Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

D. Musti - Storia Greca, Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Sintesi del corso di Storia

Riassunto accurato del libro di storia di Domenico Musti.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 03/11/2016

floriana_temperato
floriana_temperato 🇮🇹

4.3

(11)

1 documento

1 / 180

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica D. Musti - Storia Greca, Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! 0. Introduzione • Proporre un panorama generale della storia greca significa presentare una nuova sintesi e dunque una nuova scelta di temi; • Musti è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio: i fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo storia della cultura, delle idee e delle forme mentali; • Bisogna compiere il massimo sforzo di applicare le categorie interpretative e le forme mentali dei greci: tentare di vedere i Greci con gli occhi dei Greci; • Una coppia di categorie che ricorre quasi ossessivamente nei testi di storici, oratori, teorici greci è la coppia pubblico e privato: è il binario lungo il quale procede tutta l’esperienza politica e culturale greca; • La storia greca come una ‘grande parabola’: un processo che muove dagli inizi della storia arcaica, trova il suo culmine nel V secolo avanzato e imbocca quindi una curva che “si stenta a chiamare di declino” ma che certo è di grande trasformazione; • Questa parabola, che tocca l’apice nel V secolo avanzato, è definita sulla base della storia della città, e significa una storia della grecità come storia della pólis [percorso diacronico della parabola]; • In ciascun punto di questa parabola è verificabile l’intreccio tra il politico, il sociale, l’economico, la cultura, il mondo del mentale e dell’immaginario in genere [intreccio sincronico dei punti della parabola]; • La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che sussiste tra politica e cultura, un rapporto d’interazione dove è difficile distinguere tra la causa e l’effetto, il prima e il dopo; • Nel popolo greco si manifesta il processo per cui la natura si fa cultura, senza mai smettere di essere natura, in una straordinaria congiunzione di realismo e idealismo: la capacità di trasferire tutto sul piano dell’idealità, dell’astrazione, dell’éthos, ribaltando però una base di partenza che è realistica, naturalistica, utilitaristica, passionale, sensuale; • La cultura greca è delle più realistiche della storia, ma è altrettanto capace di creare un mondo di valori ideali in piena e lucida coscienza degli impulsi e dei bisogni naturali e materiali dell’uomo; • Non c’è nessuna massima o posizione ideale espressa nella grecità che non sia stata sofferta, e filtrata, attraverso l’esperienza dell’esistenza reale, di tutte le sue passioni, di tutti i suoi mali, o perfino dei suoi orrori. L’armonia della pólis classica del V secolo è una pura invenzione di alcuni moderni – l’esperienza greca della realtà è totale: il bene e il male, il senso dell’amicizia e gli odi profondi, la capacità della dedizione generosa e quella di tradire, vi si mescolano insieme; • Una cultura dunque in cui l’armonia appare strettamente intrecciata alla tensione; • Quando i greci parlano di unità politica non intendevano unità territoriale (come noi moderni), bensì un’unità nella diversità, un rapporto autonomistico, in cui ogni città conservasse la propria identità, i propri usi, costumi, istituzioni: autonomía – questa però si intreccia, realisticamente, con la hegemonía, cioè con la funzione di guida di un’entità più autorevole, a cui tocchi la preminenza in forza del consenso dei molti che, pur restando autonomi, accettano di farsi guidare; • Physis: ogni essere ha un proprio sviluppo organico, non illimitato, in virtù del quale ciascuno ha e conserva la sua identità, ma segnato dalla stessa ferrea legge del tempo, che fa nascere, crescere, maturare ma che piega anche a un inesorabile declino: entro questo pessimismo di fondo c’è pur sempre uno spazio temporale e di possibilità reali perché entro cui ciascuno può esprimere la propria identità; hybris: porsi contro questa concezione è il peccato capitale per i Greci, il disprezzo della misura, prepotenza, che vuole mettere in forse le eterne regole del gioco e sfidare gli equilibri naturali, che immancabilmente si ricostituiscono; • Nel processo della storia greca che porta dall’età alto-arcaica alla Guerra del Peloponneso, assistiamo a un infittirsi e accelerarsi progressivo delle esperienze, delle innovazioni, delle elaborazioni e distinzioni che, se culminano nello sconquasso della guerra civile, costituiscono di per sé un patrimonio di esperienze di straordinarie dimensioni e immenso valore, per i Greci come per l’umanità intera: un patrimonio costituito, quasi guadagnato, a costo di sofferenze indicibili, a riprova del nesso stabilito una volta per tutte dai Greci tra sapere e soffrire; • Questo capitale storico, politico e culturale, sarà investito in una quantità di riflessioni, sistemazioni, elaborazioni, caratteristici della grecità del IV secolo e dei secoli successivi; • Ma è la stessa cultura greca ad avere un’intrinseca propensione a porsi come paradigma, a cominciare dall’épos, il processo si intensifica via via nel corso del tempo, accelerando nel passaggio dal V al IV secolo, quando si aggiunge un netto sentimento dell’avvenuta conclusione di un’epoca, la chiara consapevolezza di uno stacco tra passato e presente, che consolida la già forte funzione paradigmatica del passato, in un imponente processo di recupero di esso; • Riepilogando: ruolo centrale assegnato alla nozione di pólis; al binomio pubblico-privato, nei rapporti interni alla città, o egemonia-autonomia, nei rapporti esterni; al rapporto tra società/economia e storia; al valore indicativo delle forme mentali come filtro interpretativo tra situazioni sociale e politiche, economiche e culturali. • Tre grandi periodi della storiografia contemporanea sul mondo greco: dal 1725 alla fine del XVIII secolo; quello dai primi dell’Ottocento fino al 1870; quello tra questa data e gli anni 1914-1918; • Dal 1725 al 1750 straordinaria stagione di riflessioni critiche e rinnovato interesse archeologico e nuovi scavi (Ercolano, Pompei, si riscopre Paestum); più informazione, più dati particolari più aspirazione alla completezza e sistematicità nel confronto di essi – l’opera di Winckelmann riflette bene l’entusiasmo per le nuove acquisizioni archeologiche, ma rispecchia anche il gusto neoclassico, una visione idealizzante ed estetizzante della grecità; scrittura sillabica – riflesso di un potere che si organizza in maniera sempre più complessa e allo stesso tempo di scambi, economici e culturali, con l’Oriente mediterraneo. • I Greci quando rievocano questo periodo, che sentono chiaramente distinto dalla loro storia, parlano di talassocrazia di Minosse: talassocrazia non nel senso di pratica del mare o familiarità con la navigazione, bensì dominio sul mare, sottoposto a un rigido controllo, in primo luogo militare, di una determinata entità politica: ha perciò una connotazione quasi territoriale. È concetto dunque da tenere ben fermo, quello della talassocrazia minoica, ben distinto da quello di espansione micenea. 3. La civiltà micenea e la sua espansione nel Mediterraneo. I Fenici • Pure la civiltà micenea si suddivide in base archeologica in tre sottoperiodi,che si considerano come l’ultimo periodo dell’Età del Bronzo Elladico, dunque: Tardo Elladico I (1600-1500 a.C.), Tardo Elladico II (1500-1425 a.C.), Tardo Elladico III (1425-1100 a.C.). Il rapporto di Creta col mondo miceneo risale al 1450 a.C., dunque al Tardo Minoico II. • Palazzi micenei scavati in Grecia sono: Micene e Tirinto nell’Argolide, Pilo in Messenia, Tebe e Gla in Beozia, Iolco in Tessaglia; resti di strutture si colgono anche ad Atene (Attica) e Orcomeno (Beozia). • Se durante il Medio Elladico si coglieva un’avanzata di popolazione indoeuropea (Protogreci) fino al Peloponneso, con l’età dei palazzi, all’incirca tra il 1600-1200 a.C., assistiamo a profonde trasformazioni delle forme dell’organizzazione sociale ed economica e delle stesse forme del potere: passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, pratica di attività produttive, sia per sviluppi interni che per influenze cretesi. • Sul continente spicca l’utilizzazione di luoghi forti, come l’insediamento su acropoli di rispettabile altezza. Dai minoici molti micenei riprendono la scrittura, adattandola da una lingua non greca (Lineare A, finora non identificata) a una lingua greca (Lineare B), il dialetto arcado-cipriota. • Nel 1450 a.C. si ha l’insediamento di un dominio miceneo a Cnosso. L’eredità minoica sopravvive forse a una catastrofe naturale e certo anche a una sovrapposizione di dominio da parte di Micenei (che taluno concepisce come vera invasione, altri come una sorta di rilevamento del sommo potere); ma essa sopravvive ormai come un patrimonio gestito dai Micenei. • Lo straordinario materiale di testi in Lineare B, che ammontano ad alcune migliaia, presenta due punti di addensamento: Cnosso e Pilo. Nell’insieme sono le tavolette di Pilo che ci forniscono un maggior numero di dati interessanti la struttura della società palaziale di epoca micenea: lista di persone in qualche attinenza col palazzo e forma di subordinazione rispetto ad esso; liste di uomini addetti ai servizi di guardia; razioni di grano e di olio distribuite a singoli; registrazioni di obblighi riguardanti il possesso terriero; affitti di terre, spesso del da-mo (dâmos); liste di tributi vari; liste di oggetti; liste di materiali prestati dal palazzo in cambio di prodotti; ecc. • Società micenea: economia a fondamento agrario; struttura politica fortemente centralizzata, sottoposta al dominio di un wa-na-ka (wánax, signore), affiancato da un comandante militare, ra-wa-ke-ta (lawagétas); al signore pare nettamente sottoposta un’‘aristocrazia’ di capi militari ma anche, forse, di detentori di ampie porzioni di terra; la base produttiva forse contiene forme di servitù: una produzione comunque in cui la forza-lavoro è composta di personale dipendente inseriti in un’economia verticista, palaziale. Principali prodotti: agricoltura, grano olio vino; allevamento, lana miele; tessile (lino); prodotti artigianali. La relazione che esiste però tra il wánax, il lawagétas, i dâmoi e i vincoli di proprietà che intercorrono tra di loro non sono comunque ancora del tutto chiari. • Aldilà delle problematiche ancora aperte, il quadro generale della società micenea si può così riassumere: 1) presenza di un vertice, rappresentato dal wánax e dalla struttura palaziale; 2) presenza dei dâmoi, cioè delle singole unità territoriali a vocazione agricola, e di una forza-lavoro dipendente o di tipo servile sul piano della produzione; 3) elementi che complicano e articolano questa apparente dicotomia: il lawagétas, e l’embrionale ‘aristocrazia’ titolare di benefici presso il palazzo. • Al centro però è pur sempre la struttura palaziale, con un vertice politico, il principe; con un habitat specifico, il palazzo – per l’esercizio del governo e l’amministrazione, per la vita quotidiana, per le funzioni sacre, per le riunioni, per il divertimento – ma anche con un territorio, occupato da villaggi, in cui dei contadini lavorano la terra per il principe e sono in una posizione di dipendenza, che almeno in parte si configura come vera e propria servitù. • È documentato anche lo scambio di merci, anche se si tratta di scambio tra merce e merce, e non esistono ancora forme di economia monetaria, e principalmente la ricerca di metalli, di cui si avverte l’esigenza e insieme la scarsità. Ci sono contatti a Oriente, in Asia Minore, e in Occidente; non va dimenticato neanche il ruolo di mediatori svolto dai popoli mercanti, come i Fenici. • Riassumendo: 1) Dopo l’invasione del continente e l’assestamento (Medio Elladico) si raggiungono assetti e nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica, che corrispondono alla fioritura dei palazzi nel Tardo Elladico; 2) A metà del XV secolo questo assestamento, politico, economico e anche demografico, ha portato all’espansione anche nell’Egeo, a cui corrisponde l’insediamento di un principato miceneo a Cnosso; 3) Successivamente, si verifica un poderoso fenomeno d’espansione commerciale, che segue vie proprie, portando a un’ulteriore grecizzazione della penisola, delineando i contorni di quello vivaio di espressioni diverse che noi chiamiamo ‘mondo greco’, ‘grecità’. Vi si esprime la grande mobilità greca, la straordinaria capacità di spostarsi, adattarsi a situazioni nuove, inserirsi in quadri sociali ed economici diversi. Se si guarda al fenomeno dell’espansione micenea nel suo complesso, la sua matrice ci appare il bisogno, più che la potenza; la potenza era stata invece la matrice dell’espansione minoica. • Confronto tra espansione greca in età micenea ed espansione greca in età arcaica: Nel II millennio a.C. i Greci cercano soprattutto interlocutori validi, società in grado di accoglierli e di fare uso dei suoi prodotti e tecniche – essi si appoggiano a società evolute insediate sulle coste del Mediterraneo. L’espansione di epoca arcaica invece è caratterizzata dalla capacità delle póleis di programmare una propria espansione, ha un carattere sistematico e una finalità ben precisa, cioè quella di creare vere e proprie nuove póleis, cercando per questo spazi vuoti: non vuole tanto inserirsi in società organizzate preesistenti, quanto contrastarle e sostituirle; cerca spazi vuoti per sé, non spazi occupati, regolati, civilizzati dagli altri. • I Fenici: Con Phoínikes, alla lettera ‘i rossi’, con probabile riferimento al colore bruno della pelle, i Greci intendevano riferirsi alle popolazioni non greche in generale, intendendo anacronisticamente anche popoli del XIII secolo a.C.; i Fenici però non costituiscono una realtà etnica e politica organizzata prima del XII/XI secolo a.C. Gli scrittori greci tardi proiettano in un passato remoto una definizione e un’immagine valida per il I millennio a.C. Questo sta a dimostrare, comunque, l’esistenza di una corrente commerciale che, dal Vicino Oriente, si muoveva verso il mondo miceneo, in risposta alle correnti commerciali micenee, e che con i nomi Fenici i Greci riassumevano nella loro memoria l’insieme delle presenze commerciali di questi Vicino Oriente, anche nel II millennio a.C. 4. La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche • Dalla fine del XIII secolo a.C. fino circa a 1150 a.C. il mondo miceneo conosce innegabili segni di declino. Le evidenze archeologiche sono la distruzione dei palazzi di Micene, Tirinto e Pilo. A queste distruzioni non si accompagna però una scomparsa repentina della civiltà micenea: la ceramica e il livello di vita si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente a un cambiamento di popolazione. • Quanto alle cause della distruzione dei palazzi, potevano essere le più diverse: cause naturali, come terremoti disastrosi accompagnati da incendi, ma anche invasioni e guerre. • La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: i Dori nel Peloponneso, e i Tessali in Tessaglia; ma è interessante osservare come nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (Argolide, Messenia, Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione coi popoli precedenti. • Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. I Dori non appaiono nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori: la penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente. • Ci sono segni anche di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide. • La guerra di Troia e il declino della società micenea: Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei prìncipi achei reduci da Troia. Sarà forse una proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come un tasso di trasformazione contenuto in uno di questi momenti studiati dall’archeologia è talmente alto da corrispondere alla cesura rappresentata da un evento. Archeologia e storia parlano perciò spesso di movimenti e mutamenti diversi: di un movimento oggettuale (o oggettivo) la prima, di soggetti la seconda. La prima coglie la lunga durata; la seconda la scansione in eventi. Il movimento dei soggetti storici per lo più non è tale da poter essere fermato e fissato dalle maglie dell’archeologia, troppo larghe per afferrare i mutamenti dei soggetti medesimi. 6. Colonizzazione dell’Asia Minore. Le città ioniche ed eoliche • Per la tradizione antica la colonizzazione delle coste occidentali dell’Asia Minore si colloca solo dopo la fine dei regni micenei e l’invasione dorica del Peloponneso. Oggi si tende a datare gli stessi insediamenti coloniali greci di Eolide, Ionia e Doride d’Asia in piena epoca micenea. Si devono però fare alcuni considerazioni preliminari: 1) È innegabile la presenza di resti micenei in quella che sarà la zona grecizzata dell’Asia Minore occidentale; 2) In parte queste presenze possono riflettere la naturale circolazione di uomini, prodotti, merci, che nell’Egeo c’è sempre stata (non mancano neanche presenze minoiche); 3) Al 1044 a.C. la tradizione eratostenica riconduce la migrazione ionica, cioè dopo la migrazione dorica e perciò dopo la fine dei regni micenei. Il problema della colonizzazione dell’Asia Minore è strettamente connesso con l’origine della pólis, del quale costituisce anzi una faccia significativa. • La colonizzazione ionica è l’espressione della decisione di un corpo civico volta a dare sfogo e sbocco a bisogni urgenti per le nuove realtà delle póleis. Dunque, alle precedenti e sporadiche frequentazioni micenee, succede l’impianto di vere e proprie póleis, espressione di una precisa collocazione delle comunità di partenza rispetto ai problemi del bisogno e dell’opportunità di una migrazione. • La colonizzazione ionica parte principalmente dall’Eubea e dall’Attica per fondare la famosa dodecapoli (12 città) ionica, tra cui le principali colonie sono Mileto, Efeso, Colofone e Samo; la colonizzazione eolica invece parte dalla Tessaglia e, attraverso Lesbo, costituisce la dodecapoli eolica sulla cosa, tra Kane e Smirne; la colonizzazione dorica invece costituisce l’esapoli dorica comprendente alcune località importanti come Rodi, Cnido e Alicarnasso (presto ionizzata). L’elemento più attivo e meglio organizzato è quello ionico. • Quattro fasi dell’espansione greca nel Mediterraneo: 1) le frequentazioni micenee in aree diverse della penisola greca, a cui fanno seguito significativi fenomeni di migrazione, come esito del dissolvimento della civiltà palaziale; 2) la colonizzazione di epoca arcaica, tra VIII e VI secolo a.C., con la fondazione di vere e proprie città-figlie in tutto il Mediterraneo, in particolare in quello occidentale; 3) l’espansione greca di carattere egemonico (o imperialistico), particolarmente visibile nel IV secolo a.C.; 4) l’espansione e colonizzazione greca nell’Oriente persiano, a seguito della conquista di Alessandro Magno. 7. Le regalità omeriche • I poemi omerici proiettano sull’epoca della guerra troiana (XII secolo a.C.) gran parte dell’esperienza storica dell’alto arcaismo greco dell’epoca della composizione dei poemi omerici stessi (circa l’VIII secolo a.C.); la proiezione si ricongiunge in parte però con le condizioni reali della monarchia di età micenea. • Per alto arcaismoMusti intende il periodo che va dalla fine dell’XI secolo al 730 a.C. circa; per medio arcaismo il periodo tra 730 e 580 a.C. circa; e per tardo arcaismo il VI e gli inizi del V secolo a.C. • Nell’Iliade il re figura come detentore del comando in guerra, presiede le assemblee, fa da arbitro nelle controversie – egli appare a capo di una coalizione di contingenti di diversi popoli e città. L’esperienza cittadina greca è già presente in questa rappresentazione; è l’idea di un’egemonia compatibile con le tante autonomie che qui è già all’opera. Questo per il profilo dei rapporti esterni; • Per quanto riguarda i rapporti interni, l’Iliade attesta l’esistenza di un’assemblea dell’esercito, dove vige un’apparente libertà di parola, ma in cui la migliore virtù (e dunque la prassi di fondo) appare quella dell’ascoltare e dell’ubbidire. In essa hanno un ruolo i capi dei contingenti al seguito di Agamennone, che obbediscono alla sua autorità suprema, ma che dividono con lui le qualità di basileús, cioè di capo. Un quadro non molto dissimile è presente nell’Odissea, dove si va definendo l’esistenza di una vera e propria aristocrazia, cioè non una coalizione di capi sotto il capo supremo, bensì un gruppo sociale omogeneo, in cui il comandante è solo un primus inter pares. • Per quanto riguarda il ruolo del basileús: 1) la filologia micenea ha mostrato chiaramente la modestia e la genericità del termine basileús (qa-si-re-u), che vuol dire ‘capo’; 2) occorre distinguere tra carica del basileús nella forma ereditaria o almeno vitalizia, e carica annuale, o detenuta per un periodo limitato – nel secondo caso, il basileús non identifica un regime monarchico, ma aristocratico-repubblicano; 3) occorre distinguere tra basileîs in contesti etnici e basileîs in contesti cittadini. 8. Regalità di città greche arcaiche • Ancora in età classica troviamo basileîai cittadine vitalizie ed ereditarie a Sparta (nella forma della diarchia, sino alla fine del III secolo a.C.), ad Argo (fino al tempo delle guerre persiane), in Messenia (al tempo della seconda guerra messenica, VII secolo a.C.) – sono infatti le città doriche del Peloponneso. • È pur possibile che la forma centralizzata di potere d’epoca micenea abbia esercitato il suo influsso in queste basileîai; certo, però, il basileús nei contesti dorici appare ben inserito in una struttura aristocratica, con al suo interno forti connotazioni ugualitarie. • Si è ipotizzato che questi capi dorici siano in qualche modo in rapporto con l’esistenza di tre tribù: la presenza in Argo di una triarchia, potrebbero far pensare in un sviluppo del genere; la diarchia spartana verrebbe considerata allora come il risultato di una riduzione a due di un’originaria triade.Per il Musti però i moderni vedono i processi antichi con occhi troppo moderni – vogliono concepire i poteri arcaici come assoluti, e i poteri assoluti come sempre concentrati nelle mani di uno solo. • Per il Musti, invece, la pólis nasce già aristocratica, benché all’origine si tratti di un’aristocrazia organizzata intorno a una leadership, che si fa valere per vantate origini divine, e che ottiene prerogative riconosciute, in fatto di proprietà terriere, di esercizio di funzioni sacrali o militari, di rappresentatività della comunità politica, in un quadro sociale ed economico di forte omogeneità. Progressivamente l’aristocrazia si libera anche da questo bisogno di leadership, quando l’intero strato aristocratico vuole esercitare il potere politico. È del tutto plausibile, per il Musti, che a Sparta la diarchia corrisponda alla funzione di garantire un equilibrio di leadership, tenere in scacco eventuali propensioni ad un eccessivo accentramento di potere, realizzare anche nella regalità la ‘parità’ degli hómoioi [hómoios, simile, pari, è concetto più pertinente a un’aristocrazia ristretta; ísos, uguale, equo, si adatta di più a un regime ugualitario di tipo democratico]. • Ad Atene la basileía ereditaria e vitalizia è seguita, secondo la tradizione storica, dall’arcontato (prima forse arcontato a vita, ma non più carica ereditaria, poi arcontato decennale, quindi magistratura annuale); anche qui modelli micenei e insieme nuove realtà comunitarie (le quattro phylaí, tribù, e i rispettivi phylobasileîs) possono aver favorito il formarsi di un’aristocrazia a guida basilica, e il suo perdurare per circa quattro secoli. In Macedonia la basileía è molto meno imbrigliata in un contesto aristocratico: qui l’aristocrazia è più di tipo iliadico (piccoli capi attorno al grande capo) che non odissiaco (l’aristocrazia come gruppo sociale, ma anche come consesso, che esprime, circonda, controlla costantemente il primus inter pares). 9. Géne, fràtrie, tribù • Fràtria: per il Musti la fràtria si può concepire soltanto come una ripartizione di un’entità più vasta, e che potrebbe aver avuto funzione militare, ma soltanto appunto accanto alla tribù, cioè come sua ripartizione. Ad Atene per esempio la fràtria assume piuttosto le funzioni del moderno registro civile (ognuna delle 4 tribù ioniche era suddivisa in 3 fràtrie); altrove, come a Locri, è suddivisione fondamentale della pólis per lo svolgimento di funzioni amministrative e finanziarie. La fràtria, tuttavia, non si lascia agevolmente concepire come un’entità autonoma: l’idea di fratellanza che essa contiene serve appunto a creare nessi più stretti fra membri di un corpo più vasto – la tribù. • Tribù: eventualmente solo la tribù potrebbe essere chiamata in causa come entità che abbia avuto una sua vita autonoma prima della nascita della pólis. Le tribù che noi conosciamo all’interno del mondo greco, secondo il modello dorico (Illei, Dimani e Pànfili) o ionico/ attico (Opleti, Argadei, Egicorei, Geleonti), diventano parte integrante ed essenziale dell’organizzazione cittadina: lo sviluppo della pólis potenzia le tribù, come suddivisione della comunità [le tribù mancano però presso le stirpi eoliche, ma anche in Eubea e in Beozia]. • Effettivamente la tribù mostra in determinate città e regioni del mondo greco una vitalità e una chiarezza e specificità di funzioni che non ha altrove: si tratta ancora una volta delle zone doriche (in Sparta i membri delle singole tribù avanzano separatamente brandendo le valore fonetico d’altri, l’esclusione (diversa a seconda delle diverse località greche) di altri ancora, viene adottata in àmbito greco, dove è per la prima volta sicuramente documentata nell’VIII secolo a.C.; forse il IX a.C. secolo è una data approssimativa accettabile per un inizio congetturale. l) Sulla diarchia a Sparta • Sull’origine della diarchia a Sparta esistono tre tipi di spiegazione: 1) il primo parte dal numero delle tribù doriche, tre, e nella diarchia vede l’esito di un processo riduttivo; 2) il secondo vi scorge un compromesso tra due località confluite nel sinecismo di Sparta, una di origine dorica l’altra di origine achea; 3) il terzo vi riconosce il risultato dell’ascesa di un secondo magistrato accanto al re. • Dobbiamo sottrarci alla falsa suggestione della mentalità moderna, che non riesce a concepire la regalità se non come vertice unico. La parità (qualitativa, e perfino numerica) dei vertici regali dell’aristocrazia corrisponde al carattere delle monarchia aristocratiche, o aristocrazie a vertice monarchico, dei secoli bui. m) Il pántheon greco • Nel corso dell’età arcaica si va costituendo, entro i confini del politeismo greco, una sorta di canone delle dodici divinità maggiori, un dodekátheon, comprendente sei divinità maschili (Zeus, Posidone, Ares, Efesto, Apollo, Ermes) e sei femminili (Era, Atena, Demetra, Afrodite, Artemide, Estia). Attorno ad essi, una folla di divinità minore, qualcuna delle quali destinata a guadagnarsi un posto nel dodekátheon a scapito di qualche altra, meno dotata di tratti personali definiti e di un contesto mitologico adeguato (ad es. Dioniso al posto di Estia). • Zeus è dio della luce, ma anche quintessenza della sovranità, vista, soprattutto nel mondo indoeuropeo, al maschile. Posidone rappresenta anch’esso una versione della sovranità – la diversità del nome potrebbe dipendere all’origine solo da tradizioni locali o specificare l’àmbito di sovranità, terra o mare; Era significa la condizione matrimoniale della donna; Demetra la meternità; Estia la stabilità del focolare; Atena è figlia della mente di Zeus – questo rapporto privilegiato con la sovranità ne rivela una funzione che risale almeno ad età micenea; di Ares e di Afrodite, soprattutto della seconda, si colgono le origini straniere alla grecità indoeuropea – Ares ha caratteristiche di divinità della Tracia, Afrodite è divinità dell’area siro-mesopotamica, fenicia: è la femminilità come natura, è la dea dell’amore, con cui è collegata la divinità della guerra, Ares, che le è insieme antitetica (amore-odio) e congenere (aggressività); Efesto è dio del fuoco e delle tecniche artigianali, il cui inaspettato matrimonio con Afrodite potrebbe essere ulteriore segno dell’estraneità originaria di Afrodite al pántheon greco; Apollo presenta caratteristiche indoeuropee di divinità solare e saettatrice, portatrice di pestilenze come di miracolose guarigioni, divinità simbolo dell’adolescenza vincente, e via via diventa divinità della bellezza, dell’ispirazione invasante, collegata agli oracoli e alle Muse; in un rapporto polare con la divinità solare vi era una divinità femminile, associata alla luna, e che rappresenta, accanto al notturno, anche il selvatico e l’esterno, Artemide, che i Greci sentono come divinità della caccia; Ermes, figlio di Zeus e di una ninfa, è fra le divinità maggiori quella più singolare, cui competono funzioni dalle quali gli dèi non possono che asternersi –gli appartengono funzioni che attengono alla sfera della promiscuità, dello scambio: dio del commercio, come del connesso furto, della parola e della comunicazione, messaggero fra dèi e uomini, accompagnatore di anime (psychopompos) verso la nuova vita dopo la morte. • La tesi dell’origine micenea della religione e della mitologia greca vale senz’altro per alcune divinità; meno certo che miti e culti eroici abbiano avuto già la loro compiuta definizione in epoca micenea. Le tavolette in Lineare B contengono menzione di Atena e Posidone, di Zeus ed Era; c’è dunque già un sistema politeistico, che però si presenta con gerarchie non in tutto corrispondenti a quelle di epoca greca arcaica (a Pilo per esempio su Zeus predomina Posidone). Quello che l’età delle città greche porta con sé è forse il completamento del pántheon, e una sistemazione definitiva dei rapporti interpersonali fra le divinità, con assunzione del primato da parte di Zeus e della divinità femminile più collegata alla sovranità, Atena (che per i micenei era la dea del palazzo). Al dodekátheon si arriva attraverso l’incontro, la sommatoria dei diversi culti cittadini, in ciascuno dei quali diversa è la prevalenze dell’uno o dell’altro dio. Anche nella storia religiosa, dunque, tra miceneo ed alto arcaismo v’è continuità ma anche innovazione, soprattutto sul terreno dei rapporti interni al sistema, e si verifica il passaggio da molteplici e distinte esperienze, con lunghissime radici, ad una forma communis che si definisce fra VIII e VI secolo a.C. 2. La Grecia delle città. Legislazioni, colonizzazione, prime tirannidi (tra secolo VIII e VII a.C.) Ci sono tre aspetti sotto i quali gli eventi della storia greca tra secolo VIII e VII sono considerati: la colonizzazione (particolarmente quella in Occidente); le grandi figure dei legislatori cittadini (Licurgo di Sparta, Fidone di Argo, Draconte di Atene ecc.); l’avvento di regimi tirannici in molte città greche (dell’Istmo peloponnesiaco o dell’Asia Minore). La colonizzazione è certamente una risposta allo squilibrio determinatosi nel rapporto tra le risorse e i bisogni alla fine dei secoli bui. Al fenomeno migratorio si accompagna certo la diffusione di una più risentita coscienza politica. Ma lo stesso deve dirsi per le legislazioni e per le stesse tirannidi: entrambi i fenomeni sono espressione di sviluppi politici interni, e rappresentano spesso soluzioni alternative fra loro, nell’evoluzione delle aristocrazie greche. Si tratta, nel caso delle legislazioni, di forme di adattamento, di autocorrezione o di autocensura dell’aristocrazia al potere, forse anche sollecitate da strati più modesti e inquieti della popolazione. Nel caso delle tirannidi, il movimento storico assume forme più traumatiche, ma è all’interno delle strutture oplitiche che l’aristocrazia si è data, e quindi è dal cuore stesso dell’aristocrazia che nascono le tirannidi, naturalmente attraverso una catena di azioni e reazioni, che configurano una presa di coscienza, da parte dell’aristocrazia, della necessità di revisione del campo dei rapporti sociali, che non conduce però a una vera e propria rivoluzione di questi rapporti. 1. Legislazioni e forme politiche • Per il Musti le notizie sulle legislazioni vanno studiate all’interno della storia delle singole città, o quanto meno delle singole aree storiche greche. Tuttavia è possibile considerare le legislazioni in una prospettiva d’insieme sotto due punti di vista d’ordine generale: 1) le legislazioni come un momento della storia delle trasformazioni e della crisi (in senso lato) delle aristocrazie greche, affiancato dai temi della colonizzazione e delle tirannidi; 2) il rapporto tra legislazione e scrittura: in Sparta le leggi di Licurgo non furono scritte (c’erano infatti espliciti divieti), ma scritte furono le leggi di Zaleuco di Locri o di Caronda di Catania o dell’ateniese Draconte, scritte furono anche le leggi di Solone (che già appartengono però al VI secolo a.C.); ciò sta a dimostrare come già l’aristocrazia sappia fare un uso pubblico della scrittura, anche se è altrettanto vero che solo la democrazia determina un particolare sviluppo della scrittura e delle sue funzioni; ma già un primo passo è compiuto dalle aristocrazie. • Non sorprende che l’autore della prima legislazione scritta (nomografía) del mondo greco sia considerato un uomo della grecità coloniale, come Zaleuco di Locri. Benché aristocratiche nelle loro origini e nei loro sviluppi, le società coloniali, proprio perché comunità allo stato nascente, sono immediatamente disposte a forme di controllo sociale e a princìpi latamente ugualitari; d’altra parte, proprio in quanto comunità nuove, dispongono in misura assai minore di efficaci o vincolanti tradizioni orali: la codificazione per iscritto è, dunque, favorita. • I casi che vengono considerati nei codici legislativi attengono ai reati contro le persone (omicidi, ferimenti, ratti) e contro la proprietà; le pene sono particolarmente severe, proprio perché scritte e quindi fissate in una maniera che la stessa scrittura rende rigide. 2. La costituzione di Sparta • Qualunque cosa si debba pensare della storicità, dell’epoca e dell’origine di un legislatore che si sia chiamato Licurgo, egli viene a caricarsi di tutto il lavorio di formazione dell’insieme delle leggi spartane, come si è compiuto nei secoli dell’alto e soprattutto del medio arcaismo. Licurgo sta alla legislazione spartana come Omero alla tradizione epica: se ci sono stati storicamente personaggi di questo nome, essi sono solo un momento di un processo assai complesso, che investe più individui, tutti presenti nel corso della tradizione orale. • L’ordinamento politico di Sparta, che, per la sua singolare staticità e compattezza, ebbe sui Greci di spiriti conservatori l’effetto di un miraggio, non era presente nella città sin dalle origini. Anzi, stando a Tucidide la città fu turbata da stáseis, cioè da conflitti civili, in una misura sconosciuta agli altri Stati greci; ne uscì infine, circa quattrocento anni prima della guerra del Peloponneso, senza dover imboccare la strada della tirannide, con una costituzione severa e stabile, che fu considerata un modello di eunomía, cioè di ‘buon governo’. • L’equilibrio raggiunto da Sparta riflette in parte le premesse proprie del mondo dorico: l’importanza che in Sparta ha l’apélla, l’assemblea dei cittadini soldati, si ricollega probabilmente al ruolo dell’esercito presso i dorici, come provato dalla conquista; nel numero 30 degli anziani (gérontes) si riflette l’esistenza delle tre tribù, e così via di seguito; e, soprattutto, lo spirito di uguaglianza che circola all’interno di questa oligarchia è il riflesso di condizioni originarie. È però altrettanto plausibile che l’ordinamento vigente a Sparta nel VI secolo non sia puramente e semplicemente quello dorico originario, ché altrimenti dovremmo poter ritrovare anche nelle altre città doriche: la diversità di Sparta sarà dunque da concepire come acquisita storicamente, come risposta a conflitti, che però non hanno snaturato condizioni originarie – queste trovano in Sparta solo una versione peculiare e più rigida. • Struttura politica: 1) la Diarchia, il potere dei due re, uno della famiglia degli Agiadi, che si dicevano discendenti dalll’eraclide Euristene, e uno della famiglia degli Euripontidi, che si dicevano discendenti del fratello Procle; è possibile che la presenza di due re appartenga al numero degli espedienti volti a garantire all’interno del corpo civico spartano condizioni di stabilità e di equilibrio; 2) la Gerousía di trenta membri, cioè, composta da 28 anziani con più di sessant’anni (eletti per acclamazione) e in più i due re; 3) l’Apélla, composta da tutti i cittadini (cioè dagli uomini che avevano terminato il periodo di allenamento militare), si • Le origini: nella tradizione mitica un ruolo particolare spetta alla figura di Teseo, il re famoso sia per l’azione svolta nella civilizzazione dei luoghi dell’Attica (è un eroe civilizzatore, come lo è Eracle per l’àmbito dorico), sia, e soprattutto, per il sinecismo, cioè l’unificazione dell’Attica, intorno a un centro, quello di Atene. La tradizione ricorda però per il periodo miceneo anche altri eventi anteriori a Teseo: si ricordano i nomi di quattro re, Cecrope, Erittonio, Pandione e, il padre di Teseo, Egeo. A Teseo poi sarebbero succeduti almeno altri sette re, fino a Medonte o Acasto; segue la dinastia dei Medontidi, in parte considerata una serie di re, in parte invece una serie di arconti a vita. Al periodo degli arconti a vita (1049? – 753 a.C.) sarebbe seguito quello di sette arconti decennali (753 – 683) e quindi quello degli arconti annuali, che rappresentano anche il cardine del sistema magistratuale dell’Atene classica e la cui lista ha inizio appunto col 683/682, con Creonte, il nome del primo degli arconti annuali. • Abbiamo detto come l’opera dei legislatori (ma anche l’avvento delle tirannidi) sia espressione del travaglio politico delle aristocrazie greche arcaiche e una risposta alle esigenze emergenti: Atene, insieme con Sparta, è l’esemplificazione di questo rapporto. A Sparta il processo sembra essersi compiuto, e in un certo senso bloccato, già nell’VIII secolo. Atene invece emerge un po’ più tardi sul piano della storia delle forme politiche e del potere: nel VII secolo si ha il tentativo di Cilone (genero del tiranno di Megara, Teagene) di impadronirsi dell’acropoli e di instaurare una tirannide; il tentativo fallisce per l’opposizione e l’intervento violento della famiglia aristocratica degli Alcmeonidi. Ciò sarà circa il 636 a.C. • Di poco dopo invece, circa il 624 a.C., l’opera del legislatore Draconte, di cui la tradizione ricorda la particolare durezza e severità delle pene. A Draconte spetta la legislazione sui delitti di sangue. È chiaro che la legislazione di Draconte sottraeva alla sfera privata la punizione di delitti fino ad allora appartenenti, se non del tutto, almeno in gran parte all’iniziativa dei familiari della vittima. Draconte considera prioritaria l’iniziativa e la denuncia da parte dei parenti, e crea una carica giudiziaria apposta, gli ephétai, che decidono delle pene riguardo ai delitti di sangue. È già dunque all’interno dell’aristocrazia ateniese che si vanno determinando le premesse di quello sviluppo politico avanzato che farà di Atene la città-guida della Grecia dal punto di vista delle strutture e dei diritti politici. • Struttura politica: la ricerca di un accorto bilanciamento dei poteri ad Atene traspare dalla composizione del collegio degli arconti. C’è un arconte per eccellenza, detto eponimo, perché col suo nome si indica l’anno (che ad Atene va all’incirca da luglio a luglio); c’è un basileús, addetto più che altro alle funzioni sacrali; c’è un polemarco, che andrà progressivamente perdendo le funzioni militari che il suo titolo sta ad indicare, ma continuerà ad esercitare la gestione dell’‘esterno’ sul piano giudiziario, cioè gestiva le questioni giudiziarie relative agli stranieri; ci sono finalmente 6 tesmoteti, legislatori e custodi delle leggi: in totale, dunque, un collegio di 9 arconti, il cui carattere fondamentale è il principio dell’equilibrio dei poteri. Gli arconti erano scelti tra l’aristocrazia (dall’assemblea di tutti gli uomini ateniesi adulti) e svolgevano la carica per il periodo di un anno. Scaduto l’anno di carica, gli arconti entravano a far parte dell’Areopago, il consiglio dell’Atene aristocratica; esso si riuniva sulla collina di Ares, sita a poca distanza dall’Acropoli. Lo ‘Stato’ aristocratico ateniese del medio arcaismo, cioè dell’VIII-VII secolo, pare dunque privo di una struttura consiliare che provenga immediatamente dal basso: l’unica sembra quella degli ex-arconti, dei notabili, che si riuniscono sull’Areopago. 5. Le anfizionie • Nel quadro degli assetti territoriali e delle ripartizioni regionali del mondo greco vanno considerate quelle caratteristiche associazioni, che definiamo come anfizionie: le anfizionie sono leghe di popoli o di città costituite intorno ad un santuario, una lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente – alcuni esempi sono quelle di Delfi, di Delo, che sono santuari di Apollo, e quelle di Calauria e di Onchesto, santuari di Posidone. • L’anfizionia di Delfi è sicuramente la più famosa e autentica, e il suo inglobamento nel VII secolo corrisponde a un momento di particolare prestigio e potenza dei Tessali. Gli anfizioni in prima istanza sono i popoli membri della lega; nel sinedrio ciascuno dei popoli dispone di due delegati, cioè di due voti. Il numero complessivo dei popoli anfizionici è di dodici (un numero tipico nell’universo greco): di questi già sette sono Tessalici, se presi insieme con i loro sei popoli perieci (Tessali dunque e Magneti, Perrebi, Dolopi, Achei Ftioti, Eniani, Malii); accanto a questi ci sono ancora i Beoti, i Locresi, i Focesi, gli Ioni, e i Dori. Dei due voti ionici, l’uno spetta agli Euboici, l’altro agli Ateniesi; dei due voti dorici, l’uno spetta ai Dori del Peloponneso, l’altro ai Dori della Metropoli (le tradizioni sull’appartenenza di Sparta a uno dei due gruppi variano). Due volte all’anno si hanno le riunioni ordinarie dell’anfizionia, a primavera e in autunno. • Prima guerra sacra: nel primo decennio del VI secolo la prima guerra sacra vede Tessali, Ateniesi, guidati da Alcmeone e consigliati da Solone, e il tiranno di Sicione, Clistene, alleati fra loro e impegnati contro i Focesi di Crisa, che disturbano i pellegrini diretti al santuario: di qui la distruzione di Crisa, la consacrazione al tempio del corridoio verso il mare (divenuto ormai porto di Delfi), la proibizione di coltivare la terra sacra, che colpisce particolarmente i Focesi, nel cui territorio sorge Delfi (il santuario dovrà costantemente difendere la sua autonomia e ruolo internazionale da quella provincializzazione eccessiva che comporterebbe la sua riduzione a santuario dei Focesi). La vittoria anfizionica significò il rafforzamento dei Tessali nella Grecia centrale, comportò l’ammissione di Atene nell’anfizionia, e la riorganizzazione degli agoni pitici (da Pythò, l’antico nome di Delfi) nel 582 a.C. La prima guerra sacra costituisce un momento significativo per la storia di tutto il versante orientale della Grecia: è un segnale della crescita di Atene, come è un momento di ulteriore rafforzamento dei Tessali, che prelude però ad altri, ad essi meno favorevoli, sommovimenti nell’area. 6. Tirannidi arcaiche • Vi furono forme storiche ed esiti diversi di tirannidi, a seconda delle diverse situazioni e dei diversi contesti storici. La diversità dei casi, delle forme, degli sviluppi nulla toglie comunque alla legittimità di una considerazione sotto un profilo unitario delle tirannidi arcaiche, cioè di VII-VI secolo. Si potrà certamente distinguere tra le cosiddette tirannidi ‘istmiche’, di città più o meno gravitanti intorno all’istmo di Corinto (Corinto stessa, Sicione, Megara), altre, sempre nella madrepatria greca, come quella di Atene o quella, diversa, di Argo; e tirannidi di città ioniche o egee, per noi un po’ più evanescenti, come quelle di Mitilene a Lesbo o di Mileto ed Efeso in Asia Minore. • La parola: tiranno e tirannide sono parole presenti nel vocabolario greco già dal VII secolo: Archiloco, nel VII, Alceo, tra VII e VI, Solone nel VI ne fanno già uso. Il significato di týrannos è ‘signore’: questa parola indica un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei basileîs, soprattutto perché non definito in prerogative (géra) concordate dalla comunità e perciò non basato sul consenso. La parola týrannos non è di origine greca - gli antichi parlano di un’origine lida; si deve pensare comunque a un’origine microasiatica. • Se per crisi si intende la trasformazione accelerata in un determinato periodo, allora la tirannide è un momento di crisi dell’aristocrazia, che si determina nel seno stesso dell’aristocrazia: il tiranno è un aristocratico che viene in conflitto con i suoi compagni di gruppo sociale. Sul terreno dello sviluppo delle forme politiche, sembra difficile sottrarsi a una concezione dialettica della genesi della tirannide dall’oplitismo e dalla stessa aristocrazia. Aristotele nella Politica afferma che i tiranni di epoca arcaica erano generali passati alla politica o alla demagogia, nel senso lato di politica in favore del dêmos. Aristotele considera anche il caso di una degenerazione verso la tirannide di una regolare magistratura o carica, come la pritania a Mileto: anche questo un esempio di evoluzione interna dei vecchi regimi che è all’origine della tirannide. Aristotele, finalmente, afferma anche che “per il fatto che allora non erano grandi le città, ma il popolo abitava nei campi, intento ai lavori, i campioni del mondo, quando fossero bravi soldati, aspiravano alla tirannide” – confermando, dunque, la base socioeconomica della tirannide come quella di una popolazione contadina che si lascia rappresentare da un capo. • Si può affermare inoltre che esiste una stretta connessione della tirannide con lo sviluppo demografico ed economico della Grecia tra VIII e VII secolo: esso ha come conseguenza un ampliarsi del campo dei bisogni e dei conflitti sociali, a cui le vecchie strutture aristocratiche non rispondo più. La tirannide è dunque espressione di movimenti significativi nell’economia e nella società antica e, in quanto tende a interpretarli e guidarli nelle forme del potere personale (cioè familiare), li sollecita e promuove a sua volta. Sul piano socio-economico il tiranno tende ad esercitare una funzione propulsiva, diffusa su tutte le attività, nella prospettiva di un equilibrio nuovo, che consenta di dare qualche risposta ai bisogni elementari degli strati più poveri, senza però farli entrare ancora nella sfera del potere, che resta personale e, nonostante tutto, fortemente condizionato da una concezione aristocratica del potere. Come sul terreno sociopolitico il tiranno occupa progressivamente il campo mediano dello spazio sociale, così sul terreno economico egli si pone come fattore propulsivo delle più diverse attività produttive, con incremento anche di quelle meno tradizionali, che possono rispondere all’accresciuto e aggravato bisogno economico complessivo, già per il fatto che costituiscono ulteriori fonti di sostentamento. • Gli sbocchi e gli esiti delle tirannidi: in molti casi si è operato un indebito trasferimento, verso la fase iniziale di una tirannide, di quelle caratteristiche che essa assume invece solo in una fase avanzata, o addirittura finale, della sua storia, comunque ad opera di un tiranno diverso dal fondatore del regime. I principali dati nuovi che la tirannide comporta, e che trovano un compiuto sviluppo nella democrazia (anche se la tirannide non è sempre l’anticamera della democrazia), sono: la formazione di un potere al di fuori e al di sopra della semplice somma dei cittadini; lo sviluppo della fiscalità; l’elaborazione e articolazione della stessa forma e idea di città; e comunque, come risultato minimo, la produzione di una aristocrazia moderata, cioè più temperata rispetto a quella precedente la tirannide. • Il rapporto della tirannide con la società: più volte si legge che la tirannide risulta dall’alleanza tra la classe oplitico-contadina (intesa come totalmente estranea e contrapposta all’aristocrazia) e il proletariato urbano, nei termini schematici di un’alleanza tra ceto medio e popolo. Ma, a guardar bene, questa è proprio la formula sociopolitica della democrazia classica, la quale nella sua forma storicamente più avanzata è l’esito di un’alleanza tra ceti medi (quelli che proprio la democrazia ha sviluppato e potenziato come tali, cioè greche, che però venne meno nei secoli successivi. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico – questa viene asservita, e costituisce uno strato di particolare rilievo, riproponendo nei confronti della popolazione indigena quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzavano verso le popolazioni del contado (la metropoli di Siracusa era Corinto, città dorica). • Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. Le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate a Taranto, chiamati Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente vergini; servi unitisi con le loro padrone a Locri. Anche se bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto, sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è presente il dato scabroso della commistione di servi, anche se la tradizione prova a espungere dalla storia delle origini delle città questa imbarazzante presenza (Antioco per esempio attesta la nascita di Partenii a Taranto da iloti, presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari). Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività di legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanti discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. • La tradizione greca insiste sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; ma per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto anche della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa). I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con conseguenti espulsioni o secessioni di una parte del corpo civico. In taluni casi il conflitto non sboccava nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma addirittura cambiavano anche le forme del regime. Le prime tirannidi a noi note in Sicilia sono quelle di Panezio a Leontini e di Falaride ad Agrigento. • La colonizzazione greca in Italia e Sicilia è solo quella di maggiore addensamento della presenza greca fuori della madrepatria. Ce ne sono però altre regioni che furono raggiunte dai greci: intorno al 600 a.C. Coleo di Samo giungeva in Iberia a Tartesso, vicino alle colonne d’Ercole, richiamato dalla disponibilità d’argento della regione; verso la stessa data i Focei d’Asia Minore fondavano Massalia (attuale Marsiglia in Francia); nell’Egeo i Calcidesi d’Eubea colonizzano diverse isole, e la penisola Calcidica, che da loro prese il nome, nella quale i Corinzi fondano Potidea; ad Abdera impianta una colonia Clazomene, distrutta dai Traci, ma successivamente ricolonizzata da Teo; i Lesbi colonizzarono gran parte della Troade; i Milesi diverse città nella regione degli Stretti, ma anche regioni nell’attuale Crimea e Russia; Megara fonda Bisanzio – l’ellenizzazione dell’area del Ponto non è comunque, sul piano culturale e politico, paragonabile a quella d’Italia o Sicilia. In Egitto non si ha una vera colonizzazione, ma degli stanziamenti estremamente dipendenti dal potere locale; più ad occidente si trova una fondazione coloniale a pieno titolo – la colonia di Cirene, dovuta a gente di Tera (a sua volta fondazione spartana): è infatti una colonia che controlla un vasto territorio, di suolo fertile e perciò fiorente coltura del grano. Note integrative a. Aspetti della società e della cultura di Esiodo • La Teogonia è documento fondamentale dei vari strati di cui si compone l’esperienza religiosa greca: da un mondo di divinità primordiali, viste e colte in un processo di generazione e trasformazione di entità inquietanti e immani, alla stabilità del regno di Zeus, del nuovo pántheon. Il divenire di questo mondo divino, la sua storia, risente dell’apporto orientale: è ormai dato acquisito che le genealogie e i miti di successione delle diverse generazioni divine esiodee – da Urano a Crono al dio del cielo Zeus – corrispondono alla perfezione a miti di successione divina (in particolare, mito di Kumarbi) di ambiente hurrico (perciò mesopotamico), come rifluito in testi ittiti e fenici, ed entrati nella cultura dei Greci per mediazione della cultura cretese o, più tardi, attraverso quella micrasiatica e ionica. Del resto, tradizione orientale e patrimonio culturale greco si fondono anche nella rappresentazione della storia genealogica dell’umanità, nel mito delle cinque età, narrato da Esiodo negli Érga. Di queste età la prima, seconda, terza e quinta sono metalliche (oro, argento, bronzo e, al quinto posto, ferro); la quarta è etichettata come età degli eroi: nella successione dei metalli è l’apporto orientale;nell’inserimento tra l’età del bronzo e quella del ferro dell’età degli eroi (del ciclo argivo-beotico e del ciclo troiano, cioè della memoria mitica relativa al mondo miceneo), è un peculiare e inconfondibile correttivo greco. b. Le feste panelleniche • Con il ruolo della Grecia peloponnesiaca e centrale, quale risulta dagli sviluppi dell’architettura templare nel VII secolo, concorda l’ubicazione delle quattro grandi feste e gare panelleniche, di periodicità più che annuale. • Le Olimpie, che si celebravano ogni quattro anni nel santuario di Zeus ad Olimpia, definendo così dal 776 a.C., secondo la tradizione, l’olimpiade, il quadriennio-base della religiosità panellenica. Le Olimpie si svolgevano in tempo di luna piena, tra agosto e settembre: corse ed esercizi ginnici costituivano l’essenziale delle gare. Durante le gare vigeva, fra i Greci in conflitto, l’ekecheiría (astensione dall’uso delle mani), cioè una ‘tregua sacra’. • Le Pitiche si celebravano a Delfi nel 3° anno di ogni olimpiade, in origine forse ad intervalli di 8 anni, prima che avesse inizio l’era pitica, ed erano incentrate su gare musicali. Dopo la I Guerra Sacra, le Pitiche si sono arricchite di corse di cavalli e gare ginniche, e avevano luogo ogni 4 anni. • Le Istmie avevano luogo nel 2° e nel 4° anno del quadriennio olimpico, in onore di Posidone, ad Istmia presso Corinto, tra maggio e giugno. • Le Nemee, in onore di Zeus, avevano luogo nella valle di Nemea presso Cleone, nell’Argolide, in estate, forse tra luglio e agosto, e si svolgeva pure in anni alterni, nell’inizio (estate) del 2° e 4° anno del quadriennio olimpico. • Nell’arco dunque di quattro anni si svolgevano dunque 6 celebrazioni di feste panelleniche, e di queste ben 5 nel Peloponneso settentrionale. Il periodo in cui si andò definendo questa koiné cultuale e agonistica in cui si esprimeva la cultura delle póleis nella fase aristocratico- oplitica e delle prime tirannidi va dalla prima metà dell’VIII secolo agli inizi del VI, rivelando ancora una volta l’importanza decisiva del secoli VIII e VII nella formazione di un modello comune e di una cultura comune della pólis. 3. Sviluppi politici del VI secolo 1. Solone • L’opera di Solone, arconte nel 594/593 (secondo Diogene Laerzio) oppure 592/591 (secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele), porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che si intravedevano nella comunità attica del medio arcaismo. Solone operò sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e nomoteta, autore di leggi costituzionali. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio- economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica avverte un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/507. • Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Nell’assetto proprietario dell’Attica è soprattutto in gioco la condizione degli hektémoroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto: poiché anche rispetto all’assolvimento di questo obbligo essi risultano spesso in debito, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dell’Attica. • La proprietà terriera in Attica: dopo la crisi del potere miceneo, in Attica si accentua la frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare una tensione tra i diretti coltivatori della terra, che ne sono i possessori di fatto, e i grandi proprietari, che ne sono i possessori di diritto, avendone il titolo legale di proprietà e verso i quali i coltivatori avevano obblighi di tipo tributario, nel VII e VI secolo riscossi prevalentemente in natura. • Le riforme economiche: Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epì toîs sómasin). Inoltre attua un’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura e cambia il sistema monetario, sostituendo alla dracma pesante di Egina la dracma leggera dell’Eubea, il che equivaleva di fatto a una svalutazione di circa il 30%, la quale riduceva i debiti di altrettanto. La moneta, il nuovo strumento economico non era ancora dominante all’epoca di Solone, ma certo affiorante: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo di alleviamento, insieme all’abolizione/riduzione dei debiti in natura. La condizione della terra, dunque, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un futuro consolidamento del rapporto di possesso stabile della terra. • Le riforme politiche: sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie ‘classi’, definendole però in termini quantitativi: 1) i pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frummento (o Pisistrato voleva gestire il potere katà toùs nómous (secondo le leggi), e perciò con facilità riconquistava il potere ogni volta che lo perdeva, perché lo volevano al potere al tempo stesso “il più dei notabili e del popolo”. Sulla sua tirannide in generale le valutazioni della tradizione sono positive: non cambiò le leggi esistenti né le magistrature, ma si limitò ad assegnarle ai parenti ed amici; governò la città con moderazione, e più da cittadino che da tiranno secondo Aristotele: questa moderazione è in parte della personalità di Pisistrato, descritto come gioviale e capace di tolleranza e di humour, ma in parte era condizione obbligatoria in una società politicamente evoluta e cosciente, una società difficile dunque, come quella ateniese. • Il programma politico: Pisistrato ha un programma politico e sociale molto più marcato di quello soloniano, anzi il suo programma è volto, in effetti, a dare soluzione a quei problemi che l’opera soloniana aveva lasciato senza risposta: un autentico sviluppo della piccola proprietà e una politica estera di espansione, cioè di ricerca di punti di appoggio per quelle attività commerciali a cui Solone aveva fornito più stimoli che non occasioni d’esplicarsi in concreto.Pisistrato istituì infatti una forma di credito fondiario per favorire lo sviluppo dell’agricoltura, e probabilmente anche della piccola proprietà terriera, utilizzando le risorse da lui riscosse attraverso l’introduzione di un’imposta diretta sui prodotti (prima estranea all’Attica, e al mondo greco in generale) pari al 5% o forse 10%. Queste innovazioni fiscali di Pisistrato serviranno non soltanto alle finalità latamente assistenziali, come il credito fondiario, ma anche a finanziare l’allestimento di una flotta, che in questo periodo consta ancora forse di solo cinquanta navi. A confermare ulteriormente la politica di sviluppo di Pisistrato nei confronti della popolazione di campagna è la creazione dei ‘giudici itineranti’, che percorrevano i dêmoi dell’Attica, offrendo la possibilità ai cittadini della campagna di fare le loro richieste giuridiche a un’istituzione apposta, senza dover andare ad Atene, viaggio piuttosto impegnativo per gli abitanti di località distanti. • Esiti della tirannide di Pisistrato: Paradossalmente la tirannide, un potere personale, favorisce, anche contro le intenzioni, un processo di formazione di valori statali, persino attraverso vie anomale, che rafforzano però l’idea della comunità come sede di un potere distinto da quello dei suoi singoli membri e ad esso superiore: matura insomma, come in un doloroso travaglio, il processo di separazione e distinzione tra società e Stato. Ciò si può osservare innanzitutto nella nuova nozione della fiscalità (si pensi all’introduzione delle imposte), ma anche nell’idea di un potere armato supremo, distinto e incombente sui singoli cittadini (si pensi alla guardia del corpo, ma anche agli eserciti mercenari con funzione di vera e propria polizia, oppure la creazione di un numero di ufficiali superiori, gli strateghi, destinati a svolgere un ruolo fondamentale nelle guerre). • Il Peloponneso nel VI secolo: Nel VI secolo assistiamo al definirsi di un ruolo egemonico di Sparta nel Peloponneso. Il confronto di Sparta con gli altri popoli del Peloponneso può essere scandito in due fasi, la prima delle quali consiste nel conflitto con i Messenii, dopo che Sparta aveva già assestato il proprio dominio nella Laconia; dopo la guerra contro i Messenii, i conflitti successivi mettono Sparta a confronto con la composita realtà della montuosa regione dell’Arcadia, oltre che con il dominio di Argo, che verosimilmente aveva già raggiunto dimensioni ragguardevoli lungo tutto il fianco orientale del Peloponneso. Il conflitto di Sparta con Argo sembra essere stato di lunga durata, se si pensa a due termini alquanto evidenti che ne delimitano lo svolgimento tra il periodo delle guerre messeniche e l’età delle guerre persiane: la battaglia di Isie nel 669/668, dove gli Spartani subivano una dura sconfitta da parte degli Argivi giusto alla fine della II Guerra Messenica; e invece la vittoria di Sparta, sotto Cleomene I, nel 494 a Sepeia, non priva di ferocia da parte spartana (Argivi bruciati in un bosco sacro) ed eroici da parte argiva (difesa della città, sguarnita di uomini, ad opera di donne e servi). Fra queste due date, uno scontro tra corpi scelti (di 300 uomini) spartani e argivi, risoltosi poi, secondo la leggenda, in un eroico duello, in cui emergerebbe la figura dello spartano Otriade, unico spartano rimasto in campo, ignorato però dai due argivi sopravvissuti, che vanno ad Argo annunciare la vittoria; dalla disputa sulla pertinenza della vittoria seguirebbe un’altra battaglia e la sconfitta, presso Parparo, degli Argivi. La data di questa guerra spartano-argiva del VI secolo non è facile da determinare. Certo è che tra VII e VI secolo, cioè tra Isie e Parparo, la pressione di Sparta su Argo si fa sentire sempre più forte e da vicino. Il contrasto con gli Arcadi invece aveva già avuto una manifestazione nella II Guerra Messenica, quando i Messenii avevano avuto l’aiuto (poi dimostratosi infido) del re arcadico di Orcomeno, Aristocrate. La crisi della regalità arcadica di Orcomeno (forse prima metà del VI secolo), potrebbe aver avuto come conseguenza l’accordarsi di Orcomeno, Mantinea e della maggior parte delle città d’Arcadia a Sparta. Il resto però dell’Arcadia era una preda poco appetibile, o comunque difficile: più desiderabile per gli Spartani la piana di Tegea, la cui posizione (punto di passaggio obbligatorio per chi da Sparta dovesse andare in Messenia) era strategica per gli Sparta. La guerra di VI secolo contro Tegea passa per almeno due fasi, stando ad Erodoto: una al tempo del re spartano Leonte (ca. 560), l’altra al tempo del suo successore Anassandrida (ca. 520). Importante anche l’intervento di Sparta in favore degli Elei nella guerra contro i Pisati, per il controllo della Pisatide, e perciò del santuario di Olimpia, voltasi storicamente a vantaggio di Sparta, di cui gli Elei divennero i fidi alleati. Questo rapido profilo della storia spartana del VI secolo permette di delineare il contesto della formazione della Lega peloponnesiaca (“gli Spartani e i loro alleati [sýmmachoi]”). La Lega presenta un rapporto egemonico lasso – in essa vige il principio dell’autonomia: niente tributi, o tributi fissi, niente guarnigioni spartane nelle città alleate; rappresentanza dei membri nel sinedrio federale; decisioni a maggioranza. È un organismo che si pone come un coordinamento di fatto, in graduale sviluppo, tra città che conservano, pur intorno alla guida spartana, un ruolo notevole, in un contesto dunque in cui i rapporti non sono di puro dominio: insomma, la nascita della Lega corrisponde agli effettivi risultati, diretti e però anche indiretti, delle guerre spartane di VI secolo – in senso lato dunque, la metà del secolo è un contesto cronologico adeguato per situare la sua nascita. Si accosteranno a Sparta non solo le città dell’Arcadia o del Peloponneso, ma anche quelle dell’Akte argolica, come Ermione, e inoltre anche Egina, Corinto, ecc. Nella Lega Sparta sperimentava uno strumento di difesa, ben diverso dunque dal semplice dominio ferreo esercitato nei confronti dei Messenii. 3. La tirannide dei Pisistratidi. La politica estera di Sparta • Nel 528/527 a Pisistrato succedono i figli, che Aristotele conosce in numero di quattro: Ippia e Ipparco, nati dalla moglie legittima; Iofonte e Egesistrato (Tessalo), nati dalla coniuge argiva (già moglie di un Cipselide): è da sottolineare lo stretto rapporto con Argo, che sarà non ultima fra le cause dell’ostilità di Sparta verso la discendenza di Pisistrato al potere ad Atene. Il potere formale è nelle mani del maggiore dei figli, Ippia, politico migliore degli altri. Ipparco è l’intellettuale della famiglia, che pratica un mecenatismo verso i poeti (Anacreonte, Simonide, ed altri), che dà luogo al fenomeno di una poesia di corte. • L’accentuarsi di una pratica personale del potere e dei connessi abusi determina la crisi della tirannide dei Pisistratidi, che, comunque, esplode solo quattordici anni dopo la morte di Pisistrato, cioè nel 514/513. A creare il caso è l’irregolare e violento della famiglia, Ipparco (secondo alcuni invece è Tessalo): invaghitosi del giovane Armodio, ma da lui respinto, egli passa a comportamenti persecutorii, infamandolo per i suoi costumi e negando alla sorella il diritto di fare da canèfora (‘portacanestre’) alle feste Panatenee, in quanto parente di un corrotto. Armodio era invero amico di Aristogitone: da un fatto personale nasce così la prima grave crisi della tirannide e una congiura che dovrebbe eliminare Ippia e Ipparco durante la processione delle Panatenee. L’impressione di essere stati scoperti sconsiglia però i congiurati dal dar seguito all’attentato contro Ippia, che accoglieva la processione sull’acropoli, e li induce però ad uccidere almeno Ipparco, che presiedeva alla partenza della processione medesima. Ipparco viene ucciso, i due congiurati catturati e trucidati: Armodio subito, e solo successivamente, nel corso di una tumultuosa inchiesta sull’accaduto, il più anziano Aristogitone. I due tirannicidi erano destinati a figurare nella convinzione corrente del popolo atenise come restauratori della libertà e fondatori della democrazia, occupando nell’affetto del popolo un posto che la propaganda degli Alcmeonidi ancora in età periclea cercherà di contestare, non senza buona parte di ragione, per dare spazio a meriti più squisitamente politico-militari guadagnati dal génos nell’instaurazione della democrazia. • Che la famiglia degli Alcmeonidi e i paralii facessero opposizione e tentassero il rientro in Atene e l’abbattimento della tirannide è naturale che accadesse, ed accadde. Gli Alcmeonidi, esuli a seguito del terzo avvento di Pisistrato, si erano creati una base a Delfi, dove assunsero l’appalto della ricostruzione del santuario, devastato da un incendio nel 548 a.C. Tramite la Pizia e in forza dei radicati rapporti tra Sparta e Delfi, gli Alcmeonidi riuscirono ad avere l’aiuto degli Spartani, nel VI secolo i grandi nemici delle tirannidi. Prima di ciò però si ha un primo tentativo degli Alcmeonidi di abbattere la tirannide, da soli, circa il 513, ma essi subirono una dura sconfitta. Nel 511/510 invece intervengono gli Spartani: la prima volta si ha il fallimento del tentativo di una piccola schiera di opliti; la seconda invece interviene con un esercito il re, Cleomene I, che assedia Ippia arroccatosi sull’Acropoli e in pochi giorni ne ottiene la resa. • Ma c’era anche un’opposizione interna: di questa, anche se motivata da fatti di natura personale, è espressione la congiura del 514/513 di Armodio ed Aristogitone; inoltre, la presenza di un’opposizione interna si dimostra anche dagli eventi che seguono la cacciata di Ippia nel 510, quando ad Atene si apre un aspro scontro politico tra l’alcmeonide Clistene, fautore di un profondo rinnovamento politico-costituzionale (che fu poi la democrazia), e Isagora, che voleva invece un’oligarchia, un esito gradito anche a Sparta. • Poiché, come si è visto, l’abbattimento della tirannide dei Pisistratidi avvenne in due tempi (514/513 e 511/510), è del tutto comprensibile che, nell’opinione corrente degli Ateniesi, si esprimessero diverse valutazioni circa la maggiore importanza dell’uno o dell’altro dei due momenti: nel cuore della gente comune era fermo il sentimento di gratitudine e ammirazione per i due tirannicidi, Armodio e Aristogitone, a cui fu del resto presto dedicato un gruppo statuario, opera di Antenore, portato via da Serse nel 480 e appena qualche anno più tardi sostituito da quello di Crizio e Nisote. Non si può comunque negare che, dal punto di vista politico, infinitamente più creativa fu l’azione degli Alcmeonidi. Non c’è da sorprendersi che l’ambiente pericleo produca una propaganda e una letteratura volta a ridimensionare, se non anche in parte a denigrare, l’impresa dei due amici tirannicidi. Mesopotamia e dalla Persia: si può dire che a Oriente egli impari, mentre ad Occidente egli insegna. Pitagora si fa anche interprete di stimoli di matrice mistica e irrazionale, che nell’ambiente ionico più razionalisticamente improntato suscitano l’accusa di una sinistra propensione al falso. La sua concezione politica fu aristocratica, ispirata all’idea del gruppo chiuso, anche se non aliena da concezioni rigorosamente ugualitarie, di marca spartana. In Occidente il pitagorismo rivela un’incredibile vitalità, che conosce una forte rivitalizzazione in Platone e nel platonismo. • In significativa e alternativa contemporaneità con l’esperienza pitagorica, si colloca la nascita della storiografia ‘critica’ (non dunque pura memoria celebrativa), anch’essa riconducibile, nelle sue primissime espressioni, ad area ionica (Ecateo di Mileto). Essa ha tuttavia paralleli importanti nel continente (Acusilao di Argo, Ferecide di Atene), una prosecuzione di grande respiro nell’opera di Ellanico di Mitilene, e un decisivo salto di qualità in quella di Erodoto di Alicarnasso. Tipico apporto ionico è la vastità dell’orizzonte geografico e storico dell’opera dei prosatori (logografi) di matrice ionica e, più in generale, egea. La logografia ionica appare del resto come un momento decisivo nella presa di coscienza del ruolo della scrittura, nei confronti della tradizione orale: in questa luce ben s’intende il valore latamente rivoluzionario dell’opera di Ecateo, che nel fr. 1 delle Genealogie esordiva con un grápho: “scrivo le cose, come sembrano a me vere, poiché i lógoi (discorsi) dei Greci sono molti e risibili”. Nello stesso filone critico s’iscrive, e a un gradino più rilevato, Eraclito di Efeso (fine VI-inizio V secolo), con le sue veementi bordate contro Esiodo, Senofane, Pitagora e lo stesso Ecateo (segno del fatto che lo spirito critico equivale a un nuovo tipo di rapporto intellettuale fra gli uomini, che opera in una molteplicità di direzioni). b. Popoli d’Asia e Greci fino al VI secolo • La storia dei popoli orientali interferisce variamente con quella greca, con grado diverso di certezza, verificabilità, intensità nei diversi periodi. Con l’impero ittita vi saranno stati rapporti dei Micenei: molto dipende dall’interpretazione del nome di Ahhijāwā che ricorre nei testi ittiti, e della sua riferibilità al mondo miceneo. I rapporti tuttavia non dovettero essere profondi, ove si tenga presente il fondamentale silenzio della tradizione greca sul potente regno dominante la parte centrale dell’Asia minore, durato in vita fino al 1200 circa a.C. • Di carattere ostile furono i rapporti dei Frigi col mondo greco, anche se, sul piano religioso, i Greci ne furono influenzati: il re frigio Mida costituisce la tipica figura di re barbarico, connotata con l’oro, simboleggiante una ricchezza che per i Greci fu sempre estranea e inaccessibile. • Con gli Assiri, in piena ascesa nel IX secolo, i rapporti furono in definitiva marginali, e alla crisi assira della prima metà dell’VIII secolo non corrisponde uno sforzo di penetrazione greca nelle regioni del vicino Oriente; i Greci furono più direttamente interessati dall’avanzata dei popoli delle steppe scitiche, che raggiunsero regioni diverse dell’Asia Minore: circa il 675 a.C. i Cimmerii saccheggiarono l’Artemision di Efeso; nel 612 a.C. i Medi distruggevano la grande Ninive. Gli Assiri restano un popolo del passato remoto, che la storiografia greca stenta a mettere in rapporto con le vicende dei Greci. Certo, arrivava fino alla coscienza dei Greci l’immagine di grandiosità di alcuni regni stranieri o l’impressione per le grandi catastrofi storiche che li avevano riguardati: ma queste reazioni dell’opinione greca poco cambiano della fondamentale estraneità delle storie. • Ben altra evidenza hanno fatti profondamente penetrati nel tessuto della storiografia erodotea e da questa adeguatamente illuminati. Alla fine del VII secolo il popolo iranico dei Medi avanzava verso la Mesopotamia. Nel momento in cui l’impero dei Medi si estende anche verso occidente, in Asia Minore, esso viene a collisione con il regno dei Lidi, governato dalla dinastia dei Mermnadi, fondata da Gige. Nel 585, dopo una battaglia, tra le due potenze si stipulò un accordo, destinato a garantire al regno di Lidia un altro quarantennio di prosperità, fino allo scontro con i Persiani di Ciro il Grande e alla sconfitta del 546. Il regno dei Lidi è dunque la prima realtà storica orientale di cui i Greci abbiano una compiuta esperienza e, principalmente, memoria. • L’ascesa dei Persiani: all’interno stesso della dinastia dei Medi si determinano le condizioni per il rovesciamento del dominio dei Medi stessi: ed è l’ascesa di Ciro il Grande, figlio di una figlia del re dei Medi, discendente di un Ciro (Ciro I) capostipite della dinastia degli Achemenidi, che era stato suddito degli Assiri a metà del VII secolo. Ciro II (il Grande), in un trentennio di regno (559-530), viene a capo di tutte le situazioni politiche costituitesi dopo la scomparsa dell’impero assiro (che nel massimo splendore si estendeva dalla Mesopotamia, all’Anatolia, all’Egitto). Dopo l’abbattimento della potenza assira, Ciro il Grande conquista la Babilonia (539), impone la sua sovranità sulle città fenicie; il figlio Cambise conquista l’Egitto nel 525 a.C., e dopo la sua morte nel 522, in Persia si svolge un’aspra lotta per il potere, tra elemento sacerdotale e aristocrazia iranica, alla fine della quale si impone però Dario, riaffermando il potere monarchico. Erodoto riporta un fittizio dibattito fra i Grandi di Persia sui pregi e difetti delle tre costituzioni tipiche (la monarchia, l’oligarchia e la democrazia) – probabilmente una trascrizione in termini greci di un conflitto reale tra forze sociali e politiche diverse presenti nel mondo persiano, come ad esempio gruppi sacerdotali e gruppi dell’aristocrazia militare e fondiaria, conflitto che poteva mettere in forse le basi stesse del potere monarchico. • L’impero persiano, nella coscienza e nella rappresentazione dei Greci ( in primis in Erodoto), diventa il modello storico dello stato barbarico potente e in grado di minacciare i Greci, di suscitarne i timori ma anche l’ammirazione; un modello anche per la sua sistematica politica di espansione; per la sua struttura di efficienza organizzativa (ripartito com’era in 20 satrapie con funzioni amministrative e fiscali, rigorosamente definite); per la sua ricchezza, la cui quintessenza agli occhi dei Greci, l’oro, si identifica con il mondo persiano, e insieme lo connota barbarico. c. Religiosità greca e orfismo • Le esigenze religiose dell’uomo greco non si esauriscono nelle pratiche cultuali di carattere pubblico: accanto a queste ne sussistono altre, più segrete, o circondate di un velo di mistero, nelle quali gradualmente si fa strada l’esigenza di un rapporto più personale ed intimo con la divinità, e si dà spazio alla preoccupazione di assicurare al singolo la salvezza, in questo mondo o in un altro, anche indipendentemente dai destini della comunità cittadina. Ma misticismo non significa nel mondo greco, fin dall’origine, rottura con la comunità. I misteri che si celebrano annualmente nel santuario di Demetra ad Eleusi sono un’esperienza iniziatica valida per tutta la città di Atene, di carattere perciò ufficiale e squisitamente cittadino: questo almeno è il carattere del culto come riordinato da Pisistrato nel VI secolo. Il culto di Dioniso invece conserva, nonostante tutti i processi ‘normalizzatori’ messi in atto dalla città greca in generale, una sua irriducibilità di fondo, cioè una riducibilità soltanto parziale alla norma. • Ma per un’esperienza mistica individuale o di gruppo ristretto, spesso antagonistico rispetto alla comunità cittadina, servì l’orfismo. Le sue origini sono forse da rintracciare nell’esperienza eleusinia, come arricchita dall’apporto del culto e del mito di Dioniso, dei suoi riti iniziatici, delle prospettive di morte e di resurrezione con quel mito connesse. L’ambiente eleusinio sembra perciò il naturale terreno d’incubazione di questa concezione e pratica della salvezza. Un terreno di diffusione particolarmente propizio si rivelò presto, fra altre regioni, l’ambiente della Magna Grecia: il carattere di quelle società di impronta aristocratica era in effetti già di per sé propizio alla costituzione di gruppi chiusi: l’affine, e pur distinta, esperienza pitagorica lo conferma. La pratica orfica però rappresenta, rispetto al pitagorismo, uno stadio ben più avanzato di distacco dalla città, che originariamente si determina proprio negli ambienti aristocratici, e che semmai solo col IV secolo, e in età ellenistica, investe strati sociali più bassi e alla fine sfocia in forme associative, atte ad esprimere inquietudini o forme di ribellione sociale, a cui dà stimolo e supporto la diffusa pratica di riti bacchici. 3. La fine dell’arcaismo. L’avvento della democrazia, le guerre persiane 1. Clistene e la fondazione della democrazia • Gli Alcmeonidi, rientrati ad Atene con l’aiuto di Sparta, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni politiche. Clistene escogita tutta una nuova geografia e geometria dei rapporti politici. Al posto delle quattro tribù genetiche degli Ioni egli introdusse le dieci tribù territoriali: l’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale e familiare, ma dalla residenza. I demi, piccole comunità e villaggi, dispersi su tutto il territorio dell’Attica, preesistono alla riforma clistenica: ma con essa essi si trasformano nelle cellule vitali della nuova struttura politica: le tribù sono state concepite in modo tale da avere più o meno lo stesso numero di persone – per questo il territorio di una tribù può essere ora composto da un grande demo, ora dall’unione di più demi. I demi infatti erano la base naturale, storicamente parlando, della struttura dell’Attica, in un numero fra 100 e 200. Su questa base però si innesta la costruzione di Clistene: il numero dieci, che rievoca la passione dei greci per una ‘aritmetica politica’, opera nella costruzione delle dieci tribù territoriali: Eretteide, Egeide, Pandionide, Leontide, Acamantide, Oineide, Cecropide, Ippotoontide, Aiantide, Antiochide: dieci nomi di eroi sorteggiati dalla Pizia fra cento scelti anteriormente dagli ateniesi. Della vecchia struttura filetica (delle phylaí, le tribù) tuttavia permane l’articolazione in tre sezioni (trittýes) di ciascuna tribù, che adesso fanno dunque non 12 fràtrie come prima, ma 30 trittýes. Questa tripartizione rispecchia caratteri geografici, constando ciascuna tribù di una tritýs dell’ásty (città), di una della mesógaia (interno), e di una della paralía (costa): in un certo qual modo rispecchiando l’antica divisione dell’Attica dei partiti (ásty = pedíon; mesógaia = diakría; paralía), ma frantumandola tra le dieci tribù. • Al vecchio frazionamento politico-territoriale si sostituisce una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Naturalmente la costruzione non è totalmente astratta, conoscendo adattamenti alle condizioni reali del territorio e delle sue singole parti. Vale dunque, in generale, il principiodella discontinuità tra le varie trittýes di una medesima tribù, anche se, in almeno quattro casi a noi noti, appartenenti alla costa orientale dell’Attica, le due trittýes extraurbane sono contigue fra loro, certo per le 3. Dall’insurrezione ionica alla battaglia di Maratona • Le origini del conflitto greco-persiano vanno ricercate nelle condizioni dei Greci della Ionia, nei loro rapporti con i dominatori persiani, nei loro malumori e in certe iniziative in parte infelici, come lucidamente vide e descrisse Erodoto (consapevole di risultati ben diversi di conflitti greco-persiani di anni più recenti). • La rivolta degli Ioni d’Asia ha come premessa l’episodio di Nasso (500 a.C.): Aristagora, il nuovo tiranno di Mileto (successore di Isteo, che il gran-re aveva chiamato a Susa per tenerlo sotto controllo) propone al satrapo di Sardi, Artaferne, una spedizione contro l’isola di Nasso, fiorentissima tra le Cicladi, col pretesto di lotte civili e l’intento di ricondurvi gli aristocratici schiacciati. La spedizione, dopo quattro mesi d’assedio, fallisce. Aristagora allora teme le conseguenze del fallimento di una spedizione da lui suggerita e, per meglio garantirsi, dà inizio alla rivolta. Da tutto questo, dunque, si evince: che l’idea dell’estensione del dominio persiano alle Cicladi nasce su suggerimento di un greco, ed è così nuova rispetto alla politica persiana nella zona da renderne responsabile delle conseguenze l’autore stesso (Aristagora); si evince anche che nella Ionia doveva esserci già un sotterraneo fermento contro i Persiani, dato che Aristagora considera subito la rivolta come la migliore possibilità di scampo per sé stesso. • La rivolta degli Ioni d’Asia contro la Persia è motivata dall’insofferenza per lo sfruttamento economico risultante dal tributo versato ai persiani, sia da un desiderio di libertà: anzi, per I greci le due motivazioni sono strettamente intrecciate fra di loro, e il desiderio di libertà comporta anche libertà dal tributo, in cui si materializza la sopraffazione. • Aristagora si rivolge dapprima a Sparta per aiuto, ma ha da Cleomeneun fermo diniego, quando quello gli prospetta le dimensioni dell’impero persiano e di una eventuale guerra da avviare contro di esso. Migliore accoglienza egli riceve da Atene, segno che si hanno richiami di natura ideologica (Atene come modello di regime antitirannico e popolare) e si rafforzano legami culturali, come l’origine ionica comune (anche per la presenza di legami culturali si spiega l’intervento della città euboica di Eretria, che con Mileto aveva avuto rapporti particolarmente stretti). • Atene invia, dunque, venti navi in aiuto, ed Eretria ne invia cinque. I tiranni sono abbattuti in tutte le città ioniche, e Ioni, Ateniesi ed Eretriesi attaccano e danno alle fiamme alcuni quartieri periferici di Sardi; presto anche Caria, Licia e Cipro si uniscono alla ribellione. (498). L’impegno degli ateniesi e degli eretriesi si conclude una volta ottenuto il fine della liberazione dalla Persia. • Nel 497 i ribelli sono battuti a Cipro dai persiani. Nel 494 una flotta fenicia attacca Mileto; all’apparire della flotta fenicia le città dell’isola di Rodi e inoltre Cnido e Alicarnasso, cioè i Greci della costa meridionale dell’Asia Minore occidentale, fanno pace col re; gli Ioni invece solidarizzano con Mileto ma, nello scontro navale che si svolge nell’estate del 494 presso l’isoletta di Lade prospiciente la città, sono sconfitti: Mileto, assediata per mare e per terra, è conquistata, una parte degli abitanti è deportata in Babilionia, il tempio di Apollo a Didima è dato alle fiamme (pensare alla tragedia Presa di Mileto, di Frinico). Nel 493 la flotta fenicia tornava in possesso di Chio, di Lesbo e dell’Ellesponto – Milziade II, tiranno del Chersoneso tracico trovava scampo ad Atene. • Nel 492 il re Dario inviò il genero Mardonio con un esercito e una flotta in Tracia: la spedizione fu descritta da Erodoto e sentita dai Greci come una prima spedizione contro la Grecia – certamente essa fu la logica continuazione della reazione alla rivolta ionica, che aveva trasferito il suo centro di gravità verso l’area egea settentrionale e tracica. I risultati furono positivi per la Persia: assoggettamento di tutte le città greche della regione e riconoscimento dell’autorità formale della Persia da parte della Macedonia. I Persiani però subirono alcune gravi perdite – lo stesso Mardonio fu ferito, e gran parte della flotta fece naufragio nella circumnavigazione dell’Athos (autunno 492). • Il 491 fu un anno di preparativi per la spedizione punitiva dei Persiani contro Ateniesi ed Eretriesi. Quindi, nella primavera del 490, Artaferne (nipote del re) e il medo Dati conducevano una flotta che doveva seguire dapprima verso le Cicladi, poi verso l’Eubea e l’Attica. Nasso fu, questa volta, piegata e distrutta; le Cicladi si sottomisero; a Delo, isola sacra ad Apollo e Artemide, Dati celebrò un solenne sacrificio; infine, fu la volta di Eretria, presto conquistata e data alle fiamme, mentre i cittadini venivano trapiantati presso Susa. • Da Eretria il passaggio in Attica è rapido e facile, nella parte nord-orientale della regione, quella in cui, tra l’altro, aveva avuto le sue basi politiche principali Pisistrato: non dimenticare, infatti, che appunto Ippia era con i Persiani nella spedizione, guidandone i movimenti e sperando in un restauro della sua tirannide. A Maratona sbarcarono circa 20.000 Persiani; ad Atene si decise, seguendo il consiglio di Milziade, di uscire dalla cerchia delle mura e di affrontare il nemico a Maratona: 6000-7000 opliti ateniesi, al comando del polemarco Callimaco e dei dieci strateghi, fra cui Milziade. I due eserciti si fronteggiarono per alcuni giorni; furono poi gli ateniesi ad attaccare, percorrendo di corsa, nonostante le pesanti armature, l’ultimo tratto che li separava dai Persiani. Dei Persiani morivano sul campo 6400 uomini; dei Greci, solo 192, che furono sepolti nel celebre sorós (tumulo): fra di essi il polemarco Callimaco. Nel frattempo, l’altra parte dell’esercito persiano si indirizzava ad Atene, sperando in colpo di Stato nella città, probabilmente per parte di gente dei Pisistratidi: quando arrivarono però gli Ateniesi di Maratona erano già tornati e schierati sotto le mura: i Persiani non poterono che prendere la via del ritorno. [[[ Gli Spartani erano stati sollecitati dagli Ateniesi ma sono arrivati solo a battaglia avvenuta: alcune versioni dicono che c’era una ‘guerra messenica’ in atto; altre invece che non sono potuti uscire prima per una festività religiosa della loro città: fatto sta che non sono arrivati in tempo e la gloria della vittoria sopra i Persiani è andata tutta agli ateniesi]]] 4. Dopo Maratona: nuove guerre e riforme politiche ateniesi • Dopo la battaglia Atene si trovava nella posizione di conquistatrice (o liberatrice) delle regioni greche anteriormente passate in mano ai Persiani: nel 489 Milziade II riuscì a riprendere le Cicladi occidentali, ma andrò ad urtare contro la resistenza di Paro, che rimase fedele ai Persiani (quando ebbe desistito dall’assedio, Milziade fu accusato di corruzione da Santippo, il padre di Pericle, costretto a pagare una multa, per morire poco dopo di cancrena per effetto di una ferita procuratagli durante l’assedio). • Nel 488 si apre invece per Atene un altro conflitto, quello con Egina (preceduto da una guerra, combattuta forse dalla neonata democrazia circa il 506 a.C.). La spedizione contro Egina si risolse in un disastro: le truppe ateniesi, sbarcate nell’isola, dovettero rapidamente riprendere il mare, e quattro navi caddero nelle mani degli Egineti, di nuovo padroni del golfo Saronico. • Con gli inizi della guerra contro Egina coincide una serie di innovazioni importanti nella politica interna: prima applicazione dell’ostracismo, contro Ipparco, nell’anno 488/7 (seguirà l’espulsione di Megacle nel 487/6, e di un altro non nominato ‘amico dei tiranni’ nel 486/5; Santippo, il padre di Pericle, sarà colpito dall’ostracismo nel 485/4); l’adozione della procedura del sorteggio, in luogo dell’elezione, degli arconti (487/6). Emerge anche la figura di Temistocle, che sembra essere già stato arconte nel 493, ma che comunque solo dopo il 484 assurge a un ruolo politico decisivo, e di tipo diverso, rispetto ai capi politici di un passato recente: la lotta politica ad Atene, infatti, si muove sempre di meno lungo i binari della contrapposizione tra amici e nemici dei tiranni, e sempre di più invece lungo quelli di un diverso modo di concepire l’uso della nuova forma politica, la democrazia, sia all’interno della pólis, come verso l’esterno. 5. La politica navale di Temistocle • Quando nel 482 a.C. si scoprono nuovi filoni argentiferi a Maronea, a una proposta di stampo democratico, sì, ma tradizionale, di distribuire cento talenti di surplus fra i cittadini, Temistocle ne oppone una diversa, che è di spirito imprenditoriale e di finalità difensiva e imperialistica: una proposta che conta su un nuovo tipo di solidarietà dei cittadini, presi nel loro insieme, verso le strutture della pólis: i cento cittadini più ricchi dovevano ricevere in prestito un talento ciascuno; con esso allestire una trireme; e restituire il denaro solo se la città fosse insoddisfatta del lavoro compiuto con quel prestito – nasceva così la prima rispettabile flotta di Atene, esigenza giustificata dai vari fallimenti nella guerra contro Egina, ma anche, come il tempo dimostrerà, dai pericoli di una nuova invasione persiana. • Fra le ‘vittime’ politiche dell’ascesa di Temistocle è Aristide, ostracizzato ca. il 482. È probabile che i termini del dissenso siano quelli che la tradizione presenta, cioè: che uso fare di un’eccedenza di entrate? Adottare, nelle nuove dimensioni della pólis democratica, la vecchia pratica clientelare delle liberalità aristocratiche, in forme blande, non richiedenti sacrifici da nessuno? O introdurre una nuova logica solidaristica e faticosamente dinamica, dove la capacità di realizzazione dei ricchi concorre con la volontà, propria della massa democratica, di darsi uno strumento di potenza? • Ritroveremo comunque Aristide ad Atene nel 478/7, favorendo la creazione della Lega navale e definendo gli aspetti della sua organizzazione tributaria, contribuendo dunque alla costruzione della potenza navale ateniese. La politica di Aristide, dunque, non è antinavale in senso assoluto: in gioco erano una concezione di rapporti, e degli obblighi e diritti dei cittadini, all’interno della pólis, cioè una maggiore attenzione al privato di tipo tradizionale (che in quel contesto giocava contro la legge navale di Temistocle), e la concezione di Temistocle, orientata verso un’idea di preminenza di quello che per lui era l’interesse pubblico. La guerra contro i Persiani modificherà l’atteggiamento di Aristide, con la sua forza di fatto ineludibile. 6. La spedizione di Serse e Mardonio contro la Grecia • Nel 485 Dario era stato colto dalla morte nel corso dei preparativi per una spedizione punitiva rivolta alla Grecia interne; Serse però ne ereditava il disegno: si trattava in primo luogo di far valere la specifica qualità militare di una grande potenza territoriale come l’impero persiano, doveva perciò essere una grande spedizione di terra, affiancata e sostenuta dalla flotta. Nell’autunno del 481 le truppe di terra sono raccolte in Asia Minore, e vi tengono i quartieri d’inverno; nel giugno del 480 Serse fa loro varcare l’Ellesponto su due pinti di barche e, procedendo lungo la costa, raggiunge Terme in Macedonia. • Da parte greca, nello stesso lasso di tempo, all’Istmo si era tenuto un congresso degli Stati greci decisi a resistere ai Persiani. Si proclamò una pace generale fra i Greci; si richiamarono in patria gli esuli politici (così, tra l’altro, Aristide rientrò ad Atene); gli inviati 7. Dopo Platea • Sul campo di battaglia fu eretto un altare a Zeus Eleutherios (della libertà), presso il quale annualmente si celebrava un sacrificio, ed ogni quattro anni si avevano agoni panellenici, che continuarono a restare in vita fino ad epoca romana; la decima dell’ingente bottino fu dedicata a Delfi, ad Olimpia e al santuario di Posidone sull’Istmo. Si provvide anche alla punizione di Tebe, costretta alla resa dopo un assedio di 20 giorni; il capo dei filopersiani, Attagino, riuscì a fuggire, altri furono giustiziati all’Istmo; la lega beotica fu sciolta. • Da Delo la flotta greca, al comando (nel 479) del re spartano Leotichida, raggiungeva Chio e Samo per sollecitazione degli stessi Ioni; i resti della flotta persiana, in sosta presso Samo, abbandonavano l’isola per raggiungere il continente; le navi venivano tratte in secco, non lungi dal promontorio di Micale. Nei fatti, quella di Micale (agosto 479) non fu tanto una vittoria navale dei Greci, quanto una battaglia navale mancata: l’azione militare e la vittoria greca consistettero piuttosto nell’assalto delle fortificazioni persiane e nella loro distruzione; le navi persiane furono così date alle fiamme dai Greci, come testimonia Erodoto. • Gli eventi che si seguono sono storicamente dei più significativi. Da un lato si verifica la ribellione di tutti gli Ioni, l’abbattimento delle tirannidi filopersiane e l’inserimento delle isole di Samo, Lesbo e Chio nella Lega greca: in definitiva, nel 479 si realizzano i fini della rivolta di Aristagora del 499. Ma, insieme, un importante passaggio verso l’esito imminente ed epocale del 478/7 (cioè, verso la fondazione della Lega delio-attica) è costituito dall’andamento delle operazioni, e dai diversi tipi di comportamento tra i Greci, nei mesi successivi alla battaglia di Micale. Sull’Ellesponto, Abido e Sesto erano ancora nelle mani dei Persiani – la flotta grecasi dirige verso la zona degli Stretti, ottenendo subito la defezione di Abido; ma con l’arrivo dell’autunno i Peloponnesiaci se ne tornano a casa, lasciando il campo agli Ateniesi, che assediano e poi prendono per fame Sesto (primavera 478), con la cooperazione degli Ioni, che già in questa campagna risuscitano quel rapporto privilegiato con Atene che avevano avuto agli inizi della rivolta del 499. • Nella primavera del 478, comunque, una forza navale peloponnesiaca al comando di Pausania torna ad operare, insieme con Ateniesi e Ioni, sulla costa caria, a Cipro (di cui parte è sottratta alla Persia) e nell’area degli Stretti, dove finalmente è conquistata anche Bisanzio, dopo un lungo assedio. Il rapporto degli Ioni con gli Spartani, già in qualche modo attenuatosi per le vicende prima dette, si deteriora ormai per il comportamento duro, quasi tirannico, tenuto nei loro confronti da Pausania, che, sospetto anche di filomedismo, è richiamato in patria dalle autorità cittadine (477), mentre al converso si rafforza, anche in virtù dei vantati vincoli di sangue, il rapporto degli stessi Ioni con Atene. Il sostituto di Pausania, Dorci, non trova migliore accoglienza; sicché non gli resta che tornarsene a casa, privato di fatto di ogni autorità sulla Lega ellenica, che ormai ha rapidamente cambiato composizione e il vertice. • Più congeniale a Sparta il compito di ‘gendarme’ dei doveri nazionali greci, che essa si assume con la spedizione punitiva guidata (forse nello stesso 477) dal re Leotichida in Tessaglia; contro gli Alevadi di Larissa il re spartano non poté però cogliere significativi successi; e così, più tardi, Leotichida, accusato a Sparta d’essere stato corrotto dagli Alevadi, fu condannato e dové andare in esilio a Tegea. • In definitiva, dopo gli anni 481-477 in cui aveva esercitato un ruolo fondamentale nella storia nazionale greca, Sparta, pur forte di grande prestigio fra i Greci, rientra in una dimensione politica quasi regionale (che però è nella storia greca il dato più costante e caratteristico). • Atene invece procedeva, in una lega di cui deteneva l’egemonia, per libero e autonomo consenso degli alleati Ioni, ad un’organizzazione sistematica dei rapporti che si erano andati rapidamente annodando intorno alla città, in un processo che sembra presentare i caratteri di un fenomeno spontaneo e improvviso, ma che affonda invece le sue radici in tradizioni ben più remote nel tempo e nella stessa comunanza di vicende, saltuaria ma non casuale, tra Atene e il mondo ionico durante la rivolta dell’inizio del V secolo, con tutte le conseguenze che ne erano derivate alla città e alla Grecia intera. 8. Le città di Magna Grecia e Sicilia fino alla tirannide dei Dinomenidi a Siracusa • Il VI secolo rappresenta il periodo di massima fioritura della Magna Grecia – al quale corrispondono spinte espansionistiche, volte a modificare le delimitazioni territoriali originarie. Se la nozione di Megále Hellás ha avuto realmente corso in epoca arcaica, il periodo a cui questa denominazione più si attaglia è certamente quello in cui le città achee si impegnarono a costituire un’area unitaria e a cancellare ogni traccia di intrusione: ‘grandezza’ al tempo stesso culturale e politica, secondo una concezione arcaica che non conosce ancora l’opposizione di valutazioni materialistiche e spiritualistiche. • L’espressione (Megále Hellás) ebbe una rinnovata diffusione in epoca pitagorica, quando alla fama delle città dell’Italia meridionale, in particolare di Crotone e di Metaponto, molto contribuì la presenza, la dottrina, l’opera, l’influenza culturale e politica del Maestro (Pitagora) e dei suoi discepoli. Quando comparirà nei testi futuri, la definizione ‘Magna Grecia’ sarà solo un’espressione di nostalgia di una perduta e forse anche mitizzata grandezza: Megála Hellás diventa presso gli autori del II e I secolo a.C. una denominazione che evoca il passato, e che al passato appartiene: la celebrazione nostalgica di una grandezza che è stata e che ora non è più. Così si concluderà la storia di una regione che all’origine (nel VI-V secolo a.C.) era stata un ‘oggetto del desiderio’, e che alla fine (nel II secolo a.C.), soprattutto a seguito dell’invasione dell’Italia da parte di Annibale, e per le connesse distruzioni e rovine, era quasi completamente deleta, pur avendo ospitato una civiltà capace di grandezza, dal punto di vista culturale, materiale e anche politico. • Lo scontro tra Crotone e Sibari, che culmina nella presa e distruzione di Sibari e nell’acquisizione del territorio, si arricchisce rispetto a quei precedenti conflitti più arcaici di un motivo ideologico. A Sibari l’aristocrazia è oppressa dalla tirannide di Telys; 500 suoi rappresentanti chiedono e ottengono asilo a Crotone; ma Telys ne chiede a sua volta l’estradizione: da parte di Crotone, concederla significa acquiescenza, negarla significa la guerra. Pitagora, che è ormai da anni il grande consigliere dell’aristocrazia crotoniate ed ha promosso il riarmo morale e materiale della città (impartisce lezioni a uomini, donne, giovani; ha formato un’associazione di trecento giovani eletti), spinge e convince alla guerra. La reazione di Pitagora è certo ideologicamente motivata: il suo gruppo è evidentemente aristocratico, il che però non equivale a dire che di fosse una assoluta uniformità di vedute con l’aristocrazia proprietaria, ‘reale’, di Crotone: quella pitagorica è una aristocrazia ideologica, che mira a un regime de proprietà comunitaria (koinà tà tôn phílon, “sono in comune le cose degli amici”), che in sopraggiunta risente molto del modello spartano. Sibari viene assediata e distrutta dopo un assedio di 70 giorni. La città, con una popolazione di 300.000 persone è vinta dalla più piccola, ma moralmente e materialmente più sana, Crotone. Il grande successo e incremento territoriale ottenuto con la vittoria si ripercuote negativamente su Pitagora e i suoi: alla tesi degli estremisti, di tendenza oligarchica o popolare, della necessità di distribuire le terre strappate ai Sibariti, si contrappone la tesi pitagorica di una gestione comunitaria della terra (‘terra indivisa’). Apparentemente Pitagora aveva dalla sua parte la città: ma il sostegno non doveva essere né convinto né efficace, poiché la sede di Pitagora e dei suoi, il synhédrion, viene data alle fiamme, e Pitagora è costretto alla fuga a Metaponto, dove morirà. • Secondo Tucidide, in Sicilia i tiranni epì pleîston echóresan dynámeos, “si spensero al massimo della potenza”, espandendo i propri territori, diversamente da quello che occorreva nella madrepatria, dove i tiranni tendevano ad assicurare a sé e alla propria famiglia soltanto il dominio della propria città: le tirannidi in Sicilia invece si rivelano come la forma di governo più adatta alle prospettive di un incremento territoriale di alcune città. Così, Cleandro governa tirannica Gela per 7 anni (505-491) e poi per altri 7 anni gli succede il fratello Ippocrate (498-491), che cerca di costituire, a danno dei Greci e dei Siculi, un dominio territoriale. La sua politica, con sensibili varianti, è proseguita da Gelone, capo della cavalleria, della stirpe dei Dinomenidi – un aristocratico dunque, con esperienza e potere militare. Nelle tirannidi siceliote di V secolo i progetti espansionistici e le prospettive di ordine territoriale e militare prevalgono su eventuali scelte sociali antiaristocratiche: questo è evidente dagli sviluppi successivi e dal rapporto tutto positivo di Gelone con i proprietari terrieri. • Quando il modello espansionistico viene assunto anche dall’agrigentino Terone, in un’area molto vicina a quella del dominio cartaginese, si capisce la reazione di Cartagine: questa volta l’attivismo cartaginese in Sicilia appare già in larga misura come una risposta all’atteggiamento ormai veramente nuovo dei Greci verso il territorio. La nuova politica trovava espressione anche in alleanze che, sebbene non fondavano diverse unità statali, tuttavia costituivano nuove forme di coesione territoriale, e che rappresentavano una possibile minaccia per gli occupanti della Sicilia: così Terone diede in moglie a Gelone la figlia Damarete, mentre sposava la figlia di Polizalo, il più giovane fratello di Gelone. • Il movimento unitario dei Greci di Sicilia non poteva lasciare indifferente Cartagine: perciò quando Terillo, tiranno di Imera, cacciato da Terone, si rivolse per aiuto ai Punici, questi intervennero con un esercito di cittadini cartaginesi, di sudditi libici e di mercenari, trovando come alleati Reggio e la stessa Selinunte. L’esercito punico mosse all’assedio di Imera, controllata ormai da Terone; l’intervento di Gelone sotto le mura della città significò lo scontro, e produsse l’annientamento dei Cartaginesi, avvenuto secondo la tradizione nello stesso giorno della battaglia di Salamina (estate del 480). Ai Cartaginesi fu concessa la pace, contro il pagamento di 2000 talenti; Reggio e Selinunte dovettero obbligarsi a seguire Gelone in guerra. Questi eventi danno la misura della gradualità che Gelone, pur interessato a un’espansione territoriale, impose però a questo processo. • Morto Gelone nel 478 (due anni, dunque, dopo il trionfo di Imera, quando ormai era tiranno non solo di Gela, ma anche di Siracusa), essendo il suo figlio troppo piccolo, gli successe il fratello Ierone. Con Ierone si accentuano gli aspetti personali del potere: intorno a lui si costituisce una vera corte, a cui partecipano i più grandi poeti greci come Simonide, Pindaro, Eschilo e Senofane; la spinta espansionistica di Gelone viene ripresa, con la caratteristica gradualità ed eterogeneità delle soluzioni, a seconda dei territori in questione e della loro distanza da Siracusa. Come già Gelone, Ierone osteggia le città calcidesi (Gela era colonia rodo-cretese): assoggetta Catania, ne trasferisce gli abitanti a Leontini, mentre ne sostituisce la popolazione con nuovi cittadini, ridenominandola Etna (dopo la morte di storie di fondazioni (ktíseis) di città, cronache e schemi cronografici. In definitiva, per ciò che attiene alla vastità dell’oggetto narrato, anche Erodoto potrebbe essere considerato un logografo, proprio come sembra considerarlo Tucidide. È vero tuttavia che Erodoto si differenzia dagli altri storici pretucididei, e innazi tutto da Ecateo, per il diverso modo in cui egli si pone e risolve il problema della ricerca del materiale della narrazione: mentre i suoi predecessori paiono limitarsi a raccogliere materiale tràdito, quasi passivamente, esercitando nel migliore dei casi uno spirito critico verso questo materiale, Erodoto ne trova, ne ‘inventa’ di nuovo, attraverso un’opera di attiva ricerca, di tradizioni soprattutto orali e di curiosità da vedere e riferire svolta anche in paesi lontani, dove la sua passione per i viaggi lo portò. • Di che tipo di materiale facevano uso i ‘logografi’? Si trattava soprattutto di tradizioni orali o di testi scritti? La nascita della storiografia è certo un momento della storia della cultura scritta. Il primo verbo usato da Ecateo nelle sue Genealogie è grápho: “queste cose scrivo, come a me sembrano vere, poiché i lógoi dei Greci sono molti e risibili”; il verbo è, in certa misura, in antitesi con la parola lógoi, “dicorsi, racconti”, termine ambivalente, che indica innanzitutto i racconti orali, ma che per sé potrebbe anche indicare il contenuto narrativo di testi scritti. Ciò che noi cogliamo in primo luogo nei frammenti conservati dei ‘logografi’ è la rielaborazione di tradizioni mitiche, genealogiche, etnografiche, che in larga parte, anche se non esclusivamente, erano mediate dalla tradizione epica e poetica in genere; il pieno affermarsi della scrittura comunque appartiene solo ad epoca più tarda, cioè alla fine del V secolo a.C. • Le opere di Erodoto e di Tucidide, pur così radicalmente diverse fra di loro per il metodo storiografico e i criteri di scelta del contenuto, presentano almeno un punto in comune, cioè entrambe sono il risultato del reperimento di un materiale in larga misura nuovo, cioè non depositato precedentemente in cronache o tradizioni locali in qualche modo codificate; tramite è la tradizione orale, in Erodoto anche quella di origine e provenienza remota, in Tucidide quella più direttamente verificabile, e relativa in prevalenza a fatti contemporanei. La preferenza data da entrambi gli storici alla tradizione orale comporta nell’uno e nell’altro uno scarso gusto per il reperimento del documento, della pezza scritta d’appoggio, su cui si fonda invece per lo più il metodo storiografico moderno. Del resto, una storiografia come quella erodotea ispirata ai criteri della historíe, la ‘ricerca critica’, è programmaticamente disancorata da tradizioni locali scritte, da cronache locali, dalla documentazione d’archivio. La ‘grande storiografia’ greca, la storiografia non locale, quella che potremmo definire alla meglio come la storiografia ‘dei grandi conflitti’ (anche se questa definizione, proprio per Erodoto, va integrata e modificata), farà scuola su questo punto. La cultura greca esprimerà il gusto per il documento e per la ricerca d’archivio solo nel IV secolo, soprattutto per effetto delle ricerche svolte in ambiente peripatetico, e poi nei grandi centri di cultura ed erudizione dell’ellenismo; ma ancora Polibio, il più insigne storico di età ellenistica, criticherà un Timeo per la scissione tra interesse per l’informazione documentaria ed esperienza militare e visione diretta dei luoghi da descrivere (due momenti che nella metodologia storiografica di Polibio devono precedere lo studio dei documenti). Infatti, lo scarso interesse dei grandi storici del V secolo per la documentazione scritta è l’altra faccia della loro esigenza di esperienza diretta delle cose narrate: Erodoto, che pur tiene conto delle tradizioni orali, considera però tanto più valida la loro testimonianza quanto più fondata su un’esperienza diretta. d. Guerre Persiane e sentimento nazionale • Si parla spesso delle guerre persiane come fattore decisivo nella formazione del sentimento di unità nazionale presso i Greci; queste proposizioni sono frutto però di indebiti trasferimenti di nozioni moderne, come gli stessi avvenimenti successive della storia greca confermano: l’esplosione, poco dopo, del conflitto tra Sparta e Atene, e che coinvolse tutti i Greci; l’uso da parte di Sparta dell’aiuto persiano contro Atene nella guerra del Peloponneso; l’influenza della Persia nelle vicende greche per ancora vari decenni del IV secolo. Certo, di volta in volta alcuni Greci combatterono contro i Persiani, ma mai tutti i Greci contro i Persiani. • Vero è che le guerre persiane furono un eroico combattimento: in favore della libertà greca, che in quegli anni era minacciata da una politica persiana sempre arrogante e allora divenuta invadente. Le condizioni per la coscienza di un Hellenikón, dell’ellenicità, però, si erano date già molto prima, come somma globale della coscienza di parentele culturali: si pensi al periodo della colonizzazione e della nascita del concetto di Megále Hellás; al concepimento del Catalogo delle navi; al periodo stesso delle tirannidi (e la gara, quasi panellenica, di pretendenti alla mano di Agariste); ai giochi panellenici e all’importanze per tutti i Greci di alcuni santuari, particolarmente quello di Delfi. Sono tutti indizi dell’esistenza di una ‘coscienza ellenica’, che le guerre persiane ribadirono (e non senza eccezioni e spaccature), ma non crearono per la prima volta né in forme radicalmente nuove. [Democrazia ad Atene – dal Corso Online di Yale] • Eurymedon Battle (469): great victory on sea and land over the persians, by general Cimon • Rebellion of Thasos (465): quarrels about gold and silver mines on the mainland opposite Thasos, both Athens and Thasos claimed those mines. The Athenians had stablished a colony in that region, called Ennea Hodoi (nine roads), which would later become Amphipolis. Thasos rebelled, and the war against them took two years. At the end the Athenians took down Thasos’ walls, took control of theirs ships and mines, and required a tribute in cash to the League every year (conditions applied to subject states, like Naxos for example). This was the first time Athenians used the force of the league to achieve advantages only for themselves, i.e. they were using the power of the League for their own purposes. • After the end of the Persian Wars, which had seen Themistocles as the great leader, there is a change in the leadership of the Athenian fleet: amazingly enough Themistocles wouldn’t be the Commander of the Delian League – instead the leadership was taken over by the relatively young son of Miltiades, Cimon. Cimon was very successful on his raids in the Persian territory, as the Eurymedon Battle illustrates. In those years Cimon was very popular among the people and he becomes the dominant politician in Athens from 479 until 462.The Athenian democracy had evolved to this new situation in which the generals were the leading figures of politics; the generals had to be elected every single year, and this shows how popular Cimon had to be in order to be elected every single year for a period of time of 17 years. Cimon was filo-spartan and supported a foreign policy in which Athens and Sparta should be allies, as in the Persian Wars. Aristotle calls the political period of time in which Cimon was the leading figure ‘Areopagite Constitution’, because the council of the Areopagus regained effectively a lot of influence in Athens, although no laws had been changed. • Cimon was the leader of the expedition against Thasos. The enemies of Cimon took advantage of the the discontet the rebellion was causing to launch an attack on Cimon. The main opponent of Cimon was Ephialtes, followed by his deputy, Pericles. Ephialtes supported changes in favour of the poor people, specially because in those years the power of the fleet was based upon the poors, and he was also very anti-spartan. Pericles accused Cimon of being bribed by the king of Macedonia in order no to conquer Macedonia, which probably was a pretext, but Pericles loses and Cimon is assolved. • Probably in the year 464, a terrible earthquake hit the Peloponneso and disrupted life in Spartan territory, thereby incouraging a great helot rebellion in Messene. Sparta sent out to their allies of the Greek league a request of help. There was a great debate in Athens on whether Athens should answer to Sparta’s request, and Cimon proposed that Athens should send a very big army to help the Spartans against the helots (4000 hoplits), arguing that Athens should not abbandon their former allies. Athens sends their army, but the Spartans, after a while, ask the Athenian force to leave the Peloponneso because they didn’t need their help anymore. Athens was insulted, because none of the other allies was asked to go away. According to Thucydides, the Spartans were afraid that the Athenians would join the helots in order to take down the aristocracy of Sparta. Because of this, having supported the expedition in the first place, Cimon was ostracized in 461 a.C. • This put an end to a whole period and brought about a new devolopment towards a fuller democracy. First, the Athenians completely renounced to their former alliance with Sparta in the Greek League; then, they made an alliance with Argos, the great enemy of Sparta in the Peloponnese, and with the Tessalians. Shortly after, Ephialtes was murdered (the only murder we know of in the entire history of Athenian democracy). In the following years there would be a great change in Athenian democracy pari passu with the ascension of Pericle as the new leading figure. • The access to the political process was granted to all citizens (adult males of native parentage): the citizens had full and active participation in every decision of the State, without regard to the wealth or the class of the citizen. In the 450’s, under Pericles’ leadership, the Athenian assembly passed a series of laws that gave direct and ultimate power to the citizens in the assembly and in the popular law courts, where the people made all decisions by a simple majority vote; it provided for the selection of most public officers by allotment, for the direct election of a very special few and for short terms of office and close control over all public officials. • The Legislative: at the heart of what we would call the legislative power there was the assembly, the ekklesía: it was open to all male citizens of Athens (during Pericles’ lifetime that would have been probably 40 thousand, maybe 50 thousand citizens). Most Athenians lived very far from the city, so attendance required a very long walk to town (very few owned horses) – so the number of men that actually took part frequently on the assembly was about 6 thousand (that was the minimum quorum for some actions to take place). Each pritany had 4 fixed meetings of the ekklesía (so, something like 4 meetings a month), and further were held if it was necessary. The topics were: approval or disapproval of treaties; making declarations of war; assigning generals to campaigns; deciding which forces and resources they should command; confirming officialis or removing them from offices; deciding whether or not to hold an ostracism; questions concerning religions and inheritance; and pretty much anything that someone would like to bring up as a topic to be discussed. The citizens would debate and then make their decisions by raising their hands in • Sulla responsabilità di fondo e primaria di Atene, e della sua crescita imperialistica, nello scoppio della guerra del Peloponneso Tucidide non ha dubbi; ma questo vale appunto per le cause e responsabilità profonde e remote dell’insorgere di quel terribile conflitto che devastò la Grecia per quasi un trentennio; così come egli, però, attribuisce invece la responsabilità immediata, dell’apertura cioè della guerra, ai Peloponnesiaci: la guerra ‘del Peloponneso’ è definibile così perché l’aprirono (nel senso dell’avvio delle ostilità) i Peloponnesiaci, e perché così furono essi a “portare guerra” contro Atene e i suoi alleati. • La psicologia in Tucidide è un segno – la rappresentazione psicologica quindi un linguaggio storiografico: l’opposizione paura-coraggio, che riassume l’opposizione Sparta-Atene, è appunto una rappresentazione simbolica, che tutte le altre contiene e riassume (politiche, sociali, economiche ecc.) – dovendo dare un segno complessivo a quegli eventi e a quei comportamenti, Tucidide ricorre a rappresentazioni psicologiche, che sono da prendere come grandi metafore storiche. • Il periodo della pentecontaetía in Tucidide è tutto all’insegna di una crescita (aúxesis) della potenza di Atene. La ricostruzione delle mura cittadine è realizzata da Temistocle a dispetto delle diffidenze di Sparta e dei suoi interessati tentativi di dissuasione. Ma Atene rivendica ormai pienamente a sé la consapevolezza, perciò la tutela, dei suoi interessi, e così avvia anche la fortificazione del Pireo. Agli anni di Pericle è riservata invece la costruzione delle Lunghe Mura, dalla città al Pireo e al Falero. 2. Fondazione della Lega delio-attica (477 a.C.) • Il momento decisivo nella presa di coscienza da parte di Atene del nuovo ruolo della città all’interno del mondo greco è nell’assunzione dell’egemonia della Lega ellenica. Vi contribuiscono all’inizio fondamentalmente gli Ioni, ma non tutti a condizioni identiche: i più pagheranno un tributo in denaro (phóros), che in totale ammonta a 460 talenti annui; con navi contribuiscono città insulari (Lesbo, Chio, Samo), che hanno la funzione di sentinelle sul fianco orientale dell’impero egeo che sta nascendo. • Sede del tesoro e delle riunioni del sinedrio federale sarà Delo, l’isola tradizionalmente teatro delle grandi panegýreis (‘assemblee’) ioniche – è una località abbastanza distinta da Atene, perché la scelta non sia sentita come una mortificazione della dignità degli altri Ioni; ma abbastanza vicina e tradizionalmente in stretto rapporto con la città egemone, perché resti soddisfatta l’esigenza di Atene di esplicare il suo ruolo di città guida. • La finalità dichiarata, e di fatto a lungo perseguita sotto la spinta di Cimone, è quella della continuazione della difesa dai Persiani, e di un regolamento dei rapporti nell’Egeo soddisfacente per i Greci, cioè per la loro sicurezza e i loro interessi. La cerimonia solenne del giuramento della Lega, con il contemporaneo affondamento in mare di barre di ferro, sancisce l’impegno di questi Greci di avere sempre “gli stessi amici e gli stessi nemici”. • Su questo programma ad Atene non si vedono vere e proprie contrapposizioni; le voci discordi sembrano poche e isolate. Ne conosciamo certamente una, quella di Temistocle, ormai assai meno interessato a un conflitto con la Persia e ben più sensibile al maturare di un conflitto con Sparta; ma egli fu ostracizzato nel 471 a.C., in un momento di predominio politico di uomini come Cimone (sul piano strategico) e come Aristide (sul piano politico e diplomatico), nonché di generale prestigio dell’Areopago, cioè, una politica più incline alla conservazione, che in quegli anni per Atene significava il predominio sul mare. 3. Temistocle e Pausania il reggente • L’ostracismo porterà Temistocle dapprima nel Peloponneso, naturalmente in città ostili a Sparta, e poi in Epiro, in Macedonia e finalmente (dopo il 465, anno della morte di Serse) presso il re persiano Artaserse, che gli assegnerà dei possedimenti in Asia Minore occidentale, dove l’eroe di Salamina morirà, forse suicida, poco dopo. Non è facile determinare il motivo dell’ostracismo – nella tradizione domina, più accreditato degli altri, il motivo del medismo. • Sospetto e accusa di medismo gravano anche sull’altro grande protagonista delle guerre persiane, il reggente spartano Pausania. Rientrato con iniziativa personale a Bisanzio, Pausania ne fu sloggiato da Cimone; non potendo consolidare il suo dominio nella regione, finì col rientrare a Sparta, dove (circa gli anni 471-469) fu inquisito, e accusato di tentare con gli iloti una sovversione contro lo stato spartano e in particolare contro l’eforato. Pausania si rifugia allora nel tempo d’Atena Calcieco, dove viene tenuto chiuso, e da dove è fatto uscire solo all’avvicinarsi della morte, sopravvenuta per inedia. • Il destino politico e umano di Temistocle e di Pausania conserva parecchi aspetti oscuri; forse l’unico dato veramente evidente è l’isolamento di ciascuno dei due personaggi nelle rispettive póleis: una città di democrazia areopagitica, quale è tra il 478 e il 461 Atene, rifiuta l’innovatore Temistocle, che non si adatta ai vincoli che la pólis costituisce e impone come comunità; altrettanto vale e si verifica, in una forma più marcata e traumatica, nei confronti di Pausania in una città come Sparta, ormai sotto il forte controllo degli efori, di una magistratura cioè che, dall’eforato di Chilone e poi dal regno di Cleomene I, ha rafforzato il suo potere sia verso i re sia verso la stessa apélla e il corpo civico spartano in generale. Custode delle leggi l’Areopago ad Atene, custodi della costituzione a Sparta gli efori: è contro questo più marcato spirito della pólis che si vanno a scontrare le impazienze e le imprudenze dei vincitori di Salamina e di Platea. 4. Democrazia nel Peloponneso • Molto incerti sono i fondamenti delle affermazioni riguardo all’impegno esplicato da Temistocle nell’alimentare, diffondere e sostenere il cosiddetto ‘moto democratico’ nel Peloponneso, cioè le trasformazioni politiche che nella prima metà del V secolo si possono ammettere in città del Peloponneso diverse da Sparta e magari ad essa ostili: ad Argo, in Elide, in Arcadia. • Appare invero molto difficile parlare di una pura e semplice esportazione del regime democratico da Atene in altri Stati. Nello stesso àmbito della lega navale il processo non sembra essere stato né così precoce né così automatico (come dimostrano i casi di Mileto e di Samo). In alcuni casi poi, come quello dell’Arcadia, non siamo neanche in grado di affermare che nel V secoli vi fosse una forma politica democratica generalizzata (Mantinea sembra rappresentare un caso di democrazia, comunque moderata, ma solo nel 421 a.C.) • Ad Argo ed Elide, non è facile dare la preminenza all’importazione di un modello, rispetto allo sviluppo, in larga misura autonomo, di condizioni interne. Ad Argo dopo la sconfitta di Sepeia del 494 ad opera degli Spartani si instaura provvisoriamente un governo di servi, e i perieci sono ammessi nella cittadinanza – si ha quindi un’evoluzione verso forme democratiche che si realizza attraverso un assorbimento nelle strutture politiche di quella popolazione rurale, che invece a Sparta permane stabile nella forma e condizione dell’ilotia. Naturalmente a questi sviluppi democratici di Argo si accompagna l’attenzione, la benevolenza e la simpatia di Atene, che sboccherà nel trattato di alleanza del 462 circa. La stessa letteratura ateniese sembra registrare l’evoluzione politica argiva: nelle Supplici di Eschilo (463-461?), che contengono una precoce attestazione della parola demokratía (anche se in forma di perifrasi), è rappresentata un’assemblea di cittadini ad Argo, presieduta dal re Pelasgo, che decide, all’unanimità, e con alzata di mano (la “dominante mano del popolo”, démou kratoûsa cheír), di concedere asilo alle Danaidi in fuga – Eschilo, mentre fa spazio a una procedura tipica della sua città, allude accortamente al regime al suo tempo vigente ad Argo: forma democratica, con un vertice monarchico privo di particolari poteri. • In Elide gli sviluppi verso la forma democratica, che si compiono nel V secolo, sono il risultato storico, certo anch’esso probabilmente favorito dall’affermazione della democrazia ad Atene, della condizione e organizzazione del territorio: una campagna libera popolata da centri dotati di forte autonomia, che insieme producono e promuovono un centro urbano, sede delle decisioni politiche (Elide). 5. Cimone o il lealismo dei conservatori • Ad Atene è il momento dell’ascesa di Cimone, il figlio di Milziade – Cimone è infatti il generale delle prime operazioni della Lega navale. L’azione militare della Lega comincia nell’area egea settentrionale, liberando dalla residua presenza persiana Eione (476); non è certo invece se egli sia il generale che asservì l’alleata Nasso (contro tutte le regole vigenti) circa il 471 a.C. L’asservimento di Nasso rappresenta, nel resoconto di Tucidide della pentecontaetía, un salto di qualità, in senso deteriore, nel rapporto fra gli Ateniesi e gli alleati, questi ultimi sempre più in balia degli umori della città egemone, a sua volta sempre più addestrata ed egemone sul piano militare. • L’acme della carriera di Cimone è senza dubbio nella battaglia dell’Eurimedonte del 470/69: una duplice battaglia, navale e terrestre, che ha visto battuti i persiani, indeboliti ancora di più nella loro influenza in Asia minore. L’acclamazione degli strateghi, incluso Cimone, a giudici delle Dionisie del 468 (il concorso che diede la vittoria a Sofocle contro il vecchio Eschilo), in seguito a una non prevista rissa fra spettatori nel teatro, attesta l’alto prestigio di Cimone in quegli anni. • Ben noto anche il ruolo di Cimone nella spedizione ateniese contro Taso, un’isola prospiciente le coste della Tracia e l’area mineraria del Pangeo: qui Taso possedeva e sfruttava miniere d’oro e aveva allestito degli emporii. Nel 465 Taso defezione dalla Lega, e da quell’anno al 463 si svolge il lungo assedio dell’isola, di cui con fatica si doma la ribellione. La miniera e i possessi del continente passano nelle mani degli Ateniesi, che nel frattempo (465) avevano anche tentato di colonizzare Ennéa Hodoí sul sito della futura Anfipoli. La guerra di Taso rappresenta, in maniera e con dimensioni ancor più evidenti dell’episodio di Nasso, un salto di qualità nella politica ateniese verso gli alleati: è chiaro che ormai Atene interferisce nello stesso assetto economico delle città alleate. • In questo periodo però esiste già un’opposizione ad Atene nei confronti di Cimone. I gruppi radicali democratici ormai emergenti, capeggiati da Efialte e Pericle, intentarono un processo contro Cimone, che fu addirittura vinto, benché rimasto senza seguito di condanna: Cimone fu denunciato per il sospetto che fosse stato corrotto da Alessandro I il Macedone, al fine di evitare una spedizione ateniese, che avrebbe dovuto punire Alessandro per aver aizzato i Tasii alla ribellione e mostrato un troppo vivo interesse a quell’area mineraria del Pangeo a cui ora rivolgeva le sue mire Atene. • Ma Cimone doveva ancora commettere il suo maggiore errore politico: nel 462, Cimone impegnò Atene in una misura imprudentemente eccessiva al fianco degli Spartani, che • Pericle nasce da Santippo, il vincitore della battaglia di Micale del 478, e da Agariste, figlia di un fratello del legislatore Clistene – per parte di madre, dunque, la discendenza dal ghénos più illustre ad Atene nel VI secolo, gli Alcmeonidi: alle spalle una tradizione che sembra incarnare l’intera storia sociale di Atene. Apparso sulla scena politica come accusatore di Cimone circa il 463 a.C., Pericle avrà avuto allora intorno ai 30 anni. Prima di ciò, sappiamo che è stato corego della rappresentazione dei Persiani di Eschilo (472 a.C.), e allora avrà avuto almeno 20 anni – Pericle si segnalava in questa prima uscita pubblica come corego legando la sua persona alla celebrazione di un tema largamente sentito, quello della guerra contro i Persiani, e destinato ad ispirare, almeno fino agli anni ’60, la politica estera della corrente radicale non meno di quella dei conservatori. • Quando Cimone, dopo la resa di Taso agli Ateniesi (463 a.C.), mancò di trasferire la guerra sul continente contro Alessandro I di Macedonia e di assicurare ad Atene un più esteso dominio nel distretto aurifero del Pangeo, Pericle gli intentò un processo – l’accusa rimase, ma il tono di Pericle fu nei fatti estremamente moderato e Cimone fu assolto. Il successivo e definitivo colpo non tardò a venire, dopo lo smacco inferto dagli Spartani al contingente ateniese durante la III Guerra Messenica – la gradualità e razionalità dell’agire politico di Pericle non significano affatto assenza di asprezza nel confronto politico: al contrario, se è vero che la democrazia ateniese in generale non presenta aspetti di violenza fisica, appare tuttavia come la ribalta storica su cui si sperimenta ogni altra forma di durezza; e nel momento in cui s’introduce nella scena politica la contrapposizione frontale si avverte con lucidità la presenza dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica è un personaggio in qualche modo nuovo della storia, nella misura in cui essa ha trovato canali istituzionali (dall’assemblea al teatro ai vari contesti politici e militari) in cui esprimersi; e di questo ‘nuovo personaggio’ l’ambiente pericleo certamente tiene conto. • Pericle sposò una donna già imparentata con lui, da cui ebbe due figli, che morirono durante la stessa epidemia di peste in cui trovò la morte il padre. Intorno al 450 Pericle deve aver iniziato la sua relazione con Aspasia, l’etera di Mileto, da cui ebbe un figlio, di consueto indicato come Pericle il giovane, che sarà fra gli strateghi condannati a morte e giustiziati a seguito del ‘processo delle Arginuse’ nel 406. 10. Pericle e la politica estera degli anni Cinquanta • Secondo Plutarco, il dominio politico di Pericle durò circa quarant’anni, il quale distingue tuttavia tra due fasi diverse: una prima, nella quale Pericle primeggiò fra gli Efialti, i Leocrati, i Mironidi, i Cimoni, i Tolmidi e i Tucididi, e una seconda, successiva all’abbattimento della posizione e all’ostracismo di Tucidide (il figlio di Melesia, genero di Cimone, nuovo capo dei conservatori) nel 444/3, in cui egli tenne la strategia per non meno di quindici anni consecutivi. Prima di quella data Pericle svolse certamente un ruolo politico di prim’ordine; è tuttavia probabile che si debba distinguere fra il rilievo avuto da Pericle in politica estera, da un lato, e il suo contributo nella politica interna, per il profilo sociale della democrazia, dall’altro: in quest’ultimo campo le innovazioni portano la cifra di Pericle più delle iniziative di politica estera. • La fase più dinamica e aggressiva dell’imperialismo ateniese riflette l’opera, e forse anche l’iniziativa, di personaggi come quelli sopra ricordati: Leocrate, generale nella guerra condotta nel golfo Saronico contro Egina (459-457); Mironide, vincitore della battaglia di Enofita, nel 457, contro gli Spartani; Tolmide, protagonista del vittorioso periplo attorno al Peloponneso, concretatosi in numerose incursioni nel 455. Cimone, fino all’ostracismo del 461, aveva contribuito al rafforzamento dell’impero navale non meno dei suoi avversari politici (in Tracia, Eurimedonte e Taso in particolare); questo dimostra che, sul terreno della politica estera, almeno sotto il profilo del rafforzamento dell’impero, non ci fossero veri dissensi nel gruppo dirigente ateniese, per tutti gli anni Sessanta, o almeno per gran parte di essi. • Le iniziative ateniesi di politica estera in qualche modo ricollegabili con gli esordi di Pericle sono da riconoscere nelle alleanze strette con Argo, i Tessali, Megara, dopo lo smacco inferto agli Ateniesi dagli Spartani, col rinvio del contingente attico, nel corso della guerra “del terremoto” (III guerra messenica). Nell’alleanza con Argo si intravede anche una motivazione ideologica: Argo aveva trasformato il suo regime in democratico; assai meno coerente invece l’alleanza con le aristocrazie tessaliche e con la dorica Megara, che si riveleranno poi inconsistenti (i cavalieri tessali tradiscono Atene sul campo di Tanagra nello scontro tra Ateniesi e Spartani del 457; nel 446 Megara compie una definitiva ribellione ad Atene). • Tra il 460 e il 454 si ha la famigerata spedizione in Egitto, cui di solito si attribuisce una finalità economica – la conquista di un paese produttore di grano. Tuttavia, in questo caso, la dinamica del conflitto sembra diversa: Inaro, principe dei Libii ai confini con l’Egitto, invita a intervenire in Egitto gli Ateniesi, che si accingevano ad attaccare Cipro con 200 navi – in primo luogo, dunque, la spedizione d’Egitto fu determinata da un’occasione presentatasi in un contesto diverso: l’attacco a Cipro rientrava nel quadro di una liberazione del Mediterraneo dai Persiani, e la rivolta dell’Egitto offriva innanzi tutto l’occasione per completare l’opera. Nella rappresentazione tucididea la spedizione in Egitto fu una megále strateía, un’espressione di megalomania (di stampo non molto diverso da quello impresso sulla spedizione siciliana degli anni 415/413). • Per qualche tempo gli Ateniesi occupano la zona del Delta e Menfi; i Persiani nel frattempo inviano, inutilmente, Megabazo con denaro a Sparta, perché intervenga in Attica, e quindi spediscono il generale Megabizo in Egitto, dove gli Ateniesi restano ormai bloccati d’assedio nell’isola Prosopitide. Per un anno e mezzo gli Ateniesi resistono all’assedio; poi i Persiani prosciugano le acque intorno all’isola – la guerra navale si trasforma in una guerra terrestre; seguono ormai la cattura della flotta ateniese e la fuga degli Ateniesi verso Cirene, dove giungono solo in pochi. Intanto una nuova flotta ateniese di 50 navi, sopravvenuta in piena disinformazione del disastro toccato ala prima spedizione, subisca la stessa sorte. • Il duro colpo inferto ad Atene in Egitto viene indicato da Plutarco come la causa del trasferimento del tesoro della Lega da Delo ad Atene: il motivo addotto fu quello di una minaccia persiana. Che si trattasse in parte di un pretesto, è possibile, o comunque di un’occasione colta; si sbaglierebbe tuttavia chi non ritenesse che i Persiani potessero davvero rappresentare una minaccia e che il timore dei Persiani fosse una mera finzione – una concreta minaccia persiana insomma non ci fu, ma il timore di essa ci poteva essere e non era del tutto ingiustificato. • Accanto alla megále strateía, Atene combatté altre importanti guerre nella penisola. Il conflitto in questi anni è in primo luogo con Corinto, che si sente provocata dall’alleanza tra Megara e Atene, e presenta un succedersi di alterne vittorie. Poi ha inizio il conflitto con Egina, che cederà dopo tre anni di guerra, nel 456. È l’inizio di quella che i manuali spesso indicano come prima guerra del Peloponneso; l’espressione però è impropria e fuorviante, rispetto al vero significato della guerra del Peloponneso per eccellenza, l’unica guerra nota con questa definizione alla tradizione antica. Il significato di quel complemento di specificazione (“del Peloponneso”) è che si trattò della guerra portata dai Peloponnesiaci contro Atene: quel genitivo è un genitivo soggettivo, diversamente per esempio dal genitivo oggettivo di “Guerra di Troia” (una guerra cioè che ebbe Troia come oggetto e teatro degli scontri. Parlare di una prima guerra del Peloponneso per una serie di conflitti tra Atene e Sparta (459-446), che per la massima parte ebbero come teatro il Peloponneso, significa pregiudicare, e in senso improprio, il significato autentico dell’espressione Peloponnesiakós pólemos (definizione per la guerra scoppiata nel 431 a.C. che trae origine dall’impostazione di Tucidide, per il quale, a parte il complesso problema delle responsabilità ultime, non sussiste dubbio sul fatto che ad aprire le ostilità nell’immediato fu la Lega peloponnesiaca capeggiata da Sparta – la guerra del Peloponneso è insomma per lui una guerra che viene portata dal Peloponneso contro l’Attica). • Progressivamente (e in contemporanea con la spedizione d’Egitto e il suo stallo) la guerra navale di Atene si estende nella penisola: fino al 456 essa si esplica nel golfo Saronico, tra Attica e Argolide; nel 455 Tolmide effettua incursioni contro Gizio, l’arsenale di Sparta, contro Metone, sulla costa messenica occidentale, in Acaia e Corinzia – un vero periplo, che aggira il Peloponneso in senso orario. • Anche sulla terraferma il conflitto tra Atene e i Peloponnesiaci presenta momenti di scontro territorialmente coerenti fra loro. L’inclusione di Megara nell’alleanza di Atene favorisce anche il controllo ateniese sui due porti della città confinante col territorio attico – Nisea sul golfo Saronico, e Page sul golfo Corinzio: una presenza navale ateniese a nord dell’Istmo che spiega la dinamica della spedizione di Pericle nel 454/3 – ecco, tra l’altro, un anno di strategia di Pericle estraneo al quindicennio di strategie continuative (443-429) – e non è, dal punto di vista militare, un trionfo, risolvendosi alcune battaglie in un nulla di fatto. • Un intervento spartano in favore dei Dori della Metropoli contro i Focesi, nel 458/7, blocca tentativi di espansione della presenza politica di Atene nella Grecia centrale. Ad Atene, per la prima volta (e anche l’ultima, prima del 411) si ha un complotto contro la democrazia: c’è chi vuole fermare la costruzione delle Lunghe Mura, che uniscono la città al Pireo, e il connesso processo di sviluppo di una democrazia a base navale fondata sul sostegno delle masse marinare – ma i conservatori, all’interno della democrazia, restano leali. Nel frattempo, gli Spartani rischiano di restare bloccati nella Grecia centrale, per effetto della nuova situazione determinata dall’alleanza di Sparta con Megara – per gli Spartani non sembra vi sia via di scampo né per terra né per mare. Tuttavia, con la vittoria conseguita a Tanagra (457), gli Spartani si mettono in condizione di forzare il blocco ateniese e rientrare nel Peloponneso. • Poco dopo gli Ateniesi, al comando di Mironide, si prendono una rivincita ad Enofita, sui Beoti, alleati degli Spartani. Alla vittoria consegue un periodo di forte ingerenza ateniese negli affari della Beozia (ingerenza, beninteso, non dominio diretto): viene sciolta la Lega beotica e si procede a una correzione di confini tra Beozia ed Attica; la situazione durerà così all’incirca fino al rovescio subito dagli Ateniesi a Coronea nel 447. • Insomma, gli anni Cinquanta presentano marcati caratteri di espansionismo esasperato da parte di Atene, con imprese dirette anche verso regioni lontane dall’Attica, come l’Egitto e la Sicilia, due sogni grandiosi, che danno la misura di una ricerca del ‘grande’, nello spazio come nella mole dell’impresa, in piena corrispondenza con quel clima di esaltazione della democrazia ateniese, che si avverte nella politica come nella psicologia di massa – nonostante lo scossone risultante dalla sconfitta in Egitto del 454, i piani grandiosi non vengono ancora meno, come dimostra l’impresa di Cimone contro Cipro: sulla politica Priene tra Mileto e l’isola di Samo (due membri della Lega); Mileto chiede aiuto ad Atene, e Pericle interviene con una flotta di 40 triremi, s’impadronisce di Samo e vi instaura una democrazia (estate 441). L’anno successivo (marzo 440) una rivolta riporta al potere gli oligarchici, sostenuti da Bisanzio e dal satrapo di Sardi – Pericle interviene ancora, con 60 triremi, presto raddoppiate di numero: l’isola resiste a lungo, aspettando in aiuti provenienti da Sparta e dalla Persia, che non arrivano; nel 439, al nono mese d’assedio, Samo si arrende: l’isola perde l’autonomia e il dominio su Amorgo; la flotta è consegnata ad Atene e i capi della ribellione esiliati; le mura sono abbattute e Samo deve pagare le spese di guerra. Incerto se Pericle abbia nuovamente instaurato una democrazia nell’isola, la discussione rimane aperta. Certamente, dunque, un salto di qualità: più in quell’area determinata, lontana dall’Attica, che non della politica ateniese in generale. 14. L’opposizione a Pericle alla vigilia della guerra del Peloponneso • Il sistema fondato da Pericle portava in sé i suoi rischi e le sue contraddizioni, anche se è di ogni vera democrazia il saper correre il rischio delle proprie contraddizioni. La parabola politica percorsa da Pericle è quella di un leader democratico in grado di controllare il dêmos, in quel rapporto bilanciato dei pubblico e privato: contiene il rischio di un declino del favore popolare, quando, come è nel 430, Pericle chiede al popolo ateniese vistosi sacrifici in guerra, senza evidenti vantaggi o sbocchi positivi. • Ma già prima della guerra del Peloponneso Pericle conosce un’opposizione di cui si citano tradizionalmente almeno tre episodi, cioè tre processi intentati contro persone della cerchia di Pericle (Anassagora, Aspasia, Fidia), e contro Pericle stesso – strumentalizzazioni in qualche modo, ad opera di oppositori di parte conservatrice, degli atteggiamenti tradizionalistici della grande massa. • 1) In questo potrebbe risiedere la genesi delle accuse di empietà (asébeia) rivolte ad Anassagora, il filosofo di Clazomene, teorico del noûs come principio universale, amico e maestro di Pericle e degno rappresentante di quell’impulso razionalistico che il secolo della democrazia conosce. A muovere le accuse fu un chresmológos, un raccoglitore e interprete di oracoli, degno rappresentante di una religiosità popolare delle più tradizionaliste e retrive, Diopite. Le accuse sono assai simili a quelle che circa il 400 a.C. saranno mosse a Socrate. Anassagora si sottrasse alla condanna abbandonando Atene e ritirandosi a Lampsaco. A lui, nativo di una città dell’impero (Clazomene), Atene aveva aperto le porte, in quel clima di larga circolazione di uomini e di idee, che l’impero ateniese aveva creato. • 2) Empietà e mezzaneria furono le accuse rivolte alla compagna di Pericle, Aspasia: solo con un’accorta mozione degli affetti Pericle poté salvarla. 3) Allo scultore del Partenone, Fidia, fu mossa l’accusa di essersi appropriato di oro e avorio destinati alla statua della dea Atena: e Fidia morì in carcere ad Atene, prima della condanna. Il meteco Menone, autore dell’accusa, ottenne per decreto popolare l’esenzione dalle imposte. • Se in tutte queste circostanze il popolo operò, o fu sollecitato ad operare, contro Pericle, non si può affermare che lo facesse per punire un demagogo: le accuse mosse agli amici di Pericle sono infatti di quelle che una democrazia, intesa e spinta fino in fondo, può comportare; e se dietro le accuse ci sono gruppi conservatori (questi erano gli anni 433-432, immediatamente successivi al rientro di Tucidide di Melesia dall’ostracismo), si può solo dire che quei gruppi portano alle estreme conseguenze, e proprio contro Pericle, le possibilità offerte dalla democrazia stessa: è un’opposizione per linee interne; ed era il rischio congenito al sistema obiettivamente democratico da Pericle promosso. Se dunque la parte popolare crea dei problemi a Pericle, paradossalmente ciò accade non per un’opposizione ideologica, ma semmai proprio in virtù di un’affinità coerente fino in fondo. E dello stesso stampo sono le accuse rivolte a Pericle di malversazione di fondi. Se, d’altra parte, Pericle avesse subìto una vera opposizione popolare, nel segno di una contrapposizione ideologica, e questa si fosse sommata con l’opposizione conservatrice, egli non avrebbe continuato ad essere eletto annualmente stratego, come fu invece anche dopo il ritorno dall’ostracismo di Tucidide di Melesia (433/2). Il primo vero conflitto col popolo si produrrà solo nel 430, quando i ‘sacrifici’ della guerra faranno individuare (e neanche del tutto a torto) un capro espiatorio in Pericle, che viene deposto dalla strategia, per essere però subito rieletto stratego nel corso del 430/429. La peste lo stroncò nell’esercizio di una ormai pluriennale funzione. 15. Crisi e trasformazioni politiche nell’Occidente greco • Gli aspetti salienti del periodo post-tirannico in Sicilia sono la restaurazione democratica, di cui parla Diodoro, e che è da intendere alla luce di un’accezione un po’ sbiadita di demokratía, come ‘forma repubblicana’, regime politico non soggetto a un monarca o a un tiranno, più che forma di regime popolare da paragonare a quello ateniese contemporaneo; e la questione dei mercenari, che in questa fase sono ancora mercenari greci, di Sicilia o del Peloponneso. • I mercenari sono espulsi da Gela, Agrigento e Imera, ma si insediano, rispettivamente, ad Omphake e Kakyron, Minoa, e quelli di Imera si coinvolgono nelle vicende di Messina. Messina aveva condiviso fino al 461/0 le sorti di Reggio, dove dopo la morte di Anassila un parente del tiranno, Micito, aveva assunto la tutela dei figli minorenni dello scomparso. Micito accentuò la politica di dinamismo espansionistico che aveva caratterizzato la tirannide di Anassila, colonizzando Pissunte e aiutando i Tarentini contro gli Iapigi, condividendone però una terribile sconfitta ad opera dei barbari. • Per i Tarentini il disastro militare fu, come spesso accade, l’occasione per la ricerca delle responsabilità e per una decisa trasformazione politica. A Reggio ne seguirono l’esilio di Micito e l’avvento al potere del tiranno Leofrone nonché la ribellione di Reggio e Messina, che recuperavano la loro libertà (461/0). È a questo punto che a Messina intervengono i mercenari espulsi da Imera, che si impadroniscono della città. Nel frattempo, Imera, aiutata da Gela, da un lato, e dall’altro Agrigento, che, con l’aiuto di Siracusa, riesce almeno a cacciare da Minoa i mercenari là rifugiati. Una pace generale consentì finalmente ai mercenari di andarsene a casa; gli esuli furono richiamati nelle città, le terre furono restituite o redistribuite. • Con la fine degli anni Sessanta possono dirsi in generale conclusi i sussulti politici interni alle città di Sicilia. Si riacutizza invece la questione sicula, che di fatto non era mai scomparsa come realtà demografica, sociale, militare e in larga misura anche culturale. Ducezio, capo dei siculi, nativo di Menai, riunì in una sola confederazione tutte le città sicule (tranne Ibla); raccolse un esercito notevole; trasferì Menai dalle alture in pianura; interviene contro la fondazione di Ierone (Etna-Catania) – ormai Ducezio, che aveva cominciato a inserirsi abilmente nel contenzioso creatosi fra i Greci stessi, poteva concepire un programma sistematico e organico di conquista delle località interne della Sicilia: battuti gli Agrigentini e i Siracusani in campo aperto, Ducezio si impadronì infatti per qualche tempo del Motyon, una fortezza in territorio agrigentino (451?); l’anno successivo, sconfitto dai Siracusani a Nomai, abbandonato dai suoi, il capo siculo si rifugiò come supplice presso gli altari dell’agorá di Siracusa: la sua sorte fu decisa dalla parte più benevola della cittadinanza siracusana, che lo relegò a Corinto (dei rapporti tra Siculi e Siracusani, che fanno dei Siculi una realtà rispettabile con cui un Siracusano può trattare, ci sono testimonianze in Diodoro). • Ormai Siracusa si riprendeva Morgantina, Inessa e Menai; qualche anno dopo scoppia il conflitto tra Siracusa ed Agrigento, con una vittoria di Siracusa al fiume Imera. Molti aspetti della vicenda di Ducezio dimostrano che l’opposizione tra Siracusa e Siculi non era radicale; e certamente i Siculi dovevano essere alquanto permeati di cultura greca e soprattutto capaci di intessere un rapporto che è in parte di subordinazione, in parte però di collusione e comunque di non totale assoggettamento – Siracusa ormai poteva contare su una notevole estensione della sua influenza sull’area sicula. Ducezio tornerà da Corinto in Sicilia qualche anno dopo per forza di un oracolo, ma sarà stroncato da una malattia poco dopo l’arrivo. Con la fine di Ducezio la volontà di resistenza politica dei Siculi si affievolisce, ma sarebbe errato credere che sia scomparsa del tutto. I Siculi diventeranno ormai oggetto di protettorati esterni; e alcune delle linee politiche seguite dai tiranni e dalla successiva democrazia saranno ricalcate e sviluppate da un tiranno, come Dionisio I, più crudamente coerente nel progetto di creazione di un dominio territoriale continuo ed esteso. Ma significativo della vocazione politica e dell’acculturazione al mondo greco che le borgate sicule rivelano è il fatto che nel trattato tra Dionisio e i Cartaginesi del 405 ai Siculi sia garantita l’autonomia, non meno che alle città greche di Leontini e di Messina. Note integrative a. Teatro tragico e storia politica fino a Sofocle • Nel dramma, tipica espressione della cultura attica, si è cercato di ritrovare l’eco degli eventi politici o perfino la traccia di un qualche tentativo di influenzarli – la ricerca è del tutto legittima, in espressioni letterarie così immediatamente correlate alla città come pubblico. È stato giustamente osservato che l’identificazione del referente politico è più facile nella commedia che nella tragedia – del resto, per sua natura, il comico è convenzionale, cioè è convenzione di un gruppo che riconosce qualcosa come abnorme e ridicolo. • Fanno naturalmente eccezione tragedie che già nel titolo e nell’argomento-base rinviano a fatti di ordine politico. Così il tragico Frinico destina alla Pressa di Mileto dopo la battaglia di Lade una tragedia, che gli Ateniesi colpirono con un’ammenda, poiché rammentava loro una grave sciagura; e nel 476 alla sconfitta navale persiana di Salamina destinava un’altra tragedia, le Fenicie, fatte rappresentare con la coregia di Temistocle. I drammi di argomento storico di Frinico cadono nel clima di quella prima democrazia, preefialtea, che vede la gran massa degli Ateniesi unita su due temi dell’opposizione alla Persia e dell’opposizione ai tiranni. • Alla luce di questo consenso di fondo su alcuni grandi temi si può tentare di affrontare anche i problemi del significato politico delle tragedie di Eschilo (524-455). Nei Persiani (472) il grande evento di Salamina è rappresentato con un sentimento misto di orgoglio per la vittoria nazionale e di pietà per i vinti; nei Sette contro Tebe Eschilo sembra elogiare Aristide in un implicito paragone con il giusto Anfiarao; le Supplici si spingono avanti nella celebrazione sia delle procedure democratiche sia della nuova intesa con Argo, di spirito antispartano; il problema storico-politico del ruolo dell’Areopago dopo la riforma di Efialte compare nella trilogia Orestea, in cui Eschilo sembra voler esaltare la tremenda dignità del residuo ruolo dell’Areopago di tribunale giudicante i casi di omicidio volontario. L’arco di intenda solo un uso munifico della ricchezza (come l’esercizio di una liturgia, o una distribuzione di denaro, ecc.), ma anche (e soprattutto) un uso del denaro volto a stimolare attività produttive. Affiora qui dunque l’ideologia dell’investimento, pur nel senso limitato di attività produttive, ponendosi in esplicito contrasto con l’ideologia del bene di prestigio, connaturata a ogni mentalità tesaurizzatrice. A questa etica attivistica Atene non arriva di colpo; la tradizione dello stimolo alle attività artigianali risale a Solone e a Pisistrato. [Appunti Guerra del Peloponneso – Corso Yale] • The Origins of the War: The whole first book of Thucydides is about the causes and responsabilities of the Peloponnesian War. Thucydides concludes that the “truest explanation, although it has been the least often advanced, I believe to have been the growth of the Athenians to greatness, which brought fear to the Lacedaemonians, and forced them to war ”. The War became inevitable at a certain point, when the Athenian Empire reached such a point as to allarm the Spartans enough to start a war. Thucydides doesn’t believe that an explanation that considers only the immediate events of 431 are enough: he goes back up to the years following the end of the Persian Wars in order to give a whole picture of the situation between Sparta and Athens before the outbreak of the war: he emphasizes the role of the Delian League, which was to become the Athenian Empire in the following years, and the increasing distrust between Sparta and Athen, which turned in a great division of the Greek world itself. • Lead up to the War - Corcira: the crisis that eventually will lead to the Peloponnesian War begins in Epidamnus, a very distant town from any other important greek city on the west shore of the peninsula; Epidamnus had been founded by Corcira, an island not very far from there to the south, next to the Epiro’s coast. Corcira itself though was a colony of Korinth – a very unusual one: there had been many wars in the past between Corcira and Korinth, despite their metropolis-colony status. Some time around 436 a civil war breaks out in the city of Epidamnus, caused by a dispute for power between oligarchs and democrats: the democrats manage to expell the oligarchs; those, then, besiege the town with the help of the barbarians that live nearby; the democrats in Epidamnus decide to ask for help and send messenger to Corcira – Corcira, though, doesn’t help. The democrats then turned to Korinth for help: Korinth decides to send help to the besieged Epidamnians, by sea and land. There does not seem to be any tangible economic benefits for Korinth engaging in this battle – Epidamnus after all was an irrelevant town far from any greek center or any sea route: the best explanation, therefore seems to be that of Thucydides, whosays the cause of the engagement of Korinth in these events is the hatred that existed between the two cities, Korinth and Corcira. The Corcirians then decide to intervein in the ribellion, supporting the oligarchs, and finally manage to take control of Epidamnus, beating the first Korinth troops. Corcira sure feels dishonored by the possible takeover of their former colony by Korinth; but they also feel fear, not only because Korinth is a great naval power, but also because it is one of the most important allies of Sparta – Corcira fears then that the Peloponnesian League could get involved in the dispute. As Korinth in the next years intensifies the sending of forces to the region, aided by Peloponnesian fleets, Corcira decides to turn to Athens for help, in 433.Athens couldn’t allow a change in the balance of naval power, something that would surely happen if Korinth succeeded in taking over Corcira’s fleet. Athens however, in order to “respect” the 30-years Peace, had to invent a new status for this alliance, which wasn’t the typical symmachía, but was called epimachía – an only-defensive alliance: Athens would help Corcira only if Korinth took the initiative to attack them. The Athenians send a fleet of only 10 triremes – which was really more than anything else a diplomatic message; afterwards they would send other 20 (anyhow, that was still a small number considering the dimensios of the Athenian fleet). The Korinthians do attack Corcira’s ships, and thereby the Athenians have to get involved in the fight: the Korinthians dominate the battle at the beginning, but when the other (20) Athenian ships appear in the horizon, they panic and withdraw from battle. The battle ends and things are left up in the air – surely, though, the hatred of Korinth towards Athens grew stronger. • Lead up to the War - Potidaea: shortly after, in 433/432, fearing that Potidaea (a Korinthian colony, very connected to the mother city) would rebell against the Athenian domain in the region, sent a fleet to stop by at Potidaea, and to take down the defensive walls of the city. When the fleet arrived, Potidaea was already in ribellion; the Athenian fleet blocked the city and started a siege against the city; the Korinthians sent some hoplits to Potidaea to help with the defense, in an unofficialy way (they were ‘volunteers’) – that is because, according to the 30-years Peace treaty, Athens had all the right to supress rebellions in its own empire. • Lead up to the War – Megarian decree: in the same year, Athens passed a decree in the assembly that forbad the Megarians from using the harbour of Piraeus and using the agorá of Athens, or any of the ports of the empire – that is, an embargo. That was a fatal move against a city which depended almost entirely on commerce by sea, and it was clearly a signal to all the other allies of Sparta that Athens could harm them without even engaging in open war. • The imminence of War: the Korinthians in reaction to all these events (Corcira, Potidaea, Megarian decree) pressed the Spartans to take action and call a meeting of the Peloponnesian League. The Korinthians were asking of course for a breach of the 30-years Peace; the Assembly voted and decided that the Athenians had broken the treaty and, therefore, the Peloponnesian League should go to war against them (july 432). The Spartans though don’t go marching into the Athenians until probably march 431. Missions were sent to Athens: the first one demanded that Athens should get rid of the ‘course’ of the Alcmeonidae – that is, Pericles; the Athenians of course refuse to do so. Then, a second mission is sent, asking Athens to withdraw their troops from Potidaea, to leave Agina autonomous and to withdraw the Megarian decree; the Athenians refuse again, and the course of War was clearly set. There was a last mission, which asked Athens to “free the Greek”, that is, to renounce to its Empire in the Egean sea – of course Athens refused again. • The start of the War: the first move of the War though was anattack of Thebes against Platea (an ally of Athens close to the border with Attic), a very strategical region if one is considering to invade Attica; shortly after, the Spartans joined the attack and proceeded with the invasion of Attica itself. Athens was confident that even if the Spartans invaded Attica, the Athenians would be able to live off behind the walls they had built, which protected their two harbours and Athens itself – even though the farms of the north would be burnt by the Peloponnesians, Athens would be able to survive counting on the grain and the money that would still arrive bye sea from the Delian League. • The Historian of the Peloponnesian War – Thucydides: Thucydides was an Athenian aristocrat, born maybe in 460 – he was not yet 30 when the great war broke out: a war that would last 27 years and would see Greece shattered, improverished, and permanently weakened – never again would be the Greeks master of their fates. Why should we still study such an ancient war today? The answer can be found in the definition Thucydides gave to his own task: “It may well be that my history will seem less easy to read because of the absence in it of a romantic element; it will be enough for me however if these words of mine are judged useful for those who want to understand clearly the events that happened in the past and which, human nature being what it is, will at some time or other, in much the same ways, be repeated in the future: my work is not a piece of writing designed to meet the tastes of an immediate public – my work is a possession for ever.” – history as a possession for ever, κτήμα ες αεί. Thucydides believed in the pratical importance of history – he is eager to set straight any errors of facts and interpretations that he find. He seems also to have been the first one to consider in a global vision all the battles that happened between 431 and 404, calling them the Peloponnesian War; but he has also the merit to have looked for the mediate motives of the conflict much before than these dates: he actually describes the 50 years that came before the War, not only to explain why was it that the War broke out, but also to continue the History from the point Herodotus had stopped (478). • Pericles as a General: We are inclined to think of Pericles primarily as a great political leader, a brilliant orator, a patron of the arts and sciences, the man whose work in the peaceful arts shaped what is often called the Golden Age of Athens; so it is useful to us to remember that the office to which the people elected him almost every year for some thirty years and from which he carried on all of these activities was that of strategós, general, whose responsability was to lead armies and navies into the battle. During the first year of the Peloponnesian War, Pericles strategy was that to hold back behind the walls of the city while the invading Peloponnesian army ravaged their lands in Attica – Thucydides says that the city was angry with Pericles because, as their general, he was supposed to lead them out to battle and so they held him responsible for all their sufferings. In the next year, after the second invasion of Attica, with the destruction of the land, and the epidemy of the plague struck the city, Thucydides says that again the people blamed Pericles for persuading them to go to war and they held him responsible for their misfortunes. Regarding Pericles’ policy during the War, Thucydides says: “As long as he led the State in peace time, he kept to a moderate policy and kept it safe, and was under his leadership that Athens reached her greatest heights; and when the war came, it appears that he also judged its power correctly. Pericles lived for two years and six months after the war began; and after his death, his foresight about the war was acknowledged still more, for he had said that if the Athenians stayed on the defensive, maintained their navy and did not try to expand their empire in war time, thereby endangering the State, they would win out – but they acted opposite to his advice in every way; and when their efforts failed, they harmed the State’s conduct of the war. So more than abbondant were Pericles’ reasons for his own predictions, that Athens would have won a war against the Peloponnesians alone”. Pericles’ plan did not work: the element of chance, the unexpected and incalculable interveined against Pericles and against Athens in the form of the terrible plague that ultimately killed a third of the Athenian population, including Pericles himself. After his death, in 429, the Athenian treasury was running and his plan lay in ruins - there was no prospect for victory. • Only when his successors turned to a more aggressive strategy did the Athenians level the playing field and achieve a position, which allowed them to hold out for twenty-seven years, and indeed on more than one occasion, almost brought victory. In the spring of 425, the brilliant and daring general Demosthenes, conceived and executed a plan to seize and fortify penetrazione in quei territori ricchi di foreste e miniere). Atene ingiunge di recidere il cordone ombelicale costituito dall’epidamiurgo (un supermagistrato) inviato annualmente da Corinto alla sua colonia (la quale assolveva da oriente per Corinto quel ruolo di testa di ponte verso l’interno balcanico, che ad occidente assolvevano Apollonia, Corcira, Ambracia, Anattorio e Leucade). Potidea doveva anche abbattere le mura verso la Pallene: una specie di resa incondizionata, che Atene propone quando il confronto con Corinto per Corcira le ha ormai mostrato quanto forte sia la sua potenza, e come essa possa agire con la parvenza di muoversi entro i confini del legittimo (Potidea alla fine apparteneva alla Lega Delio-attica, e un intervento di Atene era teoricamente legittimo). Nel 432 giunge però il rifiuto di Potidea, e la sua disdetta degli obblighi di città alleata di Atene; essa è sostenuta dal re macedone Perdicca II. • Gli interventi ateniesi furono numerosi, e lo furono a causa delle insufficienze volta per volta dimostrate dai corpi di spedizione (prima 30 triremi con 1000 opliti, poi 40 triremi con 2000 opliti), e della necessità di contrattaccare e fronteggiare Perdica II di Macedonia. • 3) Di fronte a una Lega Peloponnesiaca sempre più disposta a controazioni, Pericle compì un passo che doveva riverlarsi decisivo, ma anch’esso dello stesso spirito politico delle precedenti misure – una decisione ostile, che colpisce nei fatti una città della Lega Peloponnesiaca, ma che si presenta come una decisione interna alla Lega navale attica: proibizione a Megaresi di frequentare l’agorá attica e i porti dell’impero (432/1). Questo significava strangolare l’economia di una città che, come Megara, viveva delle esportazioni di tessuti e vesti di lana, in un’economia che ponteva contare molto poco su terra da coltivare. 3. Il problema delle responsabilità • La tradizione antica ha talora attribuito a Pericle la responsabilità della guerra, individuando nelle sue scelte strategiche l’intento di creare un diversivo per le difficoltà suscitategli dall’opposizione interna ad Atene, e un suo desiderio di tutelare il proprio potere – quadro talora accolto anche da alcuni moderni. Questa non è l’unica decisione di Pericle che subisca un’interpretazione personalistica, forse neanche destituita completamente di fondamento, ma tuttavia fortemente riduttiva della portata politica della decisione medesima – anche, per esempio, dell’istituzione dei misthoí (indennità), così centrale nell’ideologia periclea e nella sua concezione dello Stato, fu data dalla tradizione una motivazione personalistica: crearsi col denaro pubblico quella popolarità che non ci si poteva dare con i modesti mezzi finanziari privati. • Un’interpretazione ben più complessa e rispettosa delle forze storiche in movimento, dei processi storici in atto, è quella che fornisce Tucidide. Questi vede nello scontro tra Atene e i Peloponnesiaci l’esito ineluttabile di un processo naturale, quello della crescita (aúxesis) di un organismo in piena espansione, qual era l’impero ateniese; l’intraprendenza storica che questo processo esibisce, il puntuale riscontro dell’audacia, fa contrasto con i timori di parte peloponnesiaca, timori che proprio quel fenomeno di crescita va ad alimentare fino alla reazione finale. Il giudizio di Tucidide è chiaro: nella dinamica dei fatti l’iniziativa della guerra è dei Peloponnesiaci (e in questo senso la guerra è del – cioè dal – Peloponneso); nelle cause ultime la responsabilità è dell’espansionismo ateniese. Dunque l’espansionismo e il dinamismo ateniese da un lato, la dura volontà di difesa, che a un certo punto si rovescia in offesa e cerca di togliere l’iniziativa all’avversario, dall’altro, descrivono bene, nell’insieme, il sistema di cause che determina lo scoppio della ‘guerra civile’ dei Greci. • I due casi di Potidea e di Megara determinarono a Sparta un graduale orientamento verso la guerra, che però passò attraverso gradi successivi e talune incertezze. Gli eventi si svolgono tra la primavera e l’estate del 432. I Potideati, subito dopo la ribellione ad Atene, ottengono dagli efori spartani una promessa di aiuto; ma solo il caso di Megara fa sì che l’assemblea spartana prima, e l’assemblea federale peloponnesiaca poi, riunita anch’essa a Sparta, dichiarino che Atene ha violato la pace, e decidano la guerra. Passarono vari mesi prima che le ostilità si aprissero, con la buona stagione: l’intervallo di tempo fu speso in contatti diplomatici, che hanno un’evidente funzione propagandistica, di appelli all’opinione pubblica interna ateniese e greca comune. Una prima ambasceria spartana ad Atene chiede l’espulsione ‘del sacrilegio’, cioè di Pericle, che appartiene alla famiglia enaghés, sacrilega, degli Alcmeonidi; Pericle replica facendo chiedere la rimozione del ‘sacrilegio’ del Tenaro, compiuto con l’uccisione di Pausania il reggente. Una seconda ambasceria chiede di rinunciare a Potidea e ad Egina, e di abrogare il decreto contro Megara; la terza mira alla formulazione di un principio generale: gli Spartani vogliono la pace, ma questa può esserci solo a patto che gli Ateniesi lascino autonomi i Greci – il che era di fatto un invito a sciogliere o almeno a modificare profondamente la Lega navale. • La guerra scoppia all’inizio della primavera del 431. Nasce con un incidente a Platea, città della Beozia meridionale, stretta alleata di Atene. Con la complicità di oligarchi plateesi, una notte della primavera del 431, aal primo sonno, irrompono in città 300 Tebani: il ritardo nell’arrivo dei rinforzi e l’inesperienza dei luoghi da parte degli invasori ne determinano la sconfitta; 180 Tebani caduti prigionieri sono giustiziati. Ormai la pace è violata in maniera lampante, e le ultime ricerche di alleanza definiscono gli schieramenti: sono con Sparta tutti i Peloponnesiaci, tranne gli Argivi e quasi tutti gli Achei, che restano neutrali (col tempo però anche gli Achei sceglieranno il partito spartano); con la maggior parte dei Peloponnesiaci sono i Megaresi, i Beoti, i Locresi, i Focesi, e le colonie corinzie; sono con Atene invece i Chii, i Lesbii, i Plateesi; nella Grecia nord-occidentale, i Messenii stanziati a Naupatto, la maggior parte degli Acarnani e, nei pressi, Corcira e Zacinto; nonché le città dell’impero navale sparse dalla Caria alla Doride d’Asia, alla Ionia, all’Ellesponto, alla Tracia, alle isole ad oriente di Creta e del Peloponneso, alle Cicladi (tranne, per ora, Melo e Tera) – partecipano con la flotta le notevoli potenze navali di Chio, Lesbo, Corcira; con fanti e contributi in denaro gli altri. 4. Aspetti cronologici • La periodizzazione della guerra in due grandi fasi (431-421 e 413-404) è quella determinata dalla pace detta ‘di Nicia’, del 421; e questa è solo la ripartizione più macroscopica ed evidente. Tucidide, o quanto meno la struttura in libri assunta dalla sua opera nella tradizione, tende a graggruppare la narrazione degli eventi, fatta per estati e inverni, in gruppi di tre anni (fino al 428 nel II libro; fino al 425 nel III libro; fino al 422 nel IV libro). Alla durata ventisettennale allude il cosiddetto ‘secondo proemio tucidideo’. Di fatto, con la fine del V libro si è percorso un periodo di altri 6 anni; il VI e il VII narrano la spedizione ateniese in Sicilia, compresi i suoi preparativi, dall’inverno del 416/5 al disastro dell’autunno del 413; il ritmo dei triennii sembra riprendere, ma un po’ imperfettamente, con l’VIII libro (inverno 413/2-fine 411, con prospettiva, in un’aggiunta dell’editore di Tucidide, sull’inverno 411/0). • Nonostante le affermazioni di studiosi moderni sull’avvicendamento al potere, ad Atene e a Sparta, di partiti della guerra o della pace, occorre dire che, per i primi cinque-sei anni di guerra, i due schieramenti si fronteggiano con un’aggressività che non dà segni di debolezza o di ripensamenti: i Greci si abbandonano con foga al desiderio di fare i conti gli uni con gli altri; e si può anche dire che i moduli strategici permangano fondamentalmente quelli che erano stati all’inizio – Atene, però, mostra di volerli in parte variare: ed è naturale che sia così, per la novità comportata dalla scomparsa di Pericle già nel 429, per la complessità dei rapporti all’interno della Lega navale, e per la stessa disposizione di Atene di allargare il campo delle ostilità, cioè a concepire la possibilità di una vittoria come collegata ad un ampliamento, a proprio vantaggio, del conflitto, con lo scopo di colpire lontano, nelle basi che servono da supporto effettivo o prevedibile all’avversario. 5. Dall’inizio della guerra alla morte di Pericle • Due mesi dopo l’attacco fallito a Platea, circa 20.000 opliti peloponnesiaci, al comando del re spartano Archidamo II, presto rafforzati da 5.000 Beoti, invadono l’Attica settentrionale. L’invasione dura appena un mese: il suo effetto è quello di devastare i campi, mentre gli Ateniesi si tengono chiusi, giusta la strategia periclea, in città, e tra la città e il Pireo. Archidamo si ritira in Beozia e poi all’istmo di Corinto. Non molto rilevanti le controazioni ateniesi sulle coste del Peloponneso, ma vengono guadagnate l’isola di Cefalenia e la colonia corinzia Sollio in Acarnania. Gli abitanti di Egina, d’altra parte, accusati di tramare con gli Spartani, vengono sloggiati in favore di cleruchi ateniesi, e i profughi sono accolti dagli Spartani a Tirea, al confine con l’Argolide (sempre nel 431). • L’anno successivo (430), è identico lo schema dell’invasione peloponnesiaca, che però penetra più in profondità nel territorio attico, cioè questa volta giunge anche a sud di Atene, con un’azione di circa 40 giorni, che viene bloccata dalla diffusione della peste, venuta dall’Etiopia e dall’Egitto, risalita per le isole e coste asiatiche fino a Lemno, di qui passata in Attica. Le controazioni ateniesi riguardano Epidauro, attaccata invano con un forte contingente di 150 navi e 4.000 opliti, e Potidea, dove gli Ateniesi hanno l’infelice idea di trasferire il contingente già contagiato e portatore di contagio: inevitabilmente segue la ritirata, quando già mille erano le vittime. È anche il momento più critico per Pericle (che nell’inverno 431/0 aveva ancora potuto pronunciare l’epitafio per i caduti del primo anno di guerra, mirabilmente ricostruito da Tucidide): il popolo vuole l’accordo con gli Spartani – Pericle viene privato dalla carica di stratego e condannato a una multa (autunno o inverno del 430). • Nei mesi successivi il confronto fra Sparta e Atene si svolge più a distanza: Potidea cade nelle mani ateniesi nell’inverno 430/29, anche se il successo è contrabilanciato dalla sconfitta subìta dagli stessi Ateniesi nella Botia, regione a ridosso della Calcidica. Pericle è rieletto alla strategia (per il 429/8) all’incirca nel febbraio del 429: il momento critico è dunque superato, ma la peste lo uccide (estate del 429) poco dopo avergli strappato i figli legittimi, Santippo e Paralo. Nel 429 la peste aveva comunque dissuaso i Peloponnesiaci dal tornare ad invadere l’Attica; essi diressero invece gli sforzi su Platea, iniziando un assedio che si concluderà con la resa della città e dure esecuzioni di rappresaglia, su 200 Plateesi e 25 Ateniesi, nell’estate del 427. • La morte di Pericle comporta certamente a tutta prima un tono più opaco nell’azione di Atene. Non poteva invero considerarsi un suo vero erede, né sul piano politico né sul piano militare, il Lisicle a cui egli affidava morendo Aspasia, e che comunque muore nel 428/7 durante una spedizione in Caria. Nel 427 è tuttavia già maturata una situazione diversa: sul versante radicale emerge come leader Cleone, il commerciante di cuoio del dêmos Kydathenaieús, la cui prima iniziativa significativa sarà la proposta di una durissima Cleone. Questa volta l’avversario (incauto, a guardare i risultati) è Nicia, rappresentante dell’ala moderata, eletto stratego per il 425/4: all’accanimento con cui Cleone richiede un’azione rapida e risolutiva da condurre in non più di venti giorni, Nicia risponde offrendo il comando della spedizione, che Cleone, politico senza esperienza né cariche militari, ebbe la prontezza di accettare. Così egli guidò a Pilo i soccorsi richiesti da Demostene; il giorno dopo, ci fu lo sbarco ateniese a Sfacteria: ad effettuarlo furono 10.000 uomini, reclutati alla meglio (fra di essi però 1000 opliti). Lo scontro con i Lacedemonii fu comunque deciso dall’attacco a distanza operato da arcieri e peltasti, che bersagliarono i nemici, fino ad ottenerne la resa: i superstiti, 292, furono portati prigionieri ad Atene. Cleone ottenne onori altissimi (méghistai timaí): pasti a vita nel pritaneo e un posto d’onore al teatro. • Non potrebbe risultare più chiaro, dal seguito degli eventi, come sia improprio distinguere rigidamente tra un partito della pace e un partito della guerra: almeno agli inizi, è più un succedersi di comportamenti più o meno bellicisti, più o meno pacifisti, che non di partiti, nonostante l’innegabile propensione di fondo di ciascuno dei soggetti. Nella primavera del 424 è proprio Nicia a togliere agli Spartani l’isola di Citera, a sud-est della Laconia: la nuova strategia, decisamente post-periclea, di attacco diretto alle basi nemiche, sembra essersi ormai imposta. • L’episodio di Pilo e Sfacteria aveva ormai fondato una nuova strategia, di maggiore movimento, e rivolta non solo a bersagli distanti (che solo mediatamente avrebbero potuto contribuire a una svolta della guerra), ma anche direttamente al cuore dell’avversario. Cleone gioca carte politiche importanti, portando verosimilmente a 1460 talenti l’ammontare complessivo del tributo versato dagli alleati, e quindi elevando da 2 a 3 oboli giornalieri l’indennità per i giudici dell’eliea. Eletto stratego per il 424/3, con Demostene, naturalmente, e anche con Ippocrate di Colargo, Cleone fu certamente fautore dell’iniziativa di Atene contro l’alleata di Sparta, Megara. Nella primavera del 424 Demostene e Ippocrate conducono un esercito di 4600 opliti e 600 cavalieri contro Megara, chiamati dalla parte democratica di questa città; la guarnigione peloponnesiaca, rifugiatasi nel porto di Nisea, fu costretta alla resa, con il risultato dell’insediamento degli Ateniesi almeno in questo porto, che si affaccia sul vitale golfo Saronico. Nel 424, anche per effetto del dato nuovo della prigionia di 292 Lacedemonii, di cui 120 Spartiati, in mani ateniesi, non ha luogo la ormai quasi annuale invasione spartana dell’Attica. 8. Sparta e la nuova strategia • Sotto l’effetto della nuova strategia di movimento, impostata dagli Ateniesi e imposta dai fatti, gli Spartani attaccano Atene in una zona lontana, ma raggiungibile con un esercito di terra, e ciò ancora in linea con le tradizioni militari peloponnesiache. L’ideatore, o almeno il realizzatore, di questa nuova strategia spartana è Brasida. Pochi uomini formano il nucleo del suo esercito (700 iloti liberati e 1000 mercenari arcadi), che presto però, ingrossa, rafforzato da soccorsi peloponnesiaci (da Corinto, Sicione e Fliunte) e beotici, fino a 8.000 effettivi, che riescono a fermare la pressione ateniese su Megara. Successivamente, nella tarda estate del 424, Brasida raggiunge la Tracia, passando per la Tessaglia (più disposta verso Atene) e per la Macedonia di Perdicca II, che si schiera al suo fianco. All’inizio dell’inverno del 424/3 lo spartano sferra l’attacco ad Anfipoli, affidata alla diretta sorveglianza dello stratego ateniese Eucle, ma certo anche in qualche misura a quella dell’altro stratego del settore tracico, lo storico Tucidide, che aveva la sua squadra di 7 triremi presso Taso. Avendo puntato su Anfipoli alla notizia dell’attacco di Brasida, Tucidide riuscì solo a salvare la fortezza di Eione, la quale rischiava altrimenti di cadere, come egli stesso sottolinea, nelle mani degli Spartani. Ciò gli costò l’esilio ventennale, che probabilmente egli cominciò proprio in questa regione, dove d’altronde possedeva miniere d’oro. Brasida era del resto uomo capace di adottare anche una politica della ‘mano tesa’, se agli stessi Anfipoliti aveva offerto, per favorirne la resa, di restare nella loro città con pieni diritti, o di andarsene entro cinque giorni, includendo fra loro sia i pochi Ateniesi presenti sia il nucleo di coloni di diversa origine – a queste condizioni la città si era arresa. Tra l’altro, il rapporto della città con Brasida dovette essere eccellente, se alla sua morte, avvenuta in combattimento contro gli Ateniesi guidati da Cleone nel 422, gli fu eretto un monumento sull’agorá cittadina e gli furon tributati onori eroici (come apprendiamo, significativamente si diribbe, da Tucidide stesso). • Quasi contemporaneamente, in un anno assai difficile per Atene (424/3), questi subiscono un durissimo rovescio presso il Delio, cioè il santuario di Apollo delio che sorgeva nel territorio della città beotica di Tanagra. Dopo l’attacco contro Megara, riuscito solo a metà, essi avevano rivolto le loro mire alla Beozia, dove un’azione combinata di esuli beoti filoateniesi e degli ateniesi Demostene, a capo di truppe acarnane, ed Ippocrate, a capo di un poderoso esercito ateniese, avrebbe dovuto portare all’occupazione di Cheronea da parte dei Beoti fuoriusciti, di Sife da parte di Demostene, e ad un confronto, che sembrava divenuto di tanto più facile, dell’esercito ateniese con le forze federali beotiche (7.000 opliti, più di 10.000 fanti armati alla leggera e 1.000 cavalieri). Ma i primi due piani furono prevenuti da decise operazioni delle forze beotiche e Ippocrate, nella marcia di rientro intrapresa per evitare di dover affrontare da solo lo scontro col grosso delle milizie beotiche, fu attaccato e sconfitto: con lui perdettero la vita 1.000 opliti, un colpo durissimo per Atene. • Il 424 è per la città anche l’anno del rientro dall’impresa siciliana. Richiamato (426/5) Lachete, che fu processato ma assolto, il nuovo stratego Pitodoro dovette, già nel 425, registrare la perdita di Messina. L’arrivo della flotta ateniese al comando di Sofocle e di Eurimedonte, che solo per un certo tempo era stata trattenuta in Grecia dalla questione di Sfacteria, preoccupò i Sicelioti al punto da indurli a lasciar cadere le discordie interne e a decidere che le questioni di Sicilia fossero cosa di tutti i Sicelioti, secondo la formulazione del siracusano Ermocrate nel congresso di Gela (estate del 424), che raccomandava la pace con gli Ateniesi nel senso della conservazione dello status quo ante. Per Atene, a parte il rafforzamento di legami affettivi e politici con le città di origine calcidese (ionica), questa prima spedizione siciliana si risolveva in un complessivo nulla di fatto. 9. Verso la pace ‘di Nicia’ • Nel 423 si ha perciò un primo reale cambiamento di rota, il primo emergere di un vero ‘partito della pace’: proprio Lachete, fautore e autore della spedizione di Sicilia e amico di Nicia, riesce a far stipulare, nel febbraio del 423, un armistizio della durata di un anno – il bellicista è divenuto ora fautore della pace. • Intanto in Tracia e in Calcidica si espande la ribellione contro Atene – Scione, nella Pallene, a sud di Potidea, defezione dalla Lega: da Anfipoli a Potidea – è quasi il percorso obbligato per chi voglia assicurarsi il dominio nell’area traco-calcidica, contestando le tradizionali presenze ateniesi. Gli Ateniesi intendono punire Scione in maniera esemplare ed inviano, al comando (si badi bene) de Nicia, una flotta di 50 triremi con 1000 opliti e truppe leggere, e iniziando l’assedio. Allo spirare della tregua, nel febbraio del 422, gli spiriti non sono disposti alla pace; la tregua di Lachete perciò non è prorogata. Rieletto stratego per il 422/1, Cleone assume l’iniziativa di un attacco diretto alle posizioni di Brasida, con un esercito di 1200 opliti e 300 cavalieri, e con molti alleati: riprese alcune città, egli si attesta ad Eione, e di qui fa una ricognizione sotto Anfipoli, durante la quale viene attaccato da Brasida. Cleone cade, insieme con 600 altri Ateniesi; ma fra i pochi caduti peloponnesiaci c’è anche Brasida. • Problemi interni al Peloponneso (agitarsi di Mantinea e dell’Elide) favoriscono la disposizione degli Spartani alle trattative, così come sugli Ateniesi influiscono le varie sconfitte subite: lo spirito delle trattative è quello del ripristino dello status quo ante bellum, operate le debite, reciproce, restituzioni (Pelo e Citera agli Spartani, Anfipoli agli Ateniesi). Intorno a questa ipotesi si lavora tutto l’inverno, fino alla conclusione della pace e alla sua ratifica da parte del consiglio e del popolo dopo le Grandi Dionisie, nell’aprile del 421. 10. I trattati del 421 • La pace ‘di Nicia’ si presenta come un accordo di tregua di 50 anni, stipulato fra gli Ateniesi e gli Spartani e i rispettivi alleati. Di fatto, essa fu rifiutata, per la parte peloponnesiaca, da Corinzi, Elei, Megaresi e dagli stessi Beoti, cioè da una parte cospicua dell’alleanza antiateniese. Le clausole furono giurate da 17 personalità per parte: le stesse che, poco dopo, giureranno un nuovo trattato, questa volta di alleanza militare bilaterale tra Sparta e Atene. Non deve sorprendere che l’aspro scontro tra le due città si concluda con la formazione di una specie di asse preferenziale tra di esse. Sparta e Atene assolvono, nelle dimensioni del mondo cittadino greco, il ruolo di grandi potenze, in grado certo di fare complessivamente prevalere la loro volontà, ma anche, tutto sommato, più capaci degli altri Stati di decisioni responsabili, almeno nella stessa misura in cui, viceversa, quando esse accendono conflitti o intervengono in conflitti già in corso, la loro presenza dà una dimensione ben più ampia e toni più aspri alle guerre. Può capitare, dunque, che le due città trovino punti d’accordo, persino a dispetto dell’ostilità dei rispettivi alleati; insomma, esse configurano nel mondo greco un classico caso di bipolarismo. • L’intesa del 421 tra Atene e Sparta non trae origine soltanto dalla psicologia di grande potenza che anima ciascuna delle due città, ma anche dalla volontà di singoli individui: è facile indicare, fra i pacifisiti, per la parte spartana il nome del re Plistoanatte, per la parte ateniese almeno quello di Nicia e di Lachete, tutti compresi fra i firmatari dei due trattati del 421. L’accordo di principio fra le due grandi potenze garantisce una condizione fondamentale di pace; tanto quanto, però, la vocazione la struttura autonomistica del mondo greco (in particolare del campo peloponnesiaco) conferisce allo stato di pace un contesto inquieto e una sostanziale fragilità. • La pace di Nicia si ispira al principio delle restituzioni, o delle compensazioni obbligate ove le restituzioni non siano possibili – ad esempio, Atene rinuncia a Platea, ma conserva Nisea. Dopo aver garantito la libertà di tutte le espressioni cultuali tradizionali e aver segnatamente riconosciuto l’autonomia del santuario delfico di Delfi stessa, il trattato di pace prevede che fra i due schieramenti non siano posti in essere atti di ostilità di nessun tipo, e che le controversie siano risolte in base ai princìpi del diritto e ai giuramenti. Ad Atene verrà restituita Anfipoli (un impegno però che gli Spartani non potranno mantenere: né Atene occuperà mai più la città in tutta la sua storia); ma tutte le altre città ribelle della Calcidica devono essere autonome, pur pagando agli Ateniesi il tributo ‘del tempo di Aristide’: alla Lega ateniese esse aderiranno solo se lo vorranno. In altre aree gli Ateniesi avranno, al confine attico-beotico, Panatto; gli Spartani, Pilo e Citera – otterranno inoltre la restituzione dei prigionieri di Sfacteria. Ma poi il trattato torna sul tema della Calcidica: gli Ateniesi restituita la democrazia, in chiave antispartana, e si arrivò persino a progettare la costruzione di lunghe mura tra la città e il mare, sul modello della sistemazione territoriale realizzata dalla democrazia nautica in Attica (ad Arco però il progetto fu bloccato dall’intervento di Sparta nell’inverno 417/6). • Ed ecco che, nell’estate del 416, Nicia riprende un progetto aggressivo contro una delle isole doriche delle Cicladi, Melo, che egli aveva già inutilmente tentato di assoggettare nel 426, quando però gli era almeno riuscito di rendere tributaria l’altra isola di tradizioni spartane, Tera. Dall’estate del 416 all’inverno del 415 si svolge il lungo assedio di Melo, che finisce con una durissima capitolazione degli assediati: sterminata la popolazione maschile adulta, gli altri abitanti vengono venduti in schiavitù, e nell’isola è insediata una cleruchia ateniese di 500 unità. Tucidide descrive in un famoso dialogo il crudo contrapporsi delle ragioni della tradizione e della giustizia, quali esprimono i Melii, e delle ragioni della logica di potenza, quali esprimono cinicamente gli Ateniesi. • Nicia, il generale di questa spedizione punitiva, crede che bisogna assoggettare i ribelli e quelli che obbediscono in modo dubbio, senza andarsi a cercare altrove nuove guerre: una politica, dunque, definibile non tanto come pacifista, ma piuttosto come ostile all’allargamento del conflitto a macchia d’olio, e tuttavia, all’interno di quei confini che di volta in volta si pone, capace di estrema durezza, come illustra l’episodio di Melo. • Va anche osservato che a Sparta si può più facilmente ammettere un significato politico immediato della composizione del collegio degli efori, poiché l’elezione collettiva registra a sua volta stati d’animo collettivi; ad Atene invece il sistema di elezione degli strateghi, uno per tribù, dà spesso risultati che rispecchiano situazioni specifiche, interne alle stesse tribù, determinando giochi d’equilibrio che non sboccano nell’affermazione di un ‘partito’ della guerra o della pace. 13. La spedizione ateniese in Sicilia degli anni 415-413 • La complessa situazione ateniese, e l’assenza di un vero ‘partito della pace’, o almeno di una sua autorevole rappresentanza, spiegano la dinamica della nuova spedizione ateniese in Sicilia, la più famosa e disastrosa, quella degli anni 415-413. • La richiesta d’aiuto da parte di Segesta e degli esuli di Leontini contro Selinunte (fondazione di Megara Iblea) e contro Siracusa (la potente colonia corinzia) mette in moto la macchina di guerra ateniese. Si fa balenare ad Atene l’idea dell’esistenza di grandi ricchezze da mettere a disposizione per la guerra; si fa leva sul timore che i Dori di Sicilia possano intervenire a fianco di quelli del Peloponneso. Ad Atene la sollecitazione e i timori hanno l’effetto voluto. Invano Nicia fa presente il vantaggio di un timore reverenziale prodotto da lontano, rispetto a una minaccia insufficiente portata da vicino; inutilmente egli ricorda il gran numero e la potenza delle città da combattere. Senso di sicurezza, mania di grandezza (Alcibiade parla di conquista della Sicilia e della stessa Cartagine), voglia di nuovo (vivissima, come sempre, ad Atene, soprattutto fra i giovani) hanno la meglio. Atene si conferma come la città che osa, come Tucidide l’ha già rappresentata nei capitoli del I libro della pentecontaetía; e, soprattutto, osa per inesperienza di un’isola vasta, abitata da popoli diversi e da tante vecchie e potenti colonie greche. • Dal confronto-scontro con Alcibiade, Nicia non esce vincitore. Egli non ha fino in fondo la logica del pacifista; la sua opposizione all’avventura siciliana ricalca fatalmente la stessa logica bellicistica di Alcibiade, e perciò può ottenere soltanto il risultato di impegnare Atene in un rilevantissimo sforzo bellico, proprio nel momento in cui Nicia, con un malcalcolato espediente di dissuasione, rincara il prezzo della spedizione: “se questa si deve fare, si deve fare con grande dispendio di mezzi”: e il popolo approva. La flotta della Lega conterà 134 triremi, di cui 100 ateniesi (60 da battaglia, 40 per trasporto di truppe), e trasporterà 5.100 opliti (fra cui 1500 Ateniesi di rango oplitico, 700 di rango tetico, e 500 Argivi). • Fra la fase dei dibattiti e delle decisioni strategiche e l’avvio della spedizione si colloca l’episodio del danneggiamento delle erme, statue-pilastrini di Ermes, che adornavano slarghi e strade di Atene, i cui elementi anatomici più compiutamente rappresentati erano la testa e il sesso. Anche se complesso, appaiono comunque ben comprensibili sia i destinatari del gesto vandalico, sia gli effetti che se ne volevano ottenere. Restano nell’ombra gli autori; ma quando si tenga presente che l’episodio aveva come destinatario Alcibiade, si ha già una prima risposta. Autori, dunque, i nemici di Alcibiade; ma già in astratta ipotesi è ben possibile che ci sia una singolare collusione di nemici di vario tipo: cospiratori di idee antidemocratiche, che in Alcibiade vedevano pur sempre un capo democratico, e dei più attivi; democratici di stampo conservatore, come Nicia, che si sentivano spinti a una guerra di un tipo che non gradivano (e a giudicare dagli esiti avevano ragione); forse finanche democratici radicali, che eventualmente non volessero perdonare ad Alcibiade la strumentale alleanza stretta con Nicia al momento della ‘verifica’ dell’ostracismo del 417, quando i due avevano individuato una comune, e comoda, vittima politica nel demagogo Iperbolo. • Primo tempo, mutilazione delle erme, turbamento pubblico e presagi negativi per la spedizione che sta per partire: il primo, più elementare, colpo contro Alcibiade è così già assestato. Ma intanto la coscienza civica e religiosa è toccata e turbata: si cercano gli autori di questo crimine, come di altri dello stesso tipo; comincia, usando un’immagine anacronistica, la caccia alle streghe. Alcibiade, che è la vittima prima del gesto degli ermocopidi (tagliatori di erme), e che non può certo considerarsi fra gli autori di quell’episodio, viene coinvolto direttamente nell’accusa di sacrilegio in quello che è il prevedibile secondo tempo del complotto, il tempo cioè della caccia alle streghe. Si cerca l’empio e lo si trova proprio in Alcibiade, accusato di aver parodiato, in casa sua, i misteri di Eleusi, di aver cioè celebrato, per continuare con le anacronistiche metafore, una nefanda messa nera. Alcibiade chiede di essere giudicato subito, con l’impazienza di chi vede sorgere intoppi giudiziari e burocratici a un’impresa che sta realizzando: ma, e anche questo sembra un terzo tempo ben calcolato, sulla sua testa è lasciata pendere l’accusa, lo si spedisce in Sicilia – troppo forti erano i rischi connessi con la presenza di un’armata pronta a partire ed impaziente – e si rinvia solo a un secondo momento il suo richiamo. • La spedizione parte nell’estate del 415, rotta Egina, poi Corcira; quindi, tagliando il mar Ionio, raggiunge l’Italia. A capo di essa erano stati messi e confermati Nicia, Lamaco, Alcibiade. Quest’ultimo aveva la linea strategia apparentemente più prudente, ma di fatto più ispirata a idee di grandezza: costruire in Sicilia una vasta alleanza e poi attaccare Siracusa; più che una spedizione in soccorso di alleati in difficoltà, dunque, la creazione di un assetto politico diverso in funzione anti-Siracusana. Lamaco invece era favorevole a un attacco immediato; Nicia a un’interpretazione rigorosamente limitativa dei fini della spedizione: sostenere Segesta, attaccare o intimidire Selinunte, inducendola a riconciliarsi com la città elima, fare eventualmente qualcosa in favore degli esuli Leontini. • La flotta aveva costeggiato l’Italia, senza riscuotere simpatia fra le città greche della regione; Taranto e Locri rifiutano persino l’ormeggio e l’acqua. Ma anche Reggio vieta l’ingresso degli Ateniesi in città e, con forte coerenza, Messina tiene un comportamento analogo. Anche le città calcidesi in Sicilia, tranne Nasso, mostrano notevole freddezza nei confronti di Atene. A Catania tuttavia gli Ateniesi, veduta cadere una speranza dopo l’altra, devono forzare la situazione e irrompere in città; e qui il loro esercito si trasferisce dal territorio di Reggio, dove era rimasto attestato. • A questo punto si ha il richiamo in patria di Alcibiade, la cui posizione, riguardo alla parodia dei misteri, era nel frattempo peggiorata a seguito delle denunce e delle inchieste. A Catania giunse la nave di stato Salaminia, per riportarlo ad Atene; egli l’accompagnò con la sua propria nave fino a Turii, ma qui fece perdere le sue tracce, per riapparire poi nel Peloponneso, prima in territorio argivo, poi a Sparta, dove consigliò l’intervento, e l’invio di Gilippo a Siracusa (inverno 415/4). • In Sicilia la prima stagione di guerra (autunno 415) si consumava in un’azione ateniese per sé fortunata, ma senza seguito: nella pianura del santuario di Zeus Olimpo, a sud-ovest di Siracusa, si svolse una battaglia contro l’esercito siracusano, che ne uscì battuto. Seguì il trasferimento dell’esercito ateniese nei quartieri d’inverno di Nasso e Catania; e furono fatti tentativi di guadagnare alleati in Sicilia – era così in definitiva adottato, benché forse con scopi più limitati, lo schema di Alcibiade. I risultati furono magri: Messina rimase neutrale; più favorevoli i Siculi, nell'area che gravitava intorno a Siracusa. Meno deludente la neutralità di Camarina e di Agrigento. • Ancora larga parte della buona stagione del 414 fa registrare successi agli Ateniesi. La guerra assume certo i tempi lunghi dell’assedio, ma gli Ateniesi sembrano assicurarsi le posizioni vincenti. Ricevuti rinforzi di cavalleria da Atene e dagli alleati siculi, l’esercito invasore approfitta di alcune incertezze dei Siracusani: mentre i Siracusani cingevano la città di fortificazioni, gli Ateniesi si impadronivano delle alture delle Epipole, che dominavano la città da ovest e nord-ovest. Al sistema di fortificazioni siracusano gli Ateniesi intendono contrapporne uno più vasto, grandioso, ma anche più temerario: delle Epipole essi vogliono chiaramente fare il perno di un sistematico blocco, di cui le parti artificiali sono costituite da un muro estendentesi circa 5 km., tutt’intorno alla città, dal porto Grande a sud, fino al Trogilo a nord – buona parte del porto Grande così sarebbe restata accessibile alla flotta ateniese, mentre l’esercito si accampava fin nelle sue vicinanze. Gli scontri, con i quali i Siracusani cercarono di impedire l’opera (di cui in realtà la parte più settentroniale, dalle Epipole in su, restò incompiuta), furono altrettanti insuccessi per i Sicelioti, ache se nel corso di essi trovò la morte lo stratego ateniese Lamaco. • Ma questo è anche il momento più alto della parabola della spedizione ateniese in Sicilia, ché subito cominciano i rovesci. Sparta e Corinto, sollecitate da Alcibiade, oltre che dagli ambasciatori siracusani, inviano aiuti. Lo spartano Gilippo raggiunge con sole 4 triremi la Sicilia, sbarcando ad Imera, da dove, con aiuti imeresi, e anche di Selinunte e Gela e dei Siculi dell’interno, per un totale di circa 3000 uomini, raggiunge per via di terra Siracusa, passando per la zona che gli Ateniesi avevano lasciato ancora non fortificata: Gilippo prende con un attacco a sorpresa l’altura delle Epipole, e dà avvio alla costruzione di un muro, incrociando la linea di sviluppo della fortificazione ateniese e compromettendone il completamento, vanificando in tal modo l’accerchiamento totale della città progettato dagli Ateniesi; ora si trattava di minare le posizioni ateniesi più a sud, nella zona del Porto Grande. • Ivi Nicia aveva, dopo l’arrivo di Gilippo, fortificato il capo Plemmirio, che chiude il porto a sud-est. Tra l’autunno del 414 e la primavera del 413 erano arrivati aiuti ai Siracusani (altre 12 triremi da Corinto, quasi 4000 fanti tra Siculi, Spartani, Beoti ed altri): ne seguirono due • 3) Ad Alcibiade si devono ancora iniziative, presto rinnegate, per modifiche nella costituzione ateniese, ed è questo il terzo motivo caratteristico del periodo. I primi indizi sono da riconoscere nel clima di complotto rivelato dall’episodio delle erme del 415; primi sviluppi di aspetto legalitario sono nell’istituzione, nel 413, di una commissione di 10 próbouloi (consiglieri che ‘istruivano’ le varie questioni), presto portata a 30 membri; infine, nel 411, il colpo di stato oligarchico. È nel senso di quanto si è già sopra osservato il fatto che Alcibiade avviasse il processo oligarchico, sostenendo che esso sarebbe stato gradito alla Persia (al momento in cui aveva deciso, in un nuovo revirement, di trasferire a beneficio di Atene le sue aderenze persiane), ma che poi si decidesse a rientrare a vele spiegate nel campo democratico, che era in definitiva quello della sua vera vocazione politica, pur se adulterata e resa inquietante da marcate componenti personalistiche. • 4) Un quarto aspetto da sottolineare risiede nelle dimensioni e nel ruolo che assume in questa nuova fase della guerra greca il problema degli alleati di Atene – certamente il meno nuovo, visto che tutta la storia dell’impero navale ateniese è percorsa da tensioni fra Atene e i suoi sýmmachoi. Il precedente episodio di ribellione ad Atene da parte di Mitilene, tutto sommato un evento isolato, ora si moltiplica e diventa sistematico; vi si intrecciano la rivolta spontanea degli alleati ionici di Atene, la sollecitazione e la presenza spartana e, ancora una volta, dello stesso Alcibiade, lo scontro fra le flotte dei due grandi schieramenti greci e gli interventi finanziari, militari, politici dei Persiani. Del resto, la fine della guerra del Peloponneso si deciderà soprattutto qui, nell’Egeo settentrionale e orientale, fra le isole prospicienti le coste e presso le stesse coste dell’Asia Minore occidentale. Abido, Cizico, Notion, le Arginuse, Egospotami, sono tutti nomi di luoghi ‘asiatici’ o di aree vicinissime all’Asia Minore, connessi con svolte e con fatti decisivi della guerra del Peloponneso: per gli antichi non vi era dubbio che la vittoria di Lisandro, nell’estate del 405, ad Egospotami sull’Ellesponto, fosse, in senso lato, la diretta premessa della resa di Atene, avvenuta solo otto mesi dopo. • Si può dunque dire che tutta la politica praticata dagli Ateniesi, fino alla seconda spedizione di Sicilia inclusa, cominci a produrre contraccolpi dal 413 in poi. Sul terreno politico v’è l’innovazione della commissione istruttoria di 10 próbouloi (tra i quali vi è anche Agnone, padre di Teramene), espressione dell’esigenza di un qualche controllo preventivo dell’attività della boulé. Sul terreno finanziario si ha la sostituzione del vecchio tributo con uno nuovo, consistente in una quantità fissa pari al 5% del valore delle merci in arrivo e in partenza, un criterio forse più equo, ma certamente fonte di ancora maggiori entrate. Tucidide colloca la riforma subito dopo l’occupazione di Decelea, sottolineando gli svantaggi d’ordine economico che conseguivano all’occupazione spartana – i rifornimenti dall’Eubea ora dovevano fare il costosissimo giro di capo Sunio. • La rivolta degli alleati di Atene scoppia in Eubea, a Lesbo, a Chio, che mandano ambasciatori a Sparta, per sollecitarne l’intervento. Un convoglio peloponnesiaco al comando di Astioco riesce a forzare il blocco ateniese e arrivare all’isola di Chio a metà dell’estate del 412. La rivolta si allarga a macchia d’olio: Eritre, Clazomene, Teo, Mileto, Lebedo, Metimna e Mitilene defezionano da Atene. È certamente opera anche di Alcibiade il coinvolgimento della Persia: è giusto però ricordare, ma solo come dovuto contesto all’iniziativa di Alcibiade, che il coinvolgimento dei Persiani era innanzi tutto il portato del tutto naturale, di mero ordine geografico-politico, del trasferimento nella Ionia dell’asse del conflitto.Vi era naturalmente una comprensibile ambiguità del comportamento degli Ioni, i quali erano a metà strada tra il desiderio di liberarsi da Atene e quello di non cadere del tutto nelle mani dei Persiani. • Dopo la presa di Mileto da parte peloponnesiaca, comincia la serie dei trattati di Sparta con la Persia, che Tucidide riporta come se fossero tre, ma che probabilmente sono ulteriori precisazioni di un unico trattato: la materia dello scambio è la rinuncia, da parte spartana, alla difesa dell’autonomia dei Grecia d’Asia dal re di Persia e la concessione di aiuti finanziari per la guerra, da parte persiana. • Nell’estate del 412 il contrattacco ateniese consegue lo scopo di riconquistare Lesbo e Clazomene e bloccare Mileto: qui gli ateniesi effettuano alla fine dell’estate uno sbarco, reso vano dal sopraggiungere di una flotta peloponnesiaca di 55 triremi, fra cui 22 da Siracusa e Selinunte. Mileto è ormai la base della flotta peloponnesiaca, capeggiata dagli spartani Pedarito e Astioco. La base della flotta ateniese invece è la ormai fedele Samo. • Una dopo l’altra, le città della Lega sono perdute da Atene. All’inizio del 411 gli Ateniesi hanno, oltre Samo e Notion, Lesbo a nord, Cos e Alicarnasso a sud, e l’isolata posizione di Clazomene; punti chiave come Chio, Efeso, Mileto, sono ormai perduti. 15. Il colpo di stato del 411 ad Atene • Sono ormai date le condizioni per una svolta politica in senso oligarchico, come logico sviluppo di precedenti avvisaglie, come reazione agli insuccessi della politica estera democratica, come maturazione delle trame più o meno occulte tessute da Alcibiade con gli ufficiali ateniesi della flotta di Samo. Secondo Alcibiade, la situazione nell’Egeo orientale si poteva ribaltare mutando il regime da democratico in oligarchico: Pisandro, trierarco a Samo, raggiunge Atene, latore di queste proposte. In realtà, per gradi, Alcibiade sta tentando di rientrare nel gioco politico ateniese: quando il disegno sarà maturo, il suo interlocutore sarà, come agli inizi della sua carriera, il regime democratico. • Ostacoli al nascente regime oligarchico potevano venire, e di fatto vennero, dalla stessa flotta di Samo, da cui erano partiti gli ufficiali istigatori del completto (Pisandro e altri). Erano infatti numerosi i cittadini impiegati negli equipaggi; e questi vennero presto a trovarsi nella condizione di contrastare gli sviluppi politici ateniesi. • Occorre comunque tenere distinte le vicende della città di Samo e quelle della flotta e degli equipaggi della flotta ateniese che erano a Samo. Nell’estate del 412 c’era stata nell’isola una rivoluzione democratica, che aveva fatto strage dei capi oligarchici e privato gli altri di diritti politici e di proprietà. Nel 411 sono gli oligarchici a tentare di rovesciare la situazione, contando sugli ufficiali cospiratori, e uccidendo Iperbolo. L’intervento degli equipaggi ateniesi democratici e dei nuovi strateghi da essi eletti, tra cui Trasibulo di Stiria e Trasillo, è decisivo per soffocare il tentativo oligarchico. • Preoccupati per i fatti di Samo, gli oligarchici di Atene – fra cui spiccano Antifonte, Frinico e Teramene – cercano di ammansire gli uomini della flotta, sforzandosi di mostrare che, una volta passati effettivamente i poteri ai Cinquemila, nulla praticamente sarebbe stato diverso dal passato: ad Atene sarebbero i cinquemila di norma a frequentare l’assemblea. L’argomento passava evidentemente al di sopra di tutte le questioni di principio e di diritto. • Un fatto che va sottolineato con forza è il ruolo politico particolarissimo che assume l’assemblea dei marinai ateniesi a Samo. Si assiste a una vera e propria scissione nella cittadinanza ateniese; la spaccatura ideologica all’interno di Atene è diventata fisicamente evidente, quasi tangibile. La parte della cittadinanza ateniese che serve nella flotta di Samo intende incarnare la legittimità democratica, intende valere come la vera città di Atene. Alcibiade, che nel frattempo ha preso le distanze, pur con opportune lentezze, dagli oligarchi, è il lontano ‘garante’ dell’operazione. L’assemblea dei marinai ateniesi a Samo lo richiama dall’esilio; loro stessi sono fuori di Atene, ma, poiché si sentono come la vera Atene, pongono fine all’esilio di Alcibiade, chiamandolo fra loro. E Trasibulo liquida in un’assemblea con un duro intervento tutto il sottile discorrere che si fa della “costituzione patria”: per questo schietto e rude democratico, le “patrie leggi” non sono altro se non quelle che c’erano fino a ieri ad Atene (interpretazione del tutto legittima) e che gli oligarchi avevano abolito. • Dopo appena quattro mesi di oligarchia dei Quattrocento, il tentativo di fortificare il nord del Pireo, certo con l’intento di impedire uno sbarco di quelli di Samo, suscita il sospetto che si stia costituendo una base d’appoggio per uno sbarco spartano – sospetto propalato ad arte da Teramene, che ormai prende le distanze dal gruppo oligarchico, e che in questa occasione si guadagnerà il nome di ‘coturno’, la calzatura per tutti gli usi, la scarpa ambidestra. Frinico fu ucciso in piazza; il potere si disse essere esteso ormai ai Cinquemila (agosto del 411). • Intanto riprendeva l’attività della flotta ateniese di Samo. Della zona dell’Ellesponto gli Ateniesi conservavano ancora il controllo: è perciò qui che si rivolge lo sforzo peloponnesiaco. Azioni di Dercidilla contro Abido e Lampsaco nella Troade, e defezioni di Bisanzio, Calcedone, Selimbria, Perinto, Cizico, compromettono nell’estate del 411 le posizioni ateniesi nella zona degli Stretti. Nel vicino Egeo settentrionale, in autunno, seguono l’esempio dei ribelli l’isola di Taso e la città di Abdera in Tracia. Circa lo stesso periodo una flotta peloponnesiaca di 42 navi, al comando di Agesandrida, batte gli Ateniesi presso Eretria, e la vittoria procura la defezione di tutte le città dell’isola d’Eubea, così vitale per il rifornimento di Atene. 16. La continuazione della guerra ionica e il ritorno della democrazia ad Atene • Nella primavera del 410 la flotta ateniese, comandata da Alcibiade e rafforzata da una piccola squadra condotta proprio da Teramene, sconfiggeva davanti a Cizico il nuovo navarco spartano Mindaro, che trovava la morte in battaglia: tutta la flotta peloponnesiaca era catturata. • Ora anche nelle operazioni di terra Atene riprende l’iniziativa: il re Agide, spintosi da Decelea fin sotto Atene, si trova di fronte a un esercito, comandato da Trasillo, ma rifiuta la battaglia. I tempi sono ormai maturi per una piena restaurazione democratica, e il personaggio che si mette in luce nel 410 è Cleofonte, un fabbricante di lire. È il ritorno del consiglio dei Cinquecento e della democrazia delle indennità, abolite col colpo di stato del 411. • Tra il 409 e il 408, Alcibiade coglie nuovi successi nell’Ellesponto contro i Peloponnesiaci e contro Farnabazo, il satrapo persiano della Frigia, e quasi tutte le posizioni perdute nell’area degli Stretti e nell’Egeo settentrionale sono recuperate da Atene. • Nella democrazia ateniese si creano ora le condizioni di una rivalità politica, che per il momento non dà ancora luogo a un conflitto. Infatti Alcibiade è eletto alla strategia nella primavera del 408; il rientro trionfale in patria, nell’estate di quello stesso anno, coincide con l’assunzione della carica. Atene si stringe commossa intorno al prediletto d’un tempo, da cui si aspetta soprattutto la liberazione dai mali presenti. Alcibiade, che era andato in esilio per l’accusa di aver parodiato i misteri eleusinii, è lo stesso a cui è consentito guidare di passaggio alla considerazione delle spinte e situazioni che fermentano nella nuova epoca storica dischiusa dalla disfatta di Atene. Note integrative a. Aspetti della commedia antica • La commedia archaía è per definizione ‘politica’ e dotata, per lo più di iambiké idéa, cioè di un attitudine aggressiva, in cui si esprimono l’opinione pubblica, il conflitto tipicamente democratico delle idee e la velenosità dell’attacco personale. Complessivamente, la commedia esprime posizioni conservatrici, ostili ai personaggi della democrazia radicale. Ma niente è così istruttivo, circa il carattere relativo di tali distinzioni, quanto il fatto che di generazione in generazione la commedia cambi bersaglio, e quel che era il capro espiatorio di un tempo diventi, per la legge del tempo, il segno e l’oggetto della nostalgia per il buon tempo andato. • L’unico poeta della commedia antica di cui ci siano pervenute commedia intere è Aristofane. Tutto il nuovo della democrazia viene passato al setaccio della sua critica pungente ed estrosa. Aristofane (ca. 455-388) nelle sue prime commedie (Banchettani, Babilonesi, Acarnesi) sottopone a critica la politica estera ateniese, per il suo bellicismo e i comportamenti ingiusti verso le città alleate: il poeta vuol essere portavoce, o anche promotore, di un’opinione pubblica cittadina (o anche intracittadina, con riferimento agli alleati), potenzialmente esistente. • Il demagogo conciapelli Cleone è il bersaglio già delle prime commedie, ma in modo particolarissimo dei Cavalieri, in cui la scelta di Aristofane è inequivocabile, in favore della élite stessa del dêmos ateniese e del popolo di proprietari e contadini, e contro i demagoghi nuovi ricchi. Non è solo il nuovo sociale della democrazia ad attirare gli strali di Aristofane; lo è anche il nuovo sul terreno della cultura e dell’educazione, nelle Nuvole, al cui centro è un Socrate sofista, studioso delle cose trascendenti e di quelle sotterranee, ancora fortemente anassagoreo. Il nuovo del regime democratico, consistente nell’assistenzialismo (corruttore, agli occhi di Aristofane) dell’elargizione delle indennità (misthoí) per i giudici, è rifiutato nelle Vespe, che trattano il tema dell’‘isterismo giudiziario’ dell’uomo comune della democrazia ateniese, smanioso di esercitare funzioni di eliasta e di percepire il relativo soldo (scarso e umiliante, sempre per Aristofane). E contro il bellicismo della democrazia radicale, e in favore dell’ampia base rurale della democrazia ateniese, si pronuncia la Pace, che nel 421 precede di pochissimo la stipula della pace di Nicia. • La serie delle commedia successive conservate si apre con gli Uccelli, e continua con la Lisistrata, le Tesmoforiazuse, le Rane, le Donne all’assemblea e il Pluto. È ben difficile negare il cambiamento complessivo di tono: se nelle commedie della prima fase della guerra del Peloponneso il poeta si era impegnato in una lotta politica, che lo vedeva ancora determinato e fiducioso nella contrapposizione e contestazione diretta del nuovo della democrazia, già con gli Uccelli egli sceglie le vie dell’evasione – sempre nella misura possibile a un autore che continua pur sempre, fino in fondo, ad occuparsi della vita reale. Non viene certo meno né lo spirito polemico né l’orientamento suo proprio, ma sembra appannarsi la fiducia nel senso stesso della battaglia da svolgere; la polemica del poeta aggira in qualche misura lo scontro politico diretto, non è più semplice i immediato rovesciamento del dato esistente: è il suo aggiramento realizzato mediante l’invenzione fantastica di una realtà in tutto e per tutto diversa. • Un’altra città, in un altro tempo, in un altro mondo, in un altro dove, fuori dei confini e magari dello stesso linguaggio dell’umanità, è la città degli Uccelli. Nella Lisistrata è l’utopia di una pace panellenica, realizzata con una trovata fuori del comune, lo sciopero dell’amore, da quella parte delle città in guerra che meno conta, nella guerra come nella politica, le donne. Ancora dal contesto delle donne, sorta di segno convenzionale del carattere utopico della proposta, il progetto di riforma ugualitaria e comunistica presentato ne Le donne all’assemblea. Utopia e attesa del miracolo sono segno dei nuovi tempi, nei quali si assiste, con solo apparente contraddizione, a un affievolirsi dell’impegno politico del cittadino comune e contemporaneamente a una partecipazione interessata, per il percepimento di gettoni di presenza, alle assemblee politiche. b. Tucidide • Lo storico ateniese nacque circa il 460-455 e morì intorno al 400 a.C. Poco di certo sappiamo della sua vita, eccetto le notizie che si ricavano dalla sua opera stessa: l’incarico dell’autore, durante la guerra del Peloponneso, di salvare Anfipoli, o almeno Eione, dagli attacchi dello Spartano Brasida; l’esilio ventennale dopo il fallimento di tale impresa. • Le Storie di Tucidide, in 8 libri (la ripartizione però è di epoca alessandrina), hanno per principale oggetto la guerra del Peloponneso: la narrazione però giunge solo fino al 411. Vari furono i continuatori di Tucidide: Senofonte nelle Elleniche, Teopompo, Cratippo – ma l’unica conservataci per intero è quella di Senofonte. • Una “questione tucididea” fu fondata da Ulrich nel 1845. L’opera di Tucidide fu tutta redatta dolo l’anno (404) della catastrofe di Atene? O passò attraverso più fasi di redazione e quindi più progetti di composizione? L’indagine sul vario significato dell’espressione “questa guerra”, ricorrente nelle Storie, e sul cosiddetto secondo proemio, induceva Ulrich ad ammettere due fasi fondamentali di redazione, l’una da datare dopo il 421, l’altra dopo il 404. • Nella dimensione del tempo, la storiografia greca, dagli inizi a Tucidide, opera una continua riduzione del periodo narrato, una progressiva contrazione verso il periodo cui appartiene lo storico. Così, mentre i ‘logografi’ espongono le tradizioni greche sul passato ‘mitico’ e sul più remoto passato ‘storico’, già Erodoto concentra prevalentemente la sua attenzione sul periodo di storia orientale e greca che va dalla generazione di Creso e Pisistrato fino a quella delle guerre persiane, grosso modo gli anni 560-478 a.C., pur se si sofferma anche, e in diversa misura, su ‘fatti’ assai più remoti, che si tratti della guerra di Troia o della più antica storia egiziana, persiana o lidia. Tucidide, in nome di un’esigenza di verità e di utilità, e in antitesi ad una concezione storiografica che gli sembra far troppo posto al mito e concedere troppo al piacere del narrare e del sentir narrare, rinuncia a una particolareggiata narrazione della storia più remota, innazi tutto di quella anteriore alle guerre persiane, e riduce ulteriormente il campo d’osservazione (anche se con sporadiche e limitate eccezioni), scegliendo come argomento della sua storia la contemporanea guerra tra Atene e Sparta, narrata però, come si è detto, fino al 411, dopo un’introduzione sugli aspetti generali delle condizioni di vita proprie della Grecia antichissima e un consistente excursus sulla pentecontaetía (478-431). • Per via di Tucidide si inizia anche una tradizione storiografica per cui uno storico continua (o integra) l’opera dello storico che l’ha preceduto. In Tucidide, alla riduzione del campo storico nella sua dimensione temporale come in quella spaziale, si affianca anche una particolare scelta del contenuto. Un posto privilegiato è fatto agli aspetti politico-militari della storiae, dunque, ai conflitti. L’attenzione di Tucidide è concentrata sugli aspetti ‘dinamici’ della storia umana, sulla potenza e i conflitti di potenza, lasciando in ombra gli aspetti ‘statici’, le ‘costanti’, cioè le istituzioni, le tradizioni religiose, i costumi, il mondo dei nómoi, insomma tuto quello che tanto stimolava la curiosità di Erodoto. Si configura perciò nell’opera di Tucidide un tipo di storiografia selettiva, concentrata sugli aspetti politico-militari, che è in forte contrasto con la varietà del tessuto narrativo dell’opera di Erodoto: in questa occupavano un larghissimo posto gli aspetti geografici ed etnografici, la curiosità per usi e costumi singolari, il gusto per l’aneddoto e per il meraviglioso, insoma le mille cose raccontate con l’autentica e trascinante gioia di ridire ciò che la propria mai sazia curiosità è riuscita a scoprire. Alla ‘struttura larga’ dell’opera erodotea Tucidide contrapponeva una pretesa di tipo monografico: la rinuncia compiuta da Tucidide a tanta ricchezza di temi era il prezzo pagato in nome di un ideale di ‘oggettività’, di ‘verità’, di ‘utilità’, che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso una approfondita, e perciò necessariamente limitata, indagine sui fatti storici e sulle loro connessioni causali. • Con una schematizzazione non priva di utilità, si possono distinguere nella storia della storiografia greca due grosse correnti: quella della storia politico-militare, o ‘pragmatica’, che ha i suoi massimi rappresentanti appunto in Tucidide e Polibio, e quella che evita la rigida selezione che la storiografia ‘pragmatica’ comporta, e dà rilievo alla rappresentazione di caratteristiche e curiosità etnologiche e individuali, accanto alla narrazione dei conflitti: la corrente, insomma, etnografica, descrittiva. Tra le due correnti non ci sono comunque nette barriere di separazione, e in diversa misura, secondo il temperamento, la qualità, la coerenza con le istanze metodologiche dei vari scrittori, l’un tipo di storiografia è permeato dalle esigenze e dagli apporti dell’altro. 7. Crisi e ricomposizione della pólis dopo la guerra del Peloponneso 1. L’idea di crisi. Pubblico e privato tra V e IV secolo • Una cesura importante nella storia della pólis classica è la fine della guerra del Peloponneso, con la sconfitta di Atene da parte di Sparta e della Lega Peloponnesiaca (404). Nel V secolo Sparta e Atene rappresentano non solo città diverse e nemiche, ma modelli di società, di economia, di culture diverse. La guerra del Peloponneso coincide con il momento più alto della classicità, ed è anche il momento del più consapevole divario all’interno del mondo greco: ne risulta lo scontro e il disastro, la trasformazione non solo per i vinti ma anche per i vincitori. • Subito dopo la sconfitta, l’Atene democratica produce un’oligarchia dai tratti tirannici; poi, dopo il suo abbattimento, si instaura una nuova democrazia, per lo più identica con la precedente sul piano formale, ma sicuramente non più la stessa: si avrà infatti una democrazia fondamentalmente più moderata, nella sostanza politica. D’altra parte, questa democrazia attenuata diventerà la forma politica più diffusa, che investirà la struttura anche
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved