- sterno del mondo (Dante avrebbe detto dal punto di vista dell’assoluto, di Dio). E allora che si fa? È ov- vio, parola di filosofo: «Ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Con questa proposizione, che non casualmente porta il numero 7, termina la più grande opera filosofica del sec. XX. 7.1. Ma i medioevali avevano tentato anche altre vie, ad esempio quella che porta il nome di teologia ne- gativa: se Dio è ineffabile, allora non si può dire ciò che Egli è, ma ciò che Egli non è. Logici e immagi- nosi! Nessun ostacolo deve resistere alla ragione ed ai limiti della ragione. Poi sono venuti i tempi bui: la ragione politica senza valori etici di N. Machiavelli (1469-1527), che come il bue di Perillo si beffa del suo stesso autore, e la ragione strumentale degli illu- ministi (1730-1789), che è efficiente, senza scopi propri e provoca disastri. 8. Il poeta ricorre, come in altri casi, alla cultura agri- cola del Vangelo: san Pietro è paragonato ad un agri- coltore che semina il campo e poi raccoglie (vv. 109- 111). Nel Vangelo Cristo si presenta con una imma- gine molto efficace: «Io sono la vite e voi siete i tral- ci». E ricorre ad altre immagini semplici e capaci di colpire: le parabole. La struttura del canto è semplice: 1) Beatrice inter- cede per Dante presso i beati e presso san Pietro, af- finché lo esamini nella fede; 2) lo spirito di san Pie- tro si avvicina a Dante danzandogli intorno, e 3) gli chiede che cos’è la fede per un cristiano; 4) Dante risponde con le parole di san Paolo che essa è sostan- za ed argomento; poi 5) il santo chiede chiarimenti ed il poeta risponde in modo esauriente; quindi 6) fa ancora altre domande: se il poeta ha la fede, dove l’ha attinta e quali prove dimostrano che la sua fede è vera; 7) ad ogni domanda il poeta risponde corretta- mente; 8) così alla fine dell’esame il santo si congra- tula con lui. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 91 Canto XXXIII “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, 1 tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. 4 Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. 7 Qui se’ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. 10 Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disianza vuol volar sanz’ali. 13 La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. 16 In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. 19 Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, 22 supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. 25 E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, 28 perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi. 31 Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. 34 Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!”. 37 Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; 40 indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro. 43 E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii. 46 Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea: 49 ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera. 52 Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. 55 Qual è colui che sognando vede, che dopo ‘l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, 58 1. «O Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e grande più che [ogni altra] creatura, termine (=scopo) fissato dall’eterno decreto [di Dio], 4. tu sei colei che nobilitasti così la natura umana, che il suo creatore (=il Verbo) non disdegnò di farsi sua creatura. 7. Nel ventre tuo si riaccese l’amore [divino], per il cui calo- re nell’eterna pace [del cielo] è germogliato questo fiore (=la candida rosa). 10. Qui sei per noi fiaccola ardente di carità, e giù fra i mortali sei viva fontana di speranza. 13. O Signora, sei tanto grande e tanto vali, che colui che vuole grazia e non ricorre a te, vuole che il suo desiderio voli senz’ali (=non sia soddisfatto). 16. La tua benignità non soccorre sol- tanto chi domanda, ma molte volte liberamente pre- cede il domandare. 19. In te la misericordia, in te la pietà, in te la magnificenza, in te s’aduna tutto ciò che vi è di buono nelle creature (=uomini e angeli). 22. Ora costui, che dall’infima laguna dell’universo (=l’inferno) fin qui ha veduto le vite degli spiriti ad una ad una, 25. ti supplica di ottenergli per grazia tanta virtù, che possa con gli occhi levarsi più in alto verso l’ultima salvezza. 28. Ed io, che mai non arsi di vedere [Dio] più di quanto non faccio perché lo veda lui, ti porgo tutte le mie preghiere – e prego che non siano scarse –, 31. affinché con le tue preghiere lo sleghi da ogni nube (=impedimento) del suo stato mortale, così che il sommo piacere (=Dio) gli si di- spieghi (=manifesti). 34. Ancora ti prego, o regina, che puoi ciò che vuoi, [ti prego] che conservi sani (=puri) i suoi affetti (=il cuore e la volontà) dopo una visione così grande. 37. La tua protezione vinca le passioni umane: vedi che Beatrice e tutti i beati con- giungono a te le mani, affinché tu esaudisca le mie preghiere!» 40. Gli occhi da Dio prediletti e venerati, fissi in san Bernardo pregante, ci dimostrarono quan- to le son gradite le preghiere devote. 43. Quindi si drizzarono all’eterna luce, nella quale non si deve credere che si avvii [altret]tanto chiaramente occhio di creatura mortale. 46. Ed io, che al fine di tutti i de- sideri mi avvicinavo – così come dovevo –, espressi con tutte le mie forze l’ardore del desiderio. 49. Ber- nardo mi accennava e mi sorrideva, affinché io guar- dassi in su; ma io ero già da me in quell’atteggia- mento, che egli voleva. 52. E la mia vista, divenendo limpida, penetrava sempre più dentro il raggio di quell’alta luce, che da sé è vera. 55. Da questo mo- mento in poi ciò che vidi fu più grande di quanto possano dire le nostre parole, che devono cedere a tale vista, e cede [anche] la memoria davanti a tanto eccesso. 58. Qual è colui che vede in sogno ciò che, dopo il sogno, lascia impressa una [forte] emozione, mentre il resto non ritorna alla memoria; Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 92 cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visione, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. 61 Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. 64 O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, 67 e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; 70 ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria. 73 Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. 76 E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito. 79 Oh abbondante grazia ond’io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! 82 Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: 85 sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. 88 La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. 91 Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ‘mpresa, che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. 94 Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. 97 A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; 100 però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto. 103 Omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. 106 Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante; 109 ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’io, a me si travagliava. 112 Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; 115 e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. 118 61. tale sono io, perché la mia visione scompare qua- si completamente e [tuttavia] mi distilla ancora nel cuore la dolcezza che nacque da essa. 64. Così la ne- ve si scioglie al sole, così al vento nelle foglie legge- re si perdeva la sentenza della Sibilla. 67. O somma luce, che tanto ti alzi sopra i concetti mortali (=la concezione che gli uomini hanno di te), alla mia me- moria riporgi un poco di quel che apparivi 70. e fa’ la mia lingua tanto possente, che una sola favilla del- la tua gloria io possa lasciare alle gente future, 73. perché, se torna un po’ alla memoria e risuona un po’ in questi versi, più [facilmente] si concepirà la tua superiorità [su tutto]. 76. Io credo che per l’intensità del vivo raggio, che io sopportai, sarei rimasto abba- gliato, se i miei occhi si fossero distolti da Lui. 79. Mi ricordo che per questo motivo io fui più ardito a sostener [quella luce], tanto che io congiunsi il mio sguardo con l’essenza infinita. 82. Oh [quanto fu] abbondante la grazia [divina], per la quale io ebbi l’ardire di fissare il viso dentro l’eterna luce, tanto che vi consumai (=v’impiegai completamente) la vi- sta! 85. Nel suo profondo vidi che sta congiunto in un volume (=in unità assoluta) legato con amore ciò che si squaderna (=dispiega) per l’universo: 88. [vidi] le sostanze e gli accidenti e i loro rapporti, quasi fusi insieme, in modo tale che ciò, che io dico, è un sem- plice barlume. 91. La forma universale di questa u- nione sono sicuro che io vidi, perché, dicendo que- sto, sento che provo una beatitudine più intensa. 94. Un istante solo mi causò un oblìo più grande [dell’o- blìo] che venticinque secoli [causarono] all’impresa [degli argonauti], la quale fece che Nettuno guardasse con stupore l’ombra della nave Argo. 97. Così la mia mente, tutta presa dalla meraviglia, guardava fissa, immobile, attenta, e si faceva sempre [più] accesa [del desiderio] di guardare [in Dio]. 100. A [guardar] quella luce si diventa tali, che volgersi da lei, per [guardar] altra cosa è impossibile che mai si accon- senta, 103. perché il bene, che è oggetto del volere, si raccoglie tutto in lei e fuori di essa è imperfetto ciò che lì è perfetto. 106. Ormai la mia parola, anche sol- tanto a [dire] quel che io ricordo, sarà più insufficien- te [della parola] di un bambino, che bagni ancor la lingua alla mammella. 109. Non perché più che un semplice aspetto ci fosse nella viva luce che io guar- davo – Egli è sempre tale qual era prima (=è immu- tabile) –; 112. ma perché la mia vista diventava in me più forte, mentre guardavo, una sola apparenza pas- sava davanti ai miei occhi [in molteplici visioni], mu- tando io (=via via che si modificava la mia capacità visiva). 115. Nella profonda e chiara sussistenza dell’alta luce mi apparvero tre giri di tre colori e della stessa grandezza; 118. e l’uno (=il Padre) dall’altro (=il Figlio) come iride (=arcobaleno) da iride appari- va riflesso, e il terzo (=Spirito Santo) appariva fuoco, che spirasse ugualmente da questo e da quello. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 95 nichea parla di un principio del Bene e di un princi- pio del Male, ugualmente potenti. La religione cri- stiana invece contrappone a Dio un avversario, Sata- na, che non può stargli alla pari e che anzi è strumen- to della giustizia divina. Nel complesso queste reli- gioni sono politeistiche. Il cristianesimo nasce mono- teista, ma poi trasforma Dio in Uno e Trino. La reli- gione maomettana invece resta rigorosamente mono- teistica, anzi, per evitare degenerazioni politeistiche, il fondatore vieta di raffigurare la divinità. 7. Dante ricorre ancora alla geometria, per spiegare l’esperienza che ha provato: «Il geometra si trova in difficoltà davanti al problema della quadratura del cerchio, perché cerca i principi di cui ha bisogno, ma non li trova. Anch’io mi trovavo nella stessa situa- zione davanti al problema della comprensione della doppia natura di Cristo, perché le facoltà umane non erano capaci di tale comprensione. Allora mi venne in aiuto Dio stesso con la sua energia, una luce abba- gliante mi colpiva e mi apriva la mente. Così io riu- scii a vedere come le due nature sono fuse» (vv. 133- 141). Il poeta era ricorso alla geometria anche più sopra: Pd XV, 55-57, e Pd XVII, 13-15. 8. Tutto il canto è sospeso tra la volontà d’immer- gersi in Dio e l’umana incapacità di giungere a tale visione. Il poeta riesce attraverso le parole e il rico- noscimento, fatto più volte, dei loro limiti insupera- bili a far provare al lettore il brivido sovrumano della comunione con Dio. Ma contemporaneamente riesce a fare sentire i limiti estremi della ragione umana e l’insoddisfazione che l’uomo deve provare quando non è in contatto con Dio ed anzi lo abbandona per beni terreni. L’ultima visione della Divina commedia è preparata lentamente: il poeta percorre passo dopo passo l’Itinerarium mentis in Deum (che è il titolo dell’opera di un mistico, Bonaventura da Bagnore- gio): si separa dai desideri terreni fin dagli inizi del paradiso (Pd I, 139-140 e II, 37-42), acquista e man- tiene sani e puri i suoi desideri (vv. 22-38), quindi è pronto per l’ultima tappa del viaggio, lo sprofondarsi mistico oltre le capacità umane in Dio, la Somma Luce, ma anche il Sommo Amore. 8.1. L’estasi cristiana non ha precedenti nelle altre religioni. La religione greca conosceva i riti orgiastici e i baccanali (si usciva di sé bevendo vino e abban- donandosi ai piaceri dei sensi) o gli oracoli (la sacer- dotessa, invasata dal dio Apollo, pronunciava le sue incomprensibili profezie). La cultura greca conosceva la catarsi, cioè la purificazione dell’animo, che i pro- tagonisti della tragedia come gli spettatori raggiunge- vano alla fine della tragedia, quando i colpevoli si purificavano della colpa commessa infliggendosi o subendo punizioni riparatrici. La religione romana invece è sempre stata razionale e composta e metteva al bando le religioni che disturbavano la morale e la quiete pubblica. Nell’America latina i maya e altri popoli uscivano dalla condizione umana usando allu- cinogeni. 8.2. L’estasi mistica è la conclusione di un lungo processo di ascesi, cioè di abbandono e di sciogli- mento dalla condizione umana, che ha portato l’uo- mo alla comunione con Dio. Le varie fasi sono: a) la conoscenza sensibile; b) la conoscenza razionale; c) la fede, la rivelazione e la teologia razionale; d) l’estasi. In questo processo la parola e la ragione, che la esprime, mostrano sempre più i loro limiti e si di- mostrano sempre più incapaci di mettere in contatto l’uomo con la divinità o con l’assoluto (o con ciò che la divinità è o indica). 8.3. In proposito Platone (427-347 a.C.) aveva elabo- rato la teoria della linea (Rep., VI, 1-21): la cono- scenza è sensibile, legata agli occhi (livello dell’o- pinione), ed intelligibile, legata all’anima (livello dell’epistème, cioè della conoscenza solida, dimo- strabile); la conoscenza sensibile a sua volta si divide in apparenza e fede; quella intelligibile in conoscen- za dianoetica (o basata su ipotesi) e conoscenza noe- tica (che va oltre le ipotesi). Al terzo grado della co- noscenza appartiene la conoscenza matematica (arit- metica e geometria), che si basa su assiomi, da cui deduce le conseguenze. Talvolta la conoscenza noeti- ca si trova in stallo e non riesce a proseguire, allora subentra il livello di conoscenza inferiore, quello del- la fede, anche se propone verità non dimostrabili o troppo difficili da dimostrare. La fede di cui parla Platone è però ben diversa dalla fede cristiana, basata sulla rivelazione, cioè sulle Sacre scritture; coincide con l’opinione comune, l’opinione tramandata dal passato. Ad esempio la fede nell’esistenza degli dei. 9. La terza cantica finisce con Dio, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Era iniziata ugualmente con «la gloria di colui che tutto move» (Pd I, 1), ancora Dio. La Divina commedia era incominciata con l’individuo solitario e peccatore, smarrito nel buio della vita e della selva oscura (If I, 1-3), e si conclude con la gloria di Dio, che abbraccia tutto l’universo e che fa partecipi di sé e del suo amore tutti gli esseri, anche quell’essere sperduto che dalla selva oscura con estrema ostinazione e con grandissima fatica ha percorso ad uno ad uno i tre regni dell’oltretomba, per arrivare fino a Lui. 10. La figura materiale e grottesca di Lucifero (e l’ultimo canto dell’inferno) rimanda alla rappresenta- zione di Dio (e all’ultimo canto del paradiso), di cui il sovrano del doloroso regno è la tragica e grottesca parodia (If XXXIV, 28-67). Dio è pura luce ed è al di là delle parole umane. I beati, che sono ugualmente pura luce, vivono in eterna comunione con Lui. Dio è rappresentato come tre cerchi di colore diverso, che indicano le tre persone (Padre, Figlio e Spirito San- to). La seconda persona, il Figlio, con la sua duplice natura divina e umana collega l’uomo alla divinità. Anche la fine dei due canti e delle due cantiche sono correlati: là il poeta abbandona il centro della terra, per andare a «riveder le stelle» (v. 145); qui si spro- fonda in Dio, «l’amor che move il sole e l’altre stel- le» (v. 145). Il poeta infonde nella sua opera l’ordine che caratterizza tutto l’universo. E, come tutto l’uni- verso tende a Dio, così tutti i canti e tutto il viaggio nei tre regni dell’oltretomba tendono all’ultimo canto della Divina commedia e all’incontro più straordina- rio che il protagonista deve fare e vuole fare fin dalla selva oscura: l’incontro con Dio e la comunione mi- stica con Lui. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 96 11. La correlazione tra il centro dell’inferno e l’empì- reo non si ferma qui. Nel lago gelato di Cocìto Dante è solo con Virgilio. Si trova in una landa gelida, pie- na di dannati che soffrono nella loro solitudine. Al centro del lago è piantata la figura mostruosa e pelosa di Lucifero, che maciulla tre dannati. Tutto è freddo, oscurità, morte, morte dell’anima. Il poeta è preso da dolore, sofferenza e solitudine. Il viaggio da percor- rere è ancora lungo e disagevole. Ci si accontenta di vedere, tra poco, le stelle. L’empìreo è opposto. Il poeta si trova insieme con i beati. Bernardo invoca per lui la Vergine Maria. E la Vergine, Madre di Dio, invoca Dio, affinché il poeta abbia la visione mistica che lo sprofondi in Dio. Beatrice e tutti i santi del cielo sono con lui, in attesa di questo evento eccezio- nale: un uomo che ancora vivo penetra nell’essenza divina. Tutto è amore, luce, vita, vita dell’anima. Il poeta è preso da beatitudine e coralità. Il viaggio sta ormai giungendo al suo culmine e sùbito dopo si conclude. E poi si ritorna a casa, sulla terra. Il poeta va oltre la tragedia greca: alla catarsi sostituisce l’estasi mistica, che porta l’uomo a superare se stes- so, le sue forze, la ragione e la stessa condizione u- mana. 12. Dante dimentica Virgilio, Aristotele e Tommaso, che in vario modo, con la poesia o con la dottrina, lo avevano accompagnato durante il lungo viaggio nel- l’oltretomba. Dimentica anche il Dio-Parola del Van- gelo di Giovanni. Si riallaccia a Beatrice, al neopla- tonismo, a sant’Agostino, all’ascesi mistica di san- t’Anselmo, di san Bonaventura, di san Bernardo e di tutti gli altri mistici medioevali, perché soltanto essi indicano gli strumenti capaci di entrare in comunione con Dio. Ma il poeta va oltre: neanche la via indicata dai mistici è sufficiente, perché non soltanto la ra- gione, ma anche l’uomo in sé è limitato. Ha bisogno di un aiuto straordinario. Ed ecco che giunge l’aiuto dell’Essere divino, il quale folgora la mente umana e la rende capace di sprofondarsi in Lui. Dio viene ad abitare tra gli uomini. Dio viene anche con Dante a cercare l’uomo. Si era preso cura di lui, lo aveva cer- cato e lo aveva salvato anche con l’antico patto, sti- pulato con Noè e ratificato con la comparsa dell’ar- cobaleno; e con il nuovo patto, ratificato dalla pas- sione e dalla morte di Cristo sulla croce. Ed ora l’arcobaleno è divenuto l’immagine visibile dello stesso Dio, uno e trino. 13. Dante ha dimenticato Virgilio, ma ha dimenticato anche Beatrice, per quanto essa sia presente e sia ri- tornata al suo posto tra i beati, nella candida rosa. La fede e la teologia non sono sufficienti per avere la visione mistica e sprofondarsi in Dio. Occorrono strumenti più potenti ed energie sovrumane. Occorre la fede mistica di san Bernardo ed occorre soprattutto l’aiuto di Dio. Alla fine del viaggio il poeta prova quell’esperienza di immergersi nella luce divina che soltanto un altro essere umano ha provato: la Vergine Maria, la madre terrena del Figlio di Dio. 14. Il problema della quadratura del cerchio è il se- guente: trasformare la superficie di un cerchio di rag- gio r nell’equivalente quadrato che la delimita. Se Δcerchio=πr2, allora Δquadrato=πr2. Estraendo la radice quadrata, il lato del quadrato sarà: l= r√π. La solu- zione è facile sul piano simbolico ed anche sul piano geometrico, per quanto in questo secondo caso il ri- sultato sia approssimativo (il cerchio ha una super- ficie a metà strada tra il quadrato iscritto e il quadrato circoscritto). La vera difficoltà non è simbolica né legata all’approssimazione geometrica (nella realtà si opera normalmente in modo approssimativo). È con- cettuale. Già i greci del sec. VI a.C. si erano spaven- tati alla scoperta di √2, un numero irrazionale, che mostrava l’esistenza dell’infinito (il non finito, l’in- compiuto, cioè qualcosa di negativo, di imperfetto) in campo numerico: √2 vale approssimativamente 3,14, ma i decimali procedono all’infinito. E √ 2 è sem- plicemente il rapporto tra diagonale e lato di un qua- drato qualsiasi. Ora il poeta si trova davanti a √π, e π è un numero molto più complesso di √2… La ragi o- ne, che vede nella matematica la massima espressio- ne di se stessa e dei propri successi, scopre proprio nella matematica delle realtà impensabili e infinite: l’abisso dei numeri. 15. Le tre cantiche terminano con la parola stelle: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (v. 139); «Io ri- tornai [...] puro e disposto a salire a le stelle» (v. 145); «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (v. 145). Il soggetto dei primi due versi è il poeta, che nell’inferno ha bisogno di Virgilio, nel purgatorio è ormai solo, per incontrare Beatrice; il soggetto del terzo verso è Dio. Il poeta – che rappresenta ad un tempo l’individuo che è lui stesso e l’umanità errante – dal buio dell’inferno e del peccato va verso la luce, va verso Dio; e Dio avvolge con la sua luce e il suo amore il poeta e tutto l’universo. La struttura del canto è semplice: 1) san Bernardo, tutti i santi del cielo e Beatrice implorano la Vergine Maria affinché liberi Dante da ogni passione terrena e abbia la visione di Dio; 2) la Vergine ottiene da Dio che la preghiera sia esaudita; 3) il poeta allora volge i suoi occhi verso Dio e si sprofonda in Lui; 4) la sua memoria non può ricordare né le parole posso- no dire tutto ciò che ha visto, perché Dio è ineffabile; 5) egli comunque sa di aver visto l’unità e la trinità di Dio e la duplice natura di Cristo; 6) le sue forze però non erano capaci di tale visione, ma egli è colpito da una luce abbagliante, che gli mostra il mistero divino; poi le forze vengono meno; ma 7) ormai egli si sente mosso da Dio, l’amore che muove il sole e le altre stelle. Divina commedia. Paradiso, a cura di P. Genesini 97 Riassunto dei canti Canto I: l’invocazione ad Apollo ed alle muse; la sa- lita al cielo; la musica delle sfere celesti; l’ordine che governa tutto l’universo; il fine stabilito da Dio per gli uomini Dante invoca Apollo e le muse, affinché lo aiutino a portare a termine la terza ed ultima cantica. È il mat- tino di un giorno di primavera e Dante e Beatrice ri- prendono il viaggio. Beatrice guarda il Sole e le sfere dei cieli. Il poeta fissa Beatrice e quindi, come lei, fissa il Sole e le ruote dei cieli, provando una sensa- zione sovrumana. Egli sente il suono delle sfere cele- sti e chiede alla donna la causa di quel suono. Beatri- ce gli risponde che stanno lasciando la terra veloci come la folgore e che il suono è provocato dalle sfere celesti. Il poeta è allora preso da un nuovo dubbio e chiede come può egli, che è anima e corpo, andare verso il cielo. La donna coglie l’occasione della do- manda per esporre l’ordine che governa l’universo: Dio ha messo in tutte le creature (angeli, uomini, bru- ti e cose) un istinto naturale che le fa andare verso il loro fine. Il fine dell’uomo è di andare verso l’alto, in paradiso. Perciò il poeta, che è ormai privo d’im- pedimenti, non deve meravigliarsi se sta andando verso il cielo, perché quello è il luogo preparato da Dio per noi. Canto II: primo cielo, Luna; spiriti inosservanti dei voti; Beatrice spiega la causa delle macchie lunari Dante invita coloro che hanno una barca piccola a tornare alla spiaggia, perché, perdendo lui, forse si smarriscono: la materia che tratta non è mai stata trat- tata ed egli è aiutato da Minerva, da Apollo e da tutte le muse. Dante e Beatrice corrono veloci verso il cie- lo della Luna, che li accoglie. Alla vista della Luna il poeta chiede qual è la causa delle macchie lunari, che sulla terra hanno fatto nascere la leggenda di Caino. Prima di rispondere, Beatrice chiede l’opinione del poeta. Dante risponde che la Luna appare così, per- ché è costituita da corpi rari e da corpi densi. La don- na confuta immediatamente questa ipotesi: se le cose stessero così, allora durante le eclissi lunari il Sole attraverserebbe la Luna ora più luminoso ora meno luminoso. Quindi formula e confuta diverse ipotesi. Infine espone la corretta interpretazione delle mac- chie: l’intelligenza motrice dei Cherubini si unisce in modi diversi con i corpi celesti. Da questa unione, non dal principio del denso e del raro, sono causate le macchie lunari. Canto III: primo cielo, Luna; spiriti inosservanti dei voti; Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla Dante è contento della risposta. Poco dopo gli appare un gruppo di spiriti. Si volta, per vedere se li ha alle spalle, tanto sono trasparenti. Beatrice lo invita a ri- volgersi a loro. Il poeta si rivolge a quella che sem- brava più desiderosa di parlare e le chiede il nome e la loro sorte. L’anima dice di essere Piccarda Donati e di essere con gli altri spiriti nel cielo più basso della Luna, perché i loro voti sono rimasti inadempiuti. Il poeta allora chiede se desiderano un luogo più alto per vedere Dio più da vicino. L’anima risponde che la virtù della carità fa loro volere ciò che hanno e che perciò non desiderano altro. Ciò vale per tutti gli spi- riti che sono distribuiti negli altri cieli, che confor- mano la loro singola volontà alla volontà di Dio: nel fare la sua volontà è la loro beatitudine. Allora Dante chiede qual è il voto che rimase inadempiuto. Piccar- da racconta la sua vita: da giovane si ritirò in conven- to per seguire la regola di Chiara d’Assisi. Ma uomi- ni, abituati più a fare il male che a fare il bene, la ra- pirono e la costrinsero a sposarsi. La stessa cosa è successa all’anima di Costanza d’Altavilla, che è al suo fianco. Fu costretta ad andare sposa a Enrico IV di Svevia. Quindi Piccarda, cantando l’Ave Maria, scompare. Allora il poeta rivolge gli occhi a Beatrice ed è quasi abbagliato dallo splendore della donna. Canto IV: primo cielo, Luna; il dubbio sulla sede dei beati; Beatrice spiega l’ordinamento del paradiso; il dubbio sulla corresponsabilità di chi ha subìto vio- lenza; ultimo dubbio: se è possibile compensare i vo- ti inadempiuti Dante ha due dubbi, ugualmente intensi. Beatrice ini- zia dal più grave: tutti i beati si trovano nell’empìreo. Gli spiriti che ha visto nel cielo della Luna sono di- scesi per mostrare visibilmente al poeta qual è il loro grado di beatitudine: rispetto agli altri gradi, esso è il meno elevato. Senza questo segno sensibile il poeta non avrebbe capito, perché senza le percezioni dei sensi non si può passare alla conoscenza propria dell’intelletto. Per questo motivo la Chiesa permette che Dio venga rappresentato con mani e piedi. Bea- trice a questo punto coglie l’occasione per chiarire un’affermazione di Platone: il filosofo greco ha detto che le anime discendono dalle stelle e poi, alla morte, risalgono alle stelle. Forse egli intendeva non proprio le anime, ma gli influssi che dai cieli scendono sugli uomini. L’altro dubbio, meno pericoloso, riguarda il problema della violenza che ha impedito di adempie- re ai voti. La vera violenza – continua loa donna – si ha quando chi la subisce non fa nulla per favorirla. Le anime appena incontrate in qualche modo l’hanno favorita: sono state trascinate con la violenza fuori del monastero, ma, una volta finita la violenza, non hanno fatto niente per ritornarvi. Il fuoco, se spinto verso il basso, ritorna sempre verso l’alto. La volontà dev’essere irremovibile, come quella di Lorenzo che resiste al dolore del fuoco o di Muzio Scevola che brucia il suo braccio. Ma essa è molto rara. Piccarda però – osserva il poeta – aveva detto poco prima che Costanza conservò sempre l’affetto verso il velo mo- nacale. Beatrice allora chiarisce ulteriormente la que- stione distinguendo la volontà assoluta dalla volontà relativa. La prima non acconsente al male, la seconda vi acconsente per evitare un male maggiore. In questo senso le anime sono corresponsabili della violenza
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