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Dal locale al globale, Dispense di Antropologia

Riassunto fatto bene del libro dal locale al globale

Tipologia: Dispense

2016/2017
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Caricato il 20/11/2017

federico_barcella
federico_barcella 🇮🇹

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Scarica Dal locale al globale e più Dispense in PDF di Antropologia solo su Docsity! 25093 ANTROPOLOGIA CULTURALE 10 CFU Mondher kilani, Dedalo edizioni . Riassunto delle pagg.23-85,107-147, 171-396 come indicato dalla pagina degli insegnamenti DAL LOCALE AL GLOBALE idealizzata e percepita al di fuori del suo contesto storico, sociale e politico che potrebbe portare ad una manipolazione delle masse e alla negazione degli scambi culturali come avviene nei regimi autoritari di alcuni paesi del Terzo Mondo per esercitare in modo esclusivo il potere. Accadde lo stesso in Europa dove la ricerca delle proprie tradizioni determinò la nascita di movimenti vicini alle ideologie nazionalistiche autoritarie costruite intorno ad un modello di una mitica civiltà primordiale superiore alle altre( razza ariana, nazismo). UNA DEFINIZIONE DELL’ANTROPOLOGIA:L’ARTICOLAZIONE DEL LOCALE CON IL GLOBALE Il procedimento antropologico assume come oggetto d’indagine piccole unità sociali dalle quali tenta di elaborare un’analisi generale attribuibile all’intera società nella quale si inseriscono. CARATTERISTICHE:  UNITA’ SOCIALI RISTRETTE= Le relazioni sociali sono osservabili dal ricercatore e sono in relazione agli altri gruppi, alla società  SPECIFICITA’ DEI GRUPPI= Si oppongono ai valori e alle politiche dominanti.  METODO= osservare la società fuori dal suo quadro generale rende tutto più oggettivo. L’osservazione partecipante permette di cogliere la specificità dei gruppi e al contempo la loro appartenenza alla società globale. ES: Analizzando la società industriale si può vedere l’uomo come sottomesso a ruoli stereotipati dai valori della produttività, la redditività e il calcolo. L’antropologo non si ferma all’apparenza. Analizza le relazioni e la qualità dei rapporti scoprendo piccole realtà culturali (cameratismo, solidarietà) che entrano in contraddizione con il modello dominante che spinge verso l’uniformità. L’antropologo quindi svela i meccanismi sella società industriale ed anche come questi si ripropongono sul piano dei valori. L’ANTROPOLOGIA:UNA DICIPLINA DLLA COMPARAZIONE Oggi l’antropologia si occupa soprattutto della modernità per interpretare le situazioni di transizione e le mutazioni; per far ciò, l’antropologo deve distanziarsi dalla propria cultura e mettere in campo le conoscenze sulle altre culture. Grazie alla comparazione, tra analogie e differenze delle culture, esso può i vari significati , le prospettive e i punti di vista differenti. ES: Comparare il rapporto di lavoro nella società moderna ( dove in cambio di lavoro si ottiene denaro),con la società contadina del XIX secolo ( da cui dal lavoro derivano prestazioni della medesima natura) permette di comprendere come alcune popolazioni rifiutano l’economia moderna a favore delle relazioni sociali tradizionali. L’antropologo non vive questo rifiuto come ostacolo ma anzi come spunto di riflessione per comprendere come l’economia moderna viene rielaborata nelle logiche locali. L’ANTOPOLOGIA:UN’INTERPRETAZIONE DLLA MODERNITA’ L’antropologia è in grado di interpretare i cambiamenti, le rotture e le crisi dell’età moderna comparando le nuove organizzazioni sociali( strutture autogestite, comunità), che portano alla rottura e al cambiamento, con i modelli passati che sono stabili. Ciò permette di considerare la modernità come fenomeno dinamico che continua a “farsi” e “definirsi”. CAPITOLO SECONDO PROCEDIMENT, INDAGINE E METODI IN ANTROPOLOGIA. (DAL PARTICOLARE AL GENERALE, OVVERO L’ANTROPOLOGIA COME SCIENZA DELLE LOGICHEE SOCIALI.) IL DCENTRAMENTO E IL DISTANZIAMENTO COME FONDAMENTI DEL PROCEDIMNTO ANTROPOLOGICO Come agisce l’antropologo? Uscendo dal proprio universo culturale per percepire la diversità; così facendo l’antropologo è a contatto con realtà differenti dalla propria e di conseguenza lo porta ad interrogarsi sulla propria cultura e a relazionare analogie e differenze delle due culture. L’OSSERVAZIONE-PARTECIPAZIONE E LA PRATICA DI CAMPO L’antropologo studia una società stando al suo interno per lungo tempo, ciò gli permette di cogliere le relazioni e i rapporti sociali interni al gruppo. E’ però evidente che esso sia un intruso e che , con il suo bagaglio culturale e i suoi valori, influenzi la relazione che esso stesso crea con il suo “oggetto” di studio. Da questa relazione scaturiscono le osservazioni e le analisi de ricercatore. LA COTRUZIONE DELL’ OGGETTO IN ANTROPOLOGIA L’oggetto di studio non è concepito a priori ma viene costruito progressivamente a partire dal tipo di interrogazione che ci si pone e dalla finalità della ricerca considerando le ingerenze esterne. ES:L’agricoltura di montagna in una regione alpina come oggetto antropologico. Inizialmente l’oggetto di studio era il rapporto tra modernità e tradizione e i processi di cambiamento socio-economici delle realtà contemporanee di montagna. Durante lo studio sistematico dei diversi aspetti ci si è resi conto che l’agricoltura a “tempo parziale”, che subisce numerose influenze (stato, regione, mercato, popolazione…), è il nodo centrale della problematica di partenza ed è il luogo in cui si cristallizzano tutte le questioni riguardanti il processo di modernizzazione della regione. L’ANTROPOLOGIA DELLO SVILUPPO COME ALTRO ESMPIO DI COSTRUZIONE DELL’ OGGETTO Roger Bastide parla di antropologia dello sviluppo intendendo allargare il campo di osservazione a coloro che decidono le azioni di sviluppo( stato, istituzioni, organismi ufficiali…) e alle popolazioni che ne sono oggetto integrando così il concetto di progetto di sviluppo, modalità della sua applicazione e conseguenze sul gruppo di interessati. ES: In un villaggio indiano venero introdotte pompe ad acqua alimentate ad energia solare ma ciò che sembrava essere un buon progetto si rivelò in realtà catastrofico. Scatenò guerre tra i villaggi per l’approvvigionamento dell’acqua, sovversione tra i vari capi-tribù ecc…Questo fa capire che la tecnica e le innovazioni devono integrarsi con il contesto in cui vengono inserite. Compito dell’antropologia dello sviluppo è quello di interrogarsi per trovare soluzioni a problemi che si pongono. VISIONE GLOBALE E “FATTO SOCIALE TOTALE” IN ANTOPOLOGIA La costruzione dell’oggetto dell’antropologia mette in evidenza la necessità di un approccio di tipo globale e totalizzante che si esprime al meglio con la nozione metodologica di fatto sociale totale (sperimentata da Bronislav Malinowsi ed elaborata teoricamente da Marcel Mauss). Per fatto sociale totale si intende un fenomeno che sia al tempo stesso espressione e sintesi dell’insieme della vita sociale di una data società. L’agricoltura di montagna è, appunto, un esempio di fatto sociale totale: è l’espressione e la sintesi della realtà attuale della montagna. Mauss afferma che: 1. Lo scambio sociale che si stabilisce all’interno di istituzioni anche molto diverse (come la festa, le cerimonie religiose, i sacrifici ecc.) e corrisponde ad un sistema in cui esiste il reciproco obbligo di restituire il dono ricevuto con un dono di maggior valore; 2. lo scambio è all’origine del legame sociale: le feste, i riti e le cerimonie vanno considerati momenti che creano un legame sociale, delle “prestazioni totali” che inglobano più aspetti diversi: quello economico, quello sociale, quello religioso ecc. In questo senso, sono fenomeni sociali totali che ci consentono di avere una visione d’insieme della realtà sociale. Questa nozione di fatto sociale totale è interessante perché mostra che i fenomeni economici non sono separabili da altri aspetti della vita sociale; questo principio, allora, vale anche per le grandi società industriali. ES: IL KULA COME ESEMPIO DI FATTO SOCIALE TOTALE Il kula è un circuito di scambi cerimoniali tipico delle società delle isole della Melanesia che non riguarda delle merci ma bracciali e collane di conchiglia che per fare il giro del circuito impiegano dai due ai dieci anni e ala fine tornano al loro originario proprietario. Questi scambi sono fatti generalmente tra gruppi o rappresentanti di gruppi o talvolta tra amici e generano legami giuridici, economici, religiosi ed estetici permanenti che permettono di superare le rivalità tra i gruppi. L’interesse verso il kula è dato dalla molteplicità degli aspetti che costituiscono il sistema e dal fatto che mette in evidenza un aspetto comune a tutte le società: la costruzione di legami sociali grazi allo scambio di doni. IL FATTO SOCIAL COME NOZIONE TORICA Mauss sviluppa la nozione di fenomeno sociale totale su due livelli. Al primo c’è il principio secondo cui nello scambio sociale vi è l’obbligo di restituire il dono ricevuto con uno di valore superiore. In secondo luogo esso fonda il legame sociale e ingloba tutti gli aspetti della vita ( religioso, economico, sociale) attraverso gli scambi. L’aspetto economico non può slegarsi dagli altri aspetti e non si riduce a mero scambio di merci o a calcoli mercantili. Questo principio è valido anche nelle società industriali dove, secondo Baudrillard ( sociologo), gli oggetti assumono valori diversi dal mero valore d’uso; diventano segni per affermare il proprio prestigio sociale, il proprio valore, il proprio gusto e l’appartenenza ad una particolare classe sociale. REALTA’ EMPIRICA E MODELLO DELLA REALTA’ IN ANTROPOLOGIA L’antropologo deve costruire modelli capaci di mettere in evidenza la struttura soggiacente o certi concatenamenti per permettere di riconoscere la struttura qualunque sia la cultura considerata. ES: LA SPIEGAZIONE STRUTTURALE DELLA PROIBIZIOE DELL’INCESTO La riflessione antropologica non si ferma a considerare solo la proibizione dell’incesto, che a seconda delle culture si riversa su diverse figure ( mamma, sorella, cugina), ma analizza come industriale e alla modernità ma ,data la molteplicità degli aspetti da analizzare, è bene sostituire la formula “antropologia urbana” con altre che ne specifichino meglio l’oggetto di studio. ANTROPOLOGIA DELLE CITTA’: Può essere definita come l’insieme dei lavori che hanno lo scopo di analizzare gli spazi di coabitazione nelle città,i rapporti sociali che si sviluppano, l’articolazione dei luoghi di lavoro con quelli abitativi e il raggruppamento e l’identificazione sociale ed etnica che ne derivano. Dagli anni ’70 l’antropologia della città studia sistematicamente la storia delle città, i flussi migratori, le etnie urbane, i fattori di coesione fra le varie etnie. E si tratta di una questione fondamentale, poiché queste problematiche portano ad interrogarsi sull’identità sociale nella città. L’ANTROPOLOGIA NELL’AMBIENTE IDUSTRIALE E TECNICO:Si sviluppa recentemente in contrapposizione all’approccio tradizonale di studiare i mestieri e le tecniche inserendo la tecnica in una prospettiva globale, mettendo in evidenza le tradizioni sociali che accompagnano l’evoluzione della tecnica. La differenziazione del sapere tecnico fa si che le persone si sentano appartenenti ad un determinato gruppo che lo distingue dagli altri; questa identificazione non riguarda solo i lavoratori ma anche una fetta più ampia di popolazione ( famigliari, amici, quartiere, ec..) L’ANTOPOLOGIA DEL “ NOI” E IL RIMPATRIO DELL’OGGETTO “ESOTICO” Alcune difficoltà che il ricercatore dell’antropologia urbana può trovare sono : la mancanza di un oggetto di studio definito e la necessità di crearlo partendo da alcune omologie tra selvaggio e civilizzato , tra il villaggio della savana e il quartiere civilizzato…;la difficoltà di interrogarsi sul ruolo dell’osservatore sul campo correndo il rischio che l’antropologo passi i “limiti” del gruppo di studio. PAG.107-147 CAPITOLO SECONDO ANTROPOLOGIA E STORIA Per lungo tempo storia e antropologia sono state divise perché bisognava respingere le società “selvagge” e mettere su un piano più alto le società europee che le sfruttavano e sottomettevano con il colonialismo. Le civiltà “selvagge”, ritenute prive di storia, vengono studiate da un’apposita disciplina: l’antropologia. A tenere separate le discipline ci sono alcuni aspetti:  L’oggetto di studio differente: la storia si interessa al passato delle civiltà europee, l’antropologia si occupa delle società esotiche o alle civiltà ( araba, turca…) che hanno regimi storici diversi da quelli occidentali.  L’ambito di riflessione: la storia coglie l’evoluzione storica degli eventi e ne ridiscute le tappe di evoluzione ; l’antropologia cercava di comprendere la struttura e le funzioni delle istituzioni sociali. Solo a partire dagli anni ’60 , con un loro rinnovamento interno, le due discipline si accostano ed intersecano. IL RINNOVAMENTO DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA STORIA Il rinnovamento dell’antropologia passa attraverso alcune fasi fondamentali: la prima di queste è l’abbandono dell’opposizione tra società primitive e società complesse e la riscoperta della dimensione storica delle società che consente di comprendere il cambiamento sociale; altra fase è lo studio dei movimenti di indipendenza delle popolazioni del Terzo Mondo e l’interessamento allo studio delle società europee partendo dalla loro evoluzione storica. Il rinnovamento della storia avviene prima della seconda guerra mondiale grazie ad alcuni movimenti che cominciano a studiare la realtà delle masse facendo emergere le strutture nascoste che costituiscono la società. Sotto l’influenza dell’antropologia, il rinnovamento della storia assume maggior spessore: 1. il distanziamento, poiché anche lo storico prende una certa distanza dalla realtà storica, mette cioè da parte i valori della propria società per meglio comprendere quelle passate; 2. l’interesse per ciò che è marginale, perché anche ciò che è marginale ha influenza sulla storia; 3. Il principio di spiegazione: non si tratta più di spiegare il funzionamento di società del passato paragonandole alla società industriale moderna. La storia di ogni società viene ricostruita a partire dai dati oggettivi riscontrabili e senza proiettare su di essi gli ideali ed i valori del presente. Il medioevo, per esempio, fu a lungo studiato come il periodo in cui la società poteva essere considerata una semplice inversione dei valori della società del diciannovesimo secolo; invece, a partire dagli spunti della scuola di annales, l’esplorazione della società pre-industriale non consiste più nel considerarla una società che prepara la nostra, ma come una società altra, diversa. CAPITOLO TERZO: ANTROPOLOGIA E PSICANALISI Il rapporto fra antropologia e psicanalisi è quello più modesto fra le scienze umane, e questo appare un paradosso, visto che si affermano insieme (fine ‘800) ed hanno lo stesso oggetto (l’uomo); la psicoanalisi si ferma all’uomo, l’antropologia si estende alla società. Tutte e due, però, hanno bisogno di interessarsi ad entrambi i livelli (individualità e collettività), poiché l’uomo è un essere sociale ed allo stesso tempo individuale. L’esempio di Totem e tabù e della teoria freudiana: in Totem e tabù, Freud collega la psicanalisi alla base dell’antropologia. La storia dell’umanità comincia con l’uccisione del padre da parte dei figli nell’epoca primitiva; la storia individuale degli uomini ripete questo schema universale, al di là della differente storia o cultura. Secondo la psicanalisi ogni individuo rivive nella propria psiche lo schema del parricidio: la forma che assume questa ripetizione corrisponde al complesso di Edipo, scoperta fondamentale della psicoanalisi, che consiste nei desideri incestuosi per la madre e nell’odio verso il padre. Freud giunge così ad una concezione evoluzionistica che mette in rapporto individuo e società: gli stadi di sviluppo dell’individuo (infanzia, adolescenza, età adulta) sarebbero gli stessi dello sviluppo dell’umanità: anch’essa infatti ha uno stadio primitivo (infanzia), uno selvaggio o barbaro (adolescenza), fino alla civiltà (età adulta). L’antropologia muove interessanti critiche alla concezione evoluzionista freudiana: innanzitutto, essa rifiuta ogni rappresentazione lineare della storia dell’umanità; rifiuta poi ogni rigida analogia fra individuo e società, poiché si ignorano le mediazioni di fattori determinanti (economici, storici, politici, sociali ecc.); infine, nega l’universalità transculturale del complesso edipico. La prima vera critica mossa all’universalità del complesso di Edipo è quella di Malinowski, che ha sottolineato la diversità delle culture: per esempio in Melanesia non può esistere il complesso di Edipo perché si tratta di una cultura che ignora la paternità biologica. Tuttavia la figura paterna viene sostituita da quella dello zio, quindi non è detto che il complesso sia assente. La critica più convincente alla teoria freudiana è quella mossa dall’antropologia strutturale di Lévi-Strauss: i rapporti di parentela, più che da fattori biologici, sono regolati dalle obbligazioni che derivano dalla proibizione; la proibizione dell’incesto varia da una società all’altra. Esso è una regola generale che organizza una società a partire dalle regole dello scambio e della reciprocità fra gruppi. Tuttavia esiste un campo in cui le due discipline si incontrano; o meglio, in cui si incontrano l’antropologo Lévi-Strauss e lo psicoanalista Lacan: quello dell’efficacia simbolica: per entrambi il simbolo rappresenta la base della strutturazione culturale, e non un semplice rapporto fra la cosa simbolizzata e il segno simbolizzante. Per esempio, la magia è stata spesso definita dagli antropologi una pratica inefficace rispetto alla scienza; come disse Malinowski, essa è l’espressione di un pensiero, di una mentalità che non trova un riscontro razionale. La magia, il mito ed il simbolo, allora, venivano viste come forme primarie ed inefficaci del pensiero scientifico moderno e razionale. Oggi l’antropologia e la psicoanalisi rimettono in discussione queste prospettive: la magia viene allora vista come qualcosa di non pertinente alla scienza, anzi la sua vera e propria antitesi. La magia è un linguaggio simbolico, un mezzo di comunicazione sociale, non un discorso sulla realtà. Più in generale possiamo dire che la magia agisce in realtà come mezzo per risolvere conflitti sociali o per controllare la società; per esempio, “avere paura della stregoneria” consente di non commettere atti sbagliati nella vita sociale. Altre convergenze fra le due discipline avvengono sul piano della distinzione fra manifesto e latente, fra implicito ed esplicito: entrambe indagano al di là dei significati e dei sintomi apparenti, in modo da decodificare le strutture soggiacenti. Inoltre la psicoanalisi mostra che l’uomo non può essere puramente razionale a causa della sua complessità psichica; allo stesso modo, l’antropologia dimostra che le società e le culture non agiscono secondo criteri di razionalità. Infine, entrambe si interessano all’alterità: la prima tenta di analizzare il pensiero dell’altro, mettendolo a confronto con il proprio; la seconda tenta di decodificare il discorso dell’altro - che - c’è - in - noi. Nasce così l’entopsicoanalisi. Georges Devereux, etnologo e psicoanalista, illustra le finalità di questo campo di studi: scoprire come i rapporti sociali ed i comportamenti culturali sono vissuti ed dagli individui e come questi fenomeni influenzano la loro psiche. Anche in questo caso il modello teorico è quello freudiano, con ripetute sedute di colloquio nelle quali i partner sono coinvolti direttamente. Solo che, a differenza della psicoanalisi, lo scopo dell’etnopsicoanalisi non è la guarigione, bensì l’approfondimento della relazione fra osservatore e cultura osservata. CAPITOLO QUARTO: ANTROPOLOGIA E PSICIOLOGIA COGNITIVA La psicologia cognitiva, elaborata da Jean Piaget, si riallaccia molto all’antropologia. Lo schema sui metodi di acquisizione del pensiero da parte del bambino, e più in generale dei vari tipi di pensiero (pratico, simbolico, operativo), si rifanno agli interrogativi principali dell’antropologia. Il lavoro di Piaget riguarda i processi attraverso cui il bambino acquisisce le sue strutture cognitive: 1) il primo stadio è l’acquisizione delle funzioni sensoriali-motorie (gesti, primi passi, riflessi); 2) il secondo stadio è l’acquisizione del pensiero soggettivo, chiamato anche simbolico, che riguarda i rapporti soggettivi del bambino con il mondo; 3) Il terzo è l’acquisizione del pensiero operativo: questo Nonostante queste diversità è possibile tracciare una storia unica del progetto antropologico: l’unità del pensiero si manifesta soprattutto al livello del tipo di “sguardo” che caratterizza l’antropologo. Si tratta di uno sguardo esterno ed estraneo alla cultura osservata. Il decentramento – elemento che rende obiettivo il procedimento antropologico – è alla base di questa unità storica. Tuttavia sono rintracciabili diverse posizioni dell’osservatore: 1. La prima riguarda l’ammettere che il rapporto con l’altro è un processo di conoscenza che favorisce l’efficacia scientifica; 2. Un’altra posizione ritiene che il rapporto dell’antropologo con l’altro sia una rapporto comunque di sottomissione, di alienazione, di violenza esercitata sull’altro; 3. La terza posizione tenta di evitare gli errori precedenti ammettendo che l’antropologo deve integrare le proprie condizioni istituzionali, politiche, teoriche e personali con quelle del gruppo ristretto presso cui lavora. Storia dell’Antropologia L’approccio storico ci permette di cogliere il contesto culturale in cui si sviluppa il pensiero antropologico. La cultura occidentale ha prodotto gli etnologi perché aveva la necessità di confrontare la propria immagine con quella di società differenti, sia per scoprire i propri difetti, sia per valorizzare la propria immagine. Certo è che rimane difficile stabilire con esattezza quando nasce effettivamente la disciplina: anche la comunità scientifica degli antropologi, al pari delle altre società, possiede i suoi miti fondatori, i suoi antenati, le sue diverse epoche. In antropologia esiste una tradizione ben consolidata che rivendica le sue origini presso i pensatori greci dell’antichità classica; l’antropologia, come la conosciamo oggi, ha origine nella metà dell’800 da importanti rotture con il pensiero e la cultura occidentali. Tuttavia è necessario proprio tornare a quei “pensatori” dell’antichità classica, visto che i secoli precedenti all’800 furono sicuramente importanti per la nascita del moderno pensiero antropologico.  L’antichità greca ed il medioevo cristiano Erodoto (448-425 a.C.), il noto pensatore greco, viene considerato uno dei padri fondatori della sensibilità antropologica, ma anche della geografia e della storia: egli, infatti, condusse numerosi viaggi per il mondo riportando precise descrizioni delle altre culture. La sua principale caratteristica fu quella di privilegiare la testimonianza visiva e non quella auditiva, fondando le sue descrizioni sul principio della testimonianza diretta. Ciò è importante perché – mentre la moderna antropologia baserà il suo sapere proprio sulla testimonianza visiva (presenza fisica sul campo) – le tradizioni successive ad Erodoto, come quella del medioevo cristiano, non faranno altrettanto. Tuttavia anche Erodoto attribuiva larga importanza ai fatti eccezionali, e non alle abitudini quotidiane dei popoli: anche nelle sue descrizioni i popoli stranieri venivano considerati “barbari”, e cioè l’esatto opposto di ciò che erano i greci. Dunque anche per il più antico precursore dell’antropologia, i barbari erano il mezzo per affermare e valorizzare la superiorità dei valori greci. Ora è importante notare che questa particolarità di sentirsi al centro dell’universo non appartiene solo all’antichità greca, ma si prolunga – in modo ancor più evidente – nel medioevo cristiano e musulmano, nel Rinascimento e fino allo scientismo del Ventesimo secolo.  Medioevo cristiano e Medioevo arabo Il medioevo, come è noto, fu un periodo “buio” della storia dell’umanità, estraneo alla realtà profana, vicino all’esoterismo e al meraviglioso (spesso dominato dalla figura dei mostri e del Diavolo). Questo insieme appartenente al mondo dell’immaginario, era al contempo considerato una realtà nascosta, e come tale sempre presente. I mostri erano la rappresentazione che gli uomini del medioevo si facevano dell’infedele musulmano, o Saraceno, visto appunto come creatura dannata e nettamente lontana dai valori cristiani. Le stesse Crociate non furono affatto un tentativo di scambio culturale tra il medioevo cristiano e quello musulmano: le spinte predominanti, oltre a quelle religiose, furono la rapina e l’interesse politico. L’Islam, anch’essa civiltà teocentrica che rifiutava il profano, produsse delle opere molto vicine a discipline moderne come la storia, la geografia o l’etnologia. Al contrario degli europei, i musulmani non si chiusero rispetto alle differenti culture umane: certo, la lingua sacra del Corano – l’arabo – rendeva quella musulmana una cultura superiore, che però coinvolgeva altre culture, altri popoli, altre lingue. Ognuna di esse, nonostante il riferimento obbligatorio all’Islam, continuò ad esprimere la propria diversità socio-culturale. Presso gli Arabi, la geografia iniziò il suo sviluppo a partire dal secolo ottavo fino al quattordicesimo: questa geografia era umana nel senso che collocava l’uomo al centro dell’universo, e tutto il creato era ad esso destinato. Comunque è nel Nono secolo che la geografia araba si afferma definitivamente: la disciplina veniva scritta da musulmani di ogni paese (Persia, Siria, Iraq, Egitto, Spagna ecc.), indipendentemente dall’origine etnica o religiosa, e legati dalla comune appartenenza alla civiltà arabo-musulmana. Questa geografia, in larga misura, si interessò anche all’alterità, attraverso i due movimenti che caratterizzarono la geografia araba fra il secolo ottavo ed il nono: un viaggio dell’Islam al di fuori di se stesso, ed un viaggio all’interno di sé.  Il principio dell’osservazione diretta: la geografia del viaggio Questo tipo di geografia era sicuramente caratterizzata dallo spostamento verso altre civiltà. Il racconto di viaggio più antico di questa epoca è l’anonima Relazione sulla Cina e sull’India, in cui l’autore tenta di cancellarsi il più possibile rispetto alla realtà che descrive. La preoccupazione fondamentale, quindi, era già quella di riportare in modo oggettivo la testimonianza diretta sul campo. Tuttavia la presunta oggettività di questa ed altre opere di viaggio crolla dinanzi alla necessità di esprimere un giudizio sulle cose viste e vissute direttamente: i criteri di giudizio, infatti, sono sempre quelli della società islamica. L’interesse per le diverse culture e società, allora, sta nella volontà di confrontarle con la dominante società islamica dell’epoca. Questa geografia umana, che ha come riferimento costante la sua civiltà d’origine, lascerà progressivamente il posto ad una letteratura geografica ben più attenta ad attribuire un esclusivo interesse alle differenze fra le altre culture e quella da cui ha essa ha avuto origine (appunto l’islam).  La geografia delle meraviglie Essa si forma durante i primi anni del Decimo secolo, proprio in coincidenza con la chiusura della grande epoca del commercio con l’estremo Oriente; vengono scritte opere come Meraviglie dell’India, scritta un secolo dopo la precedente Relazione, che riprende i temi della diversità amplificandoli nella direzione del meraviglioso, fino alla fabulazione. Si afferma così un forte gusto per la descrizione meravigliosa ed affabulata dell’altro, guidata dalla superba convinzione che la vera manifestazione dell’uomo si realizza solo nell’Islam. Alla preoccupazione di narrare i fatti in modo diretto ed oggettivo, si sostituisce la volontà di appellarsi ai valori dell’Islam, ai quali si oppone lo straniero. La volontà di riportare gli eventi narrati in chiave bizzarra, mettendo in scena dei mostri, e la particolare insistenza sul bestiario (veri e propri ibridi orribili), dovevano provocare repulsione nel lettore musulmano, guidato così a non identificarsi con lo straniero. Quindi, come per il medioevo cristiano, anche quello musulmano ebbe i suoi Mostri: entrambe le società identificarono e rappresentarono l’alterità e la diversità con le figure mostruose che l’inconscio suggeriva.  La geografia dei Masalik La seconda tendenza che caratterizzò la geografia nel decimo secolo fu la ripresa della più efficace osservazione diretta sul campo, ma questa volta confinata all’interno della società stessa di appartenenza. Il Decimo fu dunque il grande secolo della geografia araba, in cui videro la luce opere importanti, conosciute come masalik (Itinerari e stati), termine con il quale si indica la volontà di comporre una geografia totale a partire da quella di viaggio. Queste opere, che limitavano l’interesse per l’Islam, descrivevano ogni provincia come un’entità separata, tralasciando i paesi non musulmani. Si trattava dunque di uno sguardo attento al diverso all’interno della propria civiltà. Il genere dei Masalik si presentava come una monografia totale che metteva in relazione la provincia (il locale) con l’insieme a cui essa appartiene (l’impero). L’osservazione avveniva costantemente in modo diretto, e fu proprio questa la caratteristica fondamentale della nuova geografia.Il progetto dei Masalik, inoltre, inserisce per la prima volta il concetto assai moderno di paese studiato in termini di geografia umana e di geopolitica; così, oltre a fondare le carte geografiche su basi più attendibili e scientifiche (per esempio la prospettiva), i Masalik si interessano alle notevoli differenze fra le varie culture ed etnie; tanto che le loro opere sono valide anche dal punto di vista etnografico. Gli studi dei Masalik partono sempre dagli aspetti “fisici” della geografia (rilievo, corsi d’acqua, clima ecc.), per poi giungere agli aspetti umani e politici (etnie, malattie, regime alimentare, usi e costumi, religione ecc.). Di pari passo, si passa alla descrizione degli aspetti più strettamente etnografici del posto: dalla produzione economica al commercio, dai comportamenti sociali agli usi e costumi, dalle tradizioni al folklore. Questo rappresenta un momento importante del pensiero umano: il genere dei Masalik piò essere considerato anche un’iniziativa etnografica, grazie alle qualità metodologiche della ricerca sul campo e dell’osservazione diretta. Questioni che saranno riprese da Malinowski e dall’antropologia Britannica nel ventesimo secolo. Le principali analogie fra la geografia dei Masalik e quella Britannica del ventesimo secolo sono: 1) Innanzitutto l’osservazione diretta e senza intermediari sul campo (osservazione partecipante); 2) Poi la concezione della totalità, e cioè l’idea che l’uomo non esiste se non in relazione al mondo che lo circonda. Per questo le opere prodotte dalla geografia dei Masalik influenzeranno non poco le monografie di campo di Malinowski e colleghi. I secoli dall’undicesimo al quattordicesimo vedono il crollo definitivo dell’unità dell’impero islamico; la geografia diviene una disciplina nuovamente confinata nel commento di opere passate e nei racconti di viaggio. A partire dal tredicesimo secolo, la conoscenza geografica degli arabi si tramanda grazie alla letteratura di viaggio: il mezzo più comune sono le Rihla, ovvero le eredi dirette della geografia di viaggio dell’undicesimo secolo.  Ibn Haldun e la scienza storica Nel quattordicesimo secolo, Ibn Haldun costruì un sapere di tipo storico e sociologico attorno alla sua opera Discorso sulla storia universale; Egli si proclamò inventore di una nuova scienza storica, consapevole del suo oggetto e dei suoi metodi di ricerca scientifica. L’oggetto specifico di questa nuova disciplina era la civiltà umana e la società umana. Tuttavia, per quanto nuova, la scienza storica non fu del tutto originale: assieme alla geografia, infatti, nell’Islam si era da sempre avuta collocate nel contesto storico e socio-culturale in cui sono state prodotte; i racconti di viaggio vanno analizzati e compresi a partire dalle strutture mentali e dalle modalità di osservazione che hanno determinato la loro stesura. Quindi, nello studio dei racconti di viaggio, si tratta sempre di rivolgere l’attenzione alle forme che apparentemente possono sembrare insignificanti, banali, strane, estranee; in altri termini, bisogna prestare attenzione a tutto ciò che sembra meno descrittivo allo sguardo moderno dell’antropologo. Solo così si può comprendere la descrizione di un autore di epoche precedenti alla nostra. Facciamo un esempio: Colombo afferma, in un suo racconto sulle popolazioni visitate, che essi andavano in giro completamente nudi...sia gli uomini che le donne; anche se poi precisa di averne visto uno solo. In queste parole, agli occhi del moderno antropologo, non ci sarebbe nulla di diverso da dedurre se non una descrizione della nudità. In realtà, l’osservazione di Colombo rivela due importanti questioni che vanno lette ponendosi dal suo punto di vista: da una parte, egli considera quel popolo “nudo” nel senso di popolo che ignora il peccato; dall’altra, egli riscontra un modello di organizzazione sociale ben diverso da quello occidentale, basato gerarchicamente sull’età, il sesso, lo status sociale. Questo procedimento della moderna antropologia è assai efficace ed indispensabile: esso permette di integrare i racconti di viaggio nelle problematiche della riflessione antropologica moderna e contemporanea.  Il secolo dei Lumi Il ‘700, seppure non vedrà nascere l’antropologia, creerà i presupposti per il suo sviluppo. Nasce infatti proprio nel ‘700 il pensiero filosofico decentrato, che più tardi darà vita al pensiero antropologico propriamente detto; vediamo le forme principali di decentramento: 1) Il pensiero anti-teologico fa nascere la convinzione che l’uomo, attraverso la scienza, può conquistare e domesticare la natura. 2) Questo secolo introduce l’idea di una storia evolutiva dell’umanità a scapito dell’idea di creazione “immutabile”; compare quindi la categoria, fino ad allora ignorata, di evoluzione. 3) Il ‘700 scopre la relatività delle culture e la loro dimensione storica: si inizia ad indagare l’antichità classica collocandola nel tempo (il suo tempo) e nello spazio (cioè in rapporto con altre culture non occidentali). Il secolo dei Lumi si impadronì del selvaggio per comprendere e criticare se stesso. Per questo motivo si avvalse di due figure, il “buon selvaggio” ed il “cattivo selvaggio”, per il quale l’altro era sempre entrambi contemporaneamente: buono perché al riparo dalla corruzione della civiltà moderna, cattivo perché immerso nella miseria e nell’ignoranza. Tuttavia nel ‘700 vince la figura del “buon selvaggio”, soprattutto grazie a delle pesanti critiche alle ingiustizie e alle assurdità di certe istituzioni (come la monarchia assoluta, la proprietà privata, il dominio della Chiesa). Tuttavia l’altra figura, quella del “cattivo”, non fu del tutto assente: esse si integrano a vicenda all’interno di un sistema generale di rappresentazione dell’altro, dell’uomo esotico, a partire dal Rinascimento. Allo stesso modo, agli inizi dell’800, quando il “cattivo” selvaggio inizierà a dominare la scena, la figura contraria non andrà scomparendo del tutto. Questo “rovesciamento” (del secolo dei lumi e della scienza) nella considerazione del selvaggio è fortemente legata alla trasformazione dei rapporti uomo-natura: questa, in precedenza vista come trionfo dell’innocenza e della gentilezza, diviene man mano ostile e nemica dell’uomo (ed occorre sottometterla). Il motivo è che essa si trasforma in forza di produzione ed in capitale da sfruttare.  Il diciannovesimo secolo: la nascita del pensiero antropologico moderno Alla fine del ‘700 sembra nascere un pensiero antropologico che ambisca all’oggettività. Ci sono vari motivi per cui si inizia a definire il sapere antropologico moderno: 1) Con la nascita di una nuova concezione, l’uomo diviene il mezzo della propria conoscenza. 2) All’origine di questa nuova concezione dell’uomo troviamo due fattori: la rivoluzione industriale nata in Inghilterra e la rivoluzione politica francese; questi due eventi danno la coscienza all’uomo che egli può cambiare il mondo. 3) Meno importante, ma comunque decisiva, fu la scoperta della parentela fra il Sanscrito – l’antica lingua sacra dell’India – ed il Greco e Latino: la ricostruzione di una lingua indoeuropea fu l’inizio di un’analisi attenta delle evoluzioni successive di tutte le lingue diverse appartenenti però allo stesso ceppo. 4) Infine, la scoperta nel 1836 di asce di pietra risalenti al pleistocene: grazie a questa scoperta veniva a galla la prova che l’uomo è il contemporaneo di mammiferi scomparsi da millenni. Questo è il punto di partenza della concezione scientifica dell’evoluzionismo. Poi, nel 1859, comincia l’epoca degli scienziati: Pierre Broca fonda la società antropologica di Parigi, dove l’antropologia fu la scienza di sintesi di diverse ricerche preistoriche, etnologiche e linguistiche. Il 1859 è l’anno in cui l’uomo diviene finalmente oggetto di una ricerca scientifica.  Le idee evoluzioniste E’ difficile attribuire un’esatta paternità alle idee evoluzioniste, ma è altrettanto vero che non è possibile non citare due personalità fondamentali per il pensiero antropologico del diciannovesimo secolo: H. Spencer e C. Darwin. Nel 1876 Spencer inizia a pubblicare i suoi Principi di sociologia, con cui afferma che vi è un processo continuo ed inarrestabile che farebbe passare una società da uno stadio primitivo – struttura omogenea e semplice – a stadi sempre più complessi. In questo senso, Spencer è all’origine di quel processo chiamato “evoluzionismo sociale”, che si differenzia dallo “evoluzionismo biologico” di Darwin. Infatti la principale innovazione apportata dal naturalista Charles Darwin, autore dell’Origine della specie (1859), fu quella della “causalità temporale”, che lo differenziava nettamente da Spencer; Per Darwin, spiegare i fenomeni in termini di evoluzione significava innanzitutto cercare una causalità “definibile ed osservabile”. L’uomo è soggetto, come gli altri organismi viventi, alle leggi della selezione naturale; l’approccio metodologico di Darwin ha influenzato non poco il pensiero dei fondatori dell’antropologia. Il principale apporto di Darwin alle scienze umane sta nel cercare la causa di un fenomeno nel campo stesso in cui questo fenomeno si manifesta. Questo principio lo ritroveremo anche in Durkheim, che fonderà la regola sociologica fondamentale: un fatto sociale si spiega solo a partire da un altro fatto sociale. L’esempio di Lewis Morgan Lewis Morgan può essere considerato il primo vero antropologo che ha messo in pratica questo principio: egli ha raccolto, in molti anni, un gran numero di ricerche sul campo, ed inoltre – a partire da questi documenti – si propose di ricostruire la storia dell’evoluzione dell’umanità. Morgan stabilisce tre periodi: La selvatichezza, la barbarie e la civiltà; con esse descrive l’evoluzione dell’umanità. Questo è un modo (contestabile sul piano cronologico) ma logico di organizzare i materiali accumulati, è uno schema iniziale che consente di proseguire nella ricerca. Questo tipo di approccio metodologico, Morgan lo mette in opera nell’analisi sistematica dei fenomeni di parentela, di matrimonio e di famiglia (che sfocerà nella monumentale opera Systems of consanguignity and affinity of the human Family, del 1871, opera che può essere considerata la fondatrice degli studi sulla parentela e l’approccio strutturalista). Morgan comprese per primo che le relazioni di parentela e di matrimonio, in una società, formano un sistema al quale corrisponde un altro sistema “terminologico”, anch’esso – come il primo – caratterizzato da regolarità e da rapporti interni fra gli individui, entrambi osservabili con precisione dal ricercatore.  Il pensiero evoluzionista in antropologia Dalla seconda metà dell’800 fino agli anni 20 del ‘900, le scuole evoluzioniste hanno dominato la riflessione antropologica. Il genetismo era la ricerca delle origini delle istituzioni sociali e culturali contemporanee (parentela, religione, scienza ecc.); anche qui sono tre le fasi che si succederebbero l’un l’altra in senso logico: selvatichezza, barbarie e civiltà. A questa corrente evoluzionistica, negli stessi anni, si oppose la corrente diffusionista, che reagisce all’idea di uno sviluppo lineare delle società. Secondo questa corrente, il processo di sviluppo culturale non può essere lineare ed uniforme, poiché intervengono delle variazioni che nascono dai contatti (accidentali e non) con altre società. Tuttavia, malgrado i suoi pregi e difetti teorici, il pensiero evoluzionista ha dato un contributo decisivo all’antropologia: per la prima volta, infatti, si è cercato di dare una spiegazione logica alle somiglianze che si possono osservare fra diverse società e culture anche lontane nel tempo e nello spazio. Nasce così il principio comparativo, che sarà fondamentale per la moderna riflessione antropologica. Grazie ad esso, che consente di distinguere il particolare dal generale, l’accidentale dal regolare, il momentaneo dal permanente, le scuole evoluzioniste poterono accumulare una quantità di dati impressionante, in grado di fornire delle delucidazioni sul funzionamento delle società e delle culture. Malinowski e l’antropologia “di campo” La rivoluzione di Malinowski consiste, da un lato, nella scomparsa dell’interesse per la ricostruzione storica delle società del passato secondo un’evoluzione di tipo lineare; dall’altra, dalla volontà di indagare il presente a partire dalle caratteristiche specifiche di ogni singola cultura esaminata. Questa metodologia, più tardi, prenderà il nome di funzionalismo. Secondo lui tutti gli uomini sono uguali ma diversi, e tutte le diversità sono uguali; l’uomo è un essere razionale che ovunque si presenta in modo libero e logico: quindi non esistono società pre-razionali e società dominate dalla ragione. L’uomo è sempre razionalità e libertà. Queste considerazioni di Malinowski sono in contrasto con le scuole precedenti, ma sono anche la logica conseguenza della corrente intellettuale e scientifica dell’epoca. L’opera di Durkheim consente a Malinowski di scoprire un elemento fondamentale che sta alla base della sua rivoluzione scientifica: l’importanza del contesto sociologico nella spiegazione dei fatti sociali; invece che spiegare la società – come in precedenza – a partire dalla storia e dall’influenza delle altre culture, si deve trovare una spiegazione nella stessa società, nel suo funzionamento e nella sua struttura. Di qui il pensiero duplice di Malinowski: da un lato, tentare di dare una spiegazione globale dell’uomo e della sua cultura, e dall’altra cerca di essere comunque attento ai diversi aspetti specifici ed unici delle diverse culture (per poi formulare delle ipotesi globali ed universali). Il lavoro sul campo La principale rivoluzione metodologica di Malinowski sta nell’importanza che egli attribuisce alla ricerca sul campo: la novità non stava tanto nell’andare sul posto (cosa che al tempo già avveniva), quanto nel combinare la ricerca diretta con la riflessione teorica e l’esperienza personale. Questo metodo di osservazione partecipante non prevedeva solamente una lunga presenza sul campo da parte dell’antropologo, ma anche specifiche procedure di ricerca che influenzano in modo decisivo non sono nella natura è perché – essendo essi stessi modelli – non possono avere modello. L’abbandono dell’opposizione fra natura e cultura, operato da LéviStrauss, trova spunto proprio da Rousseau: quest’ultimo definisce l’uomo per la sua qualità di “agente libero” e non per una necessità biologica che lo avrebbe condotto dalla natura alla cultura. Il metodo Lévi-Strauss è debitore a Rousseau anche per quanto riguarda come arrivare all’universale partendo dal singolare. Lévi-Strauss critica fortemente la produzione di monografie chiuse in se stesse ad opera della scuola britannica, con lo scopo di classificare le diversità sociali; secondo lui le diversità sociali e le varie culture si costruiscono proprio l’una in rapporto all’altra. Quindi le diversità non si devono solo riscontrare, si debbono spiegare. Quindi per Lévi-Strauss il problema principale è quello del metodo: il procedimento comparativo, che è il principio più importante del metodo strutturale, consiste nel rapportare ogni specificità di una data cultura al discorso universale. Questo riferimento all'universale, al contempo, permette di chiarire in modo profondo le caratteristiche specifiche di un sistema particolare. Per l’antropologo francese le istituzioni umane non sono – come per Durkheim e Radcliff-Brown – una conseguenza del sociale, bensì l’espressione delle imposizioni dello spirito umano. Per lui si tratta di scoprire quali imposizioni comuni sono alla base dell’umanità. Se questo procedimento si avvicina a quello di Kant, è vero anche che Lévi-Strauss cerca di scoprire le strutture intellettuali dello spirito umano a partire da dati concreti e non trascendentali. Insomma, attraverso il comparativismo, egli cerca di abbracciare il campo totale del pensiero umano. Il rapporto con Marcel Mauss: il fatto sociale totale. Leggendo l’opera di Mauss, Lévi-Strauss sottolinea soprattutto la nozione fondamentale di fatto sociale totale: il fatto sociale non esiste se non integrato in un sistema; il fatto sociale totale non consiste nell’accumulare dati, bensì nell’espressione di una esperienza. L’obiettivo di Lévi-Strauss è quello di spiegare lo scambio e la reciprocità individuati da Mauss in termini strutturali; secondo lui questi fenomeni sono l’istituzione fondamentale di ogni società. Così l’analisi strutturale di Lévi- Strauss non si limita allo studio dei rapporti di parentela, o di altri sistemi simbolici: egli vuole arrivare ad inserire l’antropologia in una teoria generale della comunicazione, una specie di semiotica generale. Il modello della fonologia strutturale, metodo che scopre le regole di organizzazione dei suoni della lingua indipendentemente dalla conoscenza dei soggetti che parlano, rappresenta un evento molto importante per le scienze sociali. Lo strutturalismo Lo strutturalismo elimina ogni finalità soggettiva come la storia, la morale, l’etica, l’uomo, nel tentativo di accedere solo alle forme; quindi, nel caso di una lingua naturale, non importa sapere chi parla e perché parla e con chi parla: l’importante è comprendere la struttura interna del linguaggio, la sua logica ed il suo sistema di segni. Secondo Lévi-Strauss, come i fonemi di una lingua anche i termini di parentela sono elementi di significazione: significano qualcosa appena integrati in un sistema. Il sistema di parentela appare come un linguaggio, un sistema di comunicazione simbolica all’interno del quale l’individuo acquisisce uno status ed un ruolo sociale. Certo, i sistemi di parentela variano a seconda delle società, ma esistono regole universali che li regolano. Così è per la proibizione dell’incesto, che assume diversi contenuti a seconda della società, ma è sempre regolato dal principio universale della reciprocità che impone di proibirsi del parente vicino per scambiarlo con un parente più lontano. Il procedimento strutturalista opera così: costruisce, a partire da un tot di dati, dei modelli ipotetico-deduttivi capaci di rendere conto di tutti i fatti osservabili nei diversi sistemi concreti. In questo modo, il modello strutturale fa passare l’interpretazione antropologica dalla realtà sociale al pensiero simbolico, dal concreto all’astratto. Le imposizioni che l’uomo si dà nella vita sociale nascono da quelle della struttura dello spirito umano. Il Locale e il Globale Dalla fine degli anni ’50 si fa strada una nuova ricerca sulle diversità e sull’alterità. Gli antropologi hanno rimesso in discussione la disciplina stessa: sul piano teorico e sul piano empirico. Così si è finito per porre una nuova problematica di assoluta importanza: il locale e il globale. Il punto era come rinnovare la riflessione antropologica tenendo presenti tutti gli elementi riconosciuti come fondamentali (ovvero la storia, il cambiamento, il rapporto del ricercatore con ciò che osserva, le nuove pratiche sociali e culturali). Risultò evidente che lo studio delle società tradizionali non poteva più essere limitato ai soli spazi in cui esse si manifestavano: infatti non era più possibile separare queste società da quelle moderne, ignorando i rapporti che fra loro intercorrono. Ma, a loro volta, anche le società moderne devono essere indagate a fondo se si vuole cogliere le diversità socio-culturali che esse determinano. Di conseguenza, nasce l’esigenza di un procedimento antropologico che si articoli attorno ai due concetti di locale e globale: gli oggetti dell’antropologia non vengono più costruiti a priori, bensì sono sempre costruiti sul campo in funzione delle problematiche scelte. Ciò che conta è studiare un fenomeno sociale che possa illuminare, al tempo stesso, il contesto globale in cui è inserito. Allargare l’oggetto dell’antropologia significa anche storicizzarlo: in effetti, integrare le società ristrette, le diversità, negli insiemi che le inglobano porta necessariamente alla reintroduzione della dimensione storica che caratterizza queste piccole società ed i loro rapporti con quelle più ampie. Tuttavia ciò non significa cercare nel passato ciò che può illuminarci sull’identità di un gruppo: la storia serve per dare un quadro globale dei numerosi scambi fra i due livelli “locale e globale”, della tradizione e della modernità, del passato e del presente. La storia crea insomma un quadro logico che permette una corretta comparazione e comprensione delle diverse orme sociali e culturali. Integrazione ed unificazione delle società I processi di uniformazione fra diverse società e culture hanno un’origine storica: la società industriale dell‘800 ed i numerosi sviluppi che essa ha conosciuto negli anni successivi. Tutto ruota attorno a due fattori centrali: 1) Lo Stato-Nazione; 2) Il mercato. Le logiche di funzionamento di questi due fattori hanno storicamente portato all’uniformazione delle società. Lo Stato-Nazione nasce in Europa attorno all’idea di uno spazio geografico e simbolico unificato, che garantisce una vita sociale agli uomini. Le sue principali caratteristiche sono l’uniformità delle leggi, un solo codice linguistico, un solo corpo politico, omogeneità etnica, religiosa e culturale. Il mercato è il secondo processo fondamentale di uniformazione: esso è uno spazio economico che può identificarsi con l’incontro fra l’offerta e la domanda di beni e servizi. Si tratta dell’insieme di scambi monetari fra individui o gruppi di individui che cercano di scambiare i propri beni e servizi. Il mercato, come lo Stato-Nazione, è unificatore per natura; ma meritano la citazione anche i mezzi di comunicazione di massa che, con la loro espansione a livello mondiale, creano bisogni indotti che spingono ad unificare le diverse società sotto il profilo delle necessità. CONCLUSIONE Soffermiamoci sul problema del rapporto fra gli antropologi e le strutture narrative adottate per descrivere le culture. Ve detto che il problema della scrittura non è un problema di stile o di talento letterario: esso riguarda in modo profondo la capacità dell’autore di rappresentare il reale. Occorre trasformare l’esperienza sul campo in un racconto descrittivo efficace. Victor Segalen, scrittore francese di inizio secolo, fece dell’etnologia pur scrivendo letteratura; gli antropologi fanno a loro volta della letteratura pur dicendo di costruire una ricerca scientifica. Vediamo allora nel dettaglio quali sono le procedure messe in atto dall’antropologo: 1) Se l’antropologia può essere considerata un rapporto con l’altro, la scrittura antropologica è una formalizzazione di questo rapporto. A partire dal Rinascimento, la scrittura delle differenze è sempre dipesa dalla volontà di sapere dell’antropologo, finalizzata alla volontà di potere. 2) Nella sua essenza, l’antropologia consiste nell’azione, compiuta dallo studioso, di distanziamento dalle cose che osserva sul campo e gli oggetti di sapere che egli stesso costruisce. 3) Il testo scritto da un antropologo è sempre un testo privo di riferimenti soggettivi: in verità questo concetto appartiene al passato, poiché oggi come oggi c’è un deciso ritorno alla soggettività, vista come la chiave per trasformare il discorso in testo, l’esperienza in racconto e gli esempi accumulati in casi significativi. 4) L’esperienza soggettiva garantisce spessore al testo etnografico: essa collega l’autore all’oggetto della sua indagine, creando una sorta di integrazione fra la ricerca scientifica e gli strumenti che l’autore utilizza sul campo (e che generalmente sono fuori del testo finale): il diario di campo, la biografia intellettuale, il taccuino degli appunti, le storie di vita. Da questi punti di vista, l’opera di Segalen appare importantissima: le sue opere permettono agli antropologi di ripensare in modo nuovo il loro rapporto con la ricerca sul campo e con la scrittura; Ad esso si ispira il modello di scrittura antropologica. Il modo di scrivere I diversi discorsi sull’alterità, al di là dei generi (letterario, etnografico, racconto di viaggio), creano sempre una relazione comparativa con la società e la cultura da cui proviene il narratore- osservatore; da questo punto di vista possiamo dire che Segalen, Malinowski o Lévi-Strauss, hanno avuto tutti la medesima visione della modernità e della propria società, basata su un profondo disprezzo che ha caratterizzato tutte le loro ricerche. In antropologia la scrittura è quasi sempre un momento temporalmente ed intellettualmente separato dal lavoro sul campo; la monografia, genere etnografico standard, suddivide le culture in gruppi etnici isolati nel tempo e nello spazio, ed è una scrittura caratterizzata da: – Il narratore si pone in disparte: la descrizione è narrata in terza persona, è basata sul discorso scientifico e sull’utilizzo della terza persona collettiva per i membri della società in questione; – Dall’uso del tempo presente: l’antropologo utilizza il linguaggio neutro dell’osservatore; – La descrizione dei fatti culturali privilegia il contatto diretto attraverso l’osservazione (privilegiando così la dimensione visiva come metodo di conoscenza); – Lo stile è indiretto: si descrive ciò che si osserva come se l’antropologo fosse un portavoce della cultura presso cui lavora. Al fine di riconciliare l’antropologia con la sua natura di scienza umana, certi antropologi sponsorizzano nuove procedure di scrittura, specie il “romanzo polifonico”: si tratta di un racconto costruito sulla pluralità dei personaggi e sulla diversità dei punti di vista. Ma in antropologia si sperimentano sempre nuovi modi di scrivere e descrivere l’alterità, ed i risultati di queste continue sperimentazioni non sono ancora oggettivamente giudicabili. Ciò che conta è capire che, se gli antropologi devono soffermarsi sui problemi riguardanti la scrittura, non lo
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