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DA BONCOMPAGNI A CASATI: LA COSTRUZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO NAZIONALE (1848-1861) M.C. Morandini, Dispense di Storia della scuola e istituzioni educative

storia della scuola dalla legge Boncompagni alla casati

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 11/03/2019

veronika8
veronika8 🇮🇹

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Scarica DA BONCOMPAGNI A CASATI: LA COSTRUZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO NAZIONALE (1848-1861) M.C. Morandini e più Dispense in PDF di Storia della scuola e istituzioni educative solo su Docsity! DA BONCOMPAGNI A CASATI: LA COSTRUZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO NAZIONALE (1848-1861) M.C. Morandini 1. La Legge Boncompagni Dagli anni’40, fra gli esponenti della classe dirigente, vi fu una progressiva presa di coscienza riguardo al ruolo dell’istruzione nella maturazione politica ed economica della società. La correlazione tra l’alfabetizzazione popolare e lo sviluppo della comunità civile fu evidenziata anche da Giacomo Giovannetti, esperto di economia e di diritto e, incaricato da Carlo Alberto di esaminare le condizioni dell’insegnamento primario nel Regno di Sardegna. L’importanza della funzione della scuola nella formazione del “nuovo” cittadino, fu messa in risalto anche da molte riviste, non solo pedagogiche. Ad ex.: l’Educatore primario (successivamente Educatore), uno dei primi periodici piemontesi, fautore dell’istituzione di corsi postelementari e tecnici come via alternativa all’istruzione secondaria e del potenziamento della scuola popolare; Letture popolari (poi Letture di famiglia), dalle cui pagine Lorenzo Valerio riporta il motto “L’ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà”; o anche la Gazzetta del popolo che individua nell’istruzione delle masse popolari lo strumento idoneo a porre le premesse politiche dell’unità nazionale e le basi per i processi di industrializzazione. Di conseguenza, non stupisce la volontà dello Stato di intervenire direttamente nella gestione dell’istruzione, settore che fino a quel momento era stata monopolio esclusivo del clero. Il processo fu però graduale: avviato nel 1844 con l’istituzione della Scuola superiore di metodo, avrebbe poi trovato la sua compiuta espressione nella Legge Lanza (1857)→ momento chiave del passaggio dal modello scolastico della Legge Boncompagni (1848) a quello della Legge Casati (1859). La svolta fu determinata con l’apertura a Torino (capitale del Regno), di un corso mensile di metodica, diretto dall’abate Ferrante Aporti e riservato agli istitutori primari in possesso della patente di idoneità e a coloro che volevano sostenere l’esame di maestro. L’interesse suscitato dalle lezioni portò il Magistrato della Riforma (organo collegiale a cui era affidata l’istruzione in Piemonte) a estendere l’esperimento ad altre provincie del Regno. Nel 1845 fu quindi creata una scuola provinciale destinata a riqualificare il personale in servizio e a preparare gli aspiranti insegnanti elementari. Le scuole di metodo incontrarono però forti opposizioni negli ambienti conservatori: l’ostilità delle autorità ecclesiastiche era dettata dalla diffidenza verso ogni iniziativa laica che favoriva l’elevazione materiale e spirituale del ceto popolare. Le polemiche ruotavano intorno alla figura di Ferrante Aporti→ associato dai cattolici più conservatori alla diffusione degli asili infantili, istituzione osteggiata in modo particolare dai membri della Compagnia di Gesù. [Società degli Asili Infantili→ associazione promossa da un gruppo di aristocratici su iniziativa di Carlo Boncompagni, che ottiene l’autorizzazione ad aprire solo dopo lunghe trattative con il governo e accettando di avvalersi di insegnanti religiosi]. Tuttavia, le forti opposizioni non influirono sui provvedimenti legislativi che segnarono una marcata presenza dello Stato in materia d’istruzione: • tra il 1847 e il 48 furono introdotte le Regie Patenti→ Carlo Alberto istituisce il Ministero della Pubblica Istruzione (in sostituzione del Magistrato della Riforma di Torino, della Deputazione degli Studi di Genova e del Magistrato sopra gli studi di Cagliari e Sassari). Testimoniano la volontà dello Stato di uniformare il sistema scolastico nel regno e di riconoscergli un’autonomia funzionale ed un proprio bilancio. • legge 25 Agosto 1848→ vengono espulsi dallo Stato subalpino i Gesuiti e le Dame del Sacro Cuore, impegnati nel settore dell’istruzione secondaria • Legge Boncompagni, 4 Ottobre 1848→ viene riorganizzato il sistema scolastico sotto l’egida dello Stato e ampliato in senso popolare il corso primario. La legge fu promulgata in regime di pieni poteri (senza essere discussa e approvata dal Parlamento, poiché era in corso la 1° guerra d’indipendenza), questo spiega le disposizioni che implicavano il passaggio delle scuole di ogni ordine e grado dal controllo dell’autorità ecclesiastica a quello del Ministero e, di conseguenza l’abolizione dei privilegi concessi al clero in materia d’insegnamento. La legge suscitò accese polemiche, fu considerata antireligiosa e incline al materialismo, anche se non costituiva una pregiudiziale per l’insegnamento della religione nelle scuole né limitava le libertà concesse ai privati in materia d’istruzione. Secondo B., convinto assertore del valore dell’istruzione nel progresso della società civile, l’idea di scuola aveva radici nel primitivo concetto delle associazioni di studenti e professori, per questo, il Ministro assistito da Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, fu affiancato da 6 Organi collegiali rappresentati da insegnanti e autorità scolastiche e amministrative, che garantivano competenze pedagogiche e conoscenza delle realtà territoriali. L’assetto amministrativo della legge garantiva uniformità di indirizzo e autonomia di gestione, ed era un modello estendibile ad un intero stato: a livello d’Istruzione Superiore→ erano introdotti i consigli universitari e i consigli di facoltà con funzione propositiva e mansioni esecutive; Istruzione Secondaria→ erano previste le commissioni permanenti e i consigli collegiali, istituiti in ogni circondario universitario e presso i collegi reali o pubblici in cui si insegnava filosofia; Istruzione Primaria→ operavano il consiglio generale per la scuola elementare e di metodo con sede a Torino e i consigli provinciali dislocati sul territorio. La rappresentanza deli amministratori municipali e provinciali era particolarmente significativa, perché l’istruzione elementare era prerogativa dell’amministrazione comunale. Il ciclo elementare fu prolungato fino alla 4° e furono inserite nuove materie come geografia e storia nazionale. Fu posta particolare attenzione all’insegnamento della lingua italiana, considerata lo strumento per la formazione della coscienza e dell’identità nazionale. La legge sollevò obiezioni anche nella classe dirigente liberale, che considerava l’assetto amministrativo troppo lento e macchinoso. Il deputato Domenico Berti, invece, difese il Consiglio generale delle scuole elementari e di metodo, al quale riteneva fosse dovuto l’incremento dell’istruzione elementare registrato dalle statistiche. Gli organi rappresentativi posero particolare accento sul coinvolgimento di tutte le forze sociali nel processo di alfabetizzazione e di “spiemontizzazione” della scuola per valorizzare il ruolo dell’istruzione nella causa nazionale. In tal senso particolarmente efficace per l’accostamento del popolo all’idioma italiano fu l’insegnamento della lingua, per cui il Consiglio sottopose gli alunni di 3° e 4° ad un esame per verificare lo stato di insegnamento della lingua nel biennio. La progressiva diffusione dell’alfabeto fra le classi popolari al fine di rafforza la coscienza nazionale ridimensiona il valore delle opposizioni, riconducendole a ragioni di opportunità politica evidente nella Riforma Lanza, che propone un modello ispirato ai criteri di accentramento e ingerenza governativa. 2. La Legge Lanza dimensione etico-civile, trattata attraverso brevi racconti e cenni al Vecchio e al Nuovo Testamento. In realtà, L voleva la totale abolizione dell’insegnamento della storia sacra, ma accusato di porre religione e lavori a maglia sullo stesso piano, fu costretto ad assumere un atteggiamento più moderato. La consapevolezza del ruolo dei docenti nella formazione dell’identità nazionale portò a riqualificare l’operato degli istitutori soprattutto nell’ambito della scuola elementare, l’unica in grado di raggiungere in modo capillare ampi strati della popolazione. Tuttavia, la max parte degli insegnanti era priva di competenze adeguate a causa della brevità dei corsi e della vacuità dei programmi delle scuole magistrali, affidate alle Provincie, il che portò L ad affermare la responsabilità statale nella formazione dei docenti, pienamente giustificata dall’identificazione dell’istruzione pubblica con quella statale e dal ruolo della scuola nella costruzione di una coscienza nazionale. Per questo motivo erano favorite le scuole magistrali statali a quelle provinciali, sia nei corsi comunali per l’assegnazione del posto di maestro elementare, sia dal pdv retributivo. I corsi provinciali erano così discriminati e la legge del 1858 segnò la svolta della politica scolastica subalpina nell’ottica della promozione della scuola nazionale. 3. La Legge Casati Nel 1859 scoppiò la seconda guerra di indipendenza, nella quale il Regno di Sardegna poteva contare sull’appoggio della Francia contro l’Austria e che culminò con l’armistizio di Villafranca e il Trattato di pace di Zurigo, i quali sancivano la cessione della Lombardia, eccetto Mantova e Peschiera, allo stato subalpino. Per consentire piena libertà d’azione nella conduzione delle vicende belliche, il Parlamento rinunciò ai propri poteri a favore del governo. In questo regime di pieni poteri il nuovo ministro Gabrio Casati elaborò una legge sul riordinamento della P. I (1859) che, insieme con altre leggi relative ad altri settori (giustizia, amministrazioni locali, pubblica sicurezza), rifletteva la volontà di uniformità e unificazione legislativa. Si comprende così la scelta di creare un sistema scolastico suscettibile di estensione alle provincie annesse, basato su prescrizioni semplici che rispondessero alle nuove esigenze del contesto storico-politico. Il testo della Legge Casati era ripartito in 5 titoli (amministrazione, istruzione superiore, istruzione secondaria classica, istruzione tecnica, istruzione elementare), e, evidenziava la volontà di riconoscere ad ogni genere di scuola una specificità nel sistema nazionale, nonostante le evidenti disuguaglianze riservate ad alcuni settori, come la legislazione riguardante la formazione del maestro, accorpata in un unico titolo con l’insegnamento primario e, di conseguenza, svalutato e considerato non educatore ma mero esecutore delle direttive ministeriali e trasmettitore dei contenuti della scuola nazionale. Inoltre, i piani di studi delle scuole normali diventano più tecnici e lasciano poco spazio all’interpretazione e all’iniziativa del singolo docente. La prospettiva di un ulteriore ampliamento del regno portò all’investimento di max risorse nell’istruzione pubblica, con lo scopo di formare i cittadini del nuovo stato, chiamati a vivere in una nuova realtà nonostante le diversità, nel quadro di una progressiva integrazione e consapevolezza che le recenti trasformazioni fossero il frutto di un processo di unificazione nazionale. la scuola è l’unico strumento in grado di raggiungere tali fini, perciò non stupisce l’introduzione del principio di istruzione gratuita (primaria) e obbligatoria, nel rispetto delle scelte familiari per provvedere all’educazione della prole (pubblico o privato). Nonostante l’assenza di norme nei confronti dei padri renitenti, l’introduzione del dovere di istruire i figli era una rilevante novità (nella Boncompagni che di fatto era ancora la legge in vigore non si faceva alcun cenno al dovere di istruire i figli). Su questa scia si poneva la volontà del ministro di fornire una connotazione nazionale dei contenuti della scuola: furono preservate, in tutti i gradi di scuola, discipline come storia, geografia e soprattutto l’italiano, il cui insegnamento favoriva la riscoperta di un passato comune, l’integrazione e la comunicazione in virtù della convivenza tra popolazioni prima completamente estranee. Furono incrementate le scuole normali, finalizzate alla formazione del maestro, ma non ne fu modificato il piano di studi o la durata (3-4 anni), in quanto si riteneva fornissero un’adeguata preparazione. Il ruolo incisivo della scuola nella formazione del cittadino, portò C a rafforzare il controllo statale nell’amministrazione scolastica, accrescendo il numero dei membri del Consiglio Superiore, con funzioni consultive nei confronti del ministro, il quale controllava l’istruzione pubblica e sorvegliava quella privata. Vi erano, inoltre, 3 ispettori generali, uno per ogni ramo dell’istruzione, che facevano da intermediari tra il ministro e le autorità locali rappresentate dai rettori delle università, dai provveditori provinciali e dal regio ispettore. Questo accentramento burocratico era parzialmente bilanciato dall’introduzione (novità) di un graduale principio di libertà di insegnamento, concepito in termini di concorrenza tra pubblico e privato. Questa apertura della C era, però, circoscritta all’istruzione pubblica, mentre per quanto riguarda le scuole private, queste erano soggette a precisi vincoli. I cittadini che volevano istituire scuole private, infatti, dovevano soddisfare precise condizioni di età, moralità, competenze e organizzazione. Il clero vedeva un proprio riscatto in campo educativo nel diritto dei singoli cittadini a istituire scuole e cominciava ad affrontare il problema in modo sistematico attraverso una linea di intervento uniforme elaborata nell’ambito delle conferenze episcopali. Le affermazioni di C sulla libertà di insegnamento non trovarono piena applicazione nell’istruzione superiore. La figura del libero docente, parificata economicamente ai professori ufficiali, era in realtà molto sacrificata, in quanto ammessa solo nelle università per i corsi a titolo pubblico ed era suscettibile di licenziamento qualora non si fosse attenuta ai principi religiosi, morali e politici dello stato. Nella legge C, inoltre, figuravano misure volte a facilitare il compito delle amministrazioni per l’istruzione popolare, come ad ex l’autorizzazione ad affidare ad un unico maestro l’insegnamento del biennio elementare inferiore e superiore. La scarsa applicazione del principio di libertà di insegnamento era dovuta alle opposizioni incontrate negli ambienti politici e culturali che, a causa dei conflitti fra stato e chiesa, a seguito della laicizzazione della scuola, erano diffidenti circa la possibilità di concedere ampi spazi ai privati nel settore educativo. La classe dirigente temeva, infatti, che solo il clero, ostile alle nuove leggi, avesse i prerequisiti adatti ad istituire scuole in concorrenza con quelle statali. Inoltre, in un regime di media libertà, questa voleva espandere il sistema scolastico sabaudo all’intero regno, attraverso una “piemontizzazione”. C denunciava l’incoerenza tra la relazione introduttiva e il testo di legge, giustificandola proprio con le opposizioni da lui incontrate, indice dell’impossibilità di svincolare il sistema da vecchie ordinanze, in nome della libertà. In fin dei conti, il contenuto della legge era espressione degli orientamenti della politica scolastica subalpina nel decennio precedente. La legge C si mantenne sulla linea generale tracciata nel 1856, quando era più semplice dedurre i bisogni e le esigenze dei cittadini in merito all’istruzione popolare. la genesi piemontese della C si evince anche dalla tendenza alla laicizzazione della scuola attraverso la scelta di rendere facoltativa l’istruzione religiosa (a cura del direttore spirituale). Essa divenne una materia a latere, ininfluente ai fini della promozione, oggetto di culto più che di una vera e propria attività didattica, soggetta ad una graduale emarginazione che ne provocò la definitiva sospensione. L’obbligatorietà dell’istruzione religiosa nel ramo inferiore degli studi era accompagnata dall’introduzione di alcune misure volte a tutelare gli alunni a- cattolici e il diritto delle famiglie a provvedere autonomamente ad essa. In questo senso si comprendono le obiezioni degli esponenti più autorevoli della vita politica, che lamentavano soprattutto la prospettiva molto accentratrice della C che rischiava di penalizzare il sistema scolastico delle nuove provincie, basato su una max autonomia o sul principio del self-government. Per questo motivo il nuovo ministro, Terenzio Mamiani, tentò di rivedere il regio decreto del 1859, fallendo. La mancata revisione della Casati→ nel settembre del 1859 Carlo Tenca pubblicò sul Crepuscolo (importante rivista lombarda degli anni 50) un articolo di commento alla C che individua i nodi cruciali su cui si sarebbe soffermato il dibattito sulla legge. Le obiezioni di Tenca si possono riassumere in 5 punti fondamentali: 1. la promulgazione della legge in regime di pieni poteri 2. l’accentramento amministrativo 3. la limitata applicazione della libertà di insegnamento 4. lo scarso valore attribuito agli studi scientifici 5. la condizione precaria della classe magistrale sotto il profilo economico-giuridico. Un’altra critica era innalzata da Gerolamo Boccardo, noto economista, a proposito della preferenza accordata all’indirizzo classico nell’istruzione secondaria, destinata a ripercuotersi sulla società. La penalizzazione che subivano le scuole tecniche era evidente da alcuni provvedimenti: le scuole tecniche non potevano essere poste a carico dello stato, dovevano essere aperte solo nei centri popolosi in cui se ne avvertiva il bisogno e il corso di perfezionamento aveva sede solo a Milano, nonostante l’esistenza di numerosi centri industriali. Le critiche più forti riflettevano una tendenza al principio del self-government nella scuola e l’involuzione che si sarebbe registrata in Lombardia con la legge C. In campo educativo era accordata una preferenza alla società civile, ritenuta più saggia e forte rispetto al governo e, quindi degna di max fiducia delle “scolasticherie ufficiali”. Vi era, d’altro canto, un giudizio molto positivo riguardo alla legge Boncompagni, che aveva introdotto una più larga autonomia delle scuole e una max autonomia degli insegnanti e, un atteggiamento critico verso la legge Lanza, che proponeva, in nome di una gestione più snella, uniformità di indirizzi e una ridefinizione dell’assetto amministrativo della scuola. Ci furono toni duri nei confronti del ministro per il tentativo di creare un sistema scolastico accentrato e soggetto alle ingerenze governative, che aveva avuto come unico effetto quello di introdurre una rigida uguaglianza, lesiva delle libertà individuali e della qualità degli studi. La nuova legge rappresentava un passo indietro rispetto all’istruzione magistrale e tecnica del sistema austriaco. In Austria i maestri erano nominati dal governo per le scuole elementari maggiori e, dall’ispettore generale per le scuole elementari minori. L’istitutore scolastico, inoltre, poteva essere rimosso dall’incarico solo per motivi gravi, relativi alla condotta morale o all’incapacità di insegnamento. Vi erano, inoltre, precise garanzie economiche, come la pensione e la determinazione di una soglia minima di stipendio paria 1037 franchi, che consentiva un tenore di vita dignitoso. La C non aveva altrettanta sensibilità per la classe magistrale: l’insegnante elementare era soggetto ad un contratto triennale rinnovabile per altri 3 anni o a vita, da parte dell’amministrazione municipale e, quindi subiva precarietà ed era in balia delle autorità locali, che poteva ricattarlo costringendolo a prestare servizio gratuito. In questo modo, inoltre, si tendeva a favoreggiare un frequente ricambio di personale a vantaggio dei candidati più giovani anche perché i comuni erano chiamati a contribuire al monte pensioni. Vi era, inoltre, una sostanziale contraddizione evidente dalle parole di Giuseppe Sacchi, che affermava come vi fosse un contrasto tra l’impegno profuso per la causa nazionale e il trattamento della categoria magistrale, il cui stipendio minimo oscillava tra 550 e 1200 lire. Per quanto riguarda gli studi tecnici, nei territori austriaci, le scuole reali minori erano diffuse sul territorio e il corso di studi durava 2 o 3 anni, a discrezione delle autorità municipali. La flessibilità e la diffusine dei corsi tecnici li rendevano accessibili a larghe fasce della popolazione e rispondenti alle diverse esigenze. Le Realschule avevano inoltre una connotazione tecnica più specifica, come testimonia la presenza di discipline specialistiche e più inclini all’aspetto professionale. Analoghe sono le considerazioni per la scuola reale superiore aperta a Milano nel 1852, destinata a impartire un moderno sapere fondato su conoscenze specifiche richieste a chi intendeva dedicarsi a professioni industriali. Tale scuola apriva la strada ai corsi universitari al pari dell’indirizzo classico nella riforma C. Ciò evidenzia come, negli ex territori asburgici, la C rappresentasse un regresso nell’ordinamento degli studi tecnici. Le critiche riguardanti l’accentramento amministravo e alla limitata applicazione del principio di libertà di insegnamento
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