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DA BONCOMPAGNI A CASATI, LA COSTRUZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO NAZIONALE (1848-1861), Dispense di Storia della scuola e istituzioni educative

In questo documento si parla dell'articolo: da Boncompagni a Casati: costruzione del sistema scolastico nazionale (1848-1861)

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 05/06/2023

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Scarica DA BONCOMPAGNI A CASATI, LA COSTRUZIONE DEL SISTEMA SCOLASTICO NAZIONALE (1848-1861) e più Dispense in PDF di Storia della scuola e istituzioni educative solo su Docsity! La legge Boncompagni: l’affermazione della funzione civile e pubblica dell’istruzione in una dimensione nazionale Nela classe dirigente e negli ambienti culturali subalpini si assiste, a partire dagli anni Quaranta, a una progressiva presa di coscienza del ruolo dell'istruzione, massime elementare, in ordine alla maturazione politica e alla crescita economica della società: la diffusione dell'alfabeto tra i ceti popolari veniva infatti associata, nel pensiero degli esponenti della classe politica, allo sviluppo, non solo materiale, della comunità civile. La stretta correlazione tra i due fattori era evidenziata in modo chiaro ed efficace da Giacomo Giovanetti, l'esperto di economia e di diritto incaricato da Carlo Alberto di studiare le condizioni dell'insegnamento primario nel regno di Sardegna: «Vostra Maestà ha compreso - scriveva nella relazione indirizzata al sovrano nel 1841 - che la prosperità e la potenza di uno Stato e al sua influenza dipendono essenzialmente dall'ordinamento civile ed economico interno, onde al necessità di promuovere l'educazione e l'istruzione pubblica [...], ma non basta che vi sia un numero grande di ingegni privilegiati e colti, giusta li sapiente concetto di Vostra Maestà vuolsi ampiamente diffondere e con somma prudenza riordinare l'istruzione elementare [...]. La spesa della scuola non è che un'anticipazione produttiva che rende con usura. È denaro che si diffonde nel paese e ne accresce la ricchezza». L'importante funzione della scuola nella formazione di una nuova figura di cittadino e di lavoratore emerge anche dalla lettura di giornali e riviste dell'epoca, non solo a carattere pedagogico-educativo; si pensi ad esempio “all’Educatore primario” (1845-1846) divenuto successivamente “Educatore” (1847-1848), uno dei primi periodici piemontesi che, rivolto alla classe magistrale, era fautore dell'istituzione di corsi postelementari e tecnici come via «alternativa» all'istruzione secondaria, nonché del potenziamento della scuola popolare, concepita come ciclo a sé e non più in termini di insegnamento propedeutico ai successivi ordini di studi; oppure alle «Letture popolari» (1837-1841) poi «Letture di famiglia» (1842-1847) dalle cui pagine Lorenzo Valerio, all’insegna del motto ”l’ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà”, promuoveva un'opera di sensibilizzazione in favore degli asili, delle scuole serali, di quelle festive e dell'istruzione professionale secondo un criterio pedagogico volto ad una decisa affermazione del nuovo, identificato con l'avvento di una società industriale e progressista; o alla stesa «Gazzetta del popolo» che individuava nell'istruzione delle masse popolari lo strumento idoneo a porre le premesse politiche dell'unità nazionale e le basi culturali ed economiche dei processi di industrializzazione. Alla luce dell'acquisita consapevolezza del valore pubblico dell'istruzione non stupisce la volontà dello Stato di intervenire direttamente nella gestione del sistema scolastico, settore che era stato fino ad allora esclusivo monopolio del clero e delle congregazioni religiose. Si tratta di un processo graduale che, avviato con l'istituzione della scuola superiore di metodo (1844), avrebbe poi trovato la sua compiuta espressione nella legge Lanza del 1857, momento chiave del passaggio dal modello scolastico di Boncompagni (1848) a quello di Casati (1859). La svolta in materia d'istruzione fu determinata, come accennato, dall'apertura, nella capitale del regno, di un corso mensile (26 agosto – 30 settembre) di metodica che, diretto dall'abate Ferrante Aporti, era riservato agli istitutori primari in possesso della patente di idoneità e a quanti intendevano sostenere l'esame di maestro. L'interesse suscitato dalle lezioni del sacerdote cremonese, seguite da un pubblico numeroso ed eterogeneo (centosettanta erano gli insegnanti iscritti e circa trecento gli uditori), indusse il Magistrato della Riforma, l'organo collegiale a cui era affidatala direzione e li controllo dell'istruzione in Piemonte, a estendere l’esperimento torinese alle altre province del regno: dal 1845 alla Scuola superiore di Torino, destinata a formare nell'arco di otto mesi (novembre-giugno) i professori di metodica, si affiancò, pertanto, una scuola a carattere provinciale che, aperta da agosto a ottobre, aveva li compito di riqualificare il personale in servizio e di preparare quanti aspiravano a svolgere la professione di insegnante elementare. La scelta di attuare la riforma a partire dal settore magistrale era dettata dall'esigenza di disporre di valenti insegnanti in grado di fornire al popolo, in maniera efficace e proporzionata alle esigenze del mutato contesto socioeconomico, quell’istruzione primaria di cui ora si cominciava ad avvertire la necessità. L'istituzione delle scuole di metodo incontrò forti resistenze negli ambienti conservatori e in una parte della Chiesa, come si evince dalle posizioni assunte dai vertici della gerarchia ecclesiastica e dai superiori di alcuni ordini religiosi impegnati in campo educativo. L'ostilità delle autorità ecclesiastiche era dettata dalla diffidenza verso ogni iniziativa laica che, volta a favorire l'elevazione materiale e spirituale delle classi popolari, si configurava agli occhi delle forze reazionarie e di alcuni settori del mondo cattolico come un fattore di destabilizzazione sociale e un pericolo per la religione. Non è un caso che le polemiche sull'apertura della scuola di metodo ruotassero attorno al nome di Ferrante Aporti, figura associata dagli esponenti più conservatori del cattolicesimo subalpino alla diffusione degli asili infantili, istituzioni profondamente avversate nei decenni precedenti dalla maggioranza dell'episcopato e dai membri della Compagnia di Gesù: è emblematica la vicenda della «Società degli asili infantili», l'associazione che, promossa da un gruppo di aristocratici, borghesi e ecclesiastici su iniziativa di Carlo Boncompagni, ottenne l'autorizzazione ad aprire scuole solo al termine di lunghe trattative con il governo e in virtù della accettata clausola di avvalersi di personale insegnante religioso (le suore della Carità di Rivarolo). Altrettanto significativo è il silenzio del Magistrato della Riforma in merito alla decisione di affidare a Ferrante Aporti la direzione del corso tenutosi a Torino nell'estate del 1844: l'affermazione di mons. Pasio, presidente del Magistrato, di «aver provveduto un abile professore straniero» per l'insegnamento della metodica, affermazione volutamente generica, dà l'esatta misura delle resistenze e delle difficoltà incontrate, negli ambienti religiosi e nel contesto culturale dell'epoca, dalla classe liberale subalpina nel tentativo di promuovere una svolta della politica scolastica, simboleggiata dalla chiamata nella capitale del sacerdote cremonese. La forte opposizione nelle file della estrema destra piemontese e all'interno del mondo cattolico non influì sulle scelte della classe dirigente in favore di una presenza sempre più incisiva dello Stato in materia d'istruzione, come testimoniano i provvedimenti legislativi parlamento siederanno gli anfinzoni della scienza ed i figli eredi d'Alfieri, di Lagrangia, di Volta e di Fontana, di Scarpa e di Cagnoli; stretti in un sol nodo, seguaci d'una sola bandiera, ispirati alla medesima fede mostrino all'Europa coll'ingegno, come altri avrà provato coll’armi, che Italia vive e vive d’una vita terribile a chi s’ardisca a tornare a calpestare nemico la sua sacra terra». Alla luce delle affermazioni del sacerdote assumono un preciso significato anche le novità introdotte nel ramo inferiore degli studi in merito alla durata e al programma dei corsi: se si considerano, ad esempio, le scuole primarie annesse ai collegi nazionali è possibile rilevare da un lato il prolungamento del ciclo elementare fino alla quarta classe, dall'altro l'inserimento di nuove materie quali la geografia e la storia nazionale, oltre alla scelta di anteporre l'insegnamento vivo della lingua italiana allo studio delle regole grammaticali. Emblematici al riguardo sono nel primo biennio il riferimento alla nomenclatura e «agli esercizi pratici della lingua» come presupposto «alla conoscenza delle parti del discorso e alla coniugazione dei verbi», nel secondo biennio l'esortazione alla lettura dei «racconti tratti dall'istoria d'Italia» e dei testi descrittivi dell'«Italia e [delle] sue divisioni». Interessante, in particolare, è l'accento posto sull'italiano, o, per usare le parole. di Boncompagni, sulla «lingua materna», che, veicolo dele consuetudini, dei costumi e delle tradizioni di un popolo, rappresentava un efficace strumento per la formazione della coscienza e dell'identità nazionale. L'attenzione nei confronti della lingua italiana, insieme alla centralità accordata allo studio della «natura visibile» e delle «quantità», attesta, inoltre, l'opzione del ministro per un corso primario a carattere popolare, concepito come un ciclo di studi a sé, non più funzionale ai successivi ordini di scuola. Non è un caso che l'idea d'istruzione elementare delineata nella nuova legge incontrasse l'opposizione di alcuni rappresentanti del mondo universitario, interpreti di una concezione sostanzialmente tradizionale ed elitaria della scuola primaria, fondata sulla grammatica e sul latino. Si pensi, ad esempio, al discorso letto a Torino dall'insigne professore di eloquenza e letteratura latina Tommaso Vallauri in occasione della cerimonia inaugurale dell'anno accademico 1852-1853: le parole del cattedratico, ironiche e velate di sarcasmo, esprimevano vivo disappunto nei confronti del nuovo insegnamento sia in ordine ai contenuti, considerati «farraginosi», sia in ordine al metodo che presupponeva l'utilizzo di semplici dialoghi e di esercizi strutturati sull'esperienza quotidiana, strumenti, a giudizio dell'illustre latinista, inefficaci e banali. L’intervento all’ateneo torinese acquisisce un ulteriore significato alla luce dell'appartenenza di Vallauri a quegli ambienti confessionali che, come sottolineato in precedenza, avversavano il modello di scuola elementare proposto da Boncompagni, prima in qualità di presidente dell'Associazione per gli asili infantili, poi in veste di ministro della Pubblica Istruzione. La legge del 1848, oltre a suscitare forti critiche negli ambienti cattolici più conservatori e in autorevoli esponenti della cultura subalpina, era destinata a sollevare obiezioni all'interno della stessa classe dirigente liberale. La lettura degli atti ufficiali di Camera e Senato, relativamente al quinquennio 1850-1855, consente di affermare che una significativa percentuale di parlamentari, pur nella diversità dei toni e nella varietà delle soluzioni proposte, sollecitò una revisione dell’asseto amministrativo dell'istruzione pubblica, paragonato a una macchina il cui elevato numero di ingranaggi (rappresentati nel caso specifico dai consigli), rendeva lento e problematico, se non addirittura impossibile, il funzionamento: nella migliore delle ipotesi, essi sostenevano, in virtù della pletora di organismi scolastici previsti dalla legge, si sarebbe determinata una situazione di confusione, di incertezza e di precarietà che non avrebbe consentito l’adozione di un orientamento lineare e uniforme in materia d’istruzione. L'acceso intervento del deputato Domenico Berti in difesa del Consiglio generale delle scuole elementari e di metodo, organo del quale da più parti si auspicava la soppressione, fornisce l’esatta misura di quanto fosse vivo nelle aule parlamentari il confronto sul tema dell'amministrazione scolastica: «Quasi tutto l'incremento che ha preso l'istruzione primaria nel nostro paese – egli affermava durante la discussione del bilancio passivo della pubblica istruzione – si deve all'istituzione di questo Consiglio generale delle scuole elementari. Prima che tale Consiglio esistesse, noi avevamo una grandissima maggioranza di comuni che erano privi di scuole. Dal momento che esso fu istituito e che contemporaneamente si istituirono scuole per preparare i maestri, la nostra istruzione cominciò a diffondersi con larghissimo sviluppo». Le affermazioni dell'on. Domenico Berti trovano riscontro nella lettura degli atti ufficiali (circolari, istruzioni) e nell'esame dei dati statistici: gli uni e gli altri attestano, infatti, l'alacre attività del consiglio generale e dei consigli provinciali, non ché il significativo incremento, nel periodo in cui operarono tali consigli, del numero delle scuole primarie e di quello degli alunni e delle alunne tenuti a frequentarle. È interessante l'accento posto da questi organi rappresentativi sulla necessità di coinvolgere tutte le forze sociali nell'opera di diffusione dell'alfabeto, così come la manifestata volontà di promuovere una progressiva «spiemontesizzazione» della scuola nel rispetto del principio di libertà e nella valorizzazione dell'apporto dell'istruzione alla causa nazionale, punti qualificanti del regio decreto del 1848. Così, se la circolare relativa all'istituzione di scuole elementari femminili (3 ottobre 1849) aveva come destinatari, oltre ai provveditori e agli intendenti, i sindaci e i parroci, l'istruzione indirizzata ai professori e agli assistenti delle scuole provinciali di metodo (25 maggio 1861) sollecitava la classe insegnante ad attenersi, per le esercitazioni narrative, a episodi storici di carattere prevalentemente nazionale, nella convinzione che questi potessero «più efficacemente destar nell'animo dei giovanetti sentimenti di pietà, di virtù, d'amor patrio». Altrettanto significativi erano da un lato l'invito alla lettura di autori estranei alla tradizione pedagogico-scolastica subalpina (Cesare Cantù e l'abate Alessandro Parravicini per l'area lombarda, Raffaello Lambruschini e Pietro Thouar per quella toscana), dall'altro il richiamo all'utilizzo del racconto in lingua italiana nella consapevolezza dell'importanza di un progressivo accostamento della popolazione all'idioma nazionale: fattore quest' ultimo che aveva indotto i membri del Consiglio generale a sottoporre gli alunni di terza e quarta classe a un esame straordinario allo scopo di verificare lo stato del l'insegnamento dell'italiano nel biennio elementare superiore. L'attività dei consigli d'istruzione primaria, oltre a essere documentata dagli atti ufficiali, che ne rivelano la sostanziale uniformità con i principi sottesi alla Boncompagni, trova, come accennato, un positivo riscontro nei dati della statistica. Tre sono le rilevazioni che consentono di quantificare il progresso dell'istruzione nel settore elementare: la prima si riferisce al 1850, la seconda all'anno scolastico 1852-1853, l'ultima al triennio compreso tra il 1854 e li 1856. Ci limitiamo a indicare alcune cifre che danno l'esatta proporzione dell'incremento registrato nel ramo inferiore degli studi durante il periodo preso in esame. Il numero delle scuole elementari maschili del Regno, pari a 4.337 nel 1850, ascende a 5.278 nel 1853, per giungere, tre anni dopo, a 5. 923 con un aumento, in rapporto al valore iniziale, rispettivamente del 21.6% e del 36.5%; il numero delle scuole elementari femminili raddoppia passando da 1.276, dato del 1850, a 2.208 nel 1853, a 2.914 nel 1856. Degna di rilievo è anche la tendenza positiva del tasso di frequenza della popolazione scolastica elementare: i 136.352 alunni del 1850 raggiungono le 174.837 unità nel 1853 per attestarsi a 191.978 nel triennio successivo, con una crescita che si aggira attorno al 28% e al 40%; le 40.278 alunne del 1850 ascendono a 84.388 nel 1853 e a 127.886 nel 1856 con una variazione percentuale pari a +109,55 e a +217,5%. Da questi dati, relativi al quadro dell'istruzione primaria nel Regno, appare evidente come l'operato del Consiglio generale e di quelli provinciali abbia avuto una effettiva incidenza sulla realtà scolastica subalpina, caratterizzata, nel quinquennio considerato, da una progressiva diffusione dell'alfabeto tra le classi popolari nella prospettiva della formazione di una coscienza nazionale. È una conclusione che pone in dubbio, o per lo meno ridimensiona, il valore delle affermazioni di alcuni parlamentari dell'epoca in merito al mancato funzionamento e alla scarsa efficacia degli organi scolastici, massime elementari, introdotti nel 1848. Si tratta di affermazioni riconducibili, probabilmente, a ragioni di opportunità politica e a una diversa concezione in ordine al rapporto tra Stato, enti locali e privati nella gestione dell'istruzione pubblica. Non è un caso che la riforma Lanza, destinata a ridurre in maniera significativa il numero degli organismi rappresentativi, proponga un modello ispirato ai criteri dell'accentramento e dell'ingerenza governativa. Queste considerazioni non intendono tuttavia porre in discussione la legittimità di proposte finalizzate a modificare, sulla base dell'esperienza, le parti della legge suscettibili di miglioramento; un'esigenza, questa, riconosciuta dallo stesso Boncompagni che, negli anni successivi all'entrata in vigore del regio decreto, si dichiarava favorevole all’elaborazione di «proposizioni per rendere più semplice l'effettuazione di quelle riforme che nel 1848 si erano iniziate». La legge Lanza: la svolta in senso accentratore della politica scolastica subalpina Il 5 marzo 1852 li ministro Luigi Carlo Farini, presentò alla Camera un progetto sul riordinamento dell'amministrazione superiore della Pubblica Istruzione, primo tentativo di promuovere una completa revisione dell'assetto introdotto dalla Boncompagni. Nel delineare i caratteri della riforma, egli pose l'accento sulla necessità di estendere l'autorità ministeriale attraverso una significativa riduzione del numero degli organi scolastici istituiti nel 1848, come testimonia la volontà di abolire, oltre al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, i Consigli universitari, le Commissioni permanenti per le scuole secondarie, il Consiglio generale per le scuole elementari e di metodo e i Consigli provinciali d'istruzione elementare, sostituiti da tre distinti organismi alle dipendente del ministero: il Consiglio per le scuole universitarie, responsabile del ramo superiore degli studi; il Consiglio per le scuole secondarie, preposto all'istruzione media, classica e tecnica e il Consiglio per le scuole primarie al quale spettava il compito di vigilare sull'istruzione elementare. Emblematiche al riguardo sono le parole pronunciate dallo stesso Farini all'assemblea dei deputati, parole che riflettono la preoccupazione di restituire «all'autorità ministeriale efficace e piena la sua forza»: grazie alle nuove disposizioni, dichiarava il ministro nella relazione introduttiva al disegno di legge, «rimane rafforzata l'azione centrale ed il Governo si circonda in pari tempo dei lumi di uomini questa risponsabilità assolutamente ei non la può assumere. È questo difetto radicale adunque, è questa imperfezione che il presente progetto essenzialmente tende a correggere». Nel sistema ideato da Lanza erano previsti due soli organi rappresentativi: il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e la Depurazione provinciale per le scuole, chiamati a coadiuvare rispettivamente il ministro e il provveditore nell'esercizio delle proprie funzioni. Tali consigli avevano un ruolo puramente ausiliario: il primo si configurava, agli occhi del legislatore, non come corpo scientifico, ma come elemento di supporto all'azione ministeriale nella parte di «amministrazione mista», relativa cioè a compiti di natura didattica e organizzativa; il secondo era stato concepito per il disbrigo degli «affari di minor rilievo», altrimenti destinati a gravare “soverchiamente” sul ministero. In questa prospettiva si spiegano anche le disposizioni inerenti alla composizione degli organi scolastici quali l’abolizione del principio di inamovibilità per i membri ordinari del Consiglio Superiore, rinnovabili ogni quinquennio e la decisione di accrescere l'ingerenza governativa nelle Deputazioni provinciali, formate in maggioranza (cinque su nove) da membri di nomina ministeriale in carica per un periodo non superiore a dodici mesi, contrariamente a quanto avveniva per quelle elette dalle amministrazioni locali. Non stupisce pertanto il fatto che gli ispettori e i provveditori, figure già previste dalla Boncompagni in qualità di intermediari tra i Consigli e le diverse componenti della realtà scolastica, fossero posti alle dipendenze del ministro come «cooperatori costanti nell'esecuzione delle leggi e dei regolamenti, nella vigilanza continua dell'amplissima sfera dell'insegnamento pubblico». Ne derivava una struttura amministrativa gerarchica e verticistica articolata su tre livelli: al primo il ministro il quale, con l'ausilio del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, avanzava proposte di legge e deliberava relativamente ad ogni grado d'istruzione; al secondo il consultore universitario, l'ispettore generale delle scuole secondarie e quello delle scuole magistrali ed elementari, con funzioni di coordinamento e di controllo estese all'intero territorio nazionale; al terzo il regio provveditore che, affiancato dalla Deputazione e dall'ispettore provinciale, rappresentava la longa manus del governo a livello locale. I funzionari del ministero estendevano la loro giurisdizione anche alle scuole private in linea con l'affermazione «del diritto e dovere dello Stato non solo di assicurare il buon andamento della scuola ufficiale, ma sì pure di sopravvegliare qualsiasi altra a tutela degli ordini pubblici, della morale e della cultura nazionale». Non erano esenti da tale controllo nemmeno i Seminari e i Collegi vescovili, pena la mancata ammissione dei propri allievi agli esami e ai corsi tenuti presso le scuole statali. Nel determinare i modi e i limiti dell'ingerenza governativa negli istituti privati il ministro, di fatto, prendeva posizione sul tema della libertà d'insegnamento, nonostante le dichiarazioni ufficiali in base alle quali la questione era rimandata alla presentazione delle leggi speciali relative ai diversi gradi dell'istruzione. Se si considera che in base alla normativa vigente l'apertura di una scuola da parte di un qualunque cittadino, una volta adempiute le molteplici prescrizioni, era vincolata al parere del ministro, al quale pure spettava decidere in merito alla sua eventuale chiusura, sembra legittimo individuare nella linea adottata da Lanza la negazione pratica di tale principio. D'altra parte, la mancanza di qualsiasi accenno all'istruzione privata nel progetto di legge sul ramo inferiore degli studi, in aperta contraddizione con le intenzioni manifestate dal ministro, rappresenta un'ulteriore conferma di come al scelta di procrastinare il dibattito sulla libertà d'insegnamento non fosse dettata tanto da motivazioni contingenti (l'esigenza di procedere alla riorganizzazione della scuola pubblica), quanto da una precisa concezione che individuava nello Stato il principale se non esclusivo promotore dell'istruzione nazionale. La proposta Lanza suscitò una forte opposizione in Parlamento e nella stampa, da parte di coloro che non si riconoscevano nell'identificazione operata dal ministro tra istruzione pubblica e istruzione nazionale. Il deputato Domenico Berti, che già in occasione della difesa del Consiglio generale delle scuole elementari si era rivelato un convinto assertore del ruolo delle autorità locali nella diffusione dell’alfabeto, rivendicava alle famiglie, alle associazioni e alle amministrazioni operanti sul territorio, considerate il fulcro della vita politica e sociale della nazione, il diritto di istituire e gestire proprie scuole in aperta concorrenza con quelle statali La libertà d'insegnamento rappresentava, a giudizio del Berti, l'unica garanzia per la creazione di un sistema scolastico integrato che, fondato sul presupposto di una collaborazione tra tute le forze sociali, era l'emblema della diversificazione e della molteplicità di risorse di cui poteva disporre la società politica e civile nel settore dell'istruzione. Sulla stessa linea si collocavano i redattori dell'«Istitutore», la rivista pedagogico-scolastica che, fondata a Torino nel 1853 da un gruppo di pedagogisti, insegnanti e funzionari scolastici (provveditori, ispettori), era nota negli ambienti culturali subalpini per l’impegno profuso in favore delle libertà individuali, dei diritti dei padri di famiglia e dele prerogative municipali: basti pensare all'ampio spazio concesso in ogni fascicolo sia all'apertura di scuole maschili e femminili promosse da genitori o da associazioni sia alle celebrazioni solenni negli istituti privati (discorsi d'inaugurazione dell'anno scolastico, distribuzione di premi e di attestati finali); oppure ad alcune iniziative, patrocinate dallo stesso «Istitutore» quali le conferenze pedagogiche magistrali e i concorsi per la compilazione di libri d'italiano e di storia ad uso delle scuole elementari. Negli articoli del periodico, Nicolò Tommaseo il comitato di redazione denunciavano con vigore la volontà di Lanza di accentrare nella propria persona il controllo e la gestione dell'intero sistema scolastico in nome della proclamata responsabilità ministeriale. La stessa affermazione del principio della libertà d'insegnamento, conseguente all'approvazione dell'ordine del giorno Michelini, così come l'indicazione dei modi e dei limiti dell'ingerenza governativa nelle scuole pubbliche e private avevano, secondo i compilatori del giornale, un valore puramente simbolico in assenza di una precisa definizione di insegnamento ufficiale e insegnamento libero. L'iter lungo e travagliato della proposta Lanza, convertita in legge solo il 22 giugno 1857, venti mesi dopo la presentazione al Senato, dà l'esatta misura di quanto fosse radicato nella classe politica e nell'opinione pubblica l'atteggiamento critico verso una concezione della scuola come prerogativa dello Stato. La stessa decisione del governo di sospendere per circa un anno e, precisamente, dal 28 aprile 1856 (data della relazione della commissione designata dalla Camera) al 13 gennaio successivo (giorno d'inizio della discussione all'assemblea dei deputati), li dibattito sulla riforma amministrativa era dettata, presumibilmente, dalla volontà di temporeggiare in attesa di una ridefinizione degli equilibri politici, massime alla Camera dove più forti erano le critiche e le obiezioni nei confronti del progetto e delle scelte ministeriali: una logica in parte premiata, se si considera che, agli inizi del 1857, alcuni deputati avversi al modello scolastico di Lanza avevano rinunciato al mandato parlamentare o per ragioni personali o per l'assunzione, come nel caso di Boncompagni, di importanti incarichi lontano dalla capitale. Espressione di una calcolata e abile strategia politica fu anche l’intervento del Presidente del Consiglio, Camillo Benso conte di Cavour, in una fase del confronto decisiva ai fini del proseguo della discussione e dell'esito finale della votazione. Cavour, sulla base della semplice accettazione dell'ordine del giorno Michelini e della disponibilità a modificare al redazione di quegli articoli in contrasto con l'affermazione della libertà scolastica, perché concepiti con l'intento di mantenere lo status quo nell’istruzione privata all'interno di un disegno di legge finalizzato al riordino del settore pubblico, riuscì a vincere le resistenze dell'assemblea elettiva senza affrontare il vero nodo della controversia, riconducibile, come evidenziato, a due diverse posizioni: da un lato li riconoscimento del ruolo centrale dello Stato nel controllo e nella diffusione della scuola, in linea con la tendenza a considerare lil governo come la massima espressione della volontà nazionale; dall'altro la preferenza per un sistema scolastico che, fondato sulla collaborazione sinergica tra autorità governative, amministrazioni locali, associazioni e cittadini, si ispirava a un'idea di nazione che non si identificava tout court con al classe dirigente. Probabilmente fu proprio la consapevolezza della difficoltà di promuovere una riforma basata sul principio di una costante e progressiva ingerenza dello Stato in campo educativo a indurre Lanza a presentare contemporaneamente al Senato (25 novembre 1855) e alla Camera (10 dicembre 1855) due distinte proposte di legge relative ad aspetti particolari (amministrazione e insegnamento primario) anziché un codice completo e organico volto a regolamentare, oltre all'assetto amministrativo, ogni grado di scuola. La crescente statalizzazione auspicata dall'esponente politico piemontese, non solo sul piano amministrativo, ma anche su quello pedagogico-didattico, come attesta li frequente ricorso a strumenti di carattere applicativo (circolari, decreti, istruzioni) per modificare la struttura, l'orientamento e i contenuti dei diversi rami dell'insegnamento, era strettamente connessa alla preoccupazione di formare, nelle masse popolari e nelle élites, una coscienza nazionale nell'ottica di quel processo che, avviato bel ’48 con la prima guerra d’indipendenza, subiva un’accelerazione nel ’56 grazie alla partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea e alla conseguente affermazione sulla scena internazionale della questione italiana. Non sorprende pertanto la scelta del ministro di affidare agli esuli alcuni corsi universitari dell'ateneo torinese anche a costo di sovvertire l'esito di un concorso: è il caso delle nomine del calabrese Raffaele Piria e del siciliano Stanislao Cannizzaro ufficializzate nonostante il parere contrario delle commissioni esaminatrici del Consiglio superiore espressesi a favore rispettivamente dei piemontesi Ascanio Sobrero e Prospero Carlevaris. Significative sono le parole con cui Lanza motivava le sue decisioni: egli ricordava a Vittorio Emanuele II che «il regno sardo rappresentava l'Italia», che il re «doveva virtualmente considerare suoi concittadini tutti gli italiani» e «che bisognava prima conquistare l'Italia moralmente per agevolare il compito con le armi». Altrettanto emblematica appare l'introduzione, in alcune facoltà universitarie della capitale, delle cattedre di letteratura francese, di geografia e di filosofia della storia: quest'ultimo corso, in particolare, non solo era «soggetto ad esame» come la geografia, ma poteva fornire l'«argomento dell'esame pubblico di laurea pegli aspiranti dottori in filosofia e pegli aspiranti dottori in belle lettere». Se lo studio della letteratura d'oltralpe nell'ateneo piemontese era dettato dalla volontà di formare i professori di francese delle scuole secondarie non più all'estero ma nel regno subalpino secondo «l'intelligenza de' nazionali bisogni», il corso di filosofia della storia doveva preparare per le classi di grammatica e le scuole speciali docenti di storia in grado di imprimere all'insegnamento della propria disciplina «un indirizzo nazionale». Si trattava dunque di L’interesse manifestato dal ministro per i contenuti e per i libri di testo non poteva essere disgiunto dall'impegno in favore della formazione di una classe docente professionalmente preparata, alla quale spettava il compito di promuovere nelle giovani generazioni l’assimilazione delle conoscenze e delle nozioni che, indicate nei programmi, erano veicolate dai compendi, dalle grammatiche e dalle antologie. Nel processo di nazionalizzazione delle masse popolari e delle élites, l'insegnante rappresentava, pertanto, il trait d'union tra un sapere fondato sulla riscoperta delle origini, della storia, dell'indole e del genio del popolo italiano e una società estranea, in massima parte, a una concezione della patria che s'identificava territorialmente e culturalmente con l'Italia e i suoi abitanti. In virtù di questa missione civile e patriottica, paragonabile per dignità e nobiltà del fine a quella dal clero, il maestro e il professore si configuravano come contraltare Jaico del sacerdote: anch’essi, infatti, avevano un credo e una religione che si manifestava nel «culto» della patria. Cominciava così a delinearsi la figura di un istitutore laico investito del ruolo di «educatore nazionale». La politica di laicizzazione promossa da Lanza si estendeva ai contenuti dell'insegnamento: l'istruzione religiosa, esclusa dai programmi delle scuole secondarie e impartita nei collegi soltanto la domenica e i giorni festivi, era circoscritta nel corso primario a una dimensione etico-civile, come attestano da un lato l'introduzione di alcune nozioni sui «doveri verso la famiglia, la società e la patria», dall'altro il poco spazio concesso allo studio del catechismo e della storia sacra, ricondotti principalmente a lezioni sui misteri della fede e alla presentazione di figure edificanti sotto il profilo religioso e morale. Non a caso nei programmi di religione delle varie classi si parla di «brevissimi racconti», di narrazioni «per sommi capi», di «cenni sui fatti» del Vecchio e del Nuovo Testamento, illustrati attraverso la storia delle «donne più virtuose e illustri» e le «biografie dei principali patriarchi e [dei] personaggi più insigni per pietà, per virtù domestiche, per eroiche azioni» a fronte di «esempi tratti dalla storia nazionale» e di «biografie d'illustri italiani» con lo scopo di radicare negli animi i «saldi principi di amor patrio e di affetto alle istituzioni liberali». Nelle intenzioni del ministro, l’insegnamento della storia sacra avrebbe dovuto addirittura essere abolito: nell'articolo 27 del progetto sull'istruzione primaria, a cui abbiamo accennato nelle pagine precedenti, l'istruzione religiosa era infatti ricondotta alla «morale e alla religione insegnata sul piccolo catechismo» per li biennio elementare inferiore e alla «morale e religione insegnata sul catechismo della diocesi» per quello superiore. Probabilmente le numerose critiche, prima fra tutte quella dell'«Istitutore» che aveva accusato Lanza di porre sullo stesso piano l'educazione religiosa e i «lavori di ago e maglia», indussero l'esponente politico piemontese ad assumere un atteggiamento più moderato. La consapevolezza maturata negli ambienti governativi in merito al ruolo della scuola e della classe docente nella formazione dell'identità nazionale fu all'origine di una puntuale e mirata politica d'intervento finalizzata a riqualificare l'operato degli istitutori primari. La particolare attenzione rivolta a questo settore del corpo insegnante risulta comprensibile qualora si considerino il bacino d'utenza della scuola elementare, unico strumento in grado di raggiungere in modo capillare e pervasivo ampi strati della popolazione e l'effettiva situazione dei maestri piemontesi, scarsamente retribuiti, in balia delle amministrazioni comunali da cui dipendevano per la riconferma o il licenziamento e soprattutto, privi della preparazione culturale e della formazione pedagogica necessarie per far fronte al nuovo e gravoso compito. La maggior parte di essi, infatti, non possedeva una conoscenza adeguata dei principali fatti della storia italiana, né disponeva delle competenze metodologico-didattiche atte alla trasmissione di tali contenuti: una lacuna imputabile alla brevità dei corsi (dieci mesi per il conseguimento della patente di maestro elementare del grado inferiore, sedici per il conseguimento di quella del grado superiore) e al programma di studi (insegnamento della lingua senza alcun accenno alla letteratura italiana e studio di storia patria basato su una generica presentazione dei «fatti più notevoli della storia d'Italia e specialmente [di] quelli che si riferiscono alla monarchia di Savoia») delle scuole magistrali istituite da Luigi Cibrario nel 1853 nonché alla scelta, secondo Lanza, di affidare l'apertura e la gestione di tali istituti alle Province, incapaci, per propria natura, di rispondere a un'esigenza considerata espressione di un interesse generale, superiore e anteposto a quello delle realtà locali. Il riconoscimento del diritto e dovere dello Stato di provvedere in maniera esclusiva alla formazione dei maestri era infatti la logica conseguenza o meglio l'applicazione dei principi professati da Lanza in campo educativo: se l'insegnante era chiamato all'«alta e santa vocazione» di promuovere nelle masse popolari e nelle élites lo sviluppo del sentimento nazionale e se l'istruzione nazionale coincideva con l'istruzione pubblica e, in ultima istanza, con quella governativa l'affermazione del monopolio statale nel settore magistrale era pienamente giustificata. Su tali presupposti si fondavano alcune disposizioni della legge che, nel favorire la frequenza delle scuole normali governative a scapito di quelle provinciali, riflettevano la volontà del ministro di porre la formazione della classe magistrale sotto il solo controllo dello Stato: basti pensare alla preferenza accordata, a parità di titolo, ai maestri delle scuole normali nel concorso comunale per l'assegnazione del posto di insegnante elementare; oppure al diritto riconosciuto ai diplomati nelle scuole governative a una retribuzione di seicento e ottocento lire per l'esercizio della professione, rispettivamente nel biennio inferiore e in quello superiore; o ancora al vincolo di prestare servizio, per almeno dieci anni, nelle scuole pubbliche per coloro che aveva potuto accedere alle scuole normali grazie alla sovvenzione della provincia in cui risiedevano. Se è vero che le autorità provinciali avevano facoltà di istituire in via provvisoria corsi magistrali per il conseguimento della patente di maestro del grado elementare inferiore, è altrettanto vero che tale facoltà appariva illusoria alla luce della discriminazione tra istituti governativi e provinciali introdotta dal nuovo provvedimento: le amministrazioni locali, tenute a corrispondere per il mantenimento degli allievi delle scuole normali un sussidio di 250 lire ogni ventimila abitanti, non avevano infatti interesse a finanziare un proprio corso che, oltre a formare insegnanti con scarse possibilità d'impiego, non poteva contare su un numero di iscritti adeguato per le condizioni estremamente penalizzanti della proposta normativa. La legge del 1858, relativa alla formazione della classe magistrale, si configurava, pertanto, come il naturale compimento del processo che, avviato con la riforma amministrativa del 1857, segnò la svolta della politica scolastica subalpina nell'ottica di una presenza sempre più incisiva dello Stato nella promozione e diffusione della «scuola nazionale». La legge Casati: l'estensione del modello scolastico piemontese allo Stato italiano Nell'aprile del 1859 scoppiava la seconda guerra d'indipendenza tra l'Austria e il regno di Sardegna li quale, grazie agli accordi stipulati a Plombières tra Cavour e Napoleone III, poteva contare sull'appoggio e sull'intervento militare della Francia nel conflitto con l'Austria. Così come era avvenuto nel 1848, il parlamento subalpino decise di rinunciare all'esercizio delle proprie funzioni e di conferire i pieni poteri legislativi e esecutivi al re nell'intento di consentire al governo massima libertà d'azione nella conduzione delle vicende belliche e nella guida del paese in una situazione di emergenza e dagli sviluppi imprevedibili. L'11 luglio dello stesso anno, come è noto, al termine di una fase caratterizzata da importanti vittorie dell'armata franco- sarda (S. Martino e Solferino), Napoleone III firmò, senza preavvertire gli alleati piemontesi, l'armistizio di Villafranca con cui si stabiliva la cessione allo Stato subalpino della Lombardia ad eccezione di Mantova e Peschiera: la cessione veniva confermata nei trattati di pace di Zurigo del successivo 10 novembre. E in questo particolare contesto politico (sospensione dell'attività parlamentare) e territoriale (estensione dei confini del regno sabaudo) che si colloca la legge sul riordinamento della pubblica istruzione, firmata dal nuovo ministro Gabrio Casati il 13 novembre 1859: essa rifletteva, a livello scolastico, la volontà della classe dirigente subalpina di promuovere nelle province vecchie e nuove dello Stato l'uniformità sul piano legislativo e nelle modalità di applicazione dei provvedimenti relativi ai diversi settori della vita politica, civile e sociale. Non è un caso che proprio nello stesso periodo venissero emanate delle leggi che rappresentavano un primo e decisivo passo verso l'unificazione legislativa: a Rattazzi sull’amministrazione comunale (23 ottobre); la legge di pubblica sicurezza (13 novembre) e quelle per la pubblicazione del Codice penale e dei codici di procedura civile e penale (20 novembre). In tale ottica si comprende la scelta operata dal ministro di predisporre una riforma degli studi che, volta a regolamentare ogni grado d'istruzione, portasse alla creazione di un sistema scolastico suscettibile di estensione alle province annesse; una riforma cioè organica e puramente applicativa basata su chiari e semplici prescrizioni rispondenti alle esigenze di realtà territoriali difformi anche nel settore dell'istruzione. Il testo della Casati era infatti ripartito in cinque titoli dedicati rispettivamente all'amministrazione (centrale e periferica), all'istruzione superiore, all'istruzione secondaria classica, all'istruzione tecnica e all'istruzione elementare; una ripartizione non equa che però denotava la volontà di riconoscere a ogni genere di scuola una specificità e una precisa collocazione all'interno del sistema scolastico nazionale secondo una logica volta a ricondurre il contenuto del provvedimento a una mera attuazione normativa. Questo aspetto è particolarmente evidente nella parte della legislazione relativa al ramo inferiore degli studi e alla formazione dei futuri istitutori. La stessa idea di accorpare in un unico titolo l'insegnamento primario e quello magistrale comportava una svalutazione professionale della figura del maestro che, equiparato in precedenza agli insegnanti della scuola secondaria in ordine alla preparazione culturale e alla dignità della propria funzione (si pensi, ad esempio, all'approvazione da parte di Lanza di testi comuni per i due corsi; oppure alla «secondarizzazione» delle scuole normali i cui professori erano «pareggiati nello stipendio e negli altri diritti» ai docenti delle classi di grammatica), si configurava ora come semplice esecutore delle direttive ministeriali, chiamato non tanto a educare, quanto a trasmettere i contenuti della «scuola nazionale». Il confronto tra il piano di L'accentramento amministrativo era controbilanciato, in parte, dalla presenza di alcune disposizioni volte a garantire una graduale applicazione del principio della libertà d'insegnamento che, concepito in termini di concorrenza tra scuola pubblica e scuola privata, era introdotto, per la prima volta, nella legislazione subalpina: nessun accenno in proposito era infatti contenuto nella Boncompagni né nelle due leggi (amministrazione superiore della Pubblica Istruzione, istituzione delle scuole normali) approvate durante li ministero Lanza. Cibrario aveva accordato ampio spazio alle forze sociali nell’opera di diffusione dell’alfabeto: non bisogna però dimenticare che il suo provvedimento era, in realtà, un regolamento e, in quanto tale, aveva una valenza puramente applicativa. Occorre tuttavia precisare che l’apertura di Casati alle istanze della società civile era circoscritta entro limiti ben definiti: se all’autorità paterna era concessa «larga libertà», precisi vincoli erano imposti ai privati e agli enti locali che intendevano aprire istituti educativi; i primi, oltre ad attenersi scrupolosamente ai programmi e alle norme in vigore nelle scuole pubbliche, dovevano fornire «prove di capacità e moralità», i secondi erano tenuti a «valersi utilmente della propria iniziativa e dei propri mezzi», ma sotto la tutela «dell’autorità che loro concede e mantiene l’esistenza civile». Si trattava quindi di una riforma che, come aveva dichiarato lo stesso ministro nella relazione introduttiva alla legge, era fondata su «un sistema medio di libertà sorretta da cautele che la contengano entro i dovuti confini e da quelle guarentigie che l'assicurino e la difendano contro i nemici palesi e occulti i quali la farebbero traviare e ne guasterebbero il frutto». È chiaro il riferimento al clero che, sconfitto nella battaglia per il monopolio scolastico e penalizzato dalla politica di laicizzazione orientata a promuovere una scuola pubblica aconfessionale, cominciava a intravedere nella rivendicazione al diritto di ogni cittadino ad aprire istituti scolastici la via privilegiata per riacquistare le posizioni perdute dalla chiesa nel settore dell'istruzione. È interessante notare come, proprio in questi anni, si assista all'interno dell'episcopato non solo piemontese al tentativo di affrontare il problema della scuola con le sue implicanze politico- istituzionali non tanto attraverso iniziative sporadiche o isolate dei singoli vescovi, quanto attraverso uno studio sistematico e una linea di intervento uniforme con specifiche trattazioni nell'ambito, ad esempio, delle conferenze episcopali. Le affermazioni di Casati in favore del principio della libertà scolastica non trovarono piena attuazione negli articoli della legge massime per quanto concerneva l'istruzione superiore. Se è vero, infatti, che in virtù del decreto del '59 era prevista negli ambienti accademici la figura del libero docente, parificato sotto il profilo economico ai professori ufficiali, è altrettanto vero che tale figura era ammessa solo all'interno delle strutture universitarie con una forte penalizzazione per le città prive di un ateneo. Era una clausola che, oltre a consentire un controllo diretto sull’insegnamento privato, rappresentava un vincolo per il libero docente, autorizzato a tenere solo quei corsi che si professavano a titolo pubblico. Un'ulteriore limitazione ai diritti e alle libertà dei professori universitari era rappresentata dalla facoltà concessa al ministro di sospendere o rimuovere qualunque membro del corpo accademico che non si riconoscesse nei principi religiosi, morali e politici alla base del nuovo Stato: tra le cause del provvedimento disciplinare, indicate all'articolo 106, figurava infatti quella relativa all'accusa di «aver con l'insegnamento o con gli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l'ordine religioso e morale». L'applicazione di questa sanzione solo due volte nel corso del secolo, a conferma del valore formale ad essa attribuito, non pregiudicava tuttavia il significato di una norma destinata a rimanere in vigore, sia pure solo formalmente, fino all’epoca di Crispi. Analoghe considerazioni sono possibili in materia d’insegnamento secondario e elementare: mentre i padri che provvedevano alla prima educazione o al completamento dell'istruzione dei figli non erano soggetti ad alcun genere di ispezione da parte dello Stato, i privati cittadini che desideravano aprire una scuola primaria o un istituto di grado superiore (ginnasio o liceo, scuola o istituto tecnico) dovevano soddisfare una serie di condizioni relative all'età, alla moralità dei costumi, al possesso della specifica abilitazione, all'organizzazione e al programma dei corsi, all'idoneità dell'edificio scelto come sede, oltre ad adempiere alle minuziose prescrizioni di carattere burocratico per ottenere il nulla osta delle autorità competenti. Le stesse amministrazioni municipali erano tenute a rispettare alcune priorità nell'erogazione dei fondi destinati alla scuola: se l'apertura del ginnasio era subordinata all'obbligo di istituire il corso elementare (solo il biennio inferiore per i piccoli centri, anche il biennio superiore per quelli con una popolazione che eccedeva le quattromila unità), quella del liceo era vincolata alla presenza sul territorio di scuole tecniche. Non bisogna tuttavia disconoscere che, per quanto concerneva ramo inferiore degli studi, i comuni godevano di una certa autonomia: si pensi alla “flessibilità” nell’applicazione del principio dell’istruzione obbligatoria come testimonia la clausola relativa all’entità della popolazione e alle condizioni finanziarie degli enti locali (art. 317); oppure la possibilità per i consigli cittadini di esercitare un’azione di controllo sulle scuole elementari attraverso la nomina di «appositi sorveglianti o Commissioni d’ispezione» (art. 318); o ancora alla facoltà concessa ala sindaco di sospendere, in caso d'urgenza, il maestro dalle sue funzioni (art. 337). Altrettanto significativa era la mancanza di qualsiasi accenno alle misure coercitive proposte da Lanza e mai approvate quali, ad esempio, l'iscrizione d'ufficio nel bilancio comunale delle spese per l'istruzione primaria e l'imposizione di una sovrattassa con precise indicazioni in merito all'importo e alle fonti del gettito. Nel testo figuravano invece misure, volte a facilitare il compito delle amministrazioni in ordine all’istruzione popolare: concessione della «facoltà di formare accordi con i comuni limitrofi al fine di partecipare in intiero o solo in parte alle scuole che sono stabilite nei medesimi ovvero di avvalersi degli stessi maestri per le loro diverse scuole» (art. 319); autorizzazione ad affidare a un unico maestro, previo accerta- mento dell'idoneità, l'insegnamento nel biennio elementare inferiore e in quello superiore (art. 322); diritto alle sovvenzioni delle province e dello Stato per far fronte alle spese relative al «primo stabilimento delle scuole» e allo «stipendio degli insegnanti» (art. 346). L'applicazione del principio della libertà scolastica in senso restrittivo rispetto alle dichiarazioni del ministro, che soprattutto in materia d'istruzione superiore avrebbe voluto lasciare più spazio alla libertà d'insegnamento, si spiega alla luce delle difficoltà incontrate da Casati sia negli ambienti politici e culturali piemontesi sia all’interno della compagine governativa che, a causa dei rapporti conflittuali tra Stato e Chiesa conseguenti all’orientamento della politica ecclesiastica subalpina (emblematica la legge Rattazzi del 1855 sulla soppressione delle corporazioni religiose) e alla progressiva laicizzazione del sistema scolastico, era incline a considerare con diffidenza, o almeno con circospezione, la possibilità di concedere ampi spazi ai privati nel settore educativo. La classe dirigente subalpina temeva, infatti, che solo il clero, ostile in massima parte agli ordinamenti e alle leggi dello stato liberale, disponesse di strutture scolastiche adeguate e di personale insegnante qualificato per aprire scuole e istituti in concorrenza con quelli statali. L'adozione di un sistema "medio" di libertà era funzionale, inoltre, la volontà della classe dirigente che, impegnata a promuovere un processo di "piemontesizzazione" in tutte le espressioni della vita politica e civile del nuovo Stato, auspicava anche nel settore dell'istruzione l'elaborazione di una riforma degli studi in linea con il modello e con la tradizione scolastica del regno sabaudo. Si tratta di un'interpretazione avallata da Casati che in un articolo, apparso anonimo sulla «Rivista contemporanea» nell'estate del 1860, imputava le contraddizioni, rilevate sulla stampa, tra la relazione introduttiva e il testo di legge non a una incoerenza personale, ma alla forte opposizione di «forze estrinseche», indice dell'impossibilità, nel contesto dell'epoca, «d'inaugurare un sistema di libertà svincolata al tutto dalla pedantesca sequela delle vecchie ordinanze, tanto sono difficili a vincersi i pregiudizi». Dall’altra parte l’articolazione e il contenuto della legge erano una chiara espressione degli orientamenti e delle scelte che avevano caratterizzato la politica scolastica subalpina nel decennio precedente: se le disposizioni dull’assetto amministrativo erano mutate dalla riforma del 1857, le norme relative all’istruzione superiore con particolare riferimento a quelle per i docenti e peri gli esami universitari erano desunte dal progetto Cibrario a cui il legislatore si era ispirato anche nella suddivisione dei titoli del regio decreto; se le scuole tecniche rappresentavano un’evoluzione delle scuole speciali istituite da Lanza nel 1856, il corso elementare era simile nella struttura, nelle caratteristiche e nei contenuti a quello proposto dalla commissione incaricata di esaminare il progetto di legge sull’istruzione primaria presentato alla Camera il 10 dicembre 1855. Era lo stesso ministro a rilevare la continuità, a livello d’istruzione primaria, tra il titolo V del nuovo provvedimento e il testo redatto nel 1856 dal ristretto gruppo di deputati in rappresentanza dell’assemblea elettiva: «Nell’istruzione primaria – egli affermava nella relazione rivolta al sovrano – il compito del legislatore tornava molto più facile, dappoiché questo ramo fornì negli ultimi anni argomento prediletto di cure, di studi e di larghi provvedimenti alle pubbliche amministrazioni ed a quanti hanno a cuore la cultura popolare. Quali fossero i bisogni e i voti del paese in materia si poteva dedurre, senza molta fatica, dai molti lavori pubblicati intorno all’istruzione popolare, e soprattutto da quello compiuto dalla Giunta della Camera elettiva incaricata di esaminare il progetto di legge introdotto in questo consesso dal Vostro Governo nel 1855. Adottarne le massime e seguirne le norme parve il partito più sicuro. Laonde poco o nulla si mutò di quello schema maturato da uomini i più versati nella materia e perfetti conoscitori delle condizioni dello Stato». La «genesi» piemontese della Casati si evince anche dalla lettura degli articoli relativi alla presenza e al ruolo dell’insegnamento religioso nei diversi ordini di scuola. È interessante notare come le prescrizioni al riguardo fossero pienamente conformi alla politica di laicizzazione avviata nel settore scolastico da Giovanni Lanza: ne è un significativo esempio la scelta di rendere facoltativa l’istruzione religiosa negli istituti secondari in linea con quanto stabilito dal decreto 4 settembre 1855 precedentemente citato. All’articolo 193 della legge 13 novembre 1859 il ministro si limitava, infatti, a individuare nel direttore spirituale la figura preposta all’insegnamento della religione nei ginnasi, nei licei, nelle scuole e negli istituti tecnici senza specificare il carattere e la funzione attribuita a tale disciplina nel programma dei corsi secondari: era un’affermazione, seppur implicita, della non obbligatorietà dell’istruzione religiosa che non figurava nell’elenco delle materie di studio né dell’indirizzo classico, né dell’indirizzo tecnico. Il regolamento sull’istruzione secondaria o «mezzana», applicativo del titolo terzo della Casati, era destinato a chiarire ogni dubbio sull’interpretazione del suddetto articolo: in esso era detto espressamente che la religione «non si sarebbe dovuta computare nel numero delle ore assegnate all’insegnamento ginnasiale e liceale», ma dispensare «una o due Le critiche degli organi di stampa riflettevano da un lato un'idea d'istruzione ispirata al principio del self-governement, dall'altro la preoccupazione per l'involuzione che si sarebbe registrata in alcuni settori della scuola lombarda in seguito all'applicazione delle norme introdotte dalla Casati. Emblematiche al riguardo sono ancora una volta le affermazioni di Boccardo da cui traspare la preferenza accordata, in campo educativo, alle famiglie e alla libera associazione dei privati, ossia alla società civile, considerata «più savia, più previdente [...), più sana e più forte» del governo e, in quanto tale, degna di maggior fiducia delle «scolasticherie ufficiali». In quest'ottica non sorprende il giudizio positivo espresso dall'economista e dalla pubblicistica ingenerale nei confronti della Boncompagni presentata come la legge che aveva contribuito a «rovesciare affatto l'antico edifizio della pubblica istruzione, recando maggior larghezza, nelle. scuole, maggiore libertà agli insegnanti». Altrettanto comprensibile risulta l'atteggiamento critico verso la politica scolastica di Lanza, orientata, in nome di una "snella" e ordinata gestione nonché di una auspicata uniformità di indirizzi, a ridefinire la fisionomia e l’assetto amministrativo della scuola in luogo di una semplice revisione nel rispetto di quei principi che, sanciti nel 1848, «fecero buona prova e diedero abbondevoli e prosperi frutti». Particolarmente duri erano i toni usati per commentare il ricorso sistematico dell'allora ministro della pubblica istruzione ai decreti e alle circolari, nel tentativo di creare un sistema scolastico che, ispirato ai criteri dell'accentramento e dell'ingerenza governativa, aveva avuto come unico effetto quello di introdurre una «gelosa e rigida uguaglianza» lesiva delle libertà individuali e destinata a incidere negativamente sulla qualità degli studi. La nuova legge, oltre a non corrispondere pienamente alle aspettative e agli orientamenti del mondo culturale lombardo, rappresentava un «passo indietro» rispetto alla legislazione scolastica austriaca, massime per quanto concerneva l'istruzione magistrale e quella tecnica. Secondo la normativa vigente sotto la dominazione asburgica, i maestri erano nominati o direttamente dal governo, se in servizio presso le «scuole elementari maggiori» istituite nelle città allo scopo di avviare i fanciulli alle scienze e alle arti, o dall'ispettore generale («Ispettore in capo») su proposta dei comuni se destinati ad insegnare nelle «scuole elementari minori» che, aperte in ogni villaggio, avevano il compito di diffondere l'alfabeto tra le classi popolari; una volta ottenuto l'incarico l'istitutore primario non poteva essere rimosso dalle autorità scolastiche competenti se non per motivi gravi relativi alla condotta morale o alla attestata incapacità d'insegnamento. All'inamovibilità dell'ufficio si accompagnavano precise garanzie sotto il profilo economico: prime fra tutte la pensione e la determinazione di un minimum di stipendio pari a 1037 franchi, cifra che consentiva un tenore di vita dignitoso". Le disposizioni contenute nella Casati non denotavano la stessa sensibilità da parte della classe dirigente subalpina nei confronti della condizione magistrale: si pensi, ni modo particolare, all'articolo 333 in cui era stabilito che l'insegnante elementare, designato dal comune, era soggetto a un contratto triennale con la possibilità di una riconferma per il successivo triennio o a vita qualora l'amministrazione municipale lo avesse ritenuto opportuno. Appare evidente lo stato di precarietà in cui era costretto a vivere l'educatore del popolo in balia delle autorità locali le quali, agitando lo spettro del licenziamento, potevano indurre i maestri ad accettare compensi inferiori a quelli previsti dalla legge o a prestare servizio pressoché gratuito nelle scuole serali e festive per gli adulti. Si trattava inoltre di una misura che consentiva ai comuni un frequente ricambio del personale insegnante a vantaggio dei candidati più giovani in grado di fornire maggiori garanzie di una piena efficienza fisica e ancora lontani dall'età della pensione: non bisogna infatti dimenticare il riferimento, nel regio decreto del 1859, all'istituzione per i maestri di un monte pensioni a cui anche le casse municipali erano chiamate a contribuire. Se si considera, infine, l'entità del minimum di stipendio degli istitutori primari, che sulla base della classificazione delle scuole introdotta dalla Casati oscillava tra le 550 e le 1200 lire, si comprendono le amare parole di Giuseppe Sacchi volte a sottolineare la contraddizione tra l'impegno profuso in favore della causa nazionale e il trattamento della categoria cui era affidato il compito di promuovere lo sviluppo di una identità e di una coscienza italiana: «Noi assistemmo al doloroso spettacolo di vedere fra le nazionali esultanze – egli scriveva su «Patria e famiglia» - andar raminghi in cerca di un tozzo di pane o di una agonizzata limosina, que' pubblici educatori e quelle pubbliche istitutrici che sospiravano il nazionale riscatto come un premio dovuto ai sagrifici fatti per educare alla nuova fede di libertà le cresciute generazioni». Un'ulteriore penalizzazione in materia scolastica era rappresentata dalla riorganizzazione degli studi tecnici su base provinciale secondo un modello predefinito da applicare in maniera uniforme a tutte le zone del regno: se le scuole tecniche introdotte da Casati erano previste solo nei capoluoghi di provincia per un periodo non inferiore al triennio, le corrispettive scuole reali minori della Lombardia austriaca, mutuate dalla tradizione e dall'esperienza prussiana, avevano, infatti, una diffusione locale e una durata biennale o triennale a discrezione delle autorità municipali. Il criterio della flessibilità nella strutturazione dei corsi, così come la presenza capillare sul territorio, denotavano la volontà del governo asburgico di promuovere un'istruzione tecnica accessibile a larghe fasce della popolazione (non a caso questo genere di scuole costituiva un completamento del ciclo elementare) e rispondente alle caratteristiche e alle esigenze delle diverse realtà locali. Non stupisce pertanto l'elevato numero di alunni che, secondo le stime ufficiali, frequentavano le scuole tecniche di grado inferiore al momento dell'annessione della Lombardia al Piemonte: 523 nel primo anno; 338 nel secondo; 231 nel terzo (limitatamente ai comuni ni cui era istituito) per un totale complessivo di 1092 alunni, totale destinato a raggiungere le duemila unità se si conteggiano gli allievi delle numerose scuole private". Significative differenze emergono anche ni ordine ai contenuti. Le Realschule avevano una connotazione tecnica più accentuata, come testimonia la presenza, rispetto alle analoghe scuole piemontesi, di nuove discipline a carattere specialistico (i principi d'architettura ad esempio) e di materie che, nella stessa denominazione, riflettevano una maggiore attenzione per l'aspetto professionale: mentre alle generiche dizioni «contabilità» e «disegno» facevano riscontro rispettivamente quelle di «pratiche cambiarie e daziarie» e di «disegno lineare» e «disegno a mano», all’espressione «elementi di storia naturale e di fisico-chimica» corrispondevano le voci «storia naturale», «fisica» e «chimica» da cui traspare l’idea di uno studio approfondito e non limitato alle prime e elementari nozioni, come sembra suggerire il termine «elementi». Analoghe sono le considerazioni per la scuola reale superiore che, aperta a Milano nel 1852, era destinata a impartire un «moderno sapere» fondato sulle cognizioni specifiche richieste a quanti intendevano dedicarsi a «professioni industriali non esigenti i sommi studi scientifici»: è interessante notare come tale scuola di natura dichiaratamente professionale (era esplicito il richiamo a un'istruzione diversa da quella basata sullo «studio dell'antiche lingue classiche») aprisse la via, al pari degli istituti classici, ai corsi universitari e, precisamente, alla facoltà di matematica per il conseguimento del diploma di ingegnere e architetto, contrariamente a quanto disposto dal regio decreto del 1859 che vincolava l'accesso all'istruzione superiore alla frequenza del liceo. Si comprende per tanto l'insoddisfazione manifestata da Boccardo e dagli altri economisti nei confronti del titolo IV della Casati il quale, se poteva rappresentare un passo avanti rispetto alle disposizioni vigenti in Piemonte sull'insegnamento professionale, segnava di fatto un regresso nell'ordinamento degli studi tecnici dell’ex territorio austriaco. Le critiche dei lombardi relative all'accentramento amministrativo e alla limitata applicazione del principio della libertà d'insegnamento erano condivise dai toscani e dai napoletani entrati a far parte del regno nel biennio 1860-1861. Antonio Ciccone, docente di medicina e poi di economia politica nell'università partenopea, pubblicava nel 1860 sulla «Rivista contemporanea» un lungo articolo in cui esaminava la legge Casati e, in modo particolare, l'idea d'istruzione ad essa sottesa. Il docente universitario, nel paragonare l'influenza e l'autorità del ministro all'onnipotenza di Giove «che col cenno movea l'universo», esprimeva vivo disappunto per l'adozione di un sistema il quale, improntato al criterio dell'ingerenza governativa, non assicurava una piena libertà né della scuola, né nella scuola. Si trattava, a giudizio del patriota napoletano, di ricondurre l'operato del governo alla semplice funzione di controllo e di supervisione: «lo non intendo – precisava nell'articolo – che il ministro della pubblica istruzione non debba avere alcuna ingerenza negli affari della educazione e della istruzione pubblica, ma vorrei che regnasse e non governasse; vorrei che lasciasse al paese fare da sé, quello che può far bene da sé; vorrei che dove può esser la legge, non fosse l'arbitrio; vorrei che, non si facesse a senso di uno solo, quello che si può fare a senso del maggior numero». Analoghe sono le considerazioni svolte dal sacerdote ed educatore Raffaele Lambruschini in un contributo apparso a puntate sulla rivista «La famiglia e la scuola». Nel delineare quelli che, a suo parere, dovevano essere i principi ispiratori di una legge sulla pubblica istruzione, l'esponente toscano sottolineava la necessità di coniugare l'unità degli indirizzi e degli orientamenti educativi con la varietà delle modalità applicative, nel rispetto dell'indole, delle consuetudini e delle esigenze delle popolazioni chiamate a formare la nazione italiana. In linea con tali presupposti Lambruschini auspicava la creazione di un sistema scolastico ispirato ai criteri del decentramento e della valorizzazione delle realtà locali: se lo Stato aveva il compito di determinare per vai legislativa «ciò che può e dev'essere comune a tutto il regno», le singole province e gli ispettori dell'istruzione primaria e secondaria ad esse subordinati erano tenuti ad assicurare la pratica attuazione della normativa scolastica. Ne derivava l'impossibilità per lo studioso fiorentino di accettare una legge come la Casati, promulgata in un momento storico particolare, entrata in vigore senza l'avallo del parlamento e, soprattutto, elaborata con riferimento alla tradizione piemontese e quindi destinata a mortificare, nell'ipotesi di una sua estensione alle province annesse, le diverse tradizioni regionali di cui avrebbe dovuto essere espressione. Altrettanto inconcepibile per Lambruschini era l'idea di una struttura amministrativa fortemente accentrata in antitesi con una visione della libertà d'insegnamento che non si traduceva nella semplice rivendicazione del diritto dei cittadini di competere con lo Stato in campo educativo, ma si esprimeva in una chiara preferenza a favore della scuola privata nell'eventualità di una scelta tra istruzione libera e istruzione ufficiale. In questa prospettiva non sorprende l'opposizione al principio dell'istruzione obbligatoria in nome della tutela delle prerogative della famiglia in materia di educazione. Nell'illustrare il proprio modello scolastico, Ciccone e Lambruschini operavano una trasposizione sul piano teorico dei contenuti della tradizione e dell'esperienza educativa maturata in Toscana e in Campania, regioni in cui, per la negligenza del governo e per lo sviluppo della libera iniziativa, l'istruzione privata rappresentava una realtà significativa, chiamata talora a sostituirsi a quella pubblica: se a Napoli, come ricordava lo stesso professore partenopeo, «non v'ha medico o avvocato il quale non abbia fatto i suoi studj presso un professore privato di medicina o di legge» così che «le sale della università sono ordinariamente agli istituti d'istruzione superiore, alle Accademie di Belle arti, agli archivi e ai lavori di pubblica utilità con la possibilità di un intervento statale solo in caso di difficoltà economiche. Non sorprendono pertanto le idee che, espresse da Mamiani nei Principi direttivi della nuova legge della pubblica istruzione, erano riconducibili alla volontà di circoscrivere l’azione del governo all’osservanza dei regolamenti e all’apertura di pochi istituti modello nonché alla scelta di affidare la gestione della scuola alle autorità comunali, provinciali e regionali, responsabili rispettivamente del ciclo elementare, dell’insegnamento secondario e dell’istruzione universitaria. Ne derivava una struttura amministrativa semplificata, come si evince dall'abolizione di figure quali l'ispettore generale degli studi superiori, sostituito nello svolgimento delle proprie mansioni dal capo di divisione e il regio provveditore la cui presenza era ormai superflua inconsiderazione dell'esiguo numero di scuole secondarie statali e della decisione di limitare l'accertamento negli istituti privati alle condizioni igienico-sanitarie e al rispetto delle leggi della società civile. Parallelamente il ministro proponeva di reintrodurre i provveditori mandamentali per vigilare gratuitamente sulle scuole elementari dei piccoli centri e di coinvolgere, come era avvenuto in passato, gli intendenti nell'opera di diffusione dell'alfabeto a conferma della priorità attribuita alla componente locale nella direzione del sistema scolastico. Un'uguale libertà in materia d'istruzione era riconosciuta alle associazioni private alle quali per la prima volta il ministro era disposto a fare importanti concessioni nel ramo superiore degli studi: «Vorremmo che l'insegnamento non ufficiale – si legge infatti nei Principi direttivi – crescesse per opera di associazioni private in maniera da far sorgere prosperoso e robusto non pure ogni genere d'istruzione elementare e mezzana, ma parecchie complete università come in qualche parte d’Europa è accaduto». Questa impostazione consentiva di conciliare l'esigenza di uniformità d'indirizzo con la necessità di favorire l'adozione di misure applicative differenziate in relazione all'esperienza e alla tradizione scolastica delle diverse zone del regno secondo una concezione volta a individuare nella varietà una fonte di ricchezza a cui attingere per l'elaborazione di una proposta che fosse espressione dell’identità italiana e non la semplice estensione del modello subalpino. In quest'ottica si comprende la decisione di Mamiani di procedere a distanza di pochi mesi (dal luglio 1860 al gennaio 1861), a un rimpasto della commissione incaricata dell'esame dei Principi direttivi per assicurare la presenza di uomini rappresentativi delle Marche (Bellino Briganti-Bellini), della Campania (Francesco De Sanctis) e della Sicilia (Placido Tardy) accanto a esponenti dell'area piemontese (Luigi Amedeo Melegari, Quintino Sella), ligure (Antonio Caveri), lombarda (Carlo Tenca, Giovanni Visconti Venosta), emiliana (Antonio Montanari) e toscana (Giovan Battista Giorgini, Enrico Betti). Le dimissioni del governo, il 19 marzo 1861, segnarono il definitivo accantonamento del progetto Mamiani, primo e, in realtà, ultimo tentativo di promuovere una riforma organica nel settore dell'istruzione, come testimonia l'inversione di tendenza operata dal successore Francesco De Sanctis ni favore di interventi che, limitati a specifici settori della scuola, erano volti a ovviare alle lacune del regio decreto del 1859. L'uguale sorte che toccò ai disegni di legge Farini- Minghetti induce a ricondurre il fallimento della proposta di revisione della Casata alla mancata affermazione della politica di decentramento e di estensione delle autonomie locali di cui i Principi direttivi erano espressione. Fattore determinante per il mantenimento dello status quo fu, probabilmente, l'annessione del Mezzogiorno: la forte presenza del clero nell'ex regno borbonico e l'arretratezza economica e culturale delle province meridionali generarono nella classe dirigente il timore che la concessione di un'ampia libertà a livello locale potesse favorire l'emergere di spinte centrifughe in un momento in cui era necessario dare stabilità all'assetto politico-amministrativo e rafforzare l'autorità del nuovo Stato per non compromettere l'unità nazionale appena raggiunta. Non esistono altre ragioni che consentano di spiegare l'accantonamento, nell'arco di pochi mesi, di una riforma scolastica fortemente sollecitata dagli ambienti parlamentari all'indomani dell'annessione al Piemonte delle regioni centrali della penisola: si pensi, in modo particolare, a quanto emerso dalla relazione del deputato Gualterio letta alla Camera il 21 giugno 1860. Una conferma dei mutati orientamenti in materia d'istruzione è data anche dalle vicende che caratterizzarono la presentazione in Parlamento del progetto sull'istruzione primaria e li successivo dibattito nell'aula del Senato: mentre il ministro sosteneva la necessità di una legge per tutte le zone del regno in cui non era in vigore la Casati, i membri dell'Ufficio centrale e l'assemblea dei senatori si dichiaravano favorevoli a un provvedimento di carattere speciale per la sola Emilia, regione dove, a differenza della Toscana, della Sicilia e della Campania, non esisteva alcuna legge volta a regolamentare il ramo inferiore degli studi. Se si considera che all'epoca della proposta Mamiani sull'istruzione elementare li titolo V del regio decreto del 1859 era applicato unicamente in Piemonte, in Lombardia, nelle Marche e nell'Umbria appare evidente il tentativo del ministro di procedere per questa via a una ridefinizione della struttura e dei contenuti della scuola primaria; altrettanto chiara risulta la volontà dei senatori di anteporre l'adozione di misure di emergenza a qualunque forma di intervento organico nel settore dell’istruzione popolare. La mancata approvazione di una riforma generale degli studi legittimò di fatto una situazione che, affermatasi all'epoca dei governi provvisori, era caratterizzata da un'applicazione disomogenea della legislazione scolastica nelle diverse province del regno: tra le regioni annesse, ad eccezione della Lombardia, soltanto le Marche (decreto del 2 novembre 1860, n. 289) e la Sicilia (decreto del 17 ottobre 1860, n. 263) si erano uniformate per tutti gli ordini di scuola alle disposizioni della Casati seppur con alcune variazioni relative rispettivamente alla figura e alle competenze delle autorità scolastiche e all'ordinamento degli istituti secondari classici. Mentre in Umbria il commissario generale straordinario Gioachino Pepoli e successivamente Mamiani avevano provveduto a una estensione parziale della legge del 1859 (prima i titoli sull'istruzione tecnica e elementare con decreto del 29 ottobre 1860, n. 104 e poi quello sull'amministrazione centrale e periferica con decreto del 20 gennaio 1861, n. 4603), in Campania, in Toscana e in Emilia le autorità chiamate a gestire la difficile fase di transizione non avevano ritenuto opportuno introdurre nessuno dei cinque titoli della Casati. È interessante notare come anche in quest'ultimo caso la comune scelta fosse espressione di realtà scolastiche differenti tra loro se infatti per l’area emiliana non è improprio parlare di un vuoto legislativo in materia d’istruzione, diverse sono le considerazioni ni ordine alle altre due regioni della penisola dove la normativa vigente era finalizzata alla creazione di un sistema scolastico ispirato a principi diametralmente opposti. Il confronto tra i provvedimenti emanati a Firenze nel 1860 e quelli promulgati a Napoli nella prima metà dell'anno successivo è eloquente al riguardo: i primi, come abbiamo avuto modo di accennare nelle pagine precedenti, erano concepiti nell'ottica della più ampia libertà d'insegnamento intesa nei termini di rispetto della patria podestà in materia di educazione (mancata affermazione del principio dell'istruzione obbligatoria) e di salvaguardia della sfera di autonomia delle autorità locali (si pensi, ad esempio, alla volontà di non determinare per via legislativa l'entità dello stipendio da corrispondere agli istitutori primari); i secondi, invece, proponevano un modello fondato sotto il profilo amministrativo su una struttura fortemente accentrata e sotto quello istituzionale su una limitazione dei diritti delle famiglie e su una puntuale definizione dei doveri delle amministrazioni comunali, massime per quanto concerneva l'insegnamento primario. Non a caso le leggi redatte nel capoluogo partenopeo sull'istruzione elementare (7 gennaio 1861) e sull'istruzione secondaria (10 febbraio 1861) così come quelle sull’istruzione universitaria (la nota legge Imbriani) e sull’istituzione del Consiglio superiore, entrambe del 16 febbraio del 1861, riflettevano nella sostanza e, a tratti, anche nella forma le disposizioni della legge Casati: per certi aspetti erano addirittura più vincolanti della normativa introdotta nel 1859. In conclusione, il fallimento della proposta Mamiani coincise con l'esaurirsi di quella spinta riformatrice e di quello slancio ideologico che, a partire dalla Boncompagni, avevano caratterizzato la politica scolastica subalpina nel decennio di preparazione alla Casati e negli anni immediatamente successivi: nessuno, infatti, dei ministri succedutisi nell'età della destra storica sottopose all'attenzione del Parlamento una legge di carattere generale sia per deliberata scelta sia per difficoltà oggettive, prima fra tutte la brevità del mandato (sono ben quindici le persone che si alternarono alla guida del dicastero dal 1861 al 1876). Così come era avvenuto all'epoca di Lanza la mancata affermazione della linea fondata sul riconoscimento di un'ampia autonomia alle realtà locali e sulla concessione ai cittadini, alle famiglie e alle associazioni di una piena libertà nel settore educativo fu la logica conseguenza del prevalere di una concezione che individuava nello Stato il principale, se non l'unico, fautore e garante dell'unità nazionale e nella Chiesa, diffidente e ostile verso la nuova realtà politica, una minaccia per l'avvenire della nazione in virtù della sua radicata presenza nel tessuto sociale. In questa prospettiva si comprende appieno il significato della limitazione delle prerogative della famiglia in materia d'istruzione e della progressiva laicizzazione della scuola, scelte che, dai primi anni Settanta, contraddistinsero l'operato degli esponenti della classe politica chiamati a reggere le sorti della pubblica istruzione nel regno d'Italia.
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