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Dal Locale al Globale - Kilani, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Storia dell'antropologia culturale dal medioevo ad oggi.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 21/05/2020

claudia_burgi
claudia_burgi 🇮🇹

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Scarica Dal Locale al Globale - Kilani e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE. ANTROPOLOGIA. DAL LOCALE AL GLOBALE - KILANI. PARTE PRIMA: COS’E’ L’ANTROPOLOGIA? RIFLESSIONI SULL’ATTUALITA’ DI UNA SCIENZA SOCIALE. 1 CAP L’antropologia: scienza del tradizionale e/o dell’attuale? Per lungo tempo l’antropologia è stata la scienza delle società arcaiche, selvaggi ed esotiche per poi trasformarsi gradualmente in scienza delle società “primitive”, definite tali non per designare le società originali e imperfette che hanno preceduto la nostra ma per designare una serie di caratteristiche intrinseche che le renderebbero singolari in rapporto a tutte le altre società di tipo storico. Altrettante società sono state, invece, definite società “senza stato”, società “senza scrittura”, società “senza macchine” perché più egualitarie e libere rispetto alla società moderna e quindi necessariamente differenti in senso positivo. La tendenza attuale è quella di non cercare di rivendicare un termine preciso per designare il tipo di società a cui si rivolge la disciplina. Oggi si tende a negare all’antropologia un oggetto di studio unico e specifico, pertanto la stessa si definisce come la scienza delle diversità sociali e culturali e in modo generale come la scienza umana in società. Il progetto principale dell’antropologia è quello di pensare il rapporto tra l’unità e la diversità del genere umano. La disciplina pone al centro delle sue riflessioni le differenze per le quali le società e le culture si distinguono, dunque utilizza un metodo comparativo e contrastivo. Inoltre, il suo progetto consiste anche nell’articolare i rapporti fra locale e globale e nel pensare l’altro e il medesimo sotto gli aspetti più diversi. Il problema dello statuto dell’altro, della sua differenza e della sua somiglianza, che è al centro del progetto, non è stato risolto in maniera univoca dall’analisi antropologica. Questo problema si è posto in maniera più acuta con la fine del colonialismo quando lo stesso discorso antropologico è stato messo sotto accusa come discorso dell’Occidente. Successivamente la scomparsa delle alterità, che costituivano gli oggetti primari dell’antropologia, a causa di processi di modernizzazione, acculturazione e integrazione delle società tradizionali e primitive nei sistemi più uniformati ha provocato una crisi nella disciplina stessa e nel ruolo dell’antropologo o ricercatore. Questa rimessa in discussione ha provocato una crisi d’identità e una metamorfosi dell’alterità in quanto le immagini dell’altro sono state rese confuse. Oggi si assiste ad un’esasperazione del desiderio dell’altro che prende strade ingannevoli rispetto ad una riflessione critica e sistematica sull’alterità. La curiosità per l’altro corrisponde spesso a sogni di evasione più che a un tentativo di conoscenza. Questa crisi è ben evidente nell’ormai diffuso genere del racconto di viaggio che impone efficacemente un’immagine dell’altro ancora stereotipata caricaturale come se non fosse cambiato niente nel corso del tempo e le società e culture non si fossero evolute. In tal modo si attiva un meccanismo di distanziamento-decolpevolizzazione perché il lettore legge il testo e non si sente responsabile di ciò che gli altri hanno scritto e allo stesso tempo il genere del racconto esotico soddisfa la curiosità dell’altro senza la necessità di mettersi in discussione. La corrente di pensiero evoluzionistica ha reintrodotto nell’analisi antropologica lo schema evoluzionista dei tre stadi per i quali passerebbero le società, ossia selvatichezza, barbarie e civiltà, in senso rovesciato. Per gli esponenti di questa corrente, infatti, lo stadio selvaggio corrisponderebbe alla pienezza mentre la civiltà alla degradazione di uno stato. Se l’etnocentrismo classico accreditava all’uomo moderno tutte le qualità positive per poi paragonare l’insieme delle altre culture a questo modello, l’etnocentrismo rovesciato fa del “selvaggio”, ossia il primitivo, il criterio positivo a partire dal quale occorrerebbe analizzare la modernità. In questo modo è la società moderna ad essere marcata negativamente a causa dell’alienazione, le ineguaglianze e la perdita di senso mentre la società primitiva è esaltata perché incline alla libertà e all’uguaglianza. Anche in questa prospettiva rovesciata, però, l’altro non acquisisce un’esistenza se non in rapporto alle preoccupazioni dell’uomo moderno dunque viene comunque imprigionato seppur trasmettendo una sua immagine positiva. Per far fronte a queste trappole uno dei più importanti interrogativi dell’antropologia è la definizione dell’alterità. L’alterità non rappresenta un’essenza o una qualità intrinseca che certe popolazioni o certe culture hanno inscritta in se stesse. L categorizzazione dell’altro non ha a che fare con una definizione sostanziale e immutabile ma è inserita sempre in una relazione generalmente di dominazione-subordinazione. Dunque, le categorie o i gruppi che appaiono differenti lo sono in rapporto a una struttura dominante che li ingloba e con la quale intrattengono rapporti di separazione o opposizione. I termini dell’uno e dell’altro devono illuminarsi reciprocamente perché non deve esistere in uno dei due il criterio di valutazione dell’altro. Tuttavia, è certo che la relazione dialettica tra sé e l’altro non è semplice ed evidente. L’oggetto di studio dell’antropologia è dinamico e fa parte integrante della società globale. Pertanto, le zone marginali sono così definite solo in rapporto alla relazione maggioritaria e diventano oggetto di studio dell’antropologia perché servono a capire il funzionamento dell’intero sistema sociale nella sua globalità. Dunque, l’oggetto di studio è dialettico perché mette in relazione il locale e il globale, i gruppi ristretti e la società in cui sono inseriti e cerca di illuminare entrambi i livelli e l’insieme degli scambi e delle relazioni tra essi stessi. Questa attenzione dal locale al globale implica un metodo, un approccio e una finalità analitica: - Le unità sociali prese in considerazione sono ristrette erchè corrispondenti a piccole comunità in cui le relazioni sociali sono concrete e direttamente osservabili. Queste comunità sono comunue caratterizzate da una certa coerenza interna e coesione rispetto all’esterno (relazioni con gli altri gruppi e la società globale in cui sono inserite); - La scelta delle unità sociali non è mai arbitraria, in quanto il ricercatore seleziona quelle unità che si distinguono dalla società globale e traggono dunque da questa una certa autonomia e originalità. L’opposizione ai valori e le pratiche dominanti fa in modo che queste unità illuminino la totalità per contrasto; - Il metodo implica un’osservazione che parte dalle piccole unità sociali per definire le specificità locali ma anche le somiglianze o appartenenze alla società globale. In questo modo si ottiene un punto di vista critico e oggettivo della società globale; - L’antropologo assume una posizione di decentramento e di osservazione-partecipazione che gli permetterà di cogliere il sistema globale dal particolare al generale. L’antropologia, inoltre, è una disciplina della comparazione in quanto nel suo lavoro l’antropologo è continuamente messo a confronto con il gioco delle analogie e delle differenze fra le società e i gruppi con la dialettica dei sistemi. Il lavoro dell’antropologo implica per definizione comparazioni interculturali nello spazio e nel tempo fra le particolarità e i significati sociali che invece allevavano e consumavano il maiale. Dunque, a livello implicito, questa interdizione era un’affermazione dell’identità del gruppo, era anzitutto una regola culturale prima di essere una regola culinaria ed igienica. Un’analisi antropologica di un fatto sociale totale, inoltre, dovrebbe consistere da un lato in un’osservazione delle norme, opinioni, discorsi ad esso associati, e dall’altro lato in un’osservazione delle pratiche, comportamenti ed azioni con esso collegati. CAP 3 I campi di studio dell’antropologia. Situazioni e problemi. L’analisi della parentela è il filo conduttore e il campo fondatore dell’antropologia. Nelle società tradizionali i rapporti di parentela sono centrali e sono in grado di strutturare e informare tutta la società. Inoltre, nella società primitiva tutti i linguaggi sociali passano per la parentela, quali il linguaggio religioso, che passa attraverso gli antenati e le generazioni passate, oppure il linguaggio economico che si traduce in termini di lignaggio e di gruppo locale. Un altro campo di studio privilegiato è quello dell’antropologia della religione e dei sistemi di credenze. I tre stadi di magia, religione e scienza riprendono la triade selvatichezza, barbarie e civiltà ed influenzano fino ad oggi la riflessione sui rapporti fra religione e società, religione e scienza. Emile Durkheim considera la religione come un fatto sociale e allo stesso tempo come un fenomeno sociale totale perché è una cristallizzazione di comportamenti e istituzioni inerenti al livello economico, etico, politico e sociale. L’autore rimette in discussione la visione passiva e negativa della religione, vista semplicemente come oppio dei popoli e fuga dall’immaginario. Oggi gli interessi dell’antropologia religiosa si sono allargati allo studio dei sistemi di rappresentazione e dei sistemi simbolici, cioè allo studio dei processi che sono all’origine delle creazioni culturali. Si studia il concetto dell’efficacia dei simboli e dunque si cerca di cogliere la parte necessariamente simbolica di ogni realtà sociale. L’antropologia politica è stata fino a poco tempo fa il campo privilegiato dell’antropologia britannica. Questa riflette sulla diversità delle forme di organizzazione politica riscontrate nelle società tradizionali e più particolarmente in Africa. Gli studi hanno distinto fra società con lo stato e società senza stato, in quest’ultime l’organizzazione politica e la struttura della parentela sono generalmente inseparabili. Grazie alle opere di Mauss e Malinowski il campo economico non è più considerato autonomo ma completamente inserito nella totalità dei fenomeni sociali e culturali. L’antropologia economica nasce negli anni ’50 del secolo scorso. L’antropologia della significazione definisce i fenomeni economici come fenomeni sociali totali in quanto recano in sé un senso sociale, culturale e simbolico e si rappresentano come il campo di una significazione complessa che non si riduce alla sola dimensione utilitaria. Negli ultimi decenni gli antropologi si sono interessati ai problemi del cambiamento sociale e culturale. Le società di cui si occupavano infatti erano considerate società chiuse, statiche, senza storia e dunque senza cambiamento. L’antropologia del cambiamento sociale considera il sistema sociale come un’entità sempre in evoluzione ed insiste sull’ampiezza delle scelte e delle potenzialità di cui dispone ogni società e coglie l’intreccio fra tradizionale e moderno. Fino a tempi molto recenti l’antropologia d’ambiente europeo è stata soprattutto rurale, essendosi dedicata esclusivamente alla società tradizionale. Tuttavia, l’accelerazione dell’urbanizzazione in tutto il mondo, la nascita delle società industriali, l’accelerazione della modernità associata ad una nostalgia della città tradizionale, progetti finanziati da poteri pubblici o collettività locali, la salvaguardia dei patrimoni nazionali e regionali, nuovi spazi urbani e industriali hanno determinato la nascita dell’antropologia dell’ambiente urbano e dell’industria. Spesso è preferibile abbandonare il termine “antropologia urbana” perché troppo vago e impreciso per sostituirlo con altre designazioni che di volta in volta specifichino il campo o l’oggetto di studio cui viene applicato il procedimento antropologico. Pertanto, si parla di antropologia della città o di antropologia dell’ambiente industriale e tecnico (la cosiddetta antropologia o etnologia industriale, la quale si interessa ad ogni ambiente industriale che produce sapere tecnico, sapere sociale e suscita un’identificazione ad un determinato gruppo). PARTE SECONDA: L’ANTROPOLOGIA IN ISTUAZIONE. APPORTI E RAPPORTI CON LE ALTRE SCIENZE UMANE. CAP 2 Antropologia e storia. La ragione dell’altro. Fino agli anni ’50 del secolo scorso la storia e l’antropologia erano ancora delle discipline separate. L’oggetto di studio della prima era il passato storico europeo, mentre l’oggetto di studio dell’antropologia erano le società esotiche ritenute società senza storia e le civiltà tradizionali, caratterizzate da regimi storici diversi da quello delle società occidentali. Inoltre, la storia tentava di cogliere il senso cronologico degli eventi e l’evoluzione della storia tradizionale, mentre l’antropologia tentava di comprendere le strutture e la funzione delle istituzioni sociali nelle società caratterizzate dalla ripetizione e dalla permanenza. Tuttavia, a partire dagli anni ’60, si assiste ad un avvicinamento tra le due discipline causato da un loro rispettivo rinnovamento interno. Il rinnovamento dell’antropologia consisteva nell’abbandono dell’antica opposizione tra società primitive (dette società fredde e senza storia) e società complesse (dette società calde e con la storia), e nella scoperta o riscoperta della dimensione storica nello studio delle società sia nel presente che nel passato che ha portato alla nascita dell’antropologia del cambiamento sociale e dell’antropologia storica. Per quanto riguarda la storia, invece, il rinnovamento ha provocato dei cambiamenti nel compito di questa disciplina che è diventato quello di far emergere le strutture nascoste e i movimenti profondi che agitano le società; dunque, nell’analisi storica si inizia a prendere in considerazione anche la dimensione economica e sociale di un periodo storico. Ai nostri giorni, la storia, diventata scienza del cambiamento e delle logiche sociali, storia delle strutture e delle mentalità, studia gli oggetti tradizionali dell’antropologia come il mito, la morte, la sessualità, la parentela, le buone maniere a tavola, le tecniche del corpo, le reti di socialità, la festa, ecc, ispirandosi inoltre alle sue problematiche. Tra gli aspetti o problematiche in comuni tra l’antropologia e la storia compare il distanziamento, l’interesse per tutto ciò che è marginale e l’alterità. Sia lo storico che l’antropologo si pongono a distanza rispetto alla realtà storica o sociale studiata, in quanto si cerca di distaccarsi dalle proprie categorie e valori per meglio interpretare l’oggetto di studio. Lo storico e l’antropologo si interessano a tutti ciò che è marginale in una determinata realtà, in quanto non ci si focalizza più sulla realtà manifesta (discorsi e pratiche dominanti, ecc) quanto piuttosto sui dati apparentemente marginali per comprendere in maniera globale e profonda l’oggetto di studio. Inizialmente, in storia così come in antropologia il principio di spiegazione dominante era quello da se stesso all’altro, in quanto il passato o l’altro storico era osservato nello specchio del se stesso e dunque della società attuale. Così facendo si proiettavano le immagini, i problemi e gli ideali della società moderna nella società storica e si perdevano i significati e le specificità della società studiata. Dal momento in cui l’antropologo e lo storico iniziano a interessarsi e a considerare l’alterità come un’entità singola, automaticamente il tutto viene analizzato senza alcune proiezioni sulla società attuale. L’antropologia può apportare un contributo originale alla teoria della storia, in quanto non si ferma solo all’analisi delle molteplicità e diversità di regimi storici in società differenti ma osserva anche i rapporti tra storia e mito, storia ed evento, storia e struttura. Nella società contemporanea generalmente non si ha comprensione storica dei periodi antecedenti se non quando se ne sia compiuta una riattualizzazione nel presente (feste, riti). In questa prospettiva, non si tratta di identificarsi con il passato quanto, invece, di identificare il passato con se stessi. Nel rapporto con la storia di assiste spesso ad un’appropriazione-disappropriazione del passato, un’opera in cui l’evento è simbolicamente elaborato in funzione di una certa idea di storia. CAP 3 Antropologia e psicoanalisi. La ragione simbolica. Mentre la psicoanalisi si ferma all’espressione individuale psicologica, l’antropologia si concentra su quella collettiva. Tuttavia, per entrambe le discipline è sempre necessario passare dal livello individuale a quello collettivo nelle proprie analisi. Infatti, per l’antropologo e il sociologo l’individuo rappresenta l’interlocutore fondamentale, in quanto è attraverso lui che tentano di spiegare il collettivo e il sistema sociale; allo stesso modo, nella psicoanalisi, il sociale è già contenuto nella relazione che unisce il paziente al terapeuta, mentre l’inconscio costituisce innegabilmente un’istanza che ha a che fare con il sociale. Nonostante questo legame inscindibile, entrambe le discipline nutrono rapporti di divergenza su alcuni temi. In Totem e tabù Freud afferma un rapporto diretto tra storia individuale e storia dell’umanità, postulando dunque uno stretto legame tra psicoanalisi e antropologia. Infatti, la storia dell’umanità comincerebbe con l’uccisione del padre da parte dei figli nell’orda primitiva. La storia individuale ripete questa scena primaria secondo uno schema universale che prescinde dall’appartenenza culturale e storica del soggetto. Secondo la psicoanalisi, infatti, l’individuo, qualunque sia la sua origine il suo luogo di esistenza, rivive nella psiche la scena del parricidio; la ripetizione di questa scena porta al complesso di Edipo consistente in un desiderio incestuoso per la madre e nell’odio per il padre. Inoltre, Freud giunge ad una concezione evoluzionista, secondo la quale gli stadi di sviluppo dell’individuo (infanzia, adolescenza e età adulta) corrisponderebbero agli stadi di sviluppo dell’umanità. Il parallelismo tra l’individuo e il collettivo si esplicherebbe nel passaggio della società dallo stadio primitivo, allo stadio selvaggio o barbaro, allo stadio della civiltà. L’antropologia, al contrario, esprime il suo scetticismo per ogni rappresentazione lineare della storia dell’umanità. Inoltre, dubita dell’universalità del complesso di Edipo in quanto realtà psichica e storica transculturale. La critica più convincente all’universalità del complesso di Edipo la si deve al fondatore dell’antropologia strutturale, Levi Strauss, il quale ha affermato che non si può stabilire un rapporto di causa-effetto tra lo psicologico e il sociale e che occorre superare l’antinomia fra natura e cultura per porre il problema della proibizione dell’incesto in termini di regole o di leggi. La proibizione all’incesto è in realtà considerata un principio di organizzazione della società fondata sullo scambio e sulla reciprocità fra gruppi che donano e gruppi che ricevono. Tuttavia, esiste un campo in cui si può parlare di convergenza tra antropologia e psicoanalisi ed è quello dell’efficacia simbolica. Il simbolico come struttura efficace mobilita gli individui e i gruppi conoscenza teorica e delle ipotesi implicite o esplicite. Pertanto, questa fase è intrinsecamente collegata alle fasi successive di analisi, interpretazione e comparazione. L’etnologia è la fase in cui si analizza, si interpreta, si sintetizza ciò che si osserva in una data cultura. A questo livello, l’analisi si riferisce generalmente ad un solo campo dell’antropologia, come quello della parentela, dell’economia, della religione o della politica, e inoltre si circoscrive a una data regione o sotto-regione culturale. L’antropologia costituisce il terzo livello, quello più generale, in cui si tenta di definire le proprietà generali di tutta la vita sociale e culturale. E’ anche il livello in cui si tenta di trarre delle spiegazioni teoriche molto generali che possano rendere conto degli universali dell’umanità e delle espressioni particolari delle culture. Un tale progetto è ovviamente in costante movimento, in costante discussione ed elaborazione, in quanto gli stessi oggetti di studio dell’antropologia sono per definizioni storicamente determinati e mutevoli. Anche se non si arriva a leggi universali del tipo di quelle che hanno luogo nel campo delle scienze esatte (cosa che non è d’altra parte la finalità delle scienze umane) l’antropologia giunge a generalizzazioni teoriche che consentono di ottenere una certa forma d’intellegibilità, una certa soglia di comprensione delle forme sociali e culturali. L’interesse dell’antropologia, oggi, dovrebbe consistere nella descrizione di particolari gruppi e società ma anche nell’interpretazione globale dell’insieme delle culture umane per mettere in luce somiglianze e differenze. La diversità delle denominazioni in ambito antropologico è spesso collegata alle diversità delle tradizioni nazionali. Infatti, i diversi nomi dati alla disciplina dipendono generalmente dai differenti contenuti che essa assume a seconda dei paesi. Pertanto, la tradizione anglosassone usa il termine antropology (antropologia, dal greco scienza dell’uomo). In Francia, il termine maggiormente usato è ethnologie (dal greco, studio delle etnie) e in Germania, i termini usati sono Volkerkunde (studio dei popoli primitivi) o Volkskunde (studio del folklore europeo). Queste differenze di denominazione esprimono sensibilità nazionali differenti che si traducono in diversità di procedimenti ed elaborazioni teoriche. CAP 2 Perché una storia del pensiero antropologico? La storia dell’antropologia come antropologia culturale dell’Occidente. Tutte le componenti, le scuole e le correnti teoriche antropologiche condividono un unico progetto, ossia riflettere sui principi di analogia e differenza osservabili presso tutte le società. Il rapporto unità-diversità è stato certamente pensato diversamente da parte di tutte le scuole antropologiche. Le teorie evoluzioniste, per esempio, mettono l’accento sulle analogie a scapito delle differenze, esaltando i concetti di progresso e storia per pensare la storia dell’umanità in termini di evoluzione. Nella corrente evoluzionista l’umanità è considerata come fondamentalmente una e le diversità come manifestazioni che tendono a scomparire e unirsi all’universale, generalmente rappresentato dallo stadio storico e culturale rappresentato dalla cultura occidentale. La scuola culturalista americana, al contrario, mette l’accento sulle diversità e definisce le nozioni di tratto e personalità per trattare ogni cultura nella sua specificità. Secondo questa teoria, le società umane devono avere la capacità di differenziarsi culturalmente all’infinito. La scuola funzionalista britannica cerca di temperare questo relativismo assoluto. Con lo sviluppo delle nozioni di cultura (come globalità), di funzione, di integrazione e di armonia, essa pur insistendo sull’idea che ogni cultura è diversa sottolinea anche la possibilità dell’incontro fra le diverse culture e la possibilità per gli antropologi di compararle. Dunque, se gli antropologi relativisti si sono accontentati di produrre tante monografie distinte di diverse società considerate come sistemi chiusi, al contrario i teorici più recenti sono a favore di un approccio comparativista che studi le alterità di una società cogliendo i rapporti di tensione tra il diverso e l’uguale, il particolare e il generale. Il procedimento comparativo dell’antropologia strutturale di Levi Strauss, consiste nel rapportare le singolarità delle culture osservate a dei principi universali chiarendo, dunque, in maniera profonda le particolarità di un sistema. Ad esempio, la spiegazione della proibizione dell’incesto parte dall’analisi dei diversi principi applicati in ogni società, per giungere alla regola universale, ossia il principio di reciprocità, fino all’accettazione di ogni principio singolo. Nella prospettiva dell’antropologia culturale, invece, tutti gli oggetti di studio sono inseriti in una dimensione che va dal globale al locale e che permette, quindi, una comprensione sia delle forme locali che della forma universale. La storia dell’antropologia rende conto soltanto delle tappe della conoscenza dell’uomo esotico da parte dell’uomo occidentale. Perché sia totale, una tale storia dovrebbe rivolgere l’attenzione anche alla conoscenza che le altre civiltà hanno sviluppato sulle alterità che hanno incontrato, compresa l’alterità occidentale. La maniera in cui l’antropologia ha interpretato e compreso le culture extra-europee ci dà indicazioni sulla maniera in cui la stessa società occidentale si percepisce e si analizza. Lo specchio che essa tende agli altri può rimandarci all’immagine o le immagini che si fa di se stessa. Procedere in tal modo è contribuire ad allargare l’oggetto dell’antropologia e a integrare nella sua riflessione la società europea in quanto oggetto di conoscenza. L’inizio della storia dell’antropologia come disciplina viene rivendicato dalla tradizione fin dall’antichità classica per poi giungere all’Europa del’800. Infatti, l’antropologia sotto la forma attuale è nata nella seconda metà dell’800 e in seguito a importanti rotture nel pensiero e nella cultura dell’800; tuttavia, però, la tradizione insiste su un inizio molto indietro nel tempo che necessiterebbe una vera e propria ricostruzione mitica del passato della disciplina con un rapporto continuo dall’’Antichità greca classica all’Europa dell’800. I secoli che hanno preceduto il XIX secolo sono stati caratterizzati da un continuo confronto con le altre culture che ha contribuito alla nascita del concetto di alterità, non ancora definito in modo oggettivo. Il concetto di alterità si evoluto costantemente a seconda dei periodi e delle culture. Se nel Medioevo l’alterità è stata ancorata all’immaginario soprannaturale; nel Rinascimento, al contrario, l’alterità è strettamente connessa alla scoperta di nuove umanità, e dunque alla logica del diverso. CAP 3: L’antichità greca e il Medioevo cristiano. La difficoltà dello sguardo sull’altro. Il fondatore della storia della disciplina nell’antichità greca si pensa essere Erodoto, perché precursore della sensibilità antropologica con una forte curiosità per le altre culture. Erodoto attribuiva in larga misura più attenzione ai fatti non abituali ed eccezionali; inoltre nelle sue descrizioni presentava i popoli stranieri o i barbari come l’inverso di ciò che erano i Greci. Per Erodoto i Barbari non erano altro che un mezzo indiretto per parlare dei Greci e definirli, dunque il barbaro o lo straniero era percepito dal mondo greco come un bambino alle soglie della cultura, che balbetta una lingua e da cui non ci si possono aspettare opere importanti. Questa tendenza a pensarci al centro dell’universo è stata successivamente trasmessa anche al Medioevo cristiano e musulmano e al Rinascimento. Il Medioevo cristiano fu un teocentrismo chiuso alle realtà profane, aperto all’esoterismo e al meraviglioso e soggiogato dalle figure del mostro e del diavolo. L’immaginario del Medioevo occidentale consisteva in un insieme di rappresentazioni organizzate intorno a tre figure del meraviglioso, del magico e del miracoloso. L’immaginario inoltre era considerato un mezzo di conoscenza della natura, un mezzo di definizione dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio. La figura dl mostro fungeva, dunque, un po’ da specchio in cui l’uomo poteva, da una parte, misurare l’estensione della natura e dell’onnipotenza divina, e dall’altra ricordarsi di ciò che egli non doveva mai essere. Molte rappresentazioni degli stranieri o dell’infedele musulmano corrispondevano a figure mostruose. Il saraceno, come mostro o diavolo, era la negazione vivente della propria immagine e di quella del suo Dio. La totale assenza fra i crociati di ogni curiosità intellettuale verso una civiltà nella quale operavano insieme ai musulmani, ebrei e cristiani non indusse certo gli Orientali ad ammirare gli Europei, considerati a loro volta dei barbari. CAP 4: La tradizione geografica e storica del Medioevo arabo. Teocentrismo e trattamento dell’alterità nell’Islam. Al contrario degli Europei del Medioevo, i musulmani dello stesso periodo non erano chiusi nei confronti delle differenze umane. LA civiltà arabo-musulmana si basava su un messaggio religioso universalista che finì per unire diverse culture, lingue e popoli. La tradizione dotta araba si caratterizza per una concezione geografica della storia e una concezione storica della geografia. La geografia ebbe uno sviluppo vigoroso e continuo tra gli arabi. Inoltre, la geografia era umana nel senso che collocava l’uomo al centro della creazione e lo stesso uomo è il riflesso dell’universo, una creazione divina che gli è interamente destinata. Questa geografia era scritta da musulmani di ogni paese. In effetti, i musulmani del Medioevo arabo, indipendentemente dall’origine etnica, religiosa o linguistica avevano la convinzione di appartenere a una medesima civiltà, la civiltà arabo-musulmana, riflesso della volontà divina. La stessa geografia si rivolgeva a terre straniere e a terre dell’islam ed implicitamente o esplicitamente divenne la geografia delle relazioni del mondo musulmano o un’espressione delle idee che questa civiltà si faceva delle altre culture. Il sentimento dell’alterità e la misura delle differenze furono in larga misura il proposito di questa geografia, i cui principi universali era quelli dell’islam, inteso a sua volta come modello di civiltà. Questa geografia umana che si riferisce costantemente alla sua società d’origine, ma che ha potuto parallelamente dar misura di tutta la sua finezza di osservazione e di descrizione dei fatti riportati, cederà progressivamente il posto a una letteratura geografica (il racconto dei viaggi) che accentuerà la tendenza del riferimento a se stessa fino ad attribuire priorità alle differenze più insolite rispetto alla propria norma. L’insistenza sulla bizzarria negli eventi riportati e sul tema del bestiario che rappresenta esseri ibridi, doveva far sì che il lettore musulmano non si identificasse o ispirasse allo straniero. Questo ci porta ad una comparazione con le rappresentazioni mostruose del Medioevo cristiano, in quanto sia la società cristiana che quella araba utilizzavano delle figure diverse dalla propria immagine per rappresentare e consolidare il sistema di valori e credenze della propria società. La geografia dell’VIII e del IX secolo aveva limitato fuori dal mondo dell’Islam l’osservazione della diversità e dell’alterità. In effetti, nel periodo di ascesa, l’Islam si era preoccupato essenzialmente tradizioni. Tutto questo prefigura la comparsa di un pensiero filosofico decentrato che darà vita al pensiero antropologico. Tra le forme di decentramento del Settecento vi ritroviamo: - Diffusione del pensiero anti-teologico con l’affermazione del concetto di libero arbitrio e quindi le nuove prospettive di studio dell’uomo visto in maniera autonoma rispetto al rapporto con Dio. Anche la natura diventa sempre più decentrata e autonoma rispetto alla figura divina; - Abbandono dell’idea di un tempo ciclico e ripetitivo per ammettere la nozione di tempo lineare e progressivo; l’idea di cambiamento ed evoluzione vengono applicate anche nella storia dell’umanità e nella propria società; - La scoperta della relatività e della dimensione storica delle culture, ossia la capacità di ripercorrere le tappe essenziali della storia umana nel quadro di uno schema lineare di evoluzione e non in uno schema ripetitivo e ciclico. Questi decentramenti non riuscirono tuttavia a dare vita ad una riflessione oggettiva antropologica ma riuscirono ad accelerare e rafforzare il movimento di critica interne dell’Occidente. In questo periodo il buon selvaggio veniva utilizzato come pretesto per discorrere su se stessi affiancato successivamente sulla rappresentazione del cattivo selvaggio, incarnato perfettamente nel Nero africano, schiavo negro. La schiavitù non venne denunciata dai filosofi illuministi ma anzi ci si doveva servire del “cattivo nero” per modificare i modi incivili di quelle popolazioni. All’origine della cristallizzazione della figura dell’altro esistono due rappresentazioni, quella del buon selvaggio, in quanto preservato dalla corruzione e della civiltà grazie alle sue qualità naturali e quella del cattivo selvaggio, immerso nella miseria e nella depravazione a causa della sua ignoranza e pigrizia. Nel Settecento, prevale l’immagine positiva del buon selvaggio che spinge il pensiero filosofico a denunciare l’ingiustizia o l’assurdità di certe istituzioni come la monarchia assoluta, la proprietà privata, il dominio della chiesa e la coercizione dei costumi. Nonostante la predominanza della figura positiva, l’immagine del cattivo selvaggio non viene abbandonata in quanto entrambe le immagini perseguono la stessa finalità, ossia giudicare se stessi e giudicare gli altri sulla base degli stessi criteri. Man mano che l’ideologia del progresso diventerà la legittima visione del mondo e che si imporranno le spiegazioni deterministiche, l’immagine del cattivo selvaggio diventerà la rappresentazione predominante dell’altro. Questo è dovuto anche alla trasformazione del rapporto tra uomo e natura, la quale diventa una forza ostile e dispotica che l’uomo deve imparare a dominare e domesticare come forza di produzione e risorsa di capitale da sfruttare. I termini di esotico e selvaggio non sono utilizzato solo per descrivere tutto ciò che è molto lontano da noi. Infatti, fino alla seconda metà del XVIII secolo la montagna fu quasi ignorata dalla città, il Settecento fu il secolo della scoperta e dell’esplorazione anche di questa. In quest’epoca iniziano a diffondersi le immagini del buono e del cattivo montanaro. In un primo periodo, infatti, la figura del montanaro venne molto valorizzata per la semplicità, l’innocenza dei costumi, l’ambiente spettacolare di una natura semplice e grandiosa. Accanto alla nascita dell’idea di una natura buona in sé opposta ad una civiltà o società necessariamente corrotta, il montanaro inizia a rappresentare il buon selvaggio perché guardiano della sua autenticità e depositario della natura. Con l’avvento degli ideali della Rivoluzione francese (il progresso, la centralizzazione e l’uniformità delle leggi) il montanaro diventa un cattivo montanaro, in quanto egli vive in un ambiente misero a livello materiale, in un ambiente ostile e arretrato ed è dunque una persona di cui bisognava prendersi cura per condurlo alla civiltà; la natura non viene più ammirata come fonte di moralità ma al contrario si ribadisce la necessità di addomesticarla. CAP 7 Idee evoluzioniste e rapporti di dominio nel XIX secolo. Le condizioni per l’emergere del sapere antropologico moderno. I fattori che hanno contribuito alla nascita del pensiero antropologico sono: - La nascita di un nuovo concetto di uomo sulla scia del secolo dei Lumi: l’uomo si concepisce come un oggetto sociale come l’attore di una storia, come fonte di valori, come produttore di ricchezze, infine come il frutto di un’educazione, l’uomo diviene il mezzo della propria conoscenza; - All’origine di questa nuova concezione dell’uomo vi sono due eventi fondamentali: la rivoluzione industriale e la rivoluzione politica francese, che consentono agli uomini di comprendere che essi stessi possono essere gli agenti delle trasformazioni. Nascono nuove relazioni sociali, che non sono più ristrette al mondo del lavoro, ma si estendono nella società stessa tramite le tradizioni sociali. Dunque, inizia a diffondersi l’idea secondo la quale il destino dell’uomo non è scritto in anticipo ma dipenda dai conflitti nel campo sociale. Analizzare l’uomo anche nelle sue funzioni economiche e sociali diventa una necessità pratica e un’esigenza intellettuale; - Una scoperta meno importante fu quella della parentela fra il sanscrito e la lingua greca e latina. Questo contribuì allo studio comparativo delle lingue indoeuropee, appartenenti allo stesso ceppo perché derivanti dalla stessa lingua; - Nel 1836 un archeologo scoprì delle asce di pietra risalenti alla preistoria che dimostrarono che l’uomo fosse contemporaneo di mammiferi scomparsi da migliaia di anni, da questo punto si sviluppò la concezione scientifica dell’evoluzionismo che colloca la specie umana fra le altre specie animali. Il 1859 è l’anno che segna il periodo in cui la riflessione sull’uomo, sulla sua società e sulla sua evoluzione diviene interamente oggetto di scienza. E’ difficile stabilire gli esatti padri fondatori delle idee evoluzioniste dato che queste intaccano diversi campi, dalle scienze naturali alle scienze sociali. Ma due autori come Herbert Spencer e Charles Darwin hanno segnato la riflessione antropologica e sociologica di quest’epoca. Herbert Spencer si inspirò direttamente alla biologia e constatò che l’evoluzione sociale potesse essere assimilata all’evoluzione organica. Spencer, inoltre, parla di legge del progresso per identificare il progresso continuo e inarrestabile di una società, che passa da uno stadio primitivo a stadi sempre più complessi ed eterogenei. Spencer è all’origine dell’evoluzionismo sociale che successivamente sarà chiamato erroneamente darwinismo sociale. La prima innovazione del naturalista Charles Darwin fu quella di cercare di sottoporre sistematicamente alla valutazione critica dei fatti l’ipotesi della selezione (della trasformazione concomitante delle specie viventi e degli elementi ambientali), ipotesi che egli aveva elaborato a partire dalle osservazioni compiute sul campo. Darwin si impegna a dimostrare attraverso comparazioni genetiche che anche l’uomo è soggetto alle leggi della selezione naturale. L’approccio metodologico di Darwin ha assunto un grande valore per gli antropologi, questo stesso su basa sul principio di ricercare la causa di un fenomeno nel campo stesso in cui questo fenomeno si manifesta. E’ un principio che sarà successivamente perfettamente spiegato da Durkheim, il quale afferma che la regola sociologica fondamentale consiste nello spiegare un fatto sociale dato a partire esclusivamente da un altro fatto sociale. Paul Broca fu il primo a delineare l’oggetto dell’antropologia, che consisteva nella descrizione particolare e la determinazione delle razze, lo studio delle loro somiglianze e delle loro dissomiglianze, sotto l’aspetto dello stato intellettuale e sociale. La critica fondamentale alla nozione di razza fu data dalla scuola sociologica Durkheimiana, secondo cui bisognava desacralizzare a nozione razza alla quale il senso comune accordava una valenza esplicativa. Secondo questi autori un carattere anatomico abbastanza fisso per fungere da carattere di razza deve essere privato di qualsiasi significato intellettuale o morale. Tylor nel 1871 diede la prima definizione di cultura, intesa come quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altri capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. Da quel momento in poi, l’antropologia riconoscerà la cultura come un dato universale; benché le sue manifestazioni differiscano da un gruppo all’altro, essa è presente dappertutto. Lewis Morgan può essere legittimamente considerato come il primo vero antropologo ad aver messo in pratica principi dell’evoluzione nello studio delle società considerate come produzioni sociali e culturali. Morgan stabilisce tre stadi o periodi (selvatichezza, barbarie e civiltà) per descrivere l’evoluzione dell’umanità. Nei suoi studi sulla storia dell’umanità e sulle società, Morgan fu il primo a comprendere che le relazioni di parentela e di matrimonio in una società formano un sistema coerente dettato da regole e rapporti interni di interdipendenza. Tuttavia, il cambiamento di paradigma e la costituzione dell’antropologia come disciplina scientifica moderna sono associati ad un altro evento sociopolitico fondamentale, ossia l’imperialismo europeo. Infatti, gli inglesi, i francesi, gli spagnoli, gli olandesi e i portoghesi avevano bisogno di conoscere le società per poterle governare. Gli antropologi dovevano conoscere meglio, per dominare meglio, dunque, non si trattava più di una riflessione sulle culture esotiche di tipo piuttosto filosofico oppure una riflessione che non mirava ad una conoscenza diretta dell’altro. E’ un paradosso che la scienza antropologica, ritenuta neutra ed oggettiva sia nata proprio durante il colonialismo politico ed economico; ma così come afferma Foucault, il legame tra potere e sapere e, dunque, la produzione di sapere e la produzione di potere costituiscono due facce di uno stesso processo. Infatti, il potere organizza anche tramite le regole diversi ambiti della società (istruzione, lavoro, e così via) e allo stesso tempo produce sapere perché sviluppa i bisogni e i mezzi per conoscere gli spazi che contribuisce a introdurre. Le scienze umane sono nate grazie alla relazione tra potere e sapere nel XIX secolo. Quanto all’antropologia, scienza delle società primitive o tradizionali, in essa si può leggere la stessa storia dei rapporti di dominio fra centro e periferia e delle loro trasformazioni successive sia nelle società colonizzate che nelle società europee. L’interesse per lo studio delle tradizioni popolari e del folklore delle campagne Europee fu ispirato dai poteri centrali, desiderosi di conoscere meglio le culture rurali al fine di meglio controllarle, reprimerle o nominalizzarle. Il discorso antropologico istituisce, quindi, un legame fondamentale tra l’alterità esterna e l’alterità interna. Infatti, l’ansia di civilizzare le popolazioni indigene primitive lontane dalla patria, si accompagnò alla volontà di assistere i cittadini indigenti come i contadini arretrati che erano invece nella patria stessa. CAP 8 Il pensiero evoluzionista in antropologia. Portata e limiti. Dalla seconda metà del XIX secolo fino agli anni ’20 del Novecento le scuole evoluzioniste hanno dominato la riflessione antropologica. Il pensiero evoluzionista si occupa dell’analisi delle origini delle società con l’intento di creare una classificazione o comparazione tra le diverse società. E’ descrizione di una società concreta, all’antropologia, come spiegazione delle diversità a livello più generale e universale. Il metodo strutturale si fonda, dunque, sul procedimento comparativo consistente nel dissolvere la specificità di ogni cultura nell’universale. Levi Strauss si colloca nella tradizione sociologica francese inaugurata da Durkheim e Mauss. Il programma che Levi Strauss si dà fin dall’inizio consiste nella spiegazione in maniera strutturale del fenomeno della reciprocità e dello scambio individuato dal suo predecessore Mauss, un fenomeno che egli considera come l’istituzione fondamentale di ogni società, il cui significato è all’origine stessa del legame sociale. Secondo Levi Strauss la nozione di fatto sociale totale di Mauss si avvicinerebbe alla sua nozione di struttura. Il fatto sociale totale, secondo Strauss, non è l’accumulazione arbitraria di dettagli ma l’espressione di un’esperienza; inoltre, secondo Strauss, lo scambio non è la somma delle sue costituenti bensì una sintesi immediatamente data. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso, molti autori si sono ispirati al modello strutturale tanto che in Francia è nato il movimento strutturalista che includeva autori come Michael Foucault, Barthes, Lacan. Tuttavia, lo strutturalismo implica la definizione non solo di un procedimento metodologico ma anche di una certa filosofia dell’uomo e della società. Lo strutturalismo, innanzitutto, è un’attività intellettuale che separa il soggetto dalla scienza. Esso elimina ogni finalità soggettiva o metafisica, come Dio, la storia, la morale, l’uomo, per tentare di accedere alle sole forme. Secondo lo strutturalismo, il senso non è più nell’oggetto, non si confonde più con l’essenza o la sostanza di questo oggetto, ma esiste nel gioco di relazioni che l’oggetto intrattiene con altri oggetti. Lo scopo della ricerca strutturalista è quello di ricostruire il funzionamento dei sistemi semiotici attraverso la costruzione di un modello empirico. Modello che deve far palesare un senso, un significato che resta invariabile, o inintelligibile nell’oggetto naturale. Tra i campi dell’antropologia strutturale vi è quello delle strutture parentali con le quali Levi Strauss intende i sistemi di parentela in cui la scelta del coniuge è determinata dalla rispettiva posizione dei partner nei lignaggi fra cui si opera lo scambio. Attraverso i sistemi di parentela ogni individuo acquisisce un ruolo o uno status per la posizione che occupa nella struttura generale dello scambio. Tutti i sistemi di parentela si basano su regole universali soggiacenti, tra le quali la proibizione dell’incesto che, pur assumendo forme diverse per ogni società, si basa sul principio della reciprocità, che consiste nel proibirsi il parente vicino per scambiarlo con il parente lontano. Per quanto concerne il campo del pensiero selvaggio, Levi Strauss lo definisce un pensiero intelligente e classificatore perché distingue, oppone, classifica, lega fra loro i livelli; stabilisce dei sistemi di relazione e opposizione; fissa delle regole di compatibilità e incompatibilità. Non è un pensiero esclusivo di coloro che vengono chiamati selvaggi ma è presente in ognuno di noi ed è alla base di quello addomesticato dalle nostre culture. Per quanto riguarda, invece, la mitologia, egli crede che un mito separato dal suo contesto resti oscuro a chi lo analizza; è la stessa diversità dei miti che consente di individuare una struttura soggiacente, perché si basano su un medesimo dispositivo mentale. Quindi, il mito, il pensiero selvaggio e il sistema di parentela sono sempre sistemi di significazione che nascono dalla capacità simbolica dell’uomo. Il pensiero simbolico è tutto ciò che è alla base della vita sociale, perché i sistemi simbolici offrono all’inconscio delle forme di un contenuto che sono invariabili per tutti gli uomini, sia antichi che moderni, sia primitivi che civilizzati. Quindi, per Levi Strauss per comprendere le strutture, le istituzioni e i costumi di una società bisogna analizzare la struttura inconscia per ottenere un’interpretazione valida per tutti gli altri costumi ed istituzioni. Inoltre, secondo Levi Strauss le società selvagge sono caratterizzate dal senso, dall’autenticità, dalla trasparenza mentre le società storiche dal potere, dall’inautenticità e dall’opacità. Se la storia organizza i suoi dati secondo le espressioni coscienti, l’etnologia li organizza in rapporto alle condizioni inconsce della vita sociale. Proprio da questo procedimento ipotetico-deduttivo nascono le critiche a Levi Strauss e all’antropologia strutturale, la quale si focalizza sulle forme astratte e le relazioni logiche dimenticando le relazioni umane e la variabile del tempo. L’antropologia strutturale collocata nella prospettiva generale dell’antropologia appare infine come un approccio che ha estromesso la storia e il cambiamento. In tal senso si è interdetta ogni possibilità di prendere in considerazione le straordinarie mutazioni sociali, politiche e culturali della storia contemporanea. QUARTA PARTE: ATTUALITA’ DELL’ANTROPOLOGIA. DALL’ANTROPOLOGIA RISTRETTA ALL’ANTROPOLOGIA GENERALIZZATA. CAP 1 Il locale e il globale. Una nuova articolazione del progetto antropologico. A partire dagli anni ’50 assistiamo a un percorso di uniformazione su scala planetaria in tutti i campi (economico, politico, sociale e culturale). Questo movimento è caratterizzato dall’egemonia di certi comportamenti e valori propri della società industriale. Appare per la prima volta un modello uniforme di sviluppo basato esclusivamente sulla crescita e la produzione economica. Questo modello dominante era condiviso anche dai paesi recentemente indipendenti dalle colonie e quindi in “via di sviluppo”. Il modello esclude progressivamente o modifica profondamente le diverse forme economiche e sociali. Inizialmente, gli antropologi prendono coscienza della scomparsa dell’alterità come conseguenza di una precedente indifferenza nei confronti del colonialismo e della dominazione. Ma alla vigilia dell’indipendenza dei paesi del Terzo Mondo, l’antropologia subisce una critica sistematica a causa del disinteresse nei confronti del colonialismo e dei problemi collegati alla dominazione e al cambiamento sociale. La stessa scienza antropologica viene messa in discussione soprattutto per quanto riguarda l’oggetto di studio e il rapporto tra l’antropologo e il campo d’indagine. Ci si interessa maggiormente alla relazione tra l’osservatore e l’osservato, al significato dell’intrusione di uno straniero in una cultura e alla maniera in cui si concettualizza un gruppo etnico o un’etnia. Per tale motivo nascono numerosi scritti sul tema dell’etnocidio così si prende una posizione con concreti salvataggi di diversi gruppi etnici e si analizzano i processi economici e le logiche socio-culturali sottesi ai fenomeni di etnocidio. Per risolvere la crisi antropologica, si è messo in evidenza come sia necessario ch l’antropologia rifletta da una parte sulle strutture espansioniste e unificatrici che si affermano attraverso l’azione contemporanea di forze culturali, economiche e sociali; dall’altra parte sui processi di cambiamento, continuità e resistenza che si manifestano parallelamente o in margine a tali strutture. Questo presuppone un allargamento dell’oggetto di studio classico dell’antropologia, che comprenderà anche la stessa società moderna e i suoi settori più avanzati poiché essi sono all’origine di nuove diversità e di nuove dinamiche socio-culturali. L’antropologia si articolerà dal locale al globale perché ci si focalizzerà su un fenomeno sociale locale particolare che illuminerà al tempo stesso il contesto globale in cui si è inserito. CAP 2: Storicità degli oggetti tradizionali dell’antropologia. L’allargamento dell’oggetto di studio dell’antropologia implica anche la sua storicizzazione. La storia deve essere la logica su cui si basa la comparazione e la comprensione delle diverse forme sociali e culturali dal locale al globale, dal particolare al generale, dalla tradizione alla modernità, dal passato al presente. I due concetti più importanti che hanno contribuito alla formazione delle società tradizionali periferiche sono lo stato-nazione e il mercato. Queste due entità storiche sono l’espressione di un certo numero di micropoteri, microprocedure e microinterventi. Per Stato-nazione si è sempre inteso uno spazio geografico e simbolico unificato e circoscritto caratterizzato da una serie di pratiche e valori in comune. Il mercato, invece, è definito come l’incontro dell’offerta e della domanda di beni e servizi. Oggi è difficile identificare gli interessi dello Stato-nazione con quelli del mercato perché spesso quelli del secondo sono di tipo internazionale e vanno contro lo Stato-nazione. La logica mercantile del sistema coloniale penetra in tutti gli spazi della società tradizionale per imporre i suoi valori e le sue pratiche e l’eliminazione di quelle strutture economiche sociali e culturali che prediligono il principio di reciprocità, la mutua assistenza escludendo il ruolo della moneta, del profitto e del processo di accumulazione. Durante il colonialismo, le società tradizionali esotiche subirono l’imposizione di meccanismi del mercato in maniera molto più brutale e pesante che in Europa. Si impongono strutture di stampo europeo basate sull’individualismo, l’accumulazione e il profitto a discapito del mutuo soccorso, dei legami di reciprocità, dei modi di comunicazione sociale incentrati sulla redistribuzione delle ricchezze. Molte pratiche culturali e sociali vengono soppresse. Tuttavia, i processi di imposizione sono accompagnati da processi di resistenza, che conducono al rifiuto più o meno totale della nuova situazione, alla rielaborazione selettiva degli elementi della nuova situazione o a un’adesione più o meno totale a questo sistema. In ogni caso, la resistenza contribuisce ad un cambiamento sociale. CAP 3: La dinamica del cambiamento sociale. I fenomeni di resistenza nelle situazioni di contatto e dominazione è stato un tema spesso ignorato dall’antropologia classica perché poco incline al cambiamento sociale. La sociologia dello sviluppo, invece, che si è data per oggetto di studio le situazioni di cambiamento nei paesi in via di sviluppo lo ha trattato in maniera molto riduttiva. La resistenza era vista più che altro come un ostacolo o un freno sulla strada del progresso che il colonialismo doveva portare. Il problema del cambiamento va collocato a livello del confronto fra le strutture e i modelli dominanti, da una parte, e le forme locali, dall’altra. Analizzati in quest’ottica i fenomeni di cambiamento o di resistenza non sono più un rifiuto da parte del gruppo o della società ma sono forme di espressione sociale in costante elaborazione, le quali, pur integrando l’innovazione cercano di preservare, trasformare o ricreare le pratiche locali e la tradizione. I fenomeni di cambiamento sociale si verificano non soltanto nelle società in via di industrializzazione ma anche per quelle industrializzate. circolazione di informazioni, immagini, messaggi, viaggiatori, migranti dando dunque la possibilità di creare nuove identità. Tutto questo permette un contatto tra le culture che non coincide con un’opposizione tra cultura dominante e cultura dominata. CAP3: Frontiere, identità e comunità immaginate. Il termine frontiera richiama in molte lingue l’idea di confine, limite e sottolinea la differenza. In antropologia, le frontiere non sono mai una cosa in sé ma di natura situazionale. Quindi, le frontiere non sono naturali e gli attori sociali si impegnano in maniera più o meno intensa nell’erigerle. Per l’analisi antropologica, l’identità non è uno stato, non è immanente né immutabile. E’ una costruzione determinata dalle situazioni in cui si forma, dai rapporti di potere che le si intrecciano intorno e degli sforzi per scioglierli. L’identità è paradossale perché è la cosa più sentita e rivendicata ma allo stesso tempo quella più sfuggente. Secondo Strauss è una sorta di focolare virtuale al quale ci è indispensabile riferirci per spiegare un certo numero di cose ma senza che esso abbia mai un’esistenza reale. L’identità etnica è una nozione dinamica perché il suo senso si costruisce in rapporto con le altre identità e nella dialettica tra inclusione ed esclusione che avviene sulla frontiera etnica. Per costruire la loro identità le comunità ideali ricorrono ai racconti mitici di fondazione, alle leggende eroiche, alla figura degli antenati; nelle società contemporanee, invece, i luoghi di memoria sono rappresentati da monumenti ai morti, edifici pubblici ufficiali, targhe commemorative, che certamente rientrano in una sfera materiale ma coinvolgono anche una sfera ideale. L’antropologia è attenta alla dimensione simbolica del politico e considera i simboli e le costruzioni immaginarie che da essi discendono come una via d’accesso privilegiata alla realtà della sfera politica. L’atto di commemorare ha la funzione di legittimare le scelte fatte e santificare i valori condivisi dal gruppo. Le grandi celebrazioni storiche preservano la coesione del gruppo e la trasmissione dei valori perciò la commemorazione grazie a queste celebrazioni garantisce la continuità tra passato e presente e tra presente e futuro. Soprattutto in Francia la scienza antropologica affronta ancora oggi delle problematiche relative a: - Il multiculturalismo, che per questioni ideologiche e sociologiche non viene trattato ampiamente dagli antropologi francesi quanto piuttosto dai sociologi; - Il comunitarismo, che almeno in Francia è un termine con una connotazione negativa perché fa riferimento alla minaccia, la paura, e la diffidenza; - Azione positiva compiuta a favore di certe minoranze, un’espressione che è star tradotta in francese con discriminazione positiva come per sottolineare una certa diffidenza nei confronti della politica così designata; - Statistica etnica, con cui si fa riferimento al dibattito nato in Francia sulla possibilità di inserire delle statistiche etniche per combattere le disparità di opportunità cui andrebbero incontro alcune popolazioni; - Etnicizzazione dei rapporti sociali compresi quelli in seno al gruppo maggioritario; - Razzismo; - Il velo e la banlieue, infine, invitano a ridefinire la laicità che dovrebbe essere fatta di confronti e dibattiti più che di divieti. In Francia si evince la presenza di una stigmatizzazione della popolazione che vive nelle banlieues spesso definita una classe pericolosa e quindi messa al bando della società. Questo atteggiamento non deriva da una percezione oggettiva della realtà sociologica bensì da una percezione soggettiva e fantasiosa di uno straniero inammissibile a causa della sua presunta origine. CAP 4: CAMPI MINATI DALL’ANTROPOLOGIA. Nata nel periodo fra le due guerre mondiali la categoria giuridica del rifugiato è diventata oggetto di studio antropologico rappresentando una nuova figura dell’alterità. I lavori antropologici sull’argomento possono essere ricondotti a tre approcci principali: - Il primo si sofferma sul diritto internazionale dei rifugiati e dimostra come questo strumento giuridico internazionale ruoti intorno a una visione eurocentrica del mondo; - Il secondo approccio denuncia il sistema degli aiuti spesso manipolati da interessi personali e strategie di potere; - Il terzo approccio privilegia lo studio degli attori mostrando cime essi riappropriandosi dello status di rifugiato inneschino un processo attivo cambiamento attraverso il quale vengono ridefinite le norme consuetudinarie e i modi di appartenenza. L’antropologia si interessa anche alla dimensione globalizzante dell’aiuto umanitario che si traduce in una rete di immagini, campagne di sensibilizzazione, programmi di aiuto, interventi sul campo e organizzazioni non governative. Oggi non si parla più fi aiuto umanitario solo in ambito medico perché si è assunta una dimensione globale su diversi aspetti. L’antropologia sfrutta l’attivazione degli aiuti umanitari in determinati campi per analizzare le strategie degli attori e le loro interazioni, l’articolazione fra locale e sovra locale, la discussione e l’analisi delle strategie globali e quindi l’emergere di nuove forme di alterità. Nel 2007 è stato messo in atto un programma pilotato dal Pentagono e denominato Human Terrain System che si inseriva nella guerra contro il terrore e aveva lo scopo di imbarcare antropologi in alcune unità dell’esercito impegnato in Afghanistan e in Iraq per raccogliere informazioni etnografiche che potessero rendere più efficace l’intervento militare. La guerra in realtà è stata analizzata dal punto di vista antropologico soprattutto nelle società primitive e raramente nel quadro delle guerre coloniali e di massacro delle popolazioni ma ancora più raramente nel suo aspetto contemporanei di guerra totale. È stato dimostrato in alcune opere come spesso l’antropologia è stata la scienza che ha accompagnato la distruzione e lo sfruttamento di alcune società che studiava. È stato dunque dimostrata in alcuni casi la complicità tra antropologi nell’assoggettamento delle popolazioni amazzoniche. Oggi, le associazioni professionali di antropologia hanno moltiplicato le regole di deontologia nel campo e infatti gli studiosi sono a favore di una responsabilità del ricercatore a impegnarsi nella difesa dei diritti delle popolazioni e a documentare la repressione politica e la sofferenza sociale. Tra i nuovi campi che gli antropologi ei sono abituati a qualificare come sensibili sono compresi tanto i luoghi (ghetti, campi, prigioni, ospedali) quanto le condizioni sociali (rifugiati, migranti, senza tetto) e vi rientrano anche le situazioni di malessere e disperazione delle persone. Se l’antropologia tradizionale chiedeva al ricercatore di essere il più oggettivo possibile, questa nuova prospettiva considera l’antropologo come un attore a pieno titolo nella situazione di indagine. Nella nuova prospettiva l’osservazione partecipante diventa una partecipazione osservante perché la distanza tra se stessi e l’oggetto di studio viene messa in discussione. L’antropologo deve instaurare una relazione di scambio e cooperazione con il gruppo osservato perché instaurerà con le persone un contratto concernente le tematiche da analizzare e la restituzione delle informazioni, infatti lo studioso comunicherà al gruppo i primi risultati in modo tale da valutarli e discuterli secondo le finalità dello studio.
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