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Dal Locale al Globale - Kilani, Appunti di Etnologia

Riassunto del manuale di Kilani riadattato per il corso di etnologia con appunti del professore

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 21/04/2020

Karlz666
Karlz666 🇮🇹

4.5

(288)

71 documenti

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Scarica Dal Locale al Globale - Kilani e più Appunti in PDF di Etnologia solo su Docsity! ETNOLOGIA: Branca dell’antropologia che si occupa di studiare e confrontare le popolazioni e, di conseguenza le diverse culture attualmente esistenti nel mondo. Rispetto all’antropologia culturale l’etnologia ha tradizionalmente fatto un maggior utilizzo della comparazione tra le diverse culture. Entrambe le discipline sono comprese nelle scienze demo-etno-antropologiche. Rimane contrapposta invece l’etnografia, lo studio di singoli gruppi attraverso il contatto diretto con la cultura, rispetto alla quale l’etnologia è sempre stata un complemento “teorico”. Tra i suoi obiettivi vi è la ricostruzione della storia dell’uomo e la formulazione culturale di invarianti universali, come ad esempio del tabù dell’incesto del cambiamento culturale, e la formulazione di generalizzazioni riguardo alla “natura umana”, un concetto ampiamente criticato sin dal XIX secolo da vari filosofi. L’etnologia compie ricerche sistematiche e tenta di stabilire relazioni comparative tra le caratteristiche dei diversi popoli umani sotto diversi aspetti, quali: 1. le diversità culturali in relazione alle diversità ambientali; 2. rapporti e reciproche influenze tra le diverse popolazioni; 3. sistemi di sussistenza e sistemi economici; 4. religione ed espressioni simboliche del trascendente; 5. organizzazioni familiari, sistemi sociali e politici. La scoperta dell’America ebbe un ruolo importante nell’interesse occidentale verso l’Altro, spesso qualificato come “selvaggio”, visto secondo i casi o come un barbaro o come un “nobile selvaggio” (“Bon sauvage”). La civilizzazione era opposta in maniera dualistica alla barbarie, una opposizione classica costitutiva del comune tratto dei popoli di essere etnocentrici. Il progresso dell’etnologia, per esempio con Claude Lévi-Strauss e la sua antropologia strutturale, condusse alla revisione delle concezioni del progresso lineare, o alla critica della pseudo opposizione tra “società con una storia” e “società prive di storia”, giudicate dipendenti da una visione della storia come una realizzazione di un processo (progresso) progressivo e cumulativo. Lévi-Strauss citava gli scritti di Montaigne sull’antropofagia (organismo carnivoro che si nutre di esseri umani, soprattutto si tratta di cannibalismo) come un primo esempio di “etnologia”. Lévi-Strauss tentò, attraverso il metodo strutturale, di scoprire gli invarianti universali nella società umana, tra i quali può essere annoverata la proibizione dell’incesto. ANTROPOLOGIA CULTURALE: uno dei campi dell’antropologia, lo studio olistico (totale-globale La cultura è olistica  òlos = intero, ovvero complessa e integrata, formata da elementi che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca. I modelli culturali interagiscono fra loro, componendo un insieme più complesso più o meno coerente che chiamiamo cultura) dell’umanità. In particolare, essa è la disciplina che ha promosso e sviluppato la cultura come oggetto di studio scientifico; essa è anche il ramo dell’antropologia che studia le differenze e le somiglianze culturali tra gruppi di umani. Parte del mondo accademico ha scelto di considerare sotto questa etichetta tutte le scienze demo-etno-antropologiche non fisiche. Tuttavia, si tende anche a considerarla un approccio antropologico particolare che privilegia lo studio di aspetti più culturali dell’umanità. I concetti su cui si basa l’antropologia culturale sono in parte dovuti a una reazione contro la passata concezione occidentale basata sull’opposizione tra natura e cultura, secondo la quale alcuni esseri umani sarebbero vissuti in un ipotetico “stato naturale”. Gli antropologi si oppongono a questa visione, in quanto la cultura fa in realtà parte della natura umana: ogni persona ha infatti la capacità di classificare le proprie esperienze, di codificare simbolicamente tali classificazioni e di insegnare tali astrazioni ad altri. Poiché la cultura viene appresa, le persone che vivono in luoghi differenti avranno differenti culture. Gli antropologi hanno inoltre sottolineato che attraverso la cultura le persone possono adattarsi al proprio contesto ambientale in modi non-genetici, cosicché persone che vivono in contesti ambientali diversi avranno spesso culture differenti, anzi, addirittura elementi comuni che tra le culture hanno quasi sicuramente significati diversi. Molte delle teorie antropologiche si basano sulla considerazione e l’interesse per la tensione tra l’ambito locale (le culture particolari, il folklore) e l’ambito globale (la natura umana universale, ovvero la rete di connessioni che unisce le persone di luoghi diversi). Dobbiamo anche dire che l’antropologia culturale ha vari settori, come tutte le altre discipline. Abbiamo l’antropologia politica, l’antropologia medica, l’antropologia della parentela, l’antropologia religiosa, l’antropologia applicata e l’antropologia psicologica. Le condizioni storiche e intellettuali in cui si è sviluppata: 1. Decolonizzazione; 2. Crisi credenza progresso continuo; 3. Crisi supremazia di una civiltà sull’altra (Etnocentrismo). CORRENTE EVOLUZIONISTA: L’evoluzionismo, nelle scienze etnoantropologiche, è un approccio teorico che vede le varie culture umane collocate in differenti stadi evolutivi. I diversi stadi evolutivi possono essere rapportati a quelli definiti dalla legge dei tre stadi di Auguste Comte (legge tratta dalla storia che governa lo sviluppo della realtà umana in tre stadi: stadio teologico o fittizio che indaga le cause prime della realtà e attribuisce tutto ad un essere soprannaturale; stadio metafisico un punto di passaggio necessario è una sorta di modificazione del primo poiché agli oggetti soprannaturali si sostituiscono entità astratte intrinseche alla natura; stato scientifico o positivo). È stato idealizzato nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’antropologia (o etnologia) si è affermata nel mondo accademico, il paradigma teorico dominante. Nel ‘900 viene soppiantato da altri approcci che negano alcuni elementi basilari della visione evoluzionistica. Una parte minoritaria della comunità scientifica, prevalentemente negli Stati Uniti, ritiene tuttora valida la teoria evoluzionistica della cultura. Questi studiosi sono stati spesso definiti neoevoluzionisti. I primi antropologi riconosciuti come scienziati furono britannici e americani. Studiosi come Edward Burnett Tylor e James Frazer in Gran Bretagna si occuparono dell’argomento lavorando soprattutto su materiali raccolti da altri, di solito missionari, esploratori, o ufficiali coloniali, e vengono spesso definiti “antropologi da poltrona”. Negli Stati Uniti, fu Lewis Henry Morgan il primo grande antropologo. Egli concentrò la ricerca sui nativi americani, stabilendo con alcuni popoli (soprattutto i Seneca) rapporti molto profondi. Questi etnologi erano interessati in modo particolare nelle motivazioni per cui i popoli che vivevano in diverse parti del globo avessero credenze e pratiche simili. Tutti fondavano la loro teoria sulla convinzione che la storia dell’uomo si muove sulla linea di un progresso costante. La storia della società umana era vista come il prodotto di una sequenza necessaria di stadi di sviluppo sempre più complessi, culminante nella società industriale di metà ‘800. Le società contemporanee più semplici non avevano ancora raggiunto gli stadi culturali più elevati del progresso e potevano essere ritenute simili alle società più antiche. In questo quadro si cercava di dare spiegazione a comportamenti e usanze ritenuti altrimenti insensate: essi sarebbero sopravvivenze di precedenti stadi culturali. In questo paradigma teorico, i popoli “selvaggi” sparsi sui vari continenti possono illustrare le condizioni di vita degli uomini preistorici, antenati della nostra civiltà. Per cui le società non europee venivano viste come dei “fossili viventi” di stadi di evoluzione sorpassati dalla civiltà occidentale e che potevano essere studiati per gettare luce sul passato di quest’ultima. Quest’approccio teorico implicava una contrapposizione alle teorie razziste che sostenevano vi fossero differenze razziali e biologiche tra i vari popoli. Per gli antropologi evoluzionisti la specie umana è unica e non vi sono differenze biologiche tra i vari gruppi per quanto riguarda le abilità mentali. Per questo è possibile per ogni gruppo sociale percorrere le tappe che lo avrebbero fatto progredire. Ricostruendo lo sviluppo della società propone una vera e propria filosofia della storia scandita in tre momenti che rispecchiano la legge dei tre stadi di Comte: 1. Epoca teologica, in cui vige una società teologico-militare (medievale), fondata sul potere spirituale della Chiesa cattolica e perpetuata da preti e teologi, che si occupano degli aspetti spirituali della società, mentre il potere temporale è affidato ai guerrieri. La guerra quindi è considerata necessaria e ha come fine la conquista: 2. Epoca metafisica, è uno stadio intermedio, di transizione, con un carattere critico; 3. Epoca positiva, sede della nuova società, quella che per Comte stava affiorando in quegli anni, in cui il potere spirituale e intellettuale sarà in mano ai sociologi e agli scienziati mentre quello temporale sarà prerogativa degli industriali. Questa nuova società non sarà più finalizzata alla conquista bensì alla produzione industriale. CORRENTE RELATIVISTA: Teoria formulata, a partire dal particolarismo storico di Franz Boas, dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits (1895 - 1963) secondo il quale, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. In seguito il concetto di relativismo culturale diviene imprescindibile in campo antropologico, grazie anche all’attività divulgativa dell’allieva di Boas, Margaret Mead, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva (precedente di qualche anno alla formulazione esplicita del relativismo culturale), può essere considerata paradigmatica dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale (in quel caso americana). Da questa teoria sono derivate numerose tesi che raccomandano il rispetto delle diverse culture e dei valori in esse professati. Tali idee sostengono ad esempio l’opportunità di un riesame degli atteggiamenti nei confronti dei paesi del Terzo Mondo, richiedendo maggior cautela negli interventi e criticando la tendenza coloniale e post-coloniale ad imporre anche un sistema culturale mediante l’intervento umanitario, gli aiuti per lo sviluppo economico e/o la cooperazione internazionale (vedi inculturazione). Spesso critiche di questo tipo sono state rivolte alle organizzazioni che fornivano aiuti umanitari condizionati all’adozione di determinati comportamenti, come ad esempio la propaganda religiosa delle missioni cristiane. Il relativismo culturale infatti porta avanti la convinzione per cui ogni cultura ha una valenza incommensurabile rispetto alle altre, ed ha quindi valore di per sé stessa e non per una sua valenza teorica o pratica. Il ruolo dell’antropologo viene di conseguenza ristretto all’analisi e alla conoscenza profonda di tali espressioni culturali da un punto di vista emico, mentre ogni valutazione di valore viene messa al bando come espressione di etnocentrismo, ovvero del punto di vista opposto rispetto al relativismo. Posizioni simili ha espresso Claude Lévi-Strauss. I problemi dell’Antropologia: In un primo momento l altro veniva visto come primitivo, il cattivo selvaggio, con valenza ciò negativa, successivamente viene visto come l’ uomo autentico, il buon selvaggio. Secondo Marc Augè è imprigionando più gli “altri” nelle figure dell’autentico o del selvaggio, figure che sono sempre riduttive ma cogliendoli all’interno dello stesso rapporto con il noi. L’alterità non rappresenta un’essenza, una qualità intrinseca che certe popolazioni o certe culture portano inscritta in sé stesse: deve essere considerata come una nozione relativa e congiunturale: si è “Altro” solo agli occhi di qualcuno. Si appare tali solo in virtù del rapporto stabilito tra lo sguardo che l’Europa o la società moderna rivolge a questi gruppi in un dato momento della storia. La categoria dell’Altro non ha a che fare con una definizione sostanziale, non corrisponde a un’entità autonoma e individuabile in positivo ma è al contrario sempre inserita in una relazione generalmente dominazione-subordinazione. Le categorie o i gruppi appaiono differenti lo sono solo in relazione a una struttura dominante che li ingloba e con la quale intrattengono certi rapporti di separazione o di opposizione. Il rapporto di esteriorità-identificazione ha come effetto che al mio ritorno, dopo essere stato presso l’altro, io non sono più lo stesso. Nell’ incontro con l’altro si cerca soprattutto di capire sé stessi (Montaigne). L’ esteriorità è essenziale per l’antropologo perché per lui non si tratta di identificarsi con l’altro al punto di divenire sé steso l’altro. Non si tratta di diventare gli altri ma di identificarsi in essi abbastanza da riuscire a capirli. I luoghi di riflessione dell’antropologia L’oggetto dell’antropologia è dinamico, non è una struttura rigida e fa parte integrante della società globale. Le zone marginali non lo sono che relativamente alla società maggioritaria, e costituiscono l’oggetto dell’antropologia solo nella misura in cui consentono, opponendosi ad essa o differenziandosene, di illuminare la globalità. L’oggetto dell’antropologia è dialettico nel senso che mette sistematicamente in rapporto il locale e il globale, i gruppi ristretti e la società generale in cui sono inseriti. L’ antropologia tenta di illuminare entrambi i livelli, e l’insieme degli scambi e delle determinazioni che li collegano. I suoi oggetti non sono né residuali né passivi, l’opera dell’antropologia non consiste nell’interessarsi alle tradizioni per tentare di resuscitarle o di reinventarle per compiacere l’immaginario sociale del momento. Es. della festa: le feste tradizionali muoiono per essere sostituite da altre forme di socialità magari altrettanto interessanti benché diverse e si assiste a tentativi in tutte le direzioni per riabilitarle. L’idea di festa tradizionale si reincarna nel mito della “Festa”. Frantumarsi in molteplici tratti slegati  illusione moderna che si viva oggigiorno in una società edonista e senza tabù. Ma nel corso dei secoli c’è stata prima una condanna e poi una repressione di gran parte delle feste popolari che non fossero sottomesse allo stretto controllo dell’autorità politica o ecclesiastica. In seguito abbiamo assistito, dopo la loro scomparsa, alla glorificazione ideologica e talora anche alla loro reinvenzione nostalgica. È questo il genere di analisi che l’antropologia porta avanti: si pone il problema di sapere per quali meccanismi economici, politici e culturali si sia potuta produrre tale mistificazione della festa, interrogarsi sul contenuto, discutere della funzione utilitaria e infine interrogarsi della sua permanenza nella società della festa come categoria universale dell’eccesso del disordine. L’approccio dinamico dell’antropologia ci rende attenti verso le diverse iniziative pseudo-culturaliste dei paesi del terzo mondo: con il pretesto dell’efficacia queste iniziative riducono la legittimità delle rivendicazioni d’identità a dei valori mummificati, ricorrendo, per esempio, ad una concezione idealistica della cultura, concepita come al di fuori della storia e delle contraddizioni sociali e politiche. Oltre che ad autorizzare la manipolazione politica delle masse, una visione povera e riduttiva della cultura nega nel proprio seno le tendenze universaliste e di conseguenza si oppone alla dinamica dello scambio interculturale dal quale risultano tutte le società senza eccezione. È così che si possono leggere la maggior parte dei discorsi sull’autenticità che fioriscono tra le elite del terzo mondo. Ideologia autoritaria al servizio di un infimo strato sociale al potere. Il riferimento ai valori tradizionali è molto spesso l’occasione per un esercizio esclusivo del potere. Ugualmente i movimenti regionalisti in Europa sono stati all’origine di iniziative pseudo-culturaliste: basano le loro rivendicazioni sul mito di una cultura originaria. Es. chi ha fondato la legittimità delle loro pretese autonomistiche su una pretesa continuità con i celti o gli ariani. Questa ipertrofia del sentimento nazionale e dell’identità culturale non è stata soltanto all’origine della negazione della storia e della dinamica interculturale, ma altresì la fonte di una volontà di annientamento di altre culture e popoli. Una definizione dell’antropologia: l’articolazione del locale col globale Definizione di antropologia (Augé): “Il sapere antropologico assume come oggetto d’indagine unità sociali di piccola ampiezza a partire dalle quali tenta di elaborare un’analisi di portata più generale, cogliendo da un certo punto di vista la totalità della società in cui queste unità si inseriscono”. Quindi antropologia come disciplina che pensa il rapporto fra particolare e generale, che tenta cioè di analizzare la logica e la trasformazione dei rapporti sociali propri alle unità locali, cercando allo stesso tempo di spiegare la logica complessa del mondo che le circonda. Le unità sociali prese in considerazione sono ristrette nel senso che corrispondono generalmente a piccole comunità dove le relazioni sociali sono concrete e direttamente osservabili dal ricercatore. Queste comunità devono ugualmente presentare una certa coerenza interna e una coesione rispetto all’esterno. La scelta dell’unità non è arbitraria, ma si sceglie quella con i caratteri più peculiari allo scopo (ossia marcare per contrasto il modo di vita maggioritario. Il metodo è: osservare la società maggioritaria a partire dai gruppi ristretti per osservarla fuori dal suo quadro unificatore e dei suoi punti di riferimento. Il punto di vista sulla società globale che ne deriva sarà così più critico e pertanto più oggettivo. L’osservazione partecipante che l’antropologo fa permette di coglierli al tempo stesso dal dentro e dal fuori (sia specificità locale sia appartenenza alla società globale). La posizione decentrata permette di estrapolare il globale a partire dal locale. L’antropologia: una disciplina della comparazione Metodo specifico: ritorno sulla società industriale maggioritaria dopo aver compiuto una deviazione attraverso altre società o culture. Distanziandosi grandemente rispetto al proprio universo culturale, l’antropologo può misurare le trasformazioni che agiscono nelle società moderne. L’esperienza delle altre culture, delle tradizioni e dei gruppi minoritari consente d’illuminare di luce nuova la cultura industriale. Comparazioni interculturali, nello spazio e nel tempo, fra le particolarità e i significati sociali diversi che l’antropologo osserva. Es. stato-nazione / società comunitarie: la nozione di potere politico non si riduce necessariamente all’utilizzo della violenza armata e alla specializzazione istituzionale, ma può attenere ugualmente al simbolico e al religioso. Es. società malesiane big man trae il potere dalle sue qualità personali che mette al servizio della comunità, deve dar prova di grande generosità. Riconoscendogli valore e fama la società gli fa contrarre un debito che egli deve colmare con la distribuzione di ricchezze se non vuole vedersi ritirare la posizione di prestigio. Ha status di capro espiatorio. Nelle società africane la regalità è sacra e pone il soggetto re al di fuori della società accordandogli vantaggi poligamia e ricchezza e la possibilità di trasgredire tabù come l’incesto. In cambio il re è considerato come il garante della perennità della società ed è ritenuto responsabile di ogni grave crisi che essa attraversa. Il suo status di capro espiatorio può arrivare alla morte. Per tornare alla modernità: è evidente che l’esercizio formale del potere politico all’interno di istituzioni giuridicamente definite si accompagna sempre ad un’espressione simbolica (prestigio concesso a chi si occupa della cosa pubblica). Altro esempio: i rapporti di lavoro salariato nella società industriale si chiariscono meglio se li si confronta con le pratiche di aiuto reciproco e cooperazione nelle società tradizionali. Nelle società di mercato il lavoro salariato è il risultato della reificazione del lavoro del produttore, ne è l’astrazione attraverso il valore del denaro  nelle società comunitarie invece il lavoro si inserisce sempre nelle relazioni sociali concrete e si scambia sotto forma di prestazioni della medesima natura. Il rifiuto del lavoro salariato di alcune popolazioni non significa il rifiuto delle nuove possibilità offerte dall’economia moderna ma corrisponde il più delle volte al tentativo di adattare queste nuove condizioni all’interno delle relazioni sociali tradizionali, considerate più gratificanti dei rapporti impersonali che derivano dalla semplice relazione monetaria. L’antropologia: un’interpretazione della modernità Il procedimento antropologico così descritto conduce ad una interpretazione della modernità mettendo in evidenza la diversità dei contenuti che la modernità assume a seconda delle situazioni a partire da una riflessione dialettica che mette in campo fra le differenze e le analogie fra le continuità e la discontinuità. Capitolo II: procedimento, indagine e metodi in antropologia: dal particolare al generale, ovvero l’antropologia come scienza delle logiche sociali Il decentramento e il distanziamento come fondamenti del procedimento antropologico Procedimento fondamentale del decentramento-distanziamento: uscire dal proprio universo culturale per poter rendere conto della diversità, senza cessare, nel frattempo, d’interrogarsi sulla propria società. Ciò permette all’ antropologo di misurare le differenze e le analogie fra le due società. Nella visione antropologica, ogni unità sociale è fortemente relativizzata, ciò che a uno sguardo interno ad una data cultura può apparire come estraneo, non è tale per lo sguardo antropologico. La necessita di distanziamento appare come un principio metodologico universale, soprattutto quando si tratta della società industriale moderna in cui la società ufficiale che funziona prevalentemente in maniera giuridica e sulla base di strutture formali, spesso non coincide con la società reale, cioè con le pratiche sociali, i conflitti e tutte le reti di socialità. L’osservazione partecipante e la pratica di campo L’osservazione partecipante è un secondo procedimento fondamentale che associa strettamente l’esperienza esistenziale e quella intellettuale. L’esperienza fisica si traduce in una lunga durata del ricercatore sul campo. Questa particolare relazione con l’oggetto di studio implica l’osservazione in profondità della realtà presa in esame e una particolare attenzione alla qualità dei rapporti sociali che costituiscono un gruppo. Essa colloca subito il ricercatore al di là di ogni visione semplificatoria, formale e istituzionale della realtà. Gli è facilitato cosi l’accesso ai significati profondi e alle logiche soggiacenti, più profonde e nascoste. Per rafforzare l’oggettività, si è spesso pensato che bastasse accentuare il carattere di microcosmo del gruppo studiato: ma ogni unità sociale fa parte di un sistema più ampio che lo trascende. Insistere sul carattere “chiuso” di un gruppo significa dimenticare che lo stesso ricercatore è un intruso e la sua origine, i suoi valori, hanno influenza nella relazione con gli altri. Le regole dell’osservazione partecipante devono dunque tener conto di due fattori: l’insieme dei dati esterni e delle determinazioni socio-politiche globali che agiscono su un gruppo dato; il rapporto fra l’antropologo e la popolazione presso cui lavora. Costruzione dell’oggetto in antropologia L’oggetto dell’antropologia non può dunque essere concepito come un dato a priori, ma corrisponde ad un processo di costruzione, a partire dai due criteri: il rapporto del ricercatore con il campo delimitato in questione, che consiste nel tipo di interrogazione che si pone, nell’apparato concettuale che utilizza e nella finalità della ricerca che si assegna la presa in considerazione dell’insieme delle influenze esterne e dei più diversi dati che caratterizzano quel campo. Un esempio: l’agricoltura di montagna come oggetto antropologico Agricoltura di montagna (Svizzera) come oggetto da costruire con uno studio sistematico dei diversi aspetti della realtà della montagna, arrivando alla conclusione che costituiva il nodo verso cui convergeva la problematica del rapporto tra tradizione e modernità. In questa realtà era possibile leggere: 1. gli interventi dello Stato (per mantenere la popolazione sul territorio): ragioni di ordine politico (difesa nazionale) e sociologico (equilibrio tra strutture urbane e strutture contadine); 2. l’influenza dell’economia di mercato (per il turismo: funzione di manutenzione del territorio); 3. volontà delle popolazioni locali di non accontentarsi solo di queste funzioni utilitarie e di adattare la modernità diffusa alle proprie esigenze: grazie ai salari, alle sovvenzioni, alla meccanizzazione, sono riusciti a tenere in vita l’attività agricola e a darle un contenuto extra-economico con motivazioni principalmente di ordine sociale e culturale. È dunque tenendo conto dell’insieme dei dati esterni e rapportandoli alla pratica delle popolazioni locali, alla loro maniera di vivere e di rappresentarsi la loro attività agricola e il loro inserimento che l’agricoltura a tempo parziale si è progressivamente costituita come il luogo privilegiato a partire dal quale si poteva illuminare la totalità della realtà contemporanea della montagna: una realtà moderna perfettamente integrata nella società industriale. L’antropologia dello sviluppo come altro esempio di costruzione dell’oggetto R. Bastide definisce nella sua opera Anthropologie appliquèe (1971) l’antropologia dello sviluppo. Egli consiglia di allargare il campo di osservazione in modo tale da includervi tanto coloro che decidono azioni di sviluppo (stato) quanto le popolazioni che ne sono gli “oggetti”. L’antropologia applicata costituisce un nuovo oggetto intellettuale che integra strettamente la concezione dei progetti di sviluppo, le modalità della loro applicazione sul campo e le conseguenze di queste iniziative di trasformazione presso i gruppi interessati. In tale prospettiva occorre superare la relazione univoca che consiste nello studiare la realtà dell’altro e le sue reazioni in rapporto ad un solo criterio quello del modello di sviluppo proposto, generalmente il modello della società industriale; e di includere nell’oggetto di studio l’interrogazione sulla finalità di questo modello e sui suoi effetti sulle collettività locali. Es. introduzione di pompe ad acqua in India: ciò che avrebbe dovuto rappresentare un cambiamento benefico per la popolazione ha piuttosto apportato angosce e conflitti: la tecnica non è di per sé sufficiente a cambiare l’esistenza, occorre che essa si integri nelle strutture sociali e culturali. L’assunzione della contestualizzazione nell’analisi antropologica consente di misurare le difficoltà e le resistenze potenziali. Visione globale e “fatto sociale totale” in antropologia Importanza della contestualizzazione nell’analisi antropologica. Fatto sociale totale = un fenomeno che sia al tempo stesso espressione e sintesi dell’insieme della vita sociale di una data società dapprima sperimentato da Malinowski e poi elaborato teoricamente da Mauss. (L’agricoltura in montagna, è l’espressione e la sintesi delle realtà attuali della montagna. Un numero rilevante di fenomeni sociali che non attengono a un solo livello ma sono allo stesso tempo giuridici, economici, religiosi, estetici, Popper parla di una società chiusa per qualificare la società dominata dal mito e di società aperta caratterizzata dalla scienza. Anche il sociologo Durkheim: la religione è analizzata come fatto sociale (il religioso partecipa del sociale) e come fenomeno sociale totale (la religione è una cristallizzazione di comportamenti e istituzioni che partecipano, insieme, dell’etico, del simbolico, dell’economico, del politico, del sociale). Durkheim mette in discussione la visione passiva e negativa della religione (vista come semplice riflesso di altre istanze, come l’oppio dei popoli marxista) e ne coglie le funzioni positive, infatti la religione è all’origine della coesione sociale e del suo mantenimento, le cerimonie religiose costituiscono un momento di fusione sociale. Oggi gli interessi dell’antropologia religiosa si sono allargati allo studio dei sistemi di rappresentazione e dei sistemi simbolici (Lévi-Strauss e l’analisi del pensiero selvaggio e dell’efficacia simbolica) e ai meccanismi di rappresentazione simbolica delle istituzioni sociali e della loro riproduzione (Augé e l’analisi dei rapporti tra ideologia o le rappresentazioni che si fanno gli attori sociali e le pratiche sociali che le accompagnano). Più in generale il focus è sul problema dei modi di pensiero e della traducibilità di culture. L’antropologia politica Antropologia britannica campo privilegiato di questo tipo di antropologia. Contesto: indirect rule nelle colonie è all’origine della riflessione sulla diversità delle forme di organizzazione politica riscontrate nelle società tradizionali e più in particolare in Africa. Evans-Pritchard, Glukman, Leach. Questi studi sono all’origine della distinzione fra società con lo Stato e società senza Stato: in queste ultime l’organizzazione politica e la struttura della parentela sono inseparabili. Inoltre è rilevante l’importanza del fattore religioso nella definizione della politica, come ad esempio col caso della regalità sacra (Africa centrale). P.Clastres , ha fatto un analisi sula politica, sul potere e sulla violenza in generale. Partendo da un’analisi delle società dette primitive, che classifica come società contro lo stato, egli postula una rottura fondamentale fra queste ultime le società con lo stato. Secondo Clastres le prime si caratterizzano per il rifiuto dello stato, dell’istituzionalizzazione della violenza e della divisione sociale, mentre le seconde son marcate in positivo proprio da questo carattere. L’approccio alla politica nelle società primitive mette in rapporto le nozioni di potere e prestigio con quelle di distribuzione della ricchezza e di uguaglianza politica, ha messo anche in evidenza il fenomeno di etnocidio ossia la distruzione dei valori e del modo di vita di una cultura, come pratica specifica dello stato nazione e dei grandi imperi coloniali. L’antropologia economica Con gli studi di Malinowski e Mauss abbiamo le prime riflessioni dell’antropologia nel campo dell’economia. Essi rifiutano ogni autonomia al campo dell’economico nella definizione delle società e mettono in discussione dell’idea propria dell’economia classica secondo la quale l’uomo è un “animale economico”. Con le loro opere l’economia viene inserita nella totalità dei fenomeni sociali e culturali. Tuttavia questa branca dell’antropologia prende effettivamente avvio solamente negli anni ‘50 in cui si apre un dibattito teorico contraddittorio tra le differenti scuole di pensiero. La scuola marxista ha portato nella discussione i problemi fondamentali quali quelli della riproduzione sociale ed economica, delle categorie sociali o di età, del grado di determinazione delle diverse istanze sociali (politica, religione, parentela, economia). La scuola formalista prende direttamente in prestito i modelli dell’economia neoclassica e i valori di mercato (credito, capitale, investimento, domanda-offerta) per analizzare società storicamente e culturalmente diverse da quella industriale. La scuola sostantiva (Polanyi) rifiuta il ricorso a tali nozioni e considera le società precapitalistiche fondate sui principi della redistribuzione e della reciprocità. La corrente del materialismo culturale invece mira a spiegare le forme sociali ed economiche a partire dai condizionamenti ecologici e demografici che pesano sulle culture. L’antropologia della significazione che si ispira agli insegnamenti teorici di Mauss definisce i fenomeni economici come fenomeni sociali totali. Essi recano in sé un senso sociale, culturale e simbolico; non si riduce solo alla dimensione utilitaria. L’antropologia si concentra sulla critica della concezione che sottende l’analisi economica classica quali le nozioni di “rarità”, “bisogno”, “interesse”, “capitale”. Queste nozioni sono a loro volta messe a confronto con altre nozioni come spreco eccesso reciprocità prestigio, insieme di fenomeni che vengono considerati come universali e inseparabili da ogni comportamento economico. L’antropologia economica che si inscrive nella prospettiva del simbolico e della significazione ha dunque come procedimento fondamentale quello di mettere sistematicamente in rapporto la società moderna con le società tradizionali. Scopo: comprendere i sistemi di produzione economica a partire da categorie universali che sfuggono alla sovradeterminazione di una sola cultura (generalmente quella capitalistico industriale). L’antropologia del cambiamento sociale È solo a partire dagli anni ‘30 che si sono sviluppati gli studi sui fenomeni di acculturazione (gli effetti derivati dai contatti tra due o più culture) negli Stati Uniti (interessati al problema degli indiani e delle minoranze, e la loro integrazione) e in Inghilterra (interessata a controllare i cambiamenti nel proprio impero coloniale). Approccio che derivava da una concezione meccanicistica del cambiamento: valutato sempre in rapporto alla società dominante. Si pensava che il cambiamento dovesse sempre esprimere lo stesso movimento, quello dell’adattamento, dell’aggiustamento delle società tradizionali ai valori della società moderna. Da qui deriva la rigida opposizione tra tradizione e modernità, passato e presente, società semplici e società complesse. Più tardi si sviluppa un’importante letteratura dedicata ai fenomeni messianici, millenaristi e nativisti delle società “primitive” e tradizionali (forme diverse da una regione all’altra es. Africa nera con chiese sincretiche, revivalismo in India e America del Nord, millenaristica in Brasile): sono generalmente rapportati alla medesima funzione di adattamento e acculturazione alla società europea. Sono considerati come risposta allo choc culturale in seguito al contatto. Concezione fortemente unilineare del cambiamento sociale che è stata messa in discussione. Si è arrivati ad una nuova prospettiva: comprendere le unità sociali ristrette nel quadro della dialettica con la società globale, cioè collegare l’insieme delle determinazioni esterne che si esercitano su certe unità con la dinamica sociale e culturale propria di tutte le società tradizionali (rappresentante più impo Balandier) L’antropologia dell’ambiente urbano e industriale L’ antropologia dell’ambiente in Europa è stata soprattutto rurale essendosi dedicata esclusivamente alla società tradizionale. In Europa la sua pratica è stata assimilata ad una raccolta delle tradizioni e dei costumi minacciati dall’urbanizzazione e dai movimenti migratori. Più tardi si è posta il desiderio di ritrovare delle radici col rimpianto del mondo scomparso o snaturato. Lo sviluppo dell’antropologia urbana ha numerose motivazioni, come l’accelerazione dell’urbanizzazione in tutto il mondo; la crescente difficoltà da parte degli antropologi di fare inchieste sui terreni esotici; la moltiplicazione delle specializzazioni nel campo della ricerca; la nostalgia sempre viva per la città tradizionale; e infine una domanda sociale multiforme che dà luogo a progetti finanziati dai poteri pubblici o dalle attività locali, allo scopo di salvaguardare i patrimoni nazionali e regionali. L’antropologia in campo urbano deve mostrare cosa coglie lo sguardo che l’antropologo quando si rivolge alla città, all’ambiente industriale e tecnico, in breve alla modernità, e se sia pertinente a comprendere le logiche sociali locali nella loro articolazione con il globale. L’antropologia della città: qualche riferimento L’antropologia della città può essere definita come l’insieme dei lavori che cercano di cogliere e analizzare gli spazi di coabitazione nelle città, i rapporti sociali che vi si sviluppano, l’articolazione dei luoghi di lavoro con quelli di residenza, la distribuzione delle reti di socialità, la possibilità di raggruppamento e di identificazione sociale ed etnica. Sin dagli anni ì70 l’antropologia della città si è concentrata sullo studio delle successive storicità che hanno segnato la città, dei flussi e riflussi migratori, comunità o etnie urbane, dei fattori che sono all’origine della loro coesione o della loro riproduzione. L’antropologia dell’ambiente industriale e tecnico: qualche riferimento Altre ricerche in ambiente urbano riguardano il campo dell’industria e della tecnica. L’antropologia qui si è sviluppata in rottura con l’approccio tradizionale condotto in termini di folklore dei mestieri e delle tecniche. Essa designa ricerche che inseriscono la tecnica in una prospettiva più globale quella della cultura industriale. Gli antropologi qui si sforzano di analizzare le condizioni dell’innovazione tecnica, della sua diffusione e dei freni sociali e culturali che incontra, tentando di mettere in evidenza le tradizioni sociali e le mentalità che accompagnano e informano l’evoluzione della tecnica. E inoltre anche le rappresentazioni e le pratiche dei mestieri e delle specializzazioni. Ogni ambiente industriale produce un sapere tecnico, un sapere sociale e suscita un sentimento di appartenenza al gruppo che lo distingue dagli altri; qualcosa che trascende i lavoratori e ingloba tutta una porzione più ampia (parenti, vicini, città, regione). Lucas: studio di una regione mineraria francese colpita da recessione economica e declino demografico. L’antropologia del “noi” e il rimpatrio dell’oggetto “esotico” Una tale prospettiva arriva ad estendere gli spazi “esotici” al di là dei loro limiti tradizionali (es. giungla delle città). Antropologia rimpatriata che costruisce i suoi oggetti sulla base di omologie: fra selvaggio e civilizzato, tradizione e modernità, villaggio della savana e quartiere urbano. Nel persistente gusto per l’esotico, è possibile cogliere un’estensione del “pre-” (scovare credenze e comportamenti pre-scientifici, pre-razionali, pre-moderni, pre- economici) e del periferico (periferia della produzione industriale, periferia delle istituzioni ufficiali, etc.) a detrimento dell’interesse per le attività e le credenze centrali (il sapere scientifico, la “razionalità” economica, il potere politico, etc.). L’antropologia “rimpatriata” e l’elusione del metodo Questa antropologia raramente si interroga riguardo allo statuto e al ruolo dell’osservatore sul campo. Né l’immersione totale, né il codice dell’oralità, né la definizione spaziale degli attori sociali sono sufficienti, né atti, a far sì che l’antropologo oltrepassi i limiti dei gruppi sociali che studia. L’antropologia ha bisogno di aprirsi alle altre discipline e soprattutto alla sociologia. PARTE SECONDA: L’ANTROPOLOGIA IN SITUAZIONE. APPORTI E RAPPORTI CON LE ALTRE SCIENZE DELL’UOMO Antropologia: posto privilegiato nel campo della conoscenza, non c’è nessun sapere contemporaneo che non abbia da prendere in considerazione il contributo antropologico, soprattutto per le ampie prospettive alla comparazione che apre. Capitolo I: antropologia e sociologia. La ragione comparativa L’antropologia e la sociologia perseguono la medesima finalità: studio dell’insieme delle produzioni sociali e culturali di cui l’uomo è all’origine. I rapporti fra le due sono marcati da differenze di prospettive, di procedimenti, e, in certa misura, relative all’oggetto. Distinzione costitutive degli statuti rispettivi dell’antropologia e della sociologia sin dal loro sorgere. Dal suo “esilio” nelle società esotiche, l’antropologia sembra aver tratto un certo vantaggio euristico. In quanto impresa di traduzione di culture, l’antropologia ha dovuto specificare, caso per caso, le procedure attraverso le quali passa dal particolare al generale, dall’esotico all’universale, cioè le procedure su cui fonda la sua ragione comparativa. Questi interrogativi non sono assenti nelle analisi sociologiche, però il rapporto del sociologo col proprio oggetto è un po’ differente anche se la finalità è la stessa: ricondurre comportamenti di particolari agenti sociali e vari tipi di senso comune ad un’intellegibilità collettiva. Sociologi: visione oggettivista, la quale stabilisce un rapporto univoco con l’universo sociale e privilegia il punto di vista dell’osservatore come punto di vista scientifico legittimo. Confondono l’identificazione storica e ideologica del loro oggetto con un’identificazione scientifica neutra. Fa parte della società che osserva. La “grande partizione”: società e comunità, sociologia e antropologia Sin dalla sua comparsa verso la metà del XIX secolo, l’antropologia ebbe subito come oggetto le società “primitive” che gli europei incontravano nel loro passaggio, anche se il progetto era articolare il rapporto fra diversità e universalità; la sociologia è nata nello stesso periodo per studiare la società industriale. Questa creava nuove condizioni storiche: da un lato, la distruzione accelerata delle società contadine tradizionali, la generalizzazione del lavoro industriale, processi di proletarizzazione e urbanizzazione; dall’altro, l’esigenza intellettuale del positivismo dominante: la sociologia comtiana del diciannovesimo secolo aspirava soprattutto ad essere una tecnica sociale e la consigliera del principe. Da queste due prospettive (società tradizionali o esotiche e società industriali o moderne) è nata la famosa distinzione di Tonnies: comunità/società, poi affinata da Durkheim nella forma solidarietà meccanica/solidarietà organica. Ciascuna delle due forme di raggruppamento e di solidarietà doveva costituire l’oggetto privilegiato ed esclusivo delle due discipline. All’antropologia spettavano società comunitarie esotiche caratterizzate dalla solidarietà meccanica e dalla semplicità delle istituzioni; alla sociologia le società industriali moderne caratterizzate dalla solidarietà organica e dalla complessità delle istituzioni. Nonostante i continui sconfinamenti. Antropologia e sociologia: differenze di prospettiva, di metodo e di indagine Sin dagli anni ‘60, l’oggetto dell’antropologia non riguarda più esclusivamente le società “primitive”, perché concerne ormai l’insieme delle situazioni di alterità e di diversità, ovunque esse si manifestino e dunque anche nelle società industriali avanzate. Malgrado questa convergenza recente, nondimeno persistono alcune differenze tra queste due discipline, che divergono in primo luogo per la prospettiva che ciascuna di esse adotta: l’antropologia sceglie unità ristrette, più o Per l’antropologo infatti l’individuo rappresenta l’interlocutore fondamentale, è attraverso le sue pratiche e le sue rappresentazioni che si tenta di comprendere il collettivo. E l’uomo oltre che essere sociale è anche essere sensibile. La psicoanalisi anche è una dottrina strutturata sull’individuo, Lacan: individuo = istanza che ha a che fare con il sociale. Malgrado la prossimità, le differenze tra le 2 discipline ruotano intorno al rapporto che l’una e l’altra sono pronte a stabilire fra storia individuale da una parte e storia collettiva dall’ altra: all’origine dei disaccordi c’è proprio il modo di articolare i rapporti fra individuo e società. Totem e tabù: storia individuale e storia collettiva nella teoria freudiana In totem e tabu, Freud ha collocato la psicoanalisi nel cuore stesso dell’antropologia. Egli sostiene che la psicoanalisi può ripercorrere la storia dell’umanità fino alle sue origini, alla stessa maniera in cui lo fa per la storia individuale. La storia individuale, anzi, ripete la scena primaria in uno schema universale che trascende la cultura e la storia. La psicoanalisi postula che ciascun individuo, qualunque sia la sua origine e il suo luogo di esistenza, rivive nella psiche la scena immemorabile del parricidio, la storia dell’umanità comincerebbe cosi con l’uccisione del padre da parte dei figli. La forma che assume questa ripetizione corrisponde al complesso di Edipo. Freud postula un rapporto diretto fra la storia individuale e la storia dell’umanità, gli stadi di sviluppo dell’individuo sarebbero essi stessi in realtà la ricapitolazione degli stadi di sviluppo dell’umanità. Anche le società passano attraverso uno stadio primitivo (infanzia), uno stadio selvaggio o barbaro (adolescenza), per arrivare alla civiltà (stadio dell’età adulta). Concezione evoluzionista. La critica antropologica: la proibizione dell’incesto come regola sociale L’antropologia critica in diverse maniere questo modo di vedere. Adotta un atteggiamento scettico di fronte ad ogni rappresentazione lineare della storia dell’umanità. Rifiuta ogni rigida analogia fra il collettivo e l’individuale. Ma soprattutto dubita dell’universalità del complesso di Edipo in quanto realtà psichica e storica transculturale. Non si ha ovunque a che fare con lo stesso triangolo padre-madre-figlio, è una spiegazione più che altro relativa alla sola cultura occidentale. Una prima critica su questo versante fu mossa da Malinowski che con l’esempio delle Isole Tombriand mostra l’impossibilità del complesso di Edipo. In Melanesia infatti viene ignorata la paternità biologica e l’autorità del padre biologico viene sostituita da quella dello zio materno (sistema dell’avuncolato). Levi-Strauss ne ha poi minato la validità ancora di più, ha dimostrato che non è possibile dimostrare un rapporto di causa effetto fra lo psicologico e il sociale. Occorre superare l’antinomia fra natura e cultura per porre il problema della proibizione dell’incesto in termini di regole o di leggi. I lavori di Lévi-Strauss sulle strutture di parentela hanno sottolineato che non sono importanti tanto le cose biologiche ma le obbligazioni che ne sono all’origine e che derivano dalla proibizione. Conoscere il grado di consanguineità fra partner è meno importante che conoscere le regole che stabiliscono chi deve sposare chi e come. Ad esempio, la proibizione dell’incesto non ha contenuto biologico o psichico marcato e universale, ma costituisce una regola sociale universale fondata sul principio di interdire certe categorie e prescriverne altre. Essa è, più in generale, una regola, nel senso che costituisce il principio di organizzazione in società, fondata sullo scambio e sulla reciprocità fra gruppi che ricevono. L’ incontro dell’antropologia con la psicoanalisi: l’efficacia simbolica Esiste un campo in cui psicoanalisi (Lancan) e antropologia (Levi Strauss) entrano in netta convergenza: l’efficacia simbolica. Per questi due autori, la nozione di simbolico rappresenta l’asse della strutturazione culturale. Il simbolico, concepito fino allora in maniera strumentale diventa per sé stesso un sistema di rapporti, efficace nel suo funzionamento, che modifica il reale. Il simbolico agisce sullo psichico e il fisico. L’esempio del trattamento della magia come forza espressiva e attiva, e non più come tecnica inefficace fondata sul mimetismo del reale permette di illustrare la nozione di efficacia simbolica in antropologia. La magia è stata spesso definita dagli stessi antropologi come una varietà inefficace della scienza, come una pseudo- scienza (Malinowski). Essa è stata presentata come l’espressione di un pensiero o di una mentalità che non ha ancora scoperto i reali rapporti di causalità o la giusta relazione fra mezzi e fini (cioè la concezione scientifico o razionale occidentale). La magia, il mito, il pensiero simbolico sono stati spesso rappresentati come forme primarie e incomplete del pensiero scientifico e razionale moderno. Ora tale visione è stata totalmente messa in discussione da antropologi e psicoanalisti. Ormai si considera la magia come un’istanza che si colloca su un terreno diverso della scienza. Essa è infatti la vera antitesi della scienza: non cerca di analizzare o spiegare le cose, è un linguaggio simbolico, una modalità di comunicazione sociale, non un processo discorsivo sulla realtà. La magia ha un’efficacia sociale e in certi casi può, trasformarsi in un mezzo di mobilità sociale. Principi euristici comuni all’ antropologia e alla psicoanalisi: il distanziamento, la funzione latente, l’alterità Altra convergenza tra le due discipline è la distinzione tra latente e manifesto, implicito e esplicito, e della necessita di entrambi i casi di andare al di là dei sintomi apparenti per decifrarli, decodificarli, analizzarli e trovarvi un senso soggiacente. E inoltre entrambe le discipline dimostrano che l’uomo non agisce razionalmente. Psicoanalisi: per la sua complessità psichica e affettiva. Antropologia: per la ricchezza delle forme tecniche, sociali, culturali, artistiche, religiose. Infine, sia antropologia che psicoanalisi sono sensibili all’alterità. La prima tenta di riconoscere e analizzare il pensiero dell’altro per metterlo a confronto col proprio, la seconda tenta di decifrare il discorso dell’altro in noi (noi come super-io e l’altro è l’io). Capitolo IV: antropologia e psicologia cognitiva. Ragione mitica e ragione scientifica La psicologia cognitiva o psicologia genetica, quale è stata elaborata da Jean Piaget, richiama fortemente l’antropologia. Le riflessioni che propone sui modi di acquisizione del pensiero da parte del bambino, e più in generale sui diversi tipi di pensiero, riprendono gli interrogativi fondamentali dell’antropologia intorno al rapporto fra cultura e pensiero, fra processi sociali e processi cognitivi. Nella letteratura antropologica, queste questioni hanno generalmente assunto la forma di una discussione intorno al mito e alla razionalità, alla magia e alla scienza, alla mentalità primitiva e alla mentalità civilizzata, e intorno alle modalità di passaggio da una forma all’altra. I lavori di Piaget riguardano lo sviluppo mentale del bambino suddiviso in tre stadi: 1. il primo stadio: funzioni sensoriali-motorie; 2. il secondo stadio: acquisizione del pensiero soggettivo o egocentrico; 3. il terzo stadio: pensiero operativo o decentrato, rapporti dell’uomo con l’universo. L’estrapolazione di questo modello, concepito su scala individuale, al livello collettivo è quello che interessa l’antropologia. Postulazione che anche l’umanità passi attraverso stadi mentali, in larga misura identici a quelli attraverso cui passa il bambino: 1. Stadio primordiale che caratterizza tutta l’umanità all’inizio: operazioni elementari e tecniche pragmatiche; 2. Stadio delle società tradizionali che si focalizzano sul pensiero simbolico del mito, magia e religione e sono poco inclini ad un rapporto oggettivo con la natura e con l’universo; 3. Società moderne: pensiero operativo e scientifico. Nei fatti questa gerarchizzazione non costituisce un’innovazione, riprende le teorie freudiane e prima ancora quelle degli antropologi evoluzionisti britannici come Tylor e Frazer, che avevano fatto un errore assimilando la magia ad una “cattiva” scienza e stabilito uno schema, oppure ancora Lévy-Bruhl che aveva postulato l’esistenza di due mentalità differenti ed opposte quella primitiva e quella scientifica, in termini recenti anche Popper ha stabilito una distinzione tra società chiuse (primitive, dominate dal pensiero simbolico e mitico perciò chiuse) e società aperte (pensiero razionale e scientifico, aperte al cambiamento e innovazione). Innanzitutto occorre criticare il dualismo che consiste nell’opporre termine a termine. Ammettere una differenza tra i modi di pensiero non significa che sia necessario opporli col fare dell’uno la forma incompiuta dell’altro. Al contrario poiché queste due logiche non perseguono gli stessi scopi non solo sono si oppongono ma neanche si escludono. Quindi sono fallaci questi tentativi di progressione evoluzionistici. Il pensiero razionale e il pensiero simbolico possono anche coesistere nello stesso individuo non solo nella stessa società (es. pensiero simbolico in arte o in metafisica, filosofia, misticismo). Inoltre l’immaginario interviene nella riflessione scientifica quasi quanto la ragione. Esempio dei culti del cargo: esemplare per illustrare il fallimento di questi tentativi di spiegazione dei fenomeni sociali e della diversità delle società in termini di opposizione fra pensiero simbolico e pensiero razionale. Sono movimenti socio-religiosi della Melanesia osservati per la prima volta da missionari e poi da antropologi (a servizio della colonia). I melanesiani subirono assai fortemente il giogo coloniale senza avere la possibilità di accedere in qualche modo alla modernità se non sotto forma di lavoro forzato. I movimenti del cargo avevano tutte le caratteristiche di un culto (fondati su credenze e miti e su un certo numero di rituali). Alcuni di questi culti erano incentrati sull’idea che i beni europei in realtà non appartenessero a questi ma fossero stati fabbricati dagli antenati dei Melanesiani ad uso dei loro discendenti; i bianchi li avevano spossessati dai loro legittimi proprietari. Al fine di ristabilire l’ordine delle cose viene messo in atto un insieme di rituali i cui tratti più rilevanti sono le invocazioni e le offerte agli spiriti degli antenati. Procedendo ad una lettura letterale gli antropologi subito imprigionarono i culti del cargo in una definizione strumentalista. Il cargo inteso come somma delle ricchezze europee era aspettato sulla banchina o pista d’atterraggio dopo l’invocazione agli antenati, e quindi interpretati come il desiderio dei Melanesiani di possedere i beni europei. Questa riduzione a sé dei culti del cargo operata dagli antropologi evidenzia la difficoltà per un osservatore esterno di separarsi dal proprio immaginario trasferendo sui melanesiani il nostro feticismo per le merci, in realtà lontana dai valori indigeni. In realtà la maggior parte dei culti non cita le merci, solo alcuni sotto forma metaforica, una metafora che sottolinea i rapporti di disuguaglianza tra bianchi e indigeni e il diritto morale di quest’ultimi di accedere all’uguaglianza e ai suoi vantaggi. La comprensione limitata della società europea e la loro ignoranza delle conoscenze teoriche e tecniche sono all’origine del pensiero magico, visto dagli antropologi come prelogico. Quindi in questa visione i culti del cargo appaiono come la manifestazione di una mentalità irrazionale in opposizione al pensiero razionale scientifico, e i Melanesiani some esseri radicalmente altri nel loro pensiero primitivo. In realtà ciò che predomina nell’analisi classiche è una concezione del pensiero simbolico e più in generale della religione descritti come pseudoscienza. I Melanesiani non venivano visti come degni della modernità e sfruttabili. In realtà la visione è etnocentrica e limitata perché non riesce a spiegare la permanenza di questi movimenti. Un’altra lettura incentrata sull’esperienza simbolica del mito e non strumentale. Quindi i culti del cargo non appaiono più come tentativi maldestri di imitare i comportamenti europei e riprodurre magicamente le loro ricchezze ma come una forza di contestazione e di mobilitazione, un modo di riappropriarsi e controllare il loro destino all’interno di un sistema dominato dai bianchi. Capitolo V: antropologia e linguistica la ragione strutturale Il primo terreno d’ incontro: lingua e pensiero, lingua e cultura, lingua e società La discussione sui rapporti fra modi di pensiero e tipi di società può essere ampliata da una riflessione centrata sui rapporti fra lingua e pensiero, lingua e cultura, lingua e società. In questo dibattito, l’antropologia incontra la linguistica, la scienza de linguaggio. Il terreno d’incontro di queste due discipline è rappresentato dall’ interrogativo seguente: fra le due istanze della lingua e del pensiero (o della cultura) qual è la più determinante? Quale delle due determina primariamente l’altra? La Grammatica di Port Royal ha considerato il linguaggio come una successione di parole che seguono un ordine logico conforme all’espressione logica del pensiero. Questa concezione razionalista e universalista della lingua come rappresentazione del pensiero logico sarà poi presa e interpretata in chiave etnocentrica da Diderot per definire il francese la lingua con l’ordine più logico (l’ordine delle parole in francese corrisponderebbe perfettamente all’ordine naturale e logico delle idee e del pensiero). Nel XVII e XIX secolo, i grammatici comparativi tedeschi affermarono l’identità assoluta della lingua con lo spirito del popolo che la parla. L’antropologo linguista americano Sapir e Whorf danno la preminenza alla lingua sul pensiero e di conseguenza sulla cultura. Secondo questa ipotesi, il mondo esterno non è altro che caos senza l’intervento del sistema linguistico. Questo infatti organizza l’esperienza di un gruppo, ne modella le idee e ne guida l’attività mentale. L’ ambizione di Whorf è dimostrare che le categorie fondamentali del pensiero differiscono da una lingua all’altra e che la conoscenza che un gruppo ha del mondo è relativa alla sua lingua. L’antropologo britannico J. Goody mostra in una sua opera come l’uso ella scrittura, in opposizione al linguaggio orale, costituisca un fattore di costrizione sulla nostra maniera di pensare e di agire. Per esempio, la scrittura, in quanto supporto materiale che permette di inscrivere durevolmente le informazioni, è all’origine dello sviluppo della formalizzazione e della logica. È così che il passaggio dalla cultura orale a quella scritta si accompagna, tanto nelle società storiche che in quelle contemporanee, al rafforzamento delle procedure burocratiche e gerarchiche. Il secondo terreno d’incontro: il modello strutturale Il rapporto dell’antropologia con la linguistica si è manifestato anche nel modello strutturale che l’antropologia ha preso in prestito dalla linguistica. Levi Strauss il suo fondatore ha chiamato questa disciplina antropologia strutturale. La linguistica strumentale: la lingua come sistema La linguistica strumentale è nata agli inizi del 1900 e si presentava come una critica agli studi precedenti sul linguaggio (grammatica prescrittiva e filologia della grammatica comparata). La grammatica comparata collocava al centro delle sue preoccupazioni la ricerca di filiazioni linguistiche, lo stabilimento di corrispondenze tra lingue e la loro gerarchizzazione. Per la linguistica tradizionale le lingue sono tutte trasformazioni naturali, per eredità di una medesima lingua madre, conosciuta o no. Prima della scoperta de sanscrito, lingua a partire dalla quale verrà stabilita una filiazione comune a tutte le lingue indo europee, si pensava che l’insieme delle lingue del mondo provenisse dall’ebreo, considerato come la lingua originale. L’ antropologia strutturale: gli oggetti culturali come forma e struttura Levi-Strauss capì rapidamente l’importanza del contributo della linguistica strutturale sul piano del metodo e della spiegazione. Due sono i punti fondamentali:  Il senso e la funzione di un elemento culturale o di un’istituzione sociale non vanno più cercati in azzardate ricostruzioni storiche o in rapporto alla loro realtà fisica, psichica o sciale immediata, ma all’interno del sistema al quale questo elemento o questa istituzione appartengono; È la fase in cui si analizza, si sintetizza e si interpreta ciò che si osserva in una data cultura in rapporto alle conoscenze sulle altre società di cui si dispone e con le generalizzazioni teoriche che si sono costruite a partire da queste conoscenze. A questo livello, le sintesi analitiche si riferiscono generalmente ad una sola dimensione della realtà o un solo campo antropologico (es. parentela, economia, religione, politica, ecc.); inoltre non solo restano contenute in un campo specifico ma sono spesso circoscritte a una data regione o sotto-regione culturale. L’antropologia Costituisce il terzo livello, quello più generale in cui si tenta di definire le proprietà generali di tutta la vita sociale e culturale; quello in cui si riflette sulla natura delle logiche sociali che caratterizzano l’infrastruttura e la sovrastruttura, sulla natura e la diversità dei modi di pensiero, sulla natura del cambiamento sociale nella storia delle società. È anche il livello in cui si tenta di trarre delle spiegazioni teoriche molto generali che possano rendere conto degli universali dell’umanità e nel contempo delle espressioni particolari delle culture, problematiche che sono al centro dell’antropologia. Le generalizzazioni teoriche si compiono a partire dalla sistematica compilazione di un maggior numero di esempi e di casi concreti riportati nella letteratura etnologica. Levi-Strauss, ad esempio, ha formulato la sua analisi delle strutture elementari della parentela secondo un duplice movimento: fare il punto sullo stato delle teorie e delle spiegazioni precedenti, mettendone in luce tanto le acquisizioni quanto le insufficienze; e in un secondo tempo ha dato una spiegazione dei problemi rimasti irrisolti e ha integrato insieme i dati. Questo duplice lavoro lo ha condotto alla spiegazione strutturale della parentela, una spiegazione teorica che mette in luce la logica universale soggiacente a tutti questi fenomeni, offrendo al tempo stesso la possibilità di descrivere tutti i sistemi di parentela possibili, reali o fittizi. La diversità delle scuole teoriche in antropologia non è segno di debolezza o confusione ma, al contrario, indizio di dinamismo e di vitalità in rapporto alla complessità delle società delle istituzioni socio-culturali. L’orientamento che viene più spesso associato all’etnografia corrisponda ad un progetto che si dà come scopo principale l’inventario degli oggetti, dei costumi e delle tradizioni “esotiche” o “popolari”. La concezione museografiche si è evoluta e che si comincia a concepire un diverso approccio agli oggetti da mettere in mostra, inserendoli nel quadro di problematiche antropologiche sempre più precise e approfondite. Il termine etnologia invece continua a designare la vecchia tradizione rivolta verso l’inventario dei particolarismi e delle tradizioni in opposizione all’integrazione di questi oggetti in una riflessione più generale sulla modernità e universalità. L’antropologia ha avuto per molto tempo una concezione ristretta essenzialmente al suo oggetto: più che il metodo o la spiegazione a prevalere è stata la delimitazione dell’oggetto di indagine, ovvero la presa in considerazione dei “selvaggi” e “primitivi”, dei popoli insomma sul versante esotico cioè quelli non occidentali; nonché delle sopravvivenze e del folklore occidentali. Teoria alla base: i popoli studiati erano una fase arborea di quelli occidentali. Diversità di denominazioni e diversità delle tradizioni nazionali Le differenze di denominazioni non sono neutre, ma esprimono sensibilità nazionali differenti che si traducono in una diversità di procedimenti e di elaborazioni teoriche. Esse non sono indipendenti dal contesto culturale. Le più correnti nozioni della disciplina hanno assunto forma e consistenza all’interno delle diverse situazioni coloniali inaugurate dagli Europei. Bisogna prendere in considerazione i rapporti sociali e le dinamiche culturali e ideologiche all’interno delle metropoli; la natura dei sistemi sociali dei paesi colonizzati nei vari momenti della conquista; il tipo di dominio che ciascuna metropoli ha imposto alle proprie colonie. È lecito domandarsi perché gli spagnoli e i portoghesi, i primi colonialisti, non abbiano mai realmente condotto una riflessione di tipo antropologico. La tradizione spagnola Per cominciare si parte dal 1492: anno della scoperta di Cristoforo Colombo e anno della caduta di Granada e dell’espulsione degli ebrei. Questa eredità storica specifica (costruire un’identità spagnola in opposizione a quella degli infedeli) spiega verosimilmente perché gli Spagnoli ritenevano possibile un solo modello di società, concepibile una sola cultura, praticabile una sola religione, questo non li fece riflettere sul problema di una possibile inter- comprensione fra culture differenti. La conseguenza di tale atteggiamento fu in molti casi l’annientamento fisico delle popolazioni indigene, ma anche un forte movimento di meticciato fisico e culturale fra i conquistatori e gli autoctoni. Nelle loro colonie, gli spagnoli generalmente ricostituirono gli stessi rapporti sociali di tipo feudale della Spagna, di conseguenza la società creola americana ha in genere riprodotto le medesime strutture ideologiche della metropoli. Nell’America ispanica, gli indigeni erano considerati come i membri delle classi inferiori della società spagnola e come tali trattati nella gerarchia sociale locale Questo insieme di fattori spiega perché fino a tempi recenti la spagna non ha dimostrato grande interesse riguardo riflessioni di tipo antropologico. La tradizione britannica L’espansione coloniale fu motivata capitalismo di tipo mercantile e poi industriale. Problema di garantirsi l’appropriazione dei prodotti tropicali e controllare il commercio internazionale. Tali preoccupazioni si tradussero in un sistema politico pragmatico che consisteva nel lasciare al loro posto le strutture indigene, accontentandosi di governarle dall’esterno. L’Indirect Rule o governo indiretto sarà all’origine di una sistematica suddivisione dei territori controllati in unità ristrette ed autonome le une rispetto alle altre (etnie, tribù, chefferies, regni). Riprendendo o rimodellando le antiche suddivisioni locali, tale divisione amministrativa influenzò fortemente lo sviluppo dell’antropologia britannica fondata sua ricerca sul campo. Il modello della monografia venne inaugurata dall’opera di Malinowski, “Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922), in cui riproduce generalmente tali quali suddivisioni etniche e politiche effettuate dall’amministrazione coloniale. Nell’antropologia britannica il campo è identificato con l’etnia, la tribù, il villaggio senza che tali unità siano state mai seriamente discusse o preliminarmente definite. Suddivisione delle società in unità autonome e separate è all’origine del principio d’indagine totale di una cultura che deve pervenire ad abbozzare un quadro sintetico. La scuola britannica ha cosi sviluppato la nozione di cultura in quanto concetto globalizzante ritenuto atto a tradurre l’insieme coerente costituito, al livello di ciascuna società, dai rapporti ecologici ed economici, dalle strutture sociali e dalle istituzioni politiche e religiose. L’approccio monografico è all’origine dello sviluppo di numerose nozioni come es. quella di totalità o osservazione partecipante. Per trattare del cambiamento sociale, la scuola funzionalista, fedele alla definizione statica del proprio oggetto, sviluppa le nozioni di contatto di culture e di acculturazione e i loro corollari di adattamento e di disfunzione. In altri termini, il cambiamento sociale e culturale non è trattato se non sotto la forma di un cambiamento orientato, di un più o meno grande adattamento dei gruppi ristretti alla struttura dominante, ovvero alla società coloniale ed europea. Questi presupposti hanno poi dato i natali al Relativismo culturale. Dottrina che proclama che tutte le società sono diverse e tutte le diversità sono uguali, posizione che sottolinea il rifiuto di ogni approccio di tipo storico ed ogni tentativo di ricostruzione delle società in termini di evoluzione e gerarchia. La tradizione americana La colonizzazione britannica in questa zona si caratterizzò subito per il rifiuto di ogni cultura differente da quella anglosassone e questo atteggiamento persisterà malgrado l’atteggiamento professato di melting-pot. È nel contesto di questa separazione totale fra la società dominante e i vari popoli indiani, terminati o delimitati nelle riserve che si svilupparono i concetti di cultura e di tratto culturale, sfociato poi nella proclamazione dell’autonomia di ogni cultura. Sotto l’influenza di Franz Boas (tedesco) si sviluppa la scuola culturista, attorno a numerosi ricercatori come Benedict, Mead, Linton, Kardiner, ecc. Per questa corrente la cultura va concepita come la variabile primaria che struttura l’esistenza umana, va ricostruita essenzialmente mediante l’analisi e lo studio dei diversi modi di apprendimento e di socializzazione per i quali passa l’individuo: nozione di personalità di base. La scuola culturalista americana dà vita alla formulazione di un relativismo culturale più integrale di quello anglosassone. Un relativismo culturale assoluto la cui logica conseguenza è l’annullamento dello stesso progetto antropologico, poiché ogni tentativo di comparazione e generalizzazione fra le società appare come non pertinente o almeno prematuro. La tradizione francese Il modello di amministrazione dell’impero coloniale francese fu direttamente ispirato dal sistema politico centralizzato della metropoli. L’intervento dell’autorità coloniale negli affari indigeni costituiva la regola. I Francesi tenteranno di sostituire le strutture locali con delle strutture ricalcate su quelle in vigore in Francia. In nome dei valori universali di uguaglianza, libertà e progresso ereditati dalla rivoluzione del 1789, il colonialismo francese si è definito come assimilatore delle culture e dei popoli altri, ma malgrado ciò gli “altri” non sono mai diventati i “noi”. In questo contesto politico-ideologico i francesi cercheranno di individuare e isolare le culture indigene al fine di sostituire con delle nuove per rimpiazzarle. È così che le prime inchieste sul campo furono intraprese direttamente dall’amministrazione militare poi civile. Osservando e raccogliendo info esse dovevano permettere alle autorità di meglio garantirsi il controllo dei territori conquistati e di introdurvi le riforme desiderate. Es. nell’Africa del nord, le ricerche di tipo preistorico, storico ed etnografico corrispondevano spesso alla preoccupazione di giustificare la presenza francese: questo tipo di preoccupazioni farà sì che l’etnologia francese sarà incentrata più sulla ricerca dei “principi” della vita sociale che non sul concreto funzionamento di queste società. In Francia esiste però un’altra ispirazione della disciplina che attinge alla tradizione della scuola sociologica fondata da Durkheim alla fine dell’Ottocento. Per lungo tempo gran parte dell’antropologia viene condotta “a tavolino” a studiosi che non avevano esperienza pratica sul campo (Durkheim, Mauss, Levy-Bruhl e Levi-Strauss..). le direzioni sviluppate erano segnate prevalentemente da un marcato interesse per le strutture sociali e le logiche che le sottendono e per i sistemi di rappresentazioni e di credenze. Sviluppo di nozioni di struttura, funzione, fatto sociale totale, modello strutturale, rappresentazione collettiva, mentalità primitiva, visione del mondo e di inconscio strutturale. I due paesi che non hanno conosciuto imperi coloniali: Germania e Italia anche svilupparono un’antropologia. La tradizione tedesca i costituì da subito in Volkskunde, che tratta della cultura germanica e Volkerkunde che tratta delle culture esotiche. Essa si interesserà principalmente alla ricostruzione della civiltà “originaria” ed alle sue forme di evoluzione, oltre che all’ analisi dello “spirito” di una cultura. La tradizione italiana si è anch’essa scissa in studi folkloristici verso le società rurali della penisola e un’etnologia esotica imperniata sulle ricerche sul campo, soprattutto in Africa orientale dove l’Italia ha posseduto qualche effimera colonia. Capitolo II: perché una storia del pensiero antropologico? Unità storica del progetto antropologico? Il rapporto unità-diversità è stato pensato diversamente a seconda delle scuole. La maggior parte di esse ha privilegiato un aspetto (l’unità o la diversità) a scapito dell’altro; soltanto alcune hanno considerato simultaneamente le due dimensioni. Le teorie evoluzioniste mettono l’accento sulle analogie a scapito delle differenze, esaltando le nozioni di storia e di progresso per pensare la storia dell’umanità in termini di evoluzione lineare o per stadi. L’umanità è considerata come fondamentalmente una e le diversità come manifestazioni congiunturali e storiche destinate a scomparire e a fondersi nell’universale, generalmente rappresentato dallo stadio storico e culturale raggiunto dall’occidente. La scuola culturalista americana, al contrario, mette l’accento sulla diversità sviluppando le nozioni di tratto culturale e di personalità di base per trattare ogni cultura nella sua specificità. Le diverse alterità appaiono come entità irriducibili, l’unità del genere umano risiede in questa capacità delle società umane di differenziarsi culturalmente all’infinito. La scuola funzionalista britannica cercherà di temperare questo relativismo assoluto. Pur insistendo sull’idea che ogni cultura è diversa sottolinea anche la possibilità dell’incontro fra culture e la possibilità per l’antropologo di compararle. Il procedimento comparativo dell’antropologia strutturale di Levi-Strauss consiste nel rapportare le singolarità delle culture osservate a dei principi universali soggiacenti mentre il riferimento all’universale consente a sua volte di chiarire in maniera profonda le proprietà di un particolare sistema, ad esempio la spiegazione della proibizione dell’incesto in cui a partire dai contenuti differenti che questa regola assume a seconda della società Levi-Strauss arriva ad astrarne una regola universale, quella della reciprocità, che a sua volta rende conto delle diverse concrete attualizzazioni della regola della proibizione dell’incesto. Unità storica dello sguardo antropologico? L’unità della disciplina si manifesta anche a livello del tipo di sguardo che caratterizza l’antropologo. Questo sguardo è esterno per definizione, essendo quello di un osservatore esterno alla cultura in cui lavora. Ed è stato considerato per lungo tempo il tratto originale della disciplina. Il decentramento garantito dallo sguardo esterno associato all’osservazione partecipante si ritiene fondi una certa obiettività del procedimento antropologico. Tuttavia, il rapporto dell’antropologo col suo terreno di ricerca è storicamente e praticamente più complesso e sono possibili diverse posizioni del ricercatore:  la posizione più corrente consiste nell’ammettere che il rapporto con l’altro è essenzialmente un processo di conoscenza un rapporto empirico oggettivo che favorisce l’efficacia scientifica. Questa posizione si fonda su un induttivismo ingenuo che crede alla neutralità dei metodi;  all’inverso una posizione estrema adottata dai sostenitori della critica dell’etnocidio, sviluppatosi negli anni ‘60, ritiene che rapporto dell’antropologo con l’altro sia per essenza rapporto di alienazione, un rapporto di violenza esercitato sull’altro. Per attenuare gli effetti di questo squilibrio coloro che aderiscono a questa posizione propongono l’identificazione totale del ricercatore con le popolazioni presso cui lavora oppure il puro e semplice abbandono della relazione;  Una terza posizione consiste nell’ammettere che il rapporto dell’antropologo con l’altro è un problema teorico. L’antropologo deve integrare nella costruzione dei suoi oggetti intellettuali e nel quadro delle sue analisi il rapporto del ricercatore col campo cioè tanto le sue proprie determinazioni istituzionali, politiche, teoriche, personali quanto quelli del gruppo presso cui lavora si tratta di associare l’insieme di questi fattori con l’esigenza di una rigorosa riflessione scientifica. La storia dell’antropologia come antropologia culturale dell’occidente sintetica della vita sociale. I livelli descrittivi presi in considerazione dai masalik ricordano le sequenze assunte dalle monografie di campo nella descrizione delle società. Esempi di antecedenti che hanno anticipato alcune teorie degli antropologi es. Ibn Haldun e Durkheim. Capitolo V: il Rinascimento in Europa. Scoperte decentramenti e descrizioni dell’alterità. Il Rinascimento in Europa soprattutto verso la fine del XV secolo costituisce per l’occidente un periodo di sconvolgimenti e di rotture che inaugura un nuovo umanesimo. I vecchi assetti intellettuali e i vecchi quadri geografici si inclinano sotto l’effetto di vari fattori: la scoperta di mondi e di popoli nuovi l’America e l’Asia; la riscoperta dei classici dell’antichità soprattutto grazie alla mediazione araba; la rivoluzione cosmogonica (Copernico Galileo) che rovescia la rappresentazione dell’universo. La scoperta di nuove umanità non produsse né una positiva presa di coscienza della diversità umana né la costituzione di un sapere oggettivo sulla variabilità dell’uomo del mondo. Al contrario, i documenti e le descrizioni raccolti sul posto sono sistematicamente mescolati ad elementi leggendari impregnate di fantasmi e di a priori religiosi: tema teratologico ereditato dall’immaginario medievale. Pensiero teologico e interpretazione mitica dell’altro Durante il periodo compreso fra la scoperta dell’America e la fine del XVI secolo la riflessione sull’altro si sviluppò nel quadro del pensiero teologico. Per rispondere al problema del popolamento regionale dell’America la spiegazione più consueta fu quella di collegare gli amerindi alle supposte migrazione successive attraverso il mondo delle tribù perdute di Israele di cui parla la Bibbia. Allo stesso modo, le differenze constatate fra i gruppi umani dei diversi continenti furono portate ad un unico albero genealogico, quello che figura nel libro della Genesi rappresentato dalla discendenza di Noè. Gli europei sarebbero discesi da Jafet, gli asiatici da Sam e gli africani da Cam. Il pensiero teologico a partire dal quale gli europei interpretavano le altre culture non differiva il nulla dei pensieri mitologici delle numerose popolazioni che incontravano sul loro cammino. La conquista dell’America e la questione dell’altro Todorov: la conquista dell’America da parte degli spagnoli e il conflitto che ne derivò è un esempio di incapacità di una civiltà conquistatrice di percepire l’altro in quanto uomo tout court. Oviedo arriva a considerare gli indiani come degli oggetti inanimati. Questa superiorità nella maggior parte dei casi ha avuto come esito la sua distruzione fisica (genocidio) o la volontà di imporgli i propri valori (etnocidio). Cortes promulgava una certa riduzione degli altri al sé; lui non si occupava di considerazioni teologiche o metafisiche, il suo obiettivo era conquistare un impero e garantisti un ruolo sociale e ricchezze. Cortes rivolse effettivamente attenzioni agli indigeni: conoscere meglio per possedere meglio. Anche le attenzioni positive erano viziate: es. Bartolomeo de Las Casas difendeva gli interessi indigeni solo perché riteneva che essi potessero ancora accedere all’umanità per tramite del cristianesimo. L’alterità come pretesto: il fondamento di utopie e di miti moderni Nel corso dei secoli XVI e XVII sotto l’effetto della moltiplicazione delle chiese delle eresie l’Europa attraversò una grande crisi ideologica, più precisamente una crisi di centralità del pensiero teologico. In effetti diventava sempre più difficile trovare risposte nei problemi nel quadro del suo dogma Cristiano. L’ attenzione rivolta agli altri costituisce solo un pretesto per discutere della propria società, talvolta non si esita a favoleggiare sull’altro con lo scopo di difendere il proprio. Per esempio nel XVI secolo si vide la nascita di numerosi miti intorno al Selvaggio, miti che non hanno più abbandonato l’immaginario occidentale, tra questi il più celebre è quello del buon selvaggio, attraverso quest’ultimo personaggi come Montaigne e Russeau hanno messo in discussione la civiltà occidentale. Età dell’oro, Eldorado, che idealizza lo stato di natura e la società selvaggia. Tuttavia, questa immagine del buon Selvaggio al tempo stesso valorizzante mitica non fu l’unica ad occupare l’immaginario occidentale, infatti nel XVIII e XIX secolo si aggiungerà il rovesciamento negativo, il “cattivo Selvaggio”, buono solo a sottomettersi e a confermare la superiorità dell’occidente. Svalorizzazione del “nero” che aveva radici nella Bibbia. Quest’ultime cederanno progressivamente il posto all’argomento naturalistico. Nella scienza del XIX secolo l’inferiorità del nero appariva inscritta nella sua natura fisica. Elaborando una gerarchia umana in termini di razze. La scienza del secolo scorso classificò i neri in prossimità dei nostri progenitori, i primati identificandoli così come il gradino zero nell’evoluzione umana in cui l’uomo bianco rappresenterebbe l’apice. Alterità e categorie descrittive La letteratura dei racconti di viaggio pone un problema importante all’antropologia. L’antropologo e lo storico del pensiero antropologico hanno spesso provato a discernere il vero dal falso nelle descrizioni riportate da generazioni di viaggiatori. Il viaggiatore-scrittore non è il padrone assoluto della propria osservazione le sue relazioni sono fortemente selettive, lacunose e arbitrarie. L’antropologo deve considerare i racconti e le descrizioni in quanto testimonianze che occorre collocare nel quadro storico e socio-culturale in cui sono state prodotte. Capitolo VI: Il secolo dei Lumi, il buon selvaggio e la critica interna dell’Occidente Decentramento intellettuali e filosofia dei lumi XVIII secolo: nuova era intellettuale che anche se non vedrà nascere l’antropologia creerà comunque le condizioni del suo sviluppo. Fu all’origina infatti di tutta una serie di prese di distanza della cultura europea rispetto alle diverse tradizioni che l’avevano preceduta. Questo processò prefigurò la comparsa di un pensiero “decentrato” che darà vita al pensiero antropologico propriamente detto. Forme di decentramento:  Pensiero anti-teologico preparò il campo ad una riflessione decentrata sull’uomo e sulla sua cultura;  Idea di una storia evolutiva dell’umanità a scapito dell’idea di creazione immutabile;  Relatività e dimensione storica delle culture. L’effetto primario però fu quello di accelerare un discorso di critica interna dell’Occidente piuttosto che una riflessione antropologica. Il riferimento sugli usi e costumi esotici dei popoli altri furono dunque nel ‘700 uno dei mezzi della critica sociale e della filosofia politica. In Rousseau, il caraibico e l’irochese sono utilizzati per costruire lo stato di natura, per sistematizzare l’origine del contratto sociale e dell’uguaglianza fra gli uomini e per mettere in evidenza lo sviluppo delle Scienze delle Arti. Il selvaggio e la critica interna all’ occidente Il Secolo dei lumi si impadronì del selvaggio per comprendere e criticare sé stesso. È per questo che sin dall’inizio si misero in scena diverse immagini: Il buon Selvaggio e il cattivo, il selvaggio del filosofo, quello del missionario, quello del guerriero. L’altro era sia un buon selvaggio in quanto preservato dalla corruzione della civiltà grazie alle sue qualità naturali, sia un cattivo selvaggio, in quanto immerso nella miseria e nella depravazione a causa della sua ignoranza e pigrizia. Tuttavia, a predominare nel ‘700 è l’immagine positiva del selvaggio. Un buon selvaggio che spinge la sua saggezza fino a tenere il discorso filosofico degli intellettuali dell’epoca, in particolare allorché si tratta di denunciare le ingiustizie o la sordità di certe istituzioni come la monarchia assoluta, la proprietà privata, la coercizione dei costumi o il dominio della chiesa. Comunque questa visione manichea non è perduta completamente nella riflessione antropologica successiva, è comunque difficile liberarsi dei presupposti ideologici ambientali. Man mano che l’ideologia del progresso diventerà legittima e visione del mondo e che si imporranno le spiegazioni deterministiche che muovono da fattori materiali, l’immagine del cattivo selvaggio, che vive in un ambiente ostile e in una natura non domesticata, diventerà la presentazione dominante nell’altro. Questo rovesciamento nelle rappresentazioni del selvaggio è strettamente legato alla trasformazione dei rapporti che l’uomo intrattiene con la natura (prima adulata per la sua innocenza, e poi odiata perché forza ostile e dispotica che l’uomo deve dominare). Il 700 e il progetto antropologico: la critica di sé come premessa allo sguardo rivolto lontano L’acquisizione intellettuale del XVIII secolo che posero le basi per lo sviluppo delle scienze dell’uomo possono sinteticamente essere rapportate ai seguenti elementi:  L’emergere e l’affermarsi dell’idea di evoluzione di relatività storica. Si comincia a cercare di ripercorrere le tappe essenziali della storia umana, nel quadro in uno schema lineare di evoluzione;  Parallelamente, si assiste a movimento che tenda collocare l’uomo in una sistematica genealogica che lo apparenta all’ordine naturale (classificazioni di Linneo, opere di Buffon);  Sul piano della riflessione propriamente filosofica il ‘700 ha in parte affrontato ed esplicitato essenzialmente attraverso l’opera di Jean Jacques Rousseau problematiche fondamentali dell’antropologia moderna come quella del decentramento; bisogna anzitutto osservare le differenze per scoprire le proprietà. Due secoli più tardi, questo passaggio farà dire Lévi-Strauss che Rousseau ha fondato l’antropologia. Capitolo VII: idee evoluzioniste e rapporti di dominio nel XIX secolo. Le condizioni per l’emergere del sapere antropologico moderno Gli elementi di un nuovo paradigma Diversi elementi hanno contribuito a realizzare questa tappa rovesciando profondamente le mentalità e i modi di pensiero:  La nascita, sulla scia del secolo dei lumi di un nuovo concetto di uomo. Esso si concepisce ormai come un oggetto sociale, come l’autore di una storia, come fonte di valori, come produttore di ricchezze e infine come il frutto di una educazione. L’uomo scende dal piedistallo;  Due eventi fondamentali sono all’origine di questa nuova concezione dell’uomo: la rivoluzione industriale nata in Inghilterra e la rivoluzione politica francese che consentono agli uomini di scoprire che possono essere gli agenti della trasformazione del mondo. Misurare l’uomo nelle sue nuove funzioni sociali ed economiche diveniva necessità pratica e al tempo stesso un’esigenza intellettuale. Peraltro, in una situazione in cui particolarismi locali andavano a sciogliersi nell’uniformità della società industriale e l’altro, sradicato dalla campagna è immerso in anonima città, diventava ormai il medesimo, era normale che la questione della conservazione, della distruzione dell’evoluzione delle società si trasformasse in ricerca scientifica;  Viene scoperta la parentela fra il sanscrito, l’antica lingua sacra dell’India e il greco e latino, teorie su un’ipotetica parentela indoeuropea che a partire da una base linguistica arriva a riflessioni socio-culturali;  Nel 1836 fu scoperta un’ascia di pietra risalente al Pleistocene e questo era la prova che l’uomo fu contemporaneo di mammiferi scomparsi da migliaia di anni e questo fu il punto di partenza della concezione scientifica dell’evoluzionismo. Si cercherà di collocare la specie umana fra le altre specie animali delle quali si cominciavano a scoprire parallelamente i principi di evoluzione. Nel 1859 comincia l’epoca in cui scienziati come Pierre Broca, fondatore della Società di Antropologia di Parigi, cominciano a concepire l’antropologia come una scienza di sintesi tutte le ricerche concernenti la paleontologia, la preistoria, la linguistica, l’etnografia. Il 1859 è l’anno che segna il periodo in cui la riflessione dell’uomo, sulla società e sulla sua evoluzione diviene interamente oggetto di scienza. È l’influenza delle idee evoluzioniste che ha realmente deciso la nascita dell’antropologia nel XIX secolo, per la buona e semplice ragione che queste idee hanno introdotto una prospettiva coerente o un principio di ordine nel caos fino ad allora costituito dai materiali raccolti dai viaggiatori dai cronisti dei secoli passati. Le idee evoluzioniste Fra idrologia e scienze Le idee evoluzioniste impregnano profondamente tutti gli ambienti dotti della seconda metà del XIX secolo. Autori importanti di questa corrente sono Spencer e Darwin, che hanno segnato la riflessione antropologica e sociologica di quest’epoca. Spencer nel 1876 pubblica il saggio principi di sociologia. Per spiegare la dinamica della società l’autore si ispirò direttamente alla biologia e postulò che l’evoluzione sociale poteva essere assimilata all’evoluzione organica. Alla legge dell’eredità dei caratteri acquisiti presa in prestito alla biologia Spencer aggiunge un’altra legge, quella di un progresso continuo e inarrestabile che farebbe passare le società da uno stadio primitivo caratterizzato da una struttura omogenea e semplice, a stadi sempre più complessi marcati da una crescente eterogeneità. Una legge del progresso su cui Spencer fonda l’evoluzionismo sociale chiamato poi impropriamente darwinismo sociale. Darwin nel 1859 pubblicò L’origine delle specie, segnando l’avvento di una innovazione. Si distingue da Spencer perché cerca di sottomettere sistematicamente alla valutazione critica dei fatti l’ipotesi della selezione, ipotesi che gli aveva elaborato a partire dalle osservazioni compiute durante il suo viaggio nei mari australi. Nella sua opera si impegna dimostrare sulla base di rigorose comparazioni genetiche unità fisica delle specie. Ricollocando l’uomo nella natura, e dimostra che anche esso è soggetto, al pari degli altri organismi viventi, alle leggi della selezione naturale. Il suo principale rapporto alle nascenti scienze dell’uomo fu quello di ricercare la causa di un fenomeno nel campo stesso in cui questo fenomeno si manifesta, principio che sarà successivamente esplicitato da Emile Durkheim. L’evoluzionismo come contenuto e l’evoluzionismo come metodo: l’esempio di Lewis Morgan. Lewis Morgan potrebbe essere considerato come il primo vero antropologo che mise in pratica l’evoluzionismo come contenuto e metodo. Egli fu il primo ricercatore che passò un gran numero di anni a raccogliere dati direttamente sul campo e a valutare le sue ipotesi mediante frequenti ritorni presso i suoi ospiti, gli indiani dell’America del nord. Inoltre, sulla base di questi documenti Morgan si propose di ricostruire la storia dell’evoluzione dell’umanità. Egli stabilisce una sequenza di tre stadi o periodi (la selvatichezza, la barbarie e la civiltà) per descrivere l’evoluzione dell’umanità. Lo schema evolutivo di Morgan può essere considerato come un quadro teorico, la cui funzione principale è quella di organizzare secondo una certa coerenza il caos dei dati sparsi accumulatesi fino ad allora e di permettere di pensare, in una maniera logica la storia dell’umanità. Questo approccio metodologico Morgan lo mette in opera nell’analisi sistematica da lui intrapresa dei fenomeni di parentela, di matrimonio e di famiglia. Malinowski fu in primis un ricercatore sul campo ma scrisse anche parecchi saggi in cui si occupa esplicitamente di teoria. I contributi teorici più interessanti descrivono il principio di reciprocità, regola d’oro di ogni vita sociale. Questo principio di reciprocità, Malinowsku lo scopre a tutti i livelli ma soprattutto a quello economico. Malinowski rifiuta il carattere pre-economico e le teorie di economia di sussistenza e rileva e rivaluta la complessità dell’economia presso le società primitive. Constata l’esistenza di strutture elaborate per organizzare la produzione, lo scambio e il consumo dei beni. Per Malinowski che si tratti beni o di donne, si dona per ricevere. Questa prospettiva annuncia gli sviluppi ulteriori, ad opera di Levi-Strauss della nozione di reciprocità, che l’antropologo francese ha posto come regola fondamentale tutti i modi di comunicazione sociale. Inoltre, Malinoski mostra che la motivazione puramente economica è assente presso i popoli selvaggi, nella società primitiva infatti la motivazione economica non si distingue da motivazioni di ordine sociale come il prestigio, la distinzione, l’alleanza o il potere. L’economia non costituisce una sfera indipendente dagli altri aspetti della vita sociale, culturale, religiosa e tecnica. In tal modo Malinowski viene visto come l’iniziatore dell’antropologia economica. L’iperfunzionalismo di Malinowski: circolarità, teleologismo e strumentalismo Fu comunque un “teorico scadente” via Levi-Strauss, evidente anche nel tentativo di definizione che diede di cultura come risposta organizzata della società ai bisogni fondamentali o culturali. Questa definizione poggia su presupposti utilitaristici e organistici dei bisogni delle funzioni. Ponendo il principio che ogni elemento culturale deve la propria esistenza al fatto che risponde a un bisogno, Malinowski afferma l’unità della forma e della funzione. La produzione di un oggetto così come la forma che assume sono sempre determinati dal suo impiego, cioè dalla soddisfazione di un bisogno biologico primario o di bisogno culturale derivato. In effetti la cultura risponde a un adattamento necessario dell’uomo alle condizioni che gli vengono imposte sia dalla sua propria natura che dal suo ambiente. Questo adattamento si realizza mediante la soddisfazione di una duplice categoria di bisogni: biologici o elementari da una parte e secondari o sociologici dall’altra. Malinoski inoltre assegna alle diverse istituzioni sociali la rigida funzione o ruolo di soddisfare questi bisogni fondamentali. Per esempio, l’istituzione del rito assolverà per i partecipanti la funzione di integrazione sociale, quella della magia la funzione di controllo sociale. La cultura appare così come un assemblaggio di istituzioni il cui funzionamento corrisponde sempre alla soddisfazione di un bisogno. La soddisfazione dei bisogni fondamentali è una necessità universale per ogni forma di vita, e non soltanto della vita sociale. Questo approccio in realtà non spiega niente se non il fatto che la soffisfazione dei bisogni fondamentali è effettivamente una necessità universale. Questi bisogni fondamentali che sono probabilmente ovunque gli stessi non possono mai spiegare le differenze che si riscontrano fra le istituzioni socio-culturali delle diverse società. Il ragionamento di Malinowski è interamente teleologico perché attribuisce ad ogni istituzione e più in generale alla cultura un’intenzionalità sociologica. La visione della società come una struttura armoniosa in cui ciascun elemento adempie a una funzione precisa, in cui sono fondamentali le nozioni di equilibrio di adattamento è all’origine dell’incapacità, da parte del funzionalismo, di prendere in considerazione il cambiamento sociale a livello delle società dette primitive, è dell’idea che queste società siano società senza storia. I funzionalisti spiegheranno sempre tutto in termini di “ragione d’essere” e si baseranno su nozioni come funzionale o disfunzionale. Quindi non sono capaci di cogliere la dimensione dinamica nel senso del cambiamento sociale. Il cambiamento non può non provenire dall’esterno, per loro. La conseguenza: legittimazione dell’indirect rule e di nozioni come l’acculturamento. La monografia di campo come normale scienza antropologica: descrizione e retorica dello sguardo. Il contributo sia metodologico e teorico di Malinoski fu determinante per il pensiero antropologico. Lo stretto adeguamento che il funzionalismo realizza fra le procedure di ricerca sul campo (l’osservazione partecipante, l’indagine totale) e le ipotesi teoriche che avanza sulla società (sistema chiuso, isola culturale, armonia, equilibrio) ha imposto un nuovo stile di lavoro e di produzione scientifica. Lavorare in presenza dell’oggetto di studio trasforma lo stesso oggetto in studio in un presente etnografico privato di ogni consistenza storica e di ogni determinazione esterna, in un dato pronto per essere analizzato da un osservatore esterno neutro e ben preparato. Nasce un nuovo genere letterario, la monografia, essa deve rappresentare ciò che è una società in quanto entità in sé e si basa su una pura descrizione di situazioni ben delimitate temporalmente e spazialmente. Nelle monografie si passa progressivamente dalla periferia al centro di una cultura, dall’oggettivo al soggettivo, dalle condizioni materiali della società alle espressioni del senso della cultura. I funzionalisti pensavano che il disporre di diverse monografie prodotte sulle stesse basi avrebbe condotto alla comparazione e dalla generalizzazione di tipo teorico. Ora, su questo piano le monografie sono del tutto deludenti. In generale, esse costituiscono altrettante costellazioni autonome quante sono le società che descrivono. In conclusione, dopo la prima fondamentale tappa dell’evoluzionismo, il funzionalismo la presentò in qualche modo il primo corso del consolidamento dell’antropologia, l’altra tappa essendo rappresentata dallo strutturalismo di Levi- Strauss. Capitolo X: Levi-Strauss e l’antropologia strutturale. Un pensiero all’opera Per parlare dell’antropologia strutturale occorre disegnare la genealogia intellettuale del pensiero di Claude Levi Strauss, il suo fondatore. Bisogna considerare quattro direzioni: le interrogazioni di Levi-Strauss in rapporto alle problematiche e alle teorie che l’hanno preceduto (Malinowski, Radcliffe-Brown), le fonti della sua ispirazione filosofica (Kant, Rousseau) e sociologica (Durckheim, Mauss) infine il modello della fonologia strutturale che all’origine dell’antropologia strutturale. La critica all’ induttivismo e all’empirismo dell’antropologia britannica Lévi-Strauss fu il più severo dei critici di Malinowski. Secondo lui, l’unità funzionale della società postulata dall’antropologo britannico non è assolutamente verificabile. Levi Strauss critica inoltre l’eccessivo empirismo di Malinowski che risulta dalla sua concezione organicista della società. Concepire, come fa la scuola anglosassone, la tecnologia sotto la forma di una descrizione esaustiva di diversità chiuse in sé stesse rende impossibile ogni comparativismo. Levi-Strauss procede attraverso una critica all’uso che Radcliffe-Brown fa della nozione di struttura. Questi, come Malinowski, si preoccupò di individuare la coerenza interna della società, particolare che è oggetto dello sguardo dell’antropologo. Ma, al contrario del suo contemporaneo, si impegnò anche sulla strada di una più ampia riflessione su tipi generali di organizzazione familiare, sociale e politica, e perfino su quella della formulazione di leggi sociologiche generali, per questo viene considerato struttural-funzionalista. Secondo Levi-Strauss la nozione di struttura sociale in Radcliffe-Brown è profondamente di tipo biologistico; riconduce gli studi sulla parentela alla morfologia e alla fisiologia descrittive. Levi-Strauss critica la concezione empirista di Radcliffe-Brown che riduce la struttura sociale all’insieme delle relazioni sociali esistenti in una data società. Secondo Levi-Strauss il principio fondamentale è che la nozione di struttura sociale non si riferisce alla realtà empirica ma ai modelli costruiti in base ad essa. Così egli si colloca subito al di là del pragmatismo e dell’imperialismo degli antropologi britannici, a livello della costruzione dei modelli della realtà e della logica delle strutture. Natura e cultura, forma è contenuto: La lettura di Rousseau da parte di Levi Strauss “Le strutture elementari della parentela” (1949) si apre con la questione dell’opposizione fra cultura e natura. Si tratta dell’opposizione fra la legge (naturale) e la regola (istituita), fra l’eredità biologica e la tradizione culturale. Per Levi- Strauss tale posizione non ha un significato storico ma un valore di metodo. Non v’è passaggio progressivo dalla natura alla cultura. Nell’uomo, l’una e l’altra si articolano simultaneamente in modo tale che l’opposizione fra due istanze appaia essa stessa una creazione della cultura. In effetti se tutte le società umane esprimono questa posizione ciascuna lo fa secondo le proprie modalità e in termini specifici. Per Levi-Strauss la cultura si afferma con l’emergere della regola, della struttura, nei fatti della natura. L’uomo si afferma immediatamente nella cultura. Per esempio, nel campo della sessualità inventa il matrimonio, le cui regole non sono fondate in natura e variano considerevolmente a seconda delle società. Levi-Strauss viene ispirato da un’opera di Jean-Jacques Rousseau in cui pone esplicitamente il problema dei rapporti fra natura e cultura. Rousseau definisce l’uomo per la sua qualità di agente libero e non per una qualsivoglia necessità biologica che l’avrebbe progressivamente condotto dalla natura alla cultura. Lo sguardo da lontano: Rousseau e il metodo dell’antropologia Levi-Strauss è debitore a Rousseau anche per ciò che riguarda una questione fondamentale all’origine del procedimento antropologico: come riconciliare me stesso e l’altro, la mia società e le altre società, Come realizzare l’universale a partire dal singolare? L’antropologo francese insorge contro il relativismo culturale della scuola antropologica britannica che si accontenta di produrre altrettante monografie di società chiuse in sé stesse, in tal modo facendo dell’inventario delle diversità lo scopo ultimo dell’antropologia. Per lui, al contrario, le culture umane traggono significato dalla messa in prospettiva di questa diversità. Viene posto nuovamente l’accento sul metodo. Ormai si tratta di prendere le distanze rispetto ai sistemi particolari. Dopo averli analizzati minuziosamente, occorre contemplarli con uno sguardo da lontano per individuarne le proprietà, procedimento utilizzato anche dallo stesso Rousseau. Per Levi-Strauss, è il rispetto di questa regola che consente di passare dall’etnografia, come descrizione di una società concreta, prodotto di una storia particolare, all’antropologia come tentativo di spiegazione di questa diversità di un livello più generale, più fondamentale, quello della determinazione universale. Il procedimento comparativo che è al principio del metodo strutturale, consiste nel risolvere la specificità di ogni cultura nell’universale. Logica universale spirito umano: l’ispirazione kantiana. Per l’antropologo francese, le istituzioni umane non sono, come in Durkheim o in Radcliffe-Brown, il riflesso di una meccanica o di una fisica del sociale, ma l’espressione delle costruzioni dello spirito umano. Per lui, si tratta di scoprire una rete di costruzioni particolari che rinviano ad un fondo comune all’umanità. Questo procedimento si avvicina a quello di Kant il quale postulò ugualmente una logica universale dello spirito umano. Il rapporto con Marcel Mauss: il fatto sociale totale è la spiegazione strutturale dello scambio. Sotto questo punto di vista, Levi-Strauss si colloca all’interno della tradizione sociologica francese inaugurata da Durkheim e Mauss. Quest’ultimo, va subito ai fatti concreti, li esamina nella loro totalità e nel minimo dettaglio per poi interpretarli nel quadro di un’ipotesi teorica. Nella sua opera, “Essai sur le Don”, Mauss mostra come, per raggiungere la comprensione delle istituzioni sociali culturali, sia necessario conoscere intimamente le società studiate e assimilare i materiali etnografici linguistici disponibili. Ne è una illustrazione la brillante analisi che Mauss fa del Potlach degli indiani della Costa nord-occidentale, descritto la Boas, e del kula dei Malanesiani, descritto da Malinowski. Questi fenomeni, apparentemente disparati ed eterogenei, hanno assunto senso a partire dal momento in cui Mauss li ha collocati nel quadro di una problematica teorica precisa: quella dello scambio. Importante è la nozione di “fatto sociale totale”, definizione che Mauss da del “tutto” che si avvicina alla nozione di struttura che va sviluppando Levi-Strauss. Quest’ultimo sostiene che il sociale non è reale se non integrato in un sistema, la sua costruzione presuppone un’esperienza individuale e, esso implica un sistema di interpretazione che renda conto simultaneamente degli aspetti fisici, fisiologici, psichici e sociologici di tutti i comportamenti. In altre parole, il fatto sociale totale non è la cumulazione arbitraria di dettagli ma l’espressione di un’esperienza. Lo scambio secondo Levi-Strauss non è la somma delle sue costituenti e invece una sintesi immediatamente data. La teoria dello scambio di Mouse coincide precisamente con il programma che Levi-Strauss si dà sin dall’inizio: spiegare in maniera strutturale il fenomeno della reciprocità e dello scambio individuato dal suo predecessore maestro, fenomeno che gli considera come l’istituzione fondamentale di ogni società, il cui significato e all’origine stessa del legame sociale. in questo senso l’impresa di Levi-Strauss non si limita all’analisi settoriale dei sistemi di parentela, dei sistemi mitologici e di altri sistemi simbolici. Al contrario, il suo progetto di analisi delle strutture interne arrivare ad inserire l’antropologia in una teoria generale della comunicazione. Lo strutturalismo in generale: soggetto e storia, senso forma Lévi-strauss, che fu il primo ad avere sistematicamente assunto il modello della fonologia strutturale in un ambito diverso dalla linguistica fu assai presto raggiunto da molti altri studiosi appartenenti a diversi ambiti disciplinari. Nelle loro rispettive ricerche tutti questi ricercatori si sono ispirati dal modello strutturale, tanto che da un certo momento si è potuto parlare di movimento strutturalista, includendo autori come Michel Focault (storia, filosofia della storia, storia delle scienze), Louis Althusser (filosofia marxista), Roland Barthes (critica letteraria e semiologia) e Jacques Lancan (psicoanalisi). Lo strutturalismo è in primo luogo un’attività intellettuale che separa il soggetto della scienza. Esso Elimina ogni finalità soggettiva o metafisica come dio, storia, la morale, l’uomo, per tentare di accedere alle sue forme. Per esempio, il sistema di una lingua naturale, risultato di una formalizzazione, si determina in virtù delle sue proprie leggi di organizzazione, senza che intervenga il soggetto. La critica del soggetto avanzata dallo strutturalismo implica una critica del senso. Il senso non è più nell’oggetto, non si confonde più con la essenza o la sostanza di questo oggetto, Ma esiste nel gioco di relazioni che questo intrattiene con altri oggetti. Caratteristiche strutturalismo: attività intellettuale che separa il soggetto dalla scienza. Esso elimina ogni finalità soggettiva o metafisica come Dio, la storia, la morale per tentare di accedere alle sue forme. Il senso non è più nell’oggetto ma esiste nel gioco di relazioni che questo intrattiene con gli altri. L’antropologia strutturale: sistemi di significazione e inconscio strutturale: il primo campo dell’antropologia strutturale, la parentela
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