Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La Crisi della Repubblica Romana: Tiberio Gracco, Silla, Cesare e la Fine della Repubblica, Dispense di Letteratura latina

La crisi politica e sociale che colpì la repubblica romana tra il ii e i sec. A.c., attraverso la biografia di personaggi come tiberio gracco, silla, cesare e la loro influenza sulla politica romana. Il testo tratta anche della filosofia epicurea di lucrezio e la carriera politica di cicerone.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 06/02/2024

teresa-monachino-1
teresa-monachino-1 🇮🇹

3 documenti

1 / 28

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La Crisi della Repubblica Romana: Tiberio Gracco, Silla, Cesare e la Fine della Repubblica e più Dispense in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! CONTESTO STORICO II/I SEC a. C L’espansione di Roma portò anche degli svantaggi: il quadro politico, sociale ed economico soprattutto, divenne sempre più complesso. Le strutture amministrative esistenti risultarono inadeguate; in particolare, scoppiò la cosiddetta “questione agraria”: le conquiste avevano portato all’arricchimento dei grandi proprietari terrieri, a svantaggio della piccola e media proprietà, che erano spesso costretti a vendere i propri terreni e trasferirsi nelle città. Queste crisi avevano favorito l’ascesa politica di uomini che proponevano nuove riforme, che trovarono grande appoggio nella plebe soprattutto. Si aprì, così, il contrasto tra optimates (i conservatori) e populares. In particolare, è il caso di Tiberio Sempronio Gracco, nipote di Scipione l’Africano, che era stato eletto tribuno della plebe e nel 133 a. C. aveva proposto una legge per la redistribuzione delle terre: molti dei grandi proprietari si erano appropriati anche del suolo pubblico, che da questo momento sarebbe stato distribuito ai piccoli proprietari impoveriti. A questo punto, il contrasto tra optimates e populares si inasprì, fino a degenerare in armi, e Tiberio fu ucciso. Tra il 123 e il 122 a. C, il fratello, Gaio Sempronio Gracco, venne eletto anch’egli tribuno. Cercò stavolta di assicurarsi i consensi di tutti i ceti sociali; tuttavia, la riforma agraria, era osteggiata anche dai socii italici, cioè alleati di Roma, ma senza cittadinanza, che avrebbero subito confische, senza alcun vantaggio. Gaio propose, quindi, di dare anche a loro la cittadinanza, ma così facendo perse l’appoggio della plebe. Perciò, Gaio non venne rieletto nel 121 a. C. La crisi, intanto, si aggravò sempre di più, fino a coinvolgere anche l’esercito: l’arruolamento militare era in base al censo e aveva sempre riguardato i piccoli e medi proprietari, che ora diminuivano sempre più. Nel 107 a. C., i populares fecero eleggere come console Gaio Mario, che propose una riforma militare: l’arruolamento volontario. In questo modo, infatti, aumentò il numero di uomini nell’esercito, poiché molti speravano di riscattarsi economicamente, acquisendo bottini e terre dal loro servizio. La questione dei socii, intanto, non era stata risolta e scoppiò una “guerra sociale”, che vide gli alleati sconfitti militarmente, ma vincitori politici, in quanto da Roma arrivò la possibilità di ottenere la cittadinanza agli alleati rimasti fedeli o a chi si fosse arreso entro breve termine. Nel I sec. a. C. scoppiò una vera propria guerra civile. Tutto iniziò da una rivolta antiromana in Asia Minore, dove il re del Ponto, Mitriade, riuscì a conquistare la provincia romana d’Asia. Nell’88 il comando dell’esercito fu affidato a Silla, console conservatore, rappresentante dell’aristocrazia senatoria; i populares mal digerirono la scelta e fecero approvare un plebiscito per far salire al comando Gaio Mario al posto di Silla. Quest’ultimo reagì infrangendo la legge: entrò a Roma con il suo esercito e impose la propria autorità con le armi, fino a costringere Mario alla fuga. Partì, poi, per l’Oriente, dove, in quattro anni, riuscì a scacciare Mitriade. Durante la sua assenza, però, i populares avevano avviato una rivolta antisilliana, che era sfociata nella violenza, che aveva portato anche alla morte di Mario nell’86. Nell’83 Silla rientra a Roma e sbaraglia tutti i populares guidati dal figlio di Mario, eliminando, attraverso massacri e proscrizioni, tutti gli oppositori. Silla fece votare un provvedimento che l’avrebbe nominato dittatore, col compito di riformare lo stato sul piano politico-costituzionale. Il principale obbiettivo fu quello di rafforzare l’aristocrazia senatoria, attraverso varie leggi che diminuivano sempre più il potere di tutte le altre classi sociali. Si occupò, poi, anche della questione dei nuovi cittadini, ossia degli alleati italici: Silla non voleva che anche loro prendessero diritti politici, così sospese le elezioni dei censori, in questo modo, non essendoci più alcun censimento, gli italici non furono scritti nelle liste delle tribù e non poterono partecipare ai comizi pubblici. Silla si ritirò volontariamente a vita privata nel 79 a. C. e morì un anno dopo a Roma. delle sue istituzioni nei suoi avversare, che aveva deciso di tenere in vita con una politica di compromesso (loro, ma ciò avvenne solo formalmente, avrebbero dovuto accettare la sua autorità). Cesare venne, infatti, ucciso, vittima di una congiura, il 15 marzo del 44 a. C., mentre si recava in Senato. LUCREZIO Della sua vita sappiamo molto poco: è celebre per aver scritto il De rerum natura, in cui non vi sono notizie autobiografiche. Conosciamo il suo nome poiché venne tramandato nei codici “Titus Lucretius Carus”. I contemporanei non parlarono mai di questo poeta, ad eccezione di Cicerone, che lo citò in una epistola, grazie alla quale possiamo indicare come data di morte il 55 a. C. La più importante testimonianza rimane quella di Gerolamo, che conferma come data di morte il 55 a. C.: Lucrezio sarebbe nato nel 98 a. C. e all’età di 43 sarebbe impazzito per un filtro d’amore, fino al suicidio. È sembrata per anni plausibile l’ipotesi della follia del poeta: dal poema, si possono notare stati di euforia alternati a stati di depressione, che hanno fatto pensare gli studiosi ad una psicosi clinica. Tuttavia, tutt’oggi non è confermata questa teoria, probabilmente basata sui pregiudizi medievali della chiesa, che poco accettava la dottrina epicurea, e non viene negata l’eccezionalità del poema e dell’autore stesso. Il De rerum natura è un poema epico-didascalico in esametri, diviso in 6 libri, che espone la filosofia epicurea, che si stava diffondendo a Roma nel I sec a. C., per Lucrezio l’unica filosofia salvifica per l’uomo. Anche il titolo non è un caso: è la traduzione dal greco di “perì physeos”, ossia “sulla natura”, un titolo che molti filosofi greci diedero alle loro opere, tra cui proprio Epicuro. Tuttavia, l’opera di Epicuro era scritta in prosa, in quanto il filosofo riteneva la poesia non solo inutile per il raggiungimento della saggezza, ma addirittura nociva. Lucrezio giustifica la sua scelta di scrivere in versi tramite una similitudine che ebbe molta fortuna, cioè sottolineando il potere strumentale della poesia, in grado di rendere più piacevoli alla lettura degli argomenti tanto salutari, quanto ostici. Infatti, in quel periodo, a Roma, si stava diffondendo il gusto alessandrino per il poema didascalico. Lucrezio fu associato dagli studiosi ad Esiodo, il quale aveva scritto un poemetto in esametri, intitolato le Opere e i giorni, in cui esponeva precetti di agricoltura e navigazione. Tuttavia, Lucrezio si distacca dall’aspetto tecnico dell’opera di Esiodo, avvicinandosi invece ad un filone filosofico-scientifico; suo grande modello fu sicuramente Empedocle di Agrigento, autore del poema in esametri sulla natura. Dal punto di vista stilistico si ispirò sicuramente ad Ennio. L’opera è dedicata a Memmio, che sappiamo fu, anche grazie a Cicerone, un illustre uomo politico romano, dedito alla poesia e probabilmente poeta lui stesso. L’opera si apre, seguendo i topoi della tradizione epica, con una preghiera rivolta, però, non alle muse, ma a Venere, progenitrice dei romani e dea dell’amore e della fecondità, quindi associata alla forza generatrice della natura (argomento dell’opera stessa) e all’accettazione delle leggi naturali. Lucrezio prega Venere affinché assicuri la pace ai Romani e sembrerebbe così andare contro alla dottrina di Epicuro, il quale ritiene gli dèi indifferenti alle azioni umane; in realtà, come abbiamo visto, Lucrezio riporta Venere come simbolo della natura stessa e, non solo questo, probabilmente lo fece come una forma di captatio benevolentiae nei confronti del pubblico e di Mummio. Dopo la preghiera a Venere, segue un lungo elogio a Epicuro, rappresentato come un eroe, che grazie alla sua filosofia ha salvato gli uomini dalla religio, che porta gli uomini a compiere gesti scellerati, quindi, espone l’episodio mitico del sacrificio di Ifigenia. LIBRO I: espone quindi la dottrina epicurea degli atomi: gli atomi sono particelle elementari, invisibili e indistruttibili, la cui unione e disgregazione porta alla nascita di tutte le cose (la materia). Per Lucrezio, essendo gli atomi indistruttibili, anche la materia lo è (nulla si crea e nulla si distrugge). Nell’ultima parte del libro espone anche l’infinità dell’universo, senza confini o misura). LIBRO II: si apre con un proemio sull’atarassia dei sapienti, ossia la serenità imperturbabile, che distingue i sapienti (che accettano le leggi naturali) dal resto degli uomini. Riprende poi la teoria degli atomi, affermando che il movimento e la combinazione degli atomi è possibile grazie al clinamen, cioè la deviazione degli atomi che si muovono nel vuoto seguendo traiettorie verticali. Alla fine del libro afferma che sicuramente nell’universo si formano altri mondi, che si sviluppano sempre di più fino ad arrivare al vertice e poi iniziano a declinare fino a perire: questo, secondo Lucrezio, è ciò che sta accadendo al nostro mondo, testimone ne è l’imminente dissolutezza. LIBRO III: inizia con un elogio ad Epicuro. Lucrezio distingue anima (principio vitale in tutto il corpo) dall’animus (la mente, sede del raziocinio), negandone l’immortalità: anch’esse, come il resto del corpo, sono formate da atomi e al momento della morte, si dissolvono anche questi. Morendo l’anima, muore la sensibilità e non ci può essere per l’uomo alcuna sofferenza: per questo non si deve temere la morte, paura fondata su credenze errate. LIBRO IV: espone la teoria delle sensazioni, secondo la quale sarebbero provocate dall’aggregazione di atomi sottilissimi, i simulacra, che si distaccano dai corpi e vanno a colpire i sensi. Tratta quindi del sesso e dell’amore. LIBRO V: anche qui vi è un elogio ad Epicuro. Lucrezio afferma che l’universo non è eterno e soprattutto non è stato creato dagli dèi, i quali vivono fuori dal mondo, felici e immortali, ma si sarebbe formato in seguito all’aggregazione casuale di atomi. Prosegue, dunque, una grandiosa sintesi della storia dell’umanità. LIBRO VI: vi è un elogio ad Atene e a Epicuro. Passa, poi, alla trattazione dei fenomeni meteorologici, come il fulmine, la pioggia, il tuono, che hanno sempre portato gli uomini alla paura degli dèi, da cui Lucrezio carme 11, datato 55/54 a. C., anno della morte del poeta stesso, per questo si pensa fosse anche un commiato alla vita. I suoi componimenti ci giungono tramite una raccolta, un liber, anche se sicuramente non contiene tutti i suoi carmi e soprattutto non fu da lui organizzata. Nel liber sono presenti 116 carmi, organizzati secondo un ordine metrico: 1-60 metro e argomento vario molti sull’amore per Lesbia, le nugae; 61-68 “carmina docta” in metri vari e più ampi e più impegnati rispetto ai precedenti; 69-116 componimenti brevi di vario argomento in distici elegiaci. Apre la raccolta una dedica a Cornelio Nepote, suo amico, probabilmente non riferita all’intero liber, ma solo ad una parte di questi componimenti (è probabile aprisse un libellus donato all’amico). È importante questa dedica per capire la sua poetica: Catullo qui definisce i suoi componimenti come nugae, “poesiole” o ”poesie leggere”, ma utilizza anche gli aggettivi “lepidus” (piacevole, amabile) e “novus”; inoltre utilizza spesso il termine “ludere” per descrivere il suo modo di fare poesia, non impegnato. Le nugae sono componimenti caratterizzati dalla brevitas (brevità del componimento) e dalla varietas (varietà di stile, tono ed argomento), uniti alla raffinatezza formale, si notano, infatti, le influenze della poesia alessandrina, in particolare nel meticoloso labor limae. Un altro elemento caratterizzante è la soggettività: Catullo riporta il suo mondo e la sua visione del mondo, in sintonia con gli ideali che circolavano nei circoli letterari da lui stesso frequentati, in cui si mescolavano etica ed estetica. Il carme 65 costituisce invece l’incipit dei cosiddetti carmina docta, nel quale Catullo parla delle doctae vergines, le muse, sue ispiratrici. Si tratta di componimenti più “impegnati” rispetto ai precedenti in fatto di temi, stile e ampiezza. I seguenti sono alcuni esempi: Il carme 61 è un epitalamio. Questo tipo di poesia d’occasione era tipico della tradizione latina, ma soprattutto greca (vasta produzione lirica in età classica, esempio Saffo, maggiore modello di epitalami). L’originalità di Catullo fu quella di adattare i moduli stilistici greci alla cultura italica. Anche il carme 62 è un epitalamio, composto in esametri. Si tratta di un carme "a contrasto", cioè costruito in modo che il canto sia intonato alternativamente da un coro di fanciulli e da uno di fanciulle. Non è dedicato a personaggi specifici, ma contiene motivi topici relativi a questo genere poetico: da una parte le fanciulle denunciano gli aspetti negativi del matrimonio, che costringe le donne a perdere la verginità per un legame deciso dai genitori; dall'altra i giovani esaltano gli effetti positivi del matrimonio, che giova anche alle donne, e pongono l'accento sul tema della procreazione. Il carme 63 è un epillio, ossia un componimento abbastanza esteso di argomento erotico-mitologico, che narra del mito di Attis che, invasato dalla dea Cibele, si unisce ai sacerdoti galli, seguaci del culto della dea. Spicca qui la finezza dell’analisi psicologica del protagonista. Probabilmente il più celebre della raccolta, è il carme 64, anch’esso un epillio in esametri, che narra le nozze di Peleo e Teti e. parallelamente, le vicende amorose di Arianna e Teseo. Attraverso un ekphrasis, cioè la descrizione del ricamo della coperta nuziale della prima coppia, in cui è rappresentata la storia drammatica di Arianna. Le due storie, tuttavia si contrappongono: Peleo e Teti vivono un amore più felice, in quanto sancito dal foedus (regolarità del patto) e dalla fides (fedeltà reciproca), in forte contrasto con il tradimento di Teseo. Queste tematiche ricorrevano anche nelle nugae, secondo un punto di vista personale ed autobiografico dell’autore, mentre qui, attraverso il mito, può collocare la sua riflessione poetica in una visione più universale. Il carme 65 è una dedica in distici elegiaci all’amico Ortensio Ortalo, al quale aveva inviato la traduzione della Chioma di Berenice di Callimaco: l’amico l’aveva esortato a scrivere delle poesie per consolarsi dalla morte del fratello, ma il poeta gli aveva risposto di non riuscire a trovare ispirazione a causa del lutto; pertanto, gli propone la traduzione di questo componimento di Callimaco, che costituisce lo stesso carme 66. Berenice era la moglie di Tolomeo III l’Evergete e aveva sacrificato agli dèi una propria ciocca di capelli, affinché il marito tornasse salvo dalla sedizione militare; la ciocca sparì e venne identificata dall’astronomo di corte Conone nella nuova costellazione apparsa in cielo (si pensò fosse un segno degli dèi). Anche qui la tematica amorosa già presente nelle nugae viene tradotta sotto un aspetto universale grazie al mito. Il carme 67 è un paraklausithyron (letteralmente “lamento davanti ad una porta chiusa”), cioè un’elegia in distici costituita da un dialogo tra il poeta e la porta della casa di un certo Cecilio, la quale rivela i continui tradimenti della moglie nei confronti del marito. Anche il carme 68 è un’elegia, se pur più complessa. Nella prima parte vi è la dedica all’amico Allio, o Mallio, che chiede al poeta di venirgli in soccorso con i doni delle muse e di venere. Catullo risponde di non poterlo aiutare, essendo anche lui afflitto dal lutto del fratello. Nella seconda parte, Catullo ringrazia l’amico per aver favorito il suo incontro con Lesbia, aprendo così la digressione mitologica: il poeta paragona il loro incontro a quello di Laodamia e Protesilao, i quali si erano uniti senza aver prima celebrato i riti nuziali, talmente presi dalla passione, e per questo puniti con la morte di lui, il primo uomo a cadere sotto le mura di Troia (riferimento alla morte del fratello). La terza sezione del liber è costituita dagli epigrammi, componimenti brevi di argomento vario: funebri, sul tema della fides, celebrativi, altri enunciano il programma poetico neoterico (carme 95), scommatici, ecc. Per quanto riguarda le tematiche trattate da Catullo, in primis troviamo l’amore, visto tradizionalmente dai romani come una debolezza, una distrazione giovanile, ma per il poeta è un valore assoluto, che ti rende consapevole della brevità della vita. L’amore catulliano si basa, come abbiamo visto, sul foedus e la fides- è particolare come questi due termini (e altri utilizzati dal poeta) appartengono al linguaggio giuridico, mentre Catullo li associa all’amore- entrambi termini che derivano dal verbo fido (avere fiducia). La fides è un’antica virtù morale romana, garante di tutti i rapporti interpersonali e del sentimento religioso, mentre il foedus è il vero e proprio patto d’amore, un legame giuridico e religioso, con leggi inviolabili. Quindi Catullo non parla esclusivamente dell’amore come di Pompeo, così come tutta la classe Senatoria. Durante la dittatura di Cesare, costituitasi dopo la sua vittoria a Farsalo, Cicerone si allontanò dalla vita politica, dedicandosi alla filosofia e alla letteratura e limitandosi a discorsi di elogi verso Cesare. Tuttavia, alla morte di Cesare, si schierò a favore dei cesaricidi, ossia i fautori della congiura ai danni del dittatore, mentre tra i due contendenti del potere di Cesare, Antonio e Ottaviano sostenne il secondo. Ottaviano si servì di lui per ottenere il consenso del popolo e come alleato nella lotta contro Antonio (contro il quale Cicerone scrisse le cosiddette Filippiche), ma una volta riunitosi nel secondo triumvirato con Antonio e Lepido per fronteggiare insieme i cesaricidi, nelle liste di proscrizione effettuate, a favore di ciò, il nome di Cicerone uscì per primo. Il grande oratore venne ucciso il 7 dicembre del 43 a. C. Cicerone, così come altri celebri oratori del passato, aveva curato personalmente la pubblicazione delle sue orazioni, per scopi quali propaganda politica, desiderio di gloria anche presso i posteri. Ad oggi ci pervengono 58 orazioni per intero, che si distinguono in giudiziarie e deliberative. ORAZIONI GIUDIZIARIE (pronunciate in tribunale):  Le Verrinae (70 a. C.): letteralmente “discorsi contro Verre”, sono 7 orazioni scritte- e le prime due effettivamente pronunciate - contro Gaio Verre, governatore della Sicilia, accusato dai siciliani di malgoverno e concussione (processo “de repetundis” - “per concussione”)  Pro Archia poeta (62 a. C.): vennero scritte per la difesa di un poeta greco, Archia, accusato di aver usurpato il diritto di cittadinanza romana; il poeta fu assolto.  Pro Sestio (56 a. C.): scritta per la difesa del tribuno della plebe Sestio, il quale era stato accusato de vi (di violenza) in quanto aveva organizzato delle bande armate per fronteggiare le bande di Clodio. Cicerone lo difende dicendo che il ricorso alla violenza e all’illegalità alcune volte è necessario per difendere le istituzioni (tesi apparentemente contraddittoria con il resto del suo pensiero legalitario). Sestio fu assolto.  Pro Caelio (56 a. C.): Cicerone qui difende Marco Celio Rufo, accusato di aver rubato dei gioielli e aver cercato di avvelenare una donna, ossia Clodia, sorella di Clodio e con ogni probabilità la Lesbia di Catullo. Qui l’oratore si scaglia contro il suo nemico Clodio e attacca sua sorella, descrivendola come una donna corrotta e dissoluta. Celio fu assolto.  Pro Milone (52 a. C.): Milone fu accusato de vi, in quanto era stato il responsabile della morte di Clodio; Cicerone ne prese le difese. Tuttavia, la magistrale orazione che aveva preparato per la difesa – in cui sostanzialmente riportava alla mente dei presenti tutti i crimini commessi da Clodio, affermando, perciò, quanto la sua morte non potesse che essere un provvidenziale per Roma- non venne mai pronunciata, sicuramente anche per le circostanze drammatiche del processo, presidiato da soldati agli ordini di Pompeo. LE ORAZIONI DELIBERATIVE (pronunciate in Senato o in assemblea popolare):  Pro lege Manlia de imperio Gnaei Pompei (66 a. C.): è il primo discorso pronunciato da Cicerone dinanzi al popolo, tenuto mentre era pretore, ed era un discorso a favore della proposta di legge che avrebbe dato poteri straordinari a Pompeo per la guerra contro Mitridate in Oriente. Cicerone insiste sulla gravità del conflitto e conclude con un eccezionale elogio a Pompeo. La proposta di Manlio fu approvata all’unanimità.  Le Catilinarie (tra novembre e dicembre del 63 a. C.): sono 4 discorsi pronunciati nei giorni della scoperta e della repressione della congiura di Catilina. Furono poi rielaborate e pubblicate da Cicerone stesso nel 60 a. C. e sono la più grande prova dell’eccellenza Ciceroniana nell’oratoria.  Le Philippicae (44-43 a. C.): sono 14 discorsi pronunciati con l’intento di far dichiarare Antonio nemico pubblico. Chiamate anche Antonianae, devono il loro titolo alle omonime celeberrime Philippicae di Demostene, pronunciate contro Filippo di Macedonia. Nelle orazioni Cicerone assume le tre funzioni dell’oratore, che egli stesso assegna nelle sue opere di retorica:  docere : dimostrare la sua tesi essendo convincente dal punto di vista razionale;  delectare : dilettare il pubblico;  movere o flectere: suscitare commozione e compassione nel pubblico. Lo stile è duttile e multiforme, ma ciò che più spicca è la concinnitas, ossia l’armonia tra i periodi, nonostante la complessità dell’organizzazione sintattica ciceroniana. LE OPERE DI RETORICA Cicerone scrisse 3 opere di retorica (ossia la tecnica dell’oratoria: l’arte di saper fare discorsi). Il De Oratore: è diviso in tre libri ed è un dialogo platonico-aristotelico, ossia l’argomento viene trattato tramite il dialogo fittizio tra due o più interlocutori inseriti in una cornice drammatica, ossia fittizia. Nel I libro per bocca di Lucio Licinio Crasso, uno degli interlocutori del suo dialogo, espone la tesi di fondo della sua opera: afferma che il perfetto oratore è colui che si prodiga nella vita pubblica e che abbia al tempo stesso una cultura tale da parlare con competenza ed efficacia di ogni argomento (“vir bonus dicendi peritus”). Cicerone si rifà molto all’oratore greco Isocrate, soprattutto per quanto riguarda il secolare dibattito circa il rapporto tra retorica e filosofia. Come Isocrate, Cicerone afferma che l’eloquenza è la base della civiltà, poiché è ciò che distingue l’uomo dagli animali, ed è quindi la retorica stessa che ci insegna a deliberare su ciò che è utile o necessario in base alle circostanze, tramite una retta opinione sulla verità; nonostante Cicerone si mantenga equilibrato nel dibattitto, non può non sottolineare la subordinazione della filosofia alla retorica, in quanto facoltà che abbraccia ogni competenza e disciplina.  L’ Hortensius è invece un dialogo, che prende il nome dal protagonista, il grande filosofo Quinto Ortensio Ortalo, ed è un’esortazione alla filosofia (protrettico).  Academici : è un dialogo diviso in due libri in cui Cicerone tratta il tema della conoscenza. L’autore si pone in una posizione “probabilistica”, ossia non crede vi siano criteri oggettivi per distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ma si attiene a ciò che è razionalmente “probabile”, si attiene, cioè, alla verosimiglianza.  De finibus bonorum et malorum : anche questo è un dialogo, il cui tema è l’argomento più trattato della filosofia ellenistica, ovvero lo scopo della vita, che coincide quindi con il sommo bene. Cicerone si mette in polemica con gli epicureisti, affermando che tale bene non è dato dal piacere del corpo, ma dalla virtù; tuttavia, si pone anche in opposizione agli stoici, affermando che i piaceri del corpo, se pur inferiormente, contribuiscono alla felicità, sono, cioè, dei fattori positivi. (etica pratica)  Le Tusculanae Disputationes: è un contraddittorio di 5 libri tra Cicerone ed un interlocutore anonime e il tema è quello della felicità e degli ostacoli che vi sono per raggiungerla, quali la paura della morte, il dolore ecc; secondo Cicerone l’unico modo per superare tali paure è la virtù, ponendola, quindi, come unica strada per la felicità. (etica teorica)  Vi sono 3 opere sulla filosofia della religione:  De natura deorum (“la natura degli dèi”): qui confuta sia la tesi epicurea secondo la quale gli dèi siano indifferenti alla vita degli uomini, sia quella stoica secondo cui esista un’entità divina che governa il mondo;  De Divinatione (“la divinazione”):  De Divinatione (“la divinazione”): l’autore respinge razionalmente la divinazione in tutte le sue forme, quali i prodigi, gli oracoli, ecc.;  De Fato (“il fato”): tratta il problema se la vita dell’uomo sia determinata dal fato o dalle proprie azioni.  Cato maior de senectute : Cicerone immagina un dialogo tra Catone il Censore e i suoi due amici Scipione l’Emiliano e Gaio Lelio, i quali disquisiscono sulla vecchiaia.  Lelius de amicitia : dedicato all’amico Attico, è un dialogo che tratta dell’amicizia: il protagonista è Gaio Lelio che, dopo la morte del carissimo amico Scipione, riflette sul valore dell’amicizia.  Il De Officis : sopracitato, è un trattato filosofico con caratteri politici diviso in 3 libri, dedicato al figlio Marco. Nel libro I parla dell’honestum, ossia il bene morale, in base al quale si stabiliscono i “doveri” dell’uomo; l’honestum si esplica in 4 virtù: la sapienza, la temperanza, la giustizia e la fortezza. Nel II parla dell’utile, ossia il punto di riferimento dell’azione umana. Nel libro III parla del rapporto conflittuale tra honestum e utile, secondo Cicerone inesistente in quanto nessuno con le proprie azioni trae vantaggio personale e non, anche, vantaggio comune. LE EPISTOLE Ci giunge n corpus di lettere consistente, costituito da 864 epistole, scritte tra il 68 e il 43 a. C. e pubblicate postume; si dividono in 4 raccolte:  Epistuale ad Atticum : 16 libri, destinate all’amico Attico.  Epistulae ad familiares : 16 libri, destinate ai familiari e agli amici.  Epistuale ad Quintum fratrem , 3 libri, destinate al fratello attico.  Epistulae ad Marcum Brutum : 2 libri, destinate Bruto, il cesaricida. In queste raccolte sono presenti anche alcune epistole dei corrispondenti. Queste epistole sono, inoltre, tutte vere, ossia tutte realmente inviate a destinatarie, se pur molte pensate per essere diffuse già dall’autore stesso, e altre prettamente letterarie che si rifanno cioè ai canoni dell’epistola (ossia quelle indirizzate a persone non intime. Le epistole in cui maggiormente spicca la vera personalità di Cicerone sono le lettere all’amico Attico, dove emergono tutti i suoi pregi e difetti. CESARE Cesare è definito l’uomo più grande che Roma abbia mai dato al mondo. È conosciuto, infatti, soprattutto come importante protagonista storico in un’età di passaggio, di cui fu emblema lui stesso, dalla repubblica al principato. Tuttavia, diede grande contributo anche alla letteratura: fu abile oratore e scrisse molte opere, di cui però ci giungono solo i suoi Commentarii, ossia una prosa memorialistica e autobiografica, quindi strettamente legati alla sua attività politico-militare. Abbiamo testimonianza di altre opere da lui scritte, che, tuttavia, sono andate perdute, come le opere oratorie, il De Analogia (in cui dimostrava il suo interesse in campo linguistico e grammaticale) e gli Anticatones (in risposta all’elogio di Catone scritto da Cicerone). Oltre alle sue opere autobiografiche, abbiamo numerose fonti sulla vita di Cesare. Sappiamo nacque a Roma nel 100 a. C. con il nome di Gaio Giulio Cesare, discendente della nobile gens Iulia, un’antica famiglia patrizia. Nonostante le sue nobili origini, era legato al partito dei populares (era parente di Mario e Cinna, i più importanti esponenti), a cui diede il proprio contributo a partire dalla morte di Silla. Divenne questore nel 68 a. C., edile del 65 a. C. e pontefice massimo nel 63 a. C.. Nel 62 e nel 61 a. C. fu pretore e propretore in Spagna, dove vinse le popolazioni situate ai confini. Nel 60 a. C. tornò a Roma, dove si unì con Pompeo e Crasso nel primo triumvirato. Nel 59 a. C. ottenne il consolato e contemporaneamente si fece assegnare il governo in Gallia, dove si impegnò a conquistare tutta la Gallia, sottomettendo le popolazioni, in soli 5 anni. Intanto a Roma cresceva sempre di più il dissenso: era ormai chiaro che Cesare mirava ad un potere assoluto basato sul suo esercito. Pompeo si fece portavoce del Senato e della repubblica stessa, e nel 49 a. C. inviò a Cesare un ultimatum: se non avesse congedato il suo esercito sarebbe stato dichiarato nemico pubblico. Cesare, invece, attraversò il Rubicone (limes) con il suo esercito e diede inizio alla guerra civile con Pompeo. Prese presto il controllo centrale a Roma, mentre Pompeo si rifugiò in Oriente, dove, infatti, vi fu l’ultimo scontro di tale guerra: la SALLUSTIO Sallustio nacque in Sabina nell’86 a. C., da una famiglia abbastanza agiata. Entrò in politica a Roma come homo novus, sotto l’appoggio di un uomo influente, con ogni probabilità Cesare, a cui rimase sempre fedele. Dopo aver adempito alcune cariche politiche, nel 50 a. C. venne cacciato dal senato con l’accusa di probum, cioè di condurre una vita scostumata, ma l’anno dopo, grazie a Cesare venne reinserito in Senato. Sallustio lo seguì nella guerra civile. Cesare gli assegnò il governo della sua nuova provincia, l’Africa Nova nel 46 a. C., ma una volta tornato a Roma, essendosi arricchito fu accusato nuovamente, stavolta di concussione; anche stavolta venne aiutato da Cesare e, dopo la sua morte, decise di abbandonare la vita politica. Gli ultimi anni nella sua vita li trascorse nel suo palazzo circondato da giardini (horti Sallusti) a Roma, dedicandosi alla storiografia; morì nel 35 a. C.. Sallustio è il primo grande storico latino. Ci parla della sua concezione nei proemi delle sue opere, elemento già presente nella storiografia greca, ma per Sallustio quanto mai essenziale, in quanto, secondo la concezione tradizionalista del mos maiorum, il primo impiego dei cittadini doveva essere la res pubblica, perciò, dedicarsi ad altro, soprattutto alle attività intellettuali, era visto come una distrazione dalla vita pubblica. Sallustio risponde a tutto ciò partendo dalla filosofia: riprende la teoria di Platone del dualismo, secondo cui l’uomo è formato da un’anima, di origine divina e che ha funzione di guida, e da un corpo, in comune con tutti gli animali, che sottostà alla prima. Sallustio proclama pertanto la superiorità dell’anima, a cui riconduce tutte le attività più nobili; prima fra tutte l’attività politica, che, però, a detta di Sallustio, è divenuta ormai impraticabile, data la vigenza della corruzione, frode e della violenza. Pertanto, afferma, in tale contesto è assolutamente da giudicare nobile l’attività dello storiografo, perché spinge all’emulazione delle grandi impese degli antenati. DE CATILINA CONIURATIONE È la prima opera storica scritta da Sallustio, ed è, nello specifico, una monografia, cioè tratta della narrazione di un singolo avvenimento storico (e in questo fu tra i primi a Roma). Sallustio specifica nel proemio che intendeva parlare della storia dei Romani “per sezioni”, scegliendo gli episodi più avvincenti, in questo caso la congiura di Catilina, che, a detta dell’autore, è degna di nota per la novità del crimine e del rischio che ha rappresentato. Tuttavia, non manca in tutta l’opera uno sguardo più ampio: la congiura di Catilina rappresentava a tutti gli effetti la crisi della res publica. A ragione di ciò, Sallustio ricorre a digressioni (excursus) su temi e concetti impliciti nella narrazione. L’excursus iniziale serve ad individuare le cause dell’evento narrato, così come voleva l’archeologia di Tucidide e tutta la tradizione storiografica greca. Sallustio parla quindi brevemente del passato di Roma, ma, più che una sintesi, risulta una riflessione moralistica, secondo la quale le vicende di Roma sono ricostruite: Sallustio divide la storia della res publica in fasi, stabilite non da eventi politico-militari ma da condizioni morali. In particolare, spicca la contrapposizione tra il buon tempo antico, qui idealizzati e reso modello perfetto, e la corrotta età moderna. Questo excursus ci spiega, quindi, che la congiura di Catilina, per quanto sia stato un grave fatto di cronaca, non sia un evento singolare ed isolato, ma frutto di una corruzione morale che caratterizza l’età moderna. La prima parte è perciò caratterizzata da riflessioni, la vera e propria narrazione inizia al capitolo 17 e procede con ritmi alterni in maniera selettiva (a seconda dell’importanza dell’evento narrato e delle esigenze dell’autore), caratterizzata anche dall’alternarsi di parti prettamente narrate e parti “drammatiche” (in cui si dà la parola ai personaggi). Sono emblematici i personaggi, la cui analisi psicologica è fondamentale per delineare i vizi e le virtù e, quindi, per portare avanti la tesi dell’autore esposta negli excursus. Tra tutti spicca Catilina, il cui ritratto viene fatto all’inizio dell’opera e tramite i suoi due discorsi (non ha alcuna evoluzione come personaggio): è presentato come un personaggio negativo, malvagio, ma anche potente. Tuttavia, è emblematico il fatto che Sallustio non parli di Catilina come uni dei tanti contendenti del potere di questa ultima fase della repubblica, né tantomeno sottolinea la sua appartenenza al partito dei populares (sostenuto anche da Cesare); Sallustio analizza Catilina come un caso eccezionale e patologico, il frutto del processo degenerativo di Roma che ebbe inizio dalla caduta di Cartagine, nonché, quindi, emblema della crisi della repubblica stessa. Attorno a questa figura centrale ruotano i suoi complici e i suoi avversari. Primo fra tutti è sicuramente Cicerone, a cui, però, Sallustio non dà alcuna centralità, se pur riconoscendo il suo operato nello sventare la congiura, fino a definirlo optimus conlus. Qui si cela anche l’oggettività dell’autore che, con ogni probabilità, personalmente non nutriva per il console alcuna simpatia. Sallustio dà un ruolo importante ad altri due personaggi: Cesare e Catone, che rappresentano le due scuole di pensiero all’ora seguite a Roma, rispettivamente le nuove istanze politiche e il rigorismo della tradizione. Con questo l’autore vuole dare centralità alla pluralità delle forze che si opposero durante la sovversione della congiura. IL BELLUM IUGURTHINUM Questa monografia tratta di un evento antecedente alla prima, ossia la guerra condotta dai romani dal 111 al 105 a. C. contro il re delle Numidia, Giugurta. Anche qui la narrazione monografica si intreccia con riflessioni più generali in un lungo excursus. Sallustio prende ad esame la medesima crisi della prima opera, dovuta dalle lotte tra le componenti dello Stato e della corruzione delle classi dirigenti, che in questa narrazione hanno portato ad un prolungamento delle guerre estere. In particolare, Sallustio si sofferma sulla discordanza tra Senato e popolo, frutto della perdita del metus hostilis (“la paura del nemico”), generata dalla vittoria su Cartagine che ha portato i Romani alla rilassatezza morale. Vi sono altre due digressioni geo-etnografiche sulla Numidia.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved