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DAL LUSSO AL CAPITALISMO-SOMBART, Dispense di Sociologia Economica

Dispensa Dal lusso al capitalismo di Sombart con presentazione e nozioni

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 16/03/2019

matteox999
matteox999 🇮🇹

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Scarica DAL LUSSO AL CAPITALISMO-SOMBART e più Dispense in PDF di Sociologia Economica solo su Docsity! Werner Sombart Dal lusso al capitalismo* * In tedesco, il titolo di questo capitolo di Luxus und Kapitalismus è Die Geburt des Kapitalismus aus dem Luxus (La nascita del capitalismo dal lusso). Nel testo originale il capitolo si apre, seguendo il formato dell’intero libro, con la dicitura Literatur (letteratura). In questo caso Sombart vi oppone un laconico vakat (assente), a sottolineare retoricamente l’originalità del proprio lavoro di sintesi. Sombart cita numerosi stralci da testi in lingua francese e inglese e italiana lasciandoli in originale; per rendere il testo più leggibile si è qui invece preferito, laddove necessario, procedere ad una completa traduzione. Nel suo complesso la presente traduzione rielabora, in forma completamente rivista, le traduzioni già disponibili, di Mauro Protti (cfr. Lusso e Capitalismo, Unicopli, Milano, 1988) e di Riccardo Frassinelli (cfr. Lusso e Capitalismo, Edizioni del Veltro, Parma, 1982). Confrontando queste traduzioni con l’edizione tedesca del 1922 (München, Verlag von Dunker & Humblot), si è intervenuto per riportare il testo più vicino all’originale, cercando al contempo di snellire stilisticamente alcune parti che risultavano pesanti. Si sono altresì effettuati alcuni tagli - sempre contrassegnati dal simbolo […] - laddove l’argomentazione appariva ridondante. I. Come impostare la questione del lusso in modo corretto Il problema che qui si propone - quale ruolo abbia il lusso per lo sviluppo del capitalismo, ovvero, se e come il lusso sia capace di favorire il capitalismo - ha seriamente impegnato gli economisti dei secoli XVII e XVIII, quelli di orientamento empirico come quelli teorici. […] Allora non si parlava ancora di capitalismo, si usavano piuttosto termini come “industria”, “manifattura”, “ricchezza” o simili. Vi era tuttavia unanimità sui fondamenti della questione: si riconosceva che il lusso sollecitava lo sviluppo di quelle nuove forme economiche che allora potevano essere colte nel loro nascere, quelle capitalistiche appunto. Tutti i fautori del “progresso” economico erano quindi anche sostenitori del lusso. Temevano, al massimo, che un eccessivo consumo di beni di lusso potesse pregiudicare la formazione del capitale; ma per lo più si consolavano, come Adam Smith, con la convinzione che vi fossero già suffi- cienti risparmiatori per assicurare la necessaria riproduzione e accumulazione del capitale. I governi adottarono un atteggiamento favorevole al lusso. Nei paesi a rapido sviluppo capitalistico durante il XVII secolo, furono presto abolite le leggi suntuarie che proibivano o limitavano i consumi di lusso. In Inghilterra l’ultima disposizione relativa all’abbigliamento, e contenente anche divieti relativi ad altre spese voluttuarie e gastronomiche, venne promulgata nel 16211. In Francia2 risale al 1629 l’ultimo editto sui lussi a tavola; più tardi, nel 1644 e 1672, venne ancora regolato l’abuso di metalli preziosi per forgiare gioielli (per ragioni che riguardavano il conio delle monete). Nel 1656 troviamo ancora un divieto che proibisce i cappelli di castoro che costino più di 50 lire; nel 1708 viene pubblicata in Francia l’ultima legge suntuaria sull’abbigliamento. Da allora, le classi al governo si dimostrano convinte della “necessità” dei consumi di lusso (nell’interesse dell’industria capitalistica) e anche i più eminenti letterati dell’epoca presero partito per il lusso - almeno fino a quando, in un successivo momento, si ebbe una reazione da parte dei seguaci di Jean Jacques Rousseau. Ciò che soprattutto si apprezzava del lusso era la sua capacità di creare mercati. “E’ preso forma, da Marx in poi, l’infelice idea che il capitalismo sia stato favorito dall’amplia- mento geografico delle relazioni di mercato, specialmente tramite lo sfruttamento delle colonie nel XVI secolo. Questa idea si espresse poi nella concezione teleologica della scuola storica di economia politica, alla quale hanno aderito quasi tutti gli storici dell’economia: la dilatazione geografica degli scambi commerciali, il mercato “remoto”, l’esportazione, avrebbero reso “necessaria” l’organizzazione capitalistica. Tale parere è stato considerevolmente rafforzato, nell’ultima generazione, dalla teoria di Karl Bücher, un eccellente ricercatore, un pensatore realmente fecondo, il cui pensiero è così riassumibile: artigianato = produzione per il cliente, capitalismo = produzione per una cerchia di acquirenti sconosciuti; artigianato = mercato locale, capitalismo = mercato interlocale. Questo orientamento, che è stato accettato pressoché da tutti gli storici dell’economia, è decisamente catastrofico. Infatti, come ho già detto, la ricerca così impostata finisce in un vicolo cieco. Si è cercato nel posto sbagliato ciò che giustifica la transizione alla concezione capitalistica dell’economia. La produzione per una clientela specifica (Kundenproduktion), e la vendita su mercati lontani (Fernabsatz) non caratterizzano affatto la contrapposizione tra artigianato e capitalismo, se indaghiamo con attenzione le relative condizioni dello scambio. Da un lato, il capitalismo può essere associato ad una produzione per una clientela specifica (p. es. nella sartoria su misura Maßschneiderei); dall’altro c’è stato, per secoli, un artigia- nato fiorente senza tratti capitalistici, il cui mercato era costituito dall’intero mondo conosciuto. Le considerazioni successive si propongono di spingerci nuovamente sulla giusta strada. Esse riprendono il filo laddove i pensatori del XVIII secolo lo avevano lasciato e intendono sottolineare che fu il lusso a dare un contributo decisivo allo sviluppo del capitalismo, quanto meno fino alla fine del primo capitalismo. I concetti guida di questo lavoro possono così essere riassunti. Il lusso ha contribuito alla nascita del capitalismo moderno in diversi modi, ha per esempio, favorito il trasferimento della ricchezza dai feudatari ai borghesi (mediante l’indebitamento dei primi a favore dell’attività finanziaria dei secondi). Qui dobbiamo però considerare la sua diretta capacità di creare mercati, che si può illustrare in generale come segue. Per poter vivere, l’impresa capitalistica ha bisogno, come sappiamo, di un minimo di vendite. L’entità di questo “minimo” dipende da due differenti condizioni: la quantità delle merci circolanti e l’ammontare del valore di scambio delle merci circolanti. In altri termini, questo “minimo” può essere ottenuto o tramite la vendita di una merce di notevole valore, o da molte merci di minor valore: vendita di prodotti di nicchia o gran massa di vendite (Einzelabsatz - Massenabsatz). L’alto valore di una merce può dipendere da due differenti ragioni: l’accumulazione o la raffinatezza. La raffinatezza può assumere, come abbiamo visto9, molteplici forme. L’accumulazione si ha per quelle merci che si possono definire merci composite o complesse, come le locomotive, le navi, gli ospedali. In questo caso, si tratta di una gran quantità di merci correnti, che vengono unificate in un solo prodotto complesso, che perciò assume un valore notevole. La vendita di tali beni è quindi una sorta di vendita all’ingrosso sotto forma della vendita di un prodotto composito e specifico. Nella storia dei popoli europei, da quando la conosciamo, procedono parallelamente un bisogno di beni ordinari e di beni raffinati; entrambi, da principio, avevano dimensioni limitate, tanto che, per lungo tempo, potevano essere soddisfatte da un’organizzazione di tipo artigianale. contadina o da un’economia feudale di servigi (Fronwirtschaft). In generale, la copertura del fabbisogno di merci ordinarie avveniva all’interno del villaggio, della corte feudale, della città (e nella sua campagna) e si basava sulle risorse dell’economia locale. Il fabbisogno di merci raffinate, invece, se non poteva essere soddisfatto dalla produzione all’interno della tenuta e del castello del signore o da importazioni con località lontane, era coperta da artigiani, che lavoravano da sempre per un mercato interlocale o internazionale. Nel medioevo e nei secoli successivi lo sviluppo economico non va ad interessare il consumo ordinario, che da principio pertanto non costituisce un dato rilevante per il consolidarsi del capitalismo. Il fabbisogno di oggetti d’uso per la gran massa della popolazione, così come pure la richiesta di strumenti di lavoro (utensili, attrezzi, macchi- nari), è soddisfatto fino alla fase finale del primo capitalismo e con due eccezioni che vedremo fra poco, da un’economia di sussistenza o dall’artigiano. La ragione di ciò è evidente. Poiché la popolazione non aumentava, né si concentrava in agglomerati urbani, né cresceva la possibilità di trasportare le merci, non si creò alcuna domanda di massa di singole merci specifiche e poiché la tecnica di produzione delle merci (e quella dei trasporti) non si modificò sostanzialmente, non nacque alcuna richiesta di merci complesse e quindi non sorse alcuna produzione capitalistica o scambio capitalistico di merci. Le eccezioni più sopra menzionate, nelle quali già prima dell’inizio del capitalismo maturo (hochkapitalistischen Epoche) - prima della fine del XVIII secolo dunque - nacque una vendita di massa di merci di modesto valore, o una vendita di merci complesse, riguardano: 1) le colonie, che dunque certamente hanno indotto uno sviluppo del mercato per l’industria capitalistica e, soprattutto, 2) gli eserciti moderni. La straordinaria importanza degli armamenti per la formazione del capitalismo verrà discussa nel secondo volume di questi studi10. Qui interessa soltanto chiarire l’altro aspetto del problema: vale a dire, fornire elementi di prova che dimostrino quale parte ha avuto il lusso, o meglio il sorgere di esigenze voluttuarie, nella genesi del capitalismo moderno. Sostenere di voler dimostrare quale importanza ha il crescente consumo di lusso per lo sviluppo capitalistico significa, naturalmente, avvalersi del metodo scientifico odierno, e quindi di una dimostrazione storico-empirica dei rapporti tra entrambi gli insiemi dei fenomeni. E questo non è così semplice; anzi può riuscire, al primo tentativo, solo in modo del tutto parziale. E’ intrinseco a questo stesso metodo il riconoscimento che sarà la prossima generazione degli storici dell’economia che dovrà impegnarsi a dimostrare, nei particolari, l’assunto principale del broccato, velluto e stoffe finissime di lino, lana o cotone, come il boccasino, il lino di Buchara, il cammellotto, che somigliavano alla seta ma costavano molto meno […]. Nonostante le grandi scoperte del XV secolo, il tipo di merci scambiate cambiò poco, poiché fino al XIX tra Oriente e Occidente, tra America e in Europa venivano commerciati essenzialmente beni di lusso. Le quantità crescono di poco, solo alcuni nuovi prodotti si sostituiscono a quelli tradizionali; soprattutto, si commerciano quattro articoli di lusso: tabacco, caffè, tè e cacao che furono fino alla fine del primo capitalismo patrimonio quasi esclusivo dei ricchi, ad eccezione forse del tabacco. Le seguenti cifre danno un’idea abbastanza precisa delle dimensioni del consumo nei secoli passati dei principali generi voluttuari. Il tè veniva importato in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie: 100 libbre nel 1668; 1.420 nel 1710; 8.168 nel 1731; 26.192 nel 1761, 86.063 nel 1784. Supponendo che la metà fosse consumata in Inghilterra, e dato dato che la popolazione assommava, secondo Finlaison, a circa 5 milioni nel 1700, a circa 6 nel 1750, a 9.187.000 nel 1800, il consumo pro capite sarebbe il seguente: 0.01 libbre nel 1700; 0.08 libbre nel 1730; 0.2 libbre nel 1760 e 0.5 libbre nel 1784. Nel 1906, nel Regno Unito, il consumo totale di tè fu di 270.000.000 di libbre di tè, quindi, circa 6 libbre e mezzo a persona. Ancora più significativo mi sembra il quadro che risulta dai seguenti calcoli: le famiglie che potevano permettersi di consumare tè in quantità che oggi definiamo media, erano: 3 nel 1668, circa 2.000 nel 1710, 40.000 nel 1760 e 140.000 nel 1780. Il consumo di caffè in Europa ammontava (secondo A. von Humboldt) a 1.400.000 quintali nel 1800; la popolazione europea (secondo Beloch) assommava a circa 120 milioni di persone quindi, ogni europeo, in media, consumava allora poco più di una libbra di caffè l’anno. Si può certo dire che così questo genere voluttuario cominciò a diventare un genere di consumo di massa. Nel 1910, nella Germania Imperiale, furono consumati (in un anno) a persona circa 6 libbre di caffè. Di zucchero, sempre secondo Humboldt, se ne consumarono (attorno al 1800) 4.500.000 libbre, cioè 3 o 4 libbre a persona; oggi, in Germania, il consumo medio annuo a persona è di 38 libbre. Che lo zucchero non fosse ancora, nel XVIII secolo, un dolcificante d’uso comune, si desume dal ruolo giocato dal miele che la face a lungo da padrone: in Germania ancora intorno al 1750 lo si preferiva come dolcificante, per le conserve di frutta e come additivo nella birra. Nei paesi ricchi dell’Europa occidentale lo zucchero cessa di essere genere di consumo dei ceti ricchi dalla metà, circa, del XVIII secolo; nel resto d’Europa ciò si verifica forse solo a partire dal secolo XIX. Un articolo d’importazione dalle Indie che ritenne il suo carattere di bene di lusso per i secoli XVII e XVIII e che costituì una parte rilevante del commercio internazionale - anche se oggi viene richiesto solo dalle mogli degli impiegati postali - è la mussolina o, meglio la cotonina indiana stampata, cosi come altri tessuti di cotone stampati d’altro tipo, che l’Asia smercia in Europa. Alla fine del XVIII secolo divenne di moda usare cotone indiano negli ambienti dei ricchi, e questo prodotto entrò in concorrenza con quelli fabbricati in Europa. Si può dunque affermare che i principali destinatari di tali prodotti erano i ceti abbienti, poiché quei fabbricanti, che temevano la concorrenza, erano produttori di tessuti fini e di seterie. Ciò viene confermato anche dalla lotta che lo Stato (per esempio, in Francia) ingaggiò contro i tessuti indiani (che avevano ricevuto l’approvazione di Madame de Pompadour e ottennero il loro massimo splendore Trianon). Nel 1700 se ne proibì l’uso. Tali divieti, naturalmente, non servirono a nulla: vediamo che le signore eleganti continuano ad usare cotone indiano, quando da Parigi si trasferiscono nelle loro residenze di campagna. Abbiamo notizia di alcuni divertenti episodi: la marescialla di Villars importava di contrabbando le stoffe indiane; il 17 luglio 1715 la marchesa di Nesle si presenta in pubblico ai giardini delle Tuilieries con una “veste da camera ricamata a fiorellini di seta, di fattura indiana, sopra un vestito dello stesso paese”. Stupore generale e indignazione della polizia che si occupa dei vestiti: il capo della polizia si reca in tutta fretta dal marchese e riferisce. E il marchese promette di intimare alla moglie che, per l’avvenire, ecc. ecc.12 - sfortunatamente il rapporto ufficiale non dice come si concluse, in privato, la scenetta famigliare. Queste osservazioni ci permettono di interpretare meglio i dati sulle importazioni d’oltremare in Europa nei secoli XVII e XVIII. Il quadro è sempre lo stesso, si parli di Inghilterra, Olanda o Francia. Le diverse Compagnie delle Indie importano: 1) spezie, 2) medicamenti, 3) coloranti, 4) seta e tessuti di seta, 5) cotone e tessuti di cotone, 6) pietre preziose, porcellane ecc., 7) caffè, tabacco, zucchero, tè, cacao. Una lista di tali merci varrà ad esempio: in Francia, dalle Indie arrivano nel 177613 le seguenti merci: caffè per 3.248.000 franchi, pepe e cannella per 2.449.000, mussoline per 12.000.000, tele indiane per 10.183.000, seta per 1.382.000, porcellana per 200.000, tè per 3.399.000, altri prodotti (seterie, conchiglie, giunchi d’india, nitrati) per 3.380.000. Il tutto per un totale di 36.241.000 franchi. Queste merci venivano pagate: a) con denaro coniato con l’oro e l’argento delle miniere americane (la gran parte) o, b) con prodotti nazionali, principalmente vestiario di massa, di modesto valore, per vestire negri e malesi; e per il ceto medio delle colonie in cui vivevano europei, tra queste prima di tutte l’America del Nord (poiché era loro proibito fabbricare tessuti). Considerato però l’intero valore del commercio, tali voci danno cifre modeste: il commercio interoceanico è, nonostante tutto, figlio del lusso, è una fac- cenda privata ed esclusiva dei ricchi; la sola spesa per i lussi di Parigi lo mantiene in vita. Se le importazioni, come abbiamo visto, erano articoli di lusso, allora la natura delle merci esportate è del tutto indifferente: esse possono essere considerate forme di pagamento del tutto casuali. Il commercio stesso non esisterebbe senza le importazioni di beni voluttuari, perché senza questi, le persone dall’altra parte dell’oceano sarebbero incapaci di acquistare prodotto europei (un’eccezione è rappresentata dai paesi in cui si producono metalli preziosi: secondo le informazioni statistiche sul commercio offerte da Alexander von Humboldt,14 il Messico, nel 1802, importò dalla Spagna merci per 20.390.859 piastre, contro esportazioni Luigi XIV (dall’Italia, dall’Inghilterra e dall’Olanda) era data da questi prodotti: seterie, tessuti fini, arazzi, batista, pizzi, posate preziose e oggetti di merceria. 2.Il commercio al dettaglio L’influenza del lusso si fece sentire in modo ancor più insistente, esclusivo e profondo nel commercio al minuto. Laddove, già nel primo capitalismo, vi furono alcuni rilevanti settori del commercio all’ingrosso che presentavano tratti capitalistici pur non trattando merci di lusso (il commercio del rame nel XVI secolo e del grano nel XVII), non credo che vi sia prima del XIX secolo un solo caso di commercio al dettaglio che presenti tratti capitalistici e non si riferisca a oggetti di lusso. Al contrario, se esaminiamo i decenni attorno al 1700 - quando la tendenza dei ricchi ad una condotta di vita dispendiosa ebbe una decisa impennata e l’oro del Brasile cominciò ad affluire nelle tasche degli speculatori di Parigi, Amsterdam e Londra - troviamo che i desideri voluttuari dei ricchi e l’ansia dei commercianti di soddisfarli spinse questi ultimi a farla finita con la solita routine di bottega, e a buttarsi sulla via dello sviluppo capitalistico - Forse non potremmo formarci un solido concetto dell’intimo rapporto causale tra sviluppo del lusso e commercio capitalistico al dettaglio se un caso fortunato non ci avesse offerto una fonte assai affidabile e altrettanto eloquente che ci permette di conoscere nei particolari le trasformazioni avvenute nel commercio inglese della seta nel periodo compreso tra la Restaurazione e il 1730. Questa fonte di dati è la narrazione dei fatti vissuti dal competente curatore dell’English Tradesman, che con legittimo orgoglio poteva affermare che nessuno, al suo tempo, era più qualificato di lui in merito “dati i suoi anni e la sua esperienza”18. Il mercante di sete (mercer/mercier), è certamente il rappresentante tipico del commercio di beni voluttuari in quei secoli di sfrontata ricchezza. La lady esercita in questo ambito un dominio illimitato: è lei che da forma al commercio. E, poiché il mercante di seterie tratta anche stoffe intessute d’oro e d’argento, broccato, velluto e pizzi si vendono spesso pezze costosissime. Il mercante di seterie vecchio stile, come se ne incontrano a Londra al tempo dei primi Stuart, e come due decenni dopo è ancora la regola (penso che la grande trasformazione si sia verificata solo verso la fine del XVII secolo) era contemporaneamente grossista e commerciante al dettaglio: di quelli che comperavano la stoffa dal produttore e poi la vendevano, misurata a braccia, ai clienti finali. In periodi precedenti perfino i grossi mercanti lavoravano in questo modo. Per esempio, i Fugger, giunti quasi al culmine della loro potenza e ricchezza, ancora tagliano pezze di seta e di velluto; e certo erano già fornitori delle corti reali - alle quali vendevano “panno d’oro” a 36 fiorini al braccio, damasco milanese o fiorentino, da 8 a 10 fiorini al braccio, o velluto di seta, a 4 fiorini al braccio19 - ed erano mercanti di prim’ordine, che trattavano abitualmente rame e avevano a che fare con gli imperatori. Il signor Arnold o il signor Friedländer-Fould, oggi, non acconsentirebbero certo di vendere un paio di metri di fettuccia, neppure al nostro imperatore. I setaioli inglesi, al tempo del grande incendio di Londra, e ancora vent’anni dopo, vivevano tutti nella City, dove si erano probabilmente stabiliti fin dal tempo dei Plantageneti, nella stretta e malsana Pater Noster Row, che era stata costruita proprio per loro. “I loro ampi negozi, le abitazioni sul retro, i lucernari, e altre comodità che erano state costruite per il loro commercio si possono ancora vedere” si legge nella quinta edizione del Complete English Tradesman del 1745. I loro magazzini erano “straordinariamente grandi” ed essi vendevano seguendo quei metodi che erano stati dei loro antenati. Tutta la migliore clientela li andava a cercare nella Pater Noster Row, la corte prima di tutti […]. La situazione mutò radicalmente quando, scrive il nostro curatore, vennero i tempi “gaudenti”, trascurando peraltro di dirci quando ebbe inizio tale periodo (dice soltanto che i vecchi mercanti stavano lì “circa vent’anni dopo l’incendio”, quindi poiché il grande incendio di Londra si verificò nel 1666, si era sotto il regno di Carlo II, un regno giustamente chiamato gaudente). Allora crebbe, innanzi tutto, e con grande rapidità, il numero dei mercanti che vendevano seta al minuto: essi cominciarono a stare stretti in Pater Noster Row, e ad insediarsi nella periferia di Londra - ad Aldgate, Lombard Street e attorno al Covent Garden, nomi che diventarono presto noti. Poiché qui le strade erano più larghe, la clientela ricca (compresa la corte), che viaggiava in carrozza, cominciò a fare acquisti nei nuovi negozi, e a non andare più nella City. Pater Noster Row si spopolò, e in meno di vent’anni i vecchi mercanti furono costretti a lasciare i negozi e a seguire la corrente dei clienti: proprio come in mare, ricorda l’autore, i pescatori seguono i pesci, quando questi cambiano percorso. (I nuovi out lying mercers, che in tal modo rivoluzionarono radicalmente il commercio delle sete, erano forse ebrei venuti a Londra con la moglie di Carlo II o con gli Orange? E’ certo possibile). Nell’arco di dieci anni, anche la zona attorno al Covent Garden fu abbandonata. I mercanti sciamarono come api in cerca di una nuova sede, e la trovarono infine a Ludgate Hill, dove rimasero a lungo: il numero dei setaioli, che era stato da cinquanta a sessanta nel 1663, crebbe così fino a 300 o 400. Nello stesso periodo in cui i setaioli se ne andarono dal quartiere dove avevano vissuto per secoli per distribuirsi un po’ in tutta Londra, anche molti altri negozianti e artigiani abbandonarono le rispettive vecchie strade, in cui avevano abitato per tutto il medioevo. Tra di loro, non pochi - per esempio, i commercianti di biancheria di lino, anch’essa un prodotto di lusso per il ricco e per la sua amante - crebbero in modo sorprendente. Ciò che questo resoconto ci insegna, è che i commercianti di articoli di lusso, grazie ad una esplosione della domanda, si ingrandirono in breve tempo e abbandonarono i vecchi negozi. Si aprì così anche la porta attraverso cui il moderno spirito commerciale (der moderne Kaufmannische Geist) poté entrare nelle quiete stanze del commercio al dettaglio. La trasformazione dei commerci medioevali in imprese capitalistiche divenne allora solo una questi negozi sono arredati in maniera così lussuosa “da sembrare dei palazzi signorili e da richiedere investimenti di capitale straordinariamente alti”25. Accanto ad essi vi sono certamente, proprio come a Parigi, negozi di arredamento di proprietà di tappezzieri; alcuni di loro, detti upholders, hanno negozi grandissimi con una gran quantità di articoli finiti sempre a disposizione. 4) L’oggettivazione del rapporto tra mercante e cliente, che caratterizza essenzialmente tutto il successivo sviluppo capitalistico del commercio, ha inizio con i negozi di lusso: il “Petit Dunkerque” è, per quanto ne so, il primo negozio al dettaglio che pratichi “prezzi fissi’’26. 5)La grandezza di questi negozi di lusso è l’ultimo punto da discutere: nella misura in cui i suddetti principi commerciali trovano applicazione, deve aumentare, di conseguenza, la base capitalistica sulla quale si fondano i rapporti d’affari. Ciò si riferisce in particolare ai negozi di seterie, una parte dei quali erano appunto diventati molto grandi. Di un negozio al dettaglio parigino agli inizi del XVIII secolo, Galpin, sappiamo che vendette in un solo giorno stoffa per 80.000 lire27. Il Complete English Tradesman riferisce di un setaiolo che, nel 1727, occupava nel suo negozio molti impiegati e lavoranti. Egli servì una signora, che si era trattenuta deliberatamente nel negozio per due ore, senza comperare nulla, vendendole merce per 3000 sterline. Un altro setaiolo ammetteva di aver venduto, in un anno, merce per 40.000 sterline. Il capitale necessario per aprire un negozio di seterie, attorno alla metà del XVIII secolo, ammontava, secondo alcuni, dalle 500 alle 2,000 sterline, secondo altri dalle 1.000 alle 10.000: “10.000 sterline, se non sono impiegate bene, fanno una magra figura in un settore come questo” […]. Dunque, anche e soprattutto nel commercio al dettaglio il capitalismo si fa avanti grazie ai consumi di lusso. Le ragioni sono ovvie e implicite nella esposizione precedente, ma voglio segnalarle espressamente ancora una volta tutte insieme: 1) La natura delle merci rende necessaria una organizzazione capitalistica: sono merci di grande valore ed entrano in circolazione in quantità apprezzabili. 2) Il tipo di clientela stimola una evoluzione in senso capitalistico; essa pretende eleganza e servizio; inoltre, (e questo fatto sembra aver richiamato spesso l’attenzione in quell’epoca felice, poiché la menzionano tutti coloro che offrono consigli sul commercio) questa distinta clientela non paga mai, o quasi mai, in contanti; il commerciante che tratta oggetti di lusso deve allora, a parità di circostanze, aver sempre a disposizione un grosso capitale, perché in conseguenza del sistema del credito, il rientro di cassa è lento. III. Il lusso e l’agricoltura 1. In Europa Il capitalismo in agricoltura fu subito favorito dalla trasformazione in pascoli per pecore allo scopo di soddisfare la crescente domanda di lana delle terre prima coltivate da piccoli contadini. Ciò ebbe inizio durante il medioevo e successivamente divenne prevalente in Italia meridionale, in Spagna e in Inghilterra. Qui, sotto i Tudor, il diffondersi dell’allevamento di ovini, promosso dai nobili a spese delle vecchia economia contadina ebbe successo, come è noto, in modo così ampio e rapido che Thomas Moore arrivò ad affermare che le pecore divoravano gli uomini. Per la verità, credo si sia data una valutazione esagerata dell’estensione delle terre allora recintate (enclosures) e trasformate in pascoli. Comunque sia, un movimento nella direzione della grande impresa capitalistica in agricoltura è certo esistito, e non si è mai arrestato fino al XVIII secolo. Questo movimento ha un duplice significato per lo sviluppo del capitalismo moderno: da un lato, crea forme di organizzazione capitalistica, dall’altro, stimola l’industria capitalista riducendo lo spazio nelle campagne per i piccoli contadini indipendenti. Come vedremo più oltre, anche questo movimento, nella sua interezza, è da attribuirsi al lusso, perché le lane, prodotte nei nuovi allevamenti di pecore, costituiscono la materia prima per tessuti molto fini, prodotti dalla tessitura di lusso molto sviluppata nelle Fiandre, nel Brabante e a Firenze, per i consumi dei ricchi. L’influenza del lusso sull’economia agraria favorisce inoltre uno sviluppo della tecnica produttiva, rendendola più raffinata; questo a sua volta accresce i profitti e di conseguenza aumenta il valore della terra e spinge i proprietari terrieri, se non proprio ad iniziare aziende agrarie capitalistiche, almeno ad una gestione economica di stampo più capitalistico tanto che, presto, si spezzeranno le vecchie forme dell’agricoltura feudale e, indirettamente, si aprirà la strada ad uno sviluppo capitalistico generalizzato, come ho tentato di dimostrare nel mio Capitalismo moderno. La maggior parte delle radicali trasformazioni tecniche ed economiche che si verificarono nell’economia agraria europea fino al XIX, sono state provocate, in questo senso, dalla cre- scente richiesta di lusso della popolazione benestante. Rispetto a questa crescente influenza del lusso sull’economia agraria, le necessità delle masse (dunque, la domanda di cereali) hanno minore importanza. Come verrà illustrato nel secondo volume di questi studi, la domanda di massa esprime il suo carattere di novità solo in un punto: dal XVI secolo in poi, gli eserciti stabili che vanno acquistando importanza avanzeranno grosse richieste d’approvvigionamenti. Se non fosse stato per questo, la produzione di cereali per la popolazione cittadina, anche se in crescente aumento, sarebbe avvenuta nell’ambito dell’economia agraria feudale. E qualora mi si volesse contestare questo punto - sostenendo per esempio che fu proprio il grande consumo di cereali in metropoli come Londra, Parigi, Amsterdam, Milano e Venezia a sostenere l’agricoltura – potrei facilmente rispondere che queste grandi capitali erano a loro volta, tutte, figlie del lusso. Ma credo che non serva far ricorso a tale ragionamento per dimostrare che le trasformazioni dell’agricoltura, che si verificarono fino al XVIII secolo, siano dovute essenzialmente al lusso. La rapida ascesa dei Comuni italiani negli ultimi anni del medioevo aveva avuto come influenza sul prezzo dei prodotti agricoli e, di conseguenza, sulla formazione delle aziende agricole, si deve rispondere che ciò non dipende dall’incremento demografico: esso non è infatti stato particolarmente marcato nel XVIII secolo. Londra aveva già, se ci fidiamo dei calcoli di Petty e King, negli anni ‘80 del XVII secolo, circa 700.000 abitanti; cento anni do- po, pochi di più 36e all’inizio del XIX secolo, nel 1801, anno prima del quale, già da alcuni decenni, era aumentata l’immigrazione nella città, solo 864.845 abitanti. Ciò che ha esercitato un’influenza così considerevole sulla domanda di prodotti della campagna deve essere stato il raffinamento dei consumi (Verfeinerung des Konsums) della popolazione benestante. Perveniamo alla stessa conclusione osservando l’andamento dei prezzi dei differenti prodotti agricoli durante il XVIII secolo. Troviamo infatti che in Inghilterra, almeno nella prima metà del secolo, il prezzo del grano non tende affatto a crescere, mentre il prezzo degli altri prodotti, soprattutto della carne, aumenta notevolmente37. Ciò che, di fatto, sappiamo sulla reale formazione dei consumi, conferma ampiamente la nostra ipotesi. Soprattutto il consumo di carne a Londra non solo dovette essere, in assoluto, nel XVIII secolo, veramente notevole, ma anche dovette pure aumentare considerevolmente. Sebbene non si debba attribuire eccessiva importanza alle cifre fornite da Eden38 - secondo le quali alla fine del secolo il consumo di carne, escluso quella di maiale e di vitello, raggiunse 90 libbre pro capite ossia una quantità che non viene oggi consumata in nessuna delle grandi città (ed era aumento nel corso di sessant’anni del 50% a testa a fronte di un aumento della popolazione di 100.000 unità) - si tratta, senza dubbio, sempre di un consumo di carne straordinariamente alto. Lo vediamo per esempio dalle informazioni in nostro possesso sul famoso mercato del bestiame di Smithfield, che si teneva due volte alla settimana, ed era il più grande di tutto il mondo, e dal non meno famoso mercato della carne di Leaden Hall, dove, secondo un ambasciatore spagnolo veniva venduta in un mese tanta carne quanta in un anno veniva consumata in tutta la Spagna39. Attorno alla metà del XVIII secolo devono essere esistiti, a Londra, non meno di 17 “grandi mercati della carne”, “per tutti i tipi di carne”, che vendevano anche volatili e cacciagione, ed inoltre molte macellerie, per le famiglie che vivevano lontano da un grande mercato40. Altre informazioni possiamo ottenerle dai rapporti in nostro possesso concernenti il diffusissimo e assai progredito allevamento del bestiame nel XVIII secolo. Tali informazioni concordano sul fatto che sono soprattutto la sistemazione dei pascoli e l’allevamento intensivo le basi per lo sviluppo dell’agricoltura, nel Kent come nel Norfolk, nell’Essex come nel Somerset. In molti casi si era già verificata un’avanzata specializzazione nell’allevamento, soprattutto si distingueva ovviamente tra allevamento di pecore e allevamento di bovini, ma si distinguevano anche i metodi in modo che i territori montani, come il Devonshire, furono destinati all’allevamento vero e proprio mentre le pianure fertili all’ingrasso 41 […]. 2. Nelle colonie La nascita del lusso in Europa ha avuto tutt’altre conseguenze sull’agricoltura delle colonie: ha stimolato la nascita di imprese capitalistiche in grande stile, forse le prime del genere. Innanzi tutto emerge chiaramente, da un esame degli articoli commerciati con le colonie, che, in quelle europee, la produzione riguardava oggetti di lusso di notevole valore, un tipo di produzione che è intrinseco all’agricoltura coloniale. Gli articoli qui considerati sono: zucchero, cacao, cotone (un prodotto di lusso fin verso la metà del XVIII secolo) e caffè, tutte merci prodotte nelle colonie americane, e spezie, prodotto principale delle colonie dell’Asia meridionale;[…] “Nelle colonie si lavora solo per il lusso” scrive molto opportunamente un autore agli inizi del secolo XVIII42. Se prescindiamo dall’organizzazione del lavoro nelle colonie olandesi, saldamente ancorata piantagioni di spezie e che si basava sul sistema di lavoro forzato imposto agli indigeni, tutte le cosiddette merci di lusso fornite dalle colonie degli europei venivano prodotte in grandi piantagioni che presentavano caratteristiche nettamente capitalistiche Si è detto, forse a ragione, che qui, lontano dalla tradizione della cultura europea, si sia diffuso per la prima volta un modello puro di capitalismo. Certo si deve allora ulteriormente ampliare il concetto di capitalismo: si devono definire capitalistiche anche quelle organiz- zazioni che si basano sul lavoro non libero, eseguito da schiavi comperati, poiché è noto che la manodopera nelle colonie era per lo più fornita da schiavi. Ma tutti i requisiti propri di un’impresa capitalistica erano comunque certamente presenti: il predominio del principio del profitto, della razionalizzazione dell’economia, le grandi dimensioni dell’impresa, la separazione tra direzione della produzione e forza lavoro […]. Carattere nettamente capitalistico presentano le piantagioni nelle colonie delle città italiane nel Mare Egeo già durante il medioevo. Dalle isole più fertili (Creta, Chio, Cipro) provenivano vino, cotone, indaco, mastice, olive, gelso, fichi, laudano, coloquintide, carrube, e soprattutto zucchero. Nel distretto di Liflusso, per esempio, i Cornaro possedevano una vasta piantagione di zucchero, che Ghistele chiamava il più ricco magazzino dell’intera Cipro. Quando l’italiano Casola visitò la regione, nel 1494, vi lavoravano 400 persone. Nelle colonie americane, queste proporzioni si presentano ingigantite, e dopo un breve periodo di schiavitù dei pellerossa, prevalse quella dei negri. […] Otterremo un’idea precisa dell’estensione e dell’importanza del sistema delle piantagioni analizzando il numero degli schiavi che vi lavorano. Farlo, non è troppo difficile, poiché è disponibile una statistica abbastanza precisa della popolazione degli schiavi almeno per il XIX secolo, e in parte per il XVIII. Il livello di sviluppo massimo raggiunto dell’impresa schiavistica precede di poco l’abolizione della schiavitù, quando già non tutte le piantagioni erano destinate alla produzione di merci di lusso - ovvero schiavi impegnati nelle piantagioni di cotone, a produrre materia prima da filare per i loro “fratelli” europei. Le cifre necessarie si possono che si potrebbe forse chiamare industria del lusso mediata - penso piuttosto all’industria del lusso in senso proprio, una categoria particolare di industrie, che abbiamo visto distinguersi dalle altre in modo significativo (almeno per quanto possiamo intuire). Ma non è possibile limitare l’applicazione del concetto di industria del lusso, per così dire, immediata e autentica a quelle aziende che producono merci di lusso di prim’ordine, perché, come sostenuto, non possiamo escludere ciò che per il senso comune è chiaramente industria del lusso come, per esempio, la tessitura del broccato o di fili intrecciati d’oro. Credo allora che sia la natura della merce prodotta che debba essere usata come discriminante dell’uso del concetto di industria del lusso: ciò che è decisivo è il valore specifico della merce prodotta. Quindi, una filanda che tratta la seta per quanto produca una merce di terz’ordine, è industria di lusso; una segheria, che consegna una merce di lusso di second’ordine, non lo è. Solo la vendita in massa rende possibile lo sviluppo capitalistico in quelle industrie che producono merci di modesto valore, quindi beni di valore specifico inferiore, ed essa è possibile solo grazie alla diffusa richiesta di merci di lusso. Tratteremo ora le industrie di lusso vere e proprie. Anche considerando queste soltanto, la sfera di influenza del lusso e la sua importanza per la formazione del sistema dell’economia capitalistica è straordinariamente grande. Tuttavia, non sarà purtroppo possibile dimostrarne l’importanza con dati quantitativi. Né sarà possibile accertare, valendoci delle cifre, la parte avuta dal lusso nella trasformazione della produzione artigianale in organizzazione capitalistica. Questo non sarebbe possibile farlo neppure oggi con l’aiuto di statistiche professionali e aziendali progredite. E questo perché né oggi né in passato le categorie dell’industria del lusso o dell’industria che produce merci di qualità sono mai state specificate come tali nelle tabelle o negli classificazioni statistiche. Si dice “fabbrica di tessuti”, ma nessuna statistica al mondo distingue tra tessuti fini e tessuti ordinari, e così in molti altri casi. Ne risulta che sebbene possediamo dati quantitativi sulle dimensioni di numerose industrie, non possiamo determinare la loro produzione di lusso. […] Se, nonostante questo, intendiamo valutare l’importanza del lusso per lo sviluppo del capitalismo industriale dobbiamo, come in casi analoghi, muoverci per via di procedimento induttivo monografico e, soprattutto tentare di individuare quei caratteri che essenzialmente definiscono ciò che nelle manifestazioni della vita industriale è riconosciuta come industria di lusso capitalistica. Dovremo quindi dimostrare quanto segue: 1) che alcune industrie di lusso hanno raggiunto dimensioni enormi, della cui importanza potremo dare un’idea tramite diversi confronti; 2) che le industrie propriamente di lusso hanno assunto, fin dall’inizio forme capitalistiche; 3) che, all’interno di un medesimo tipo d’industria, quei settori che producono merci di lusso hanno tipicamente accettato, prima degli altri settori, il modello capitalistico; 4) che è nelle industrie di lusso che per prime si sono sviluppate le forme organizzative e produttive del grande capitalismo. Si otterrà una maggiore chiarezza se la trattazione analizzerà separatamente le industrie di lusso “pure” e quelle “miste”. 2. Le industrie del lusso “pure” L’industria della seta. Che l’industria della seta si sia dimostrata di una straordinaria importanza nella vita economica delle nazioni europee durante la fase iniziale del capitalismo, lo sanno perfino i nostri “storici”. In un certo senso, si può considerare questo fatto “storicamente noto”, e non discuterne più di tanto. Due cifre vanno però ricordate. Il valore della seta di Lione ammontava, nel periodo 1770-1784, secondo i calcoli riportati nell’Encyclopedie Méthodique, a circa 60 milioni di franchi. Il valore delle importazioni francesi raggiunse, negli anni 1779, 1780, 1781, rispettivamente 235, 236, 260 milioni di franchi; le esportazioni, per gli stessi anni, rispettivamente 443, 432 e 529 milioni di franchi. Le sete di Lione rappresentavano quindi, da sole, 1/8 - 1/7 del valore delle merci esportate. […] Accanto al sistema del lavoro a domicilio si sviluppò anche, e molto presto, per la produzione della seta, la grande impresa chiusa di tipo societario, sotto forma di manifattura o di fabbrica. Quasi certamente il primo caso assodato di fabbrica organizzata capitalisticamente durante il medioevo è quello dell’industria della seta. Certo bisogna essere prudenti nell’interpretare la documentazione sugli impianti industriali di questi secoli. In linea di massima, se si parla di manifattura e anche di fabbrica, non si sta discutendo della forma organizzativa, bensì ci si riferisce semplicemente solo all’attività come tale. E perfino quando si dice che questo o quell’altro ha aperto una manifattura di seterie, nella quale sono impiegate 500 persone, non si sa ancora se si tratta di un’organizzazione d’impresa oppure di lavoro industriale a domicilio. E’ tuttavia possibile indicare con sicurezza casi di grandi imprese organizzate industrialmente che producevano tessuti di seta, anche per epoche molto antiche, anche se non si può comunque risalire a prima del XVI secolo. La prima impresa manifatturiera della quale sono a conoscenza è quella di Raoulet Viard, uno dei fondatori dell’industria lionese della seta, che aveva raccolto in una sola casa 46 telai. La filatura della seta invece si trova anche prima di quell’epoca in grandi organizzazioni e proprio sotto forma di fabbrica. Alidosi ci dice che filande con 4000 fusi e funzionamento idraulico degli impianti si trovano già nella prima metà del XIV secolo: il 23 giugno 1341 infatti la città di Bologna concede a un certo Bolognino di Barghesano da Lucca il permesso di costruire una filanda per la seta, nella quale “una singola macchina fa il lavoro di 4000 filatrici”. Ecco quanto scrive Alidosi45: Sono certe macchine grandi, le quali mosse da un piccolo canaletto d’acqua di Reno fanno ciascuna di loro con molta prestezza filare, torzere e addoppiare quattro mila fila di seta, operando in un istante quel che farebbono quattromila filatrici e quell’acqua ha proprietà di fare la seta buona e vaga e lavorano ogn’anno centottanta mula libre di seta, cioè centomilla di forestiera, e ottantamilla di nostrana con la seta doppia e secondo che n’è abbondanza. E la più antica memoria che di questi ho trovata è stata dell’anno 1341 à 23 giugno, che la città concesse licenza à Bolognino Le industrie di lusso, come abbiano visto, sono ovunque caratterizzate da capitalismo e, spesso, da attività su larga scala e, nei casi trattati, si sono sviluppate accanto alle vecchie forme artigianali. Solo quando avremo dato uno sguardo a quelle industrie di lusso che si sono formate nell’ambito del vecchio artigianato per poi differenziarsene potremo però meglio apprezzare in che misura quale importanza abbia avuto lo sviluppo della domanda di beni di lusso per lo sviluppo del capitalismo. Vedremo allora (ed averne un’esatta co- noscenza è la cosa più importante per la storia economica) che sono quei settori dell’artigianato che producono anche per soddisfare i consumi voluttuari ad essersi evoluti in forma capitalistica. In altre parole, la maggior parte delle imprese artigiane subiscono, già durante il primo capitalismo, un processo di differenziazione: il lavoro artistico qualificato si separa dal lavoro ordinario, e si rende autonomo con proprie industrie; queste ultime assumono tratti capitalistici. La produzione ordinaria rimane, invece, per lungo tempo, alle imprese artigiane, fino a che anche questa (ma siamo già ai nostri giorni) si trasforma in pro- duzione di tipo capitalistico. Artigianato e industria del lusso giungono a contrapporsi, escludendosi reciprocamente, anche nella coscienza dei contemporanei, come Mercier ci fa sapere in un passo molto bello e significativo54: gli artigiani sembrano gli individui più felici. Traendo profitto dalla loro industria e dalla loro abilità, stanno alloro posto, il che è tanto saggio quante raro. Senza ambizioni, e senza vanità, non lavorano che per mantenersi e per il loro svago (!), sono onesti e civili nei confronti di tutti, perché hanno bisogno di tutti. La vita degli artigiani è ordinata: si potrebbe dire che, essendo rivolti a occupazioni più utili di quelle delle arti del lusso, ne sono ricompensati da una pace della coscienza e dalla vita tranquilla. Un semplice falegname ha un’aria di onestà che uno smaltatore certamente non ha. In questo quadro, chiamiamo “miste” quelle industrie che, al contrario di quelle di lusso, producono sia oggetti di lusso che oggetti ordinari. Ovviamente, non si tratta, anche in questo caso, di esaminare dettagliatamente l’insieme delle industrie di questo tipo; è suf- ficiente dimostrare che l’argomentazione vale per le più importanti. L’industria laniera. Inutile dire che l’industria della lana, accanto a quella della seta, era l’industria più importante all’epoca del primo capitalismo. Essa produceva, ovviamente, per i poveri e per i ricchi. Dove però incontriamo un’industria laniera fiorente, vanto della nazione o della città e sulla quale si fonda la ricchezza di un territorio, si tratta sempre di un’attività che produce merce fine e pregiata: è industria del lusso, organizzata molto presto su base capitalistica e su larga scala, almeno fino a quando la domanda indotta dagli eserciti non crea anche un’importante tessitura capitalistica che produce articoli di massa. Detto altrimenti, nella misura in cui l’industria laniera prende parte al formarsi del capitalismo moderno, essa è un’industria di lusso. Forse, la prima industria in su grande scala totalmente organizzata sul modello capitalistico è la tessitura della lana a Firenze. E’ noto che essa, assieme all’industria della seta, ha fondato lo splendore e la potenza di Firenze (unitamente agli istituti di credito e alle speculazioni monetarie). Che essa, di fatto, poggiasse già molto presto, probabilmente dal XIII secolo, su base capitalistica, è stato dimostrato senza dubbio dalle eccellenti ricerche di Alfred Doren 55. […] Sappiamo poco dell’industria spagnola della lana. Essa fiorì, sostengono generalmente le fonti, nel XVI secolo. Sappiamo comunque abbastanza per affermare che 1) era un’industria di lusso (finché era fiorente) e 2) era organizzata in modo capitalistico (laddove produceva beni di lusso). Guicciardini dice soltanto: “oggi hanno cominciato in qualche luogo a attendervi e di già in qualche parte della Spagna si lavorano panni e drappi da altebassie e d’oro in fuora come in Valenza, in Toleto, in Sibilia”56. In una relazione del XVI secolo, che possediamo, su un corteo a Segovia, si trova un passo molto istruttivo che qui riportiamo57: in seconda posizione giungevano i lanieri e i fabbricanti di tessuti, che il popolo chiama, a torto, mercanti. Essi sono come i padri di famiglia, che impiegano nelle loro case e anche fuori di queste un gran numero di persone, molti fino a duecento, molti fino a trecento. Con il lavoro di terzi, producono così una gran quantità di tessuti finissimi... In Francia, la tessitura dei panni fini si sviluppò durante il XVII secolo, specialmente a Rouen, Sédan, Elboef e Reims, e nei loro circondari58. Anche qui, però, l’organizzazione ca- pitalistica si sviluppò nei secoli XVII e XVIII in modo straordinario. Certo, il sistema manifatturiero domestico assunse in Sédan solo proporzioni modeste: di quattro enterpreneurs de fabrique in possesso di licenza due impegnano ciascuno 104 telai, uno 65, uno 50; dei ventuno che non possiedono licenza, uno più di 40, quattro più di 30, ecc.59. Penso però all’azienda dei fratelli Van Robais, che avevano fabbriche di dimensioni considerevoli. Fonti statistiche accurate su tale azienda60 ci permettono di determinare anche nei particolari la sua organizzazione: vediamo che il processo di lavorazione della lana, dalla materia prima sino al prodotto finito, era diviso in 22 operazioni, e vediamo che non meno di 1692 lavoratori erano occupati in un solo stabilimento - di questi, 822 Sono filatori e filatrici, 200 sono tessitori che lavorano 100 telai. Ovviamente, in aggiunta a questa industria di lusso, troviamo nei dintorni, una grande diffusione dell’artigianato laniero che produce merce ordinaria. La più famosa industria laniera nel XVIII secolo è però quella inglese. Su di essa si basava il “benessere della nazione”; “La lana è chiaramente ciò su cui si fonda la ricchezza inglese”, scrive J. Child. Nel 1738 c’erano, in Inghilterra, un milione e mezzo di persone occupate nella lavorazione della lana. Il valore totale dei prodotti in lana, nel 1700, era già di 300.000 sterline e nel 1815 era di 9.381.426 sterline61. Di queste stoffe di lana ve ne erano, naturalmente, di fini e di grezze. E certamente l’industria laniera, in Inghilterra non era tutta, nel suo complesso, un’industria di lusso. Particolarmente negli ultimi anni, e specialmente quando l’America divenne un forte consumatore delle merci dell’industria laniera inglese (dei 9 milioni di sterline del 1815, almeno 4 venivano esportati in America), la quantità di stoffe grezze per i borghesi e le masse diventò perfino forse preponderante. Ma certamente tale industria era anche di lusso: nel XVIII i tessuti inglesi fini, come pure le costose stoffe mondiale di abiti confezionati”, ma si sbaglia: egli è il primo del quale conosciamo il nome, avrebbe dovuto scrivere. L’esistenza di abiti confezionati è storicamente accertata già da molti anni prima: l’informazione fornita Camera Generale di Commercio risale appunto al 1741. A Londra si trovano già nel XVII secolo sarti che confezionano abiti pronti, con bottega nei migliori quartieri della città. Questo costume dev’essere sorto attorno alla metà del secolo, dunque probabilmente in quel periodo agitato, durante il quale i commercianti di seta, “come uno sciame di api esaltate”, si erano andati spostando per la città. Uno scritto del 168168 bolla questo sviluppo così “molti si ricordano ancora l’epoca in cui a Londra non c’era nessuna fabbrica di abiti confezionati”. I sarti che hanno una clientela fissa (accustomed tailors) si oppongono ai venditori di abiti (taylers being salesmen) che pagano affitti elevati nei quartieri eleganti, concedono crediti a lunga scadenza alla loro clientela aristocratica (dunque, vendono abiti di lusso!) e che nei loro laboratori impiegano una dozzina o perfino una ventina di lavoranti. Ma il campo in cui si sviluppò la sartoria di tipo capitalistico fu allora (come oggi) la confezione di abiti su misura. La descrizione che R. Campbell69 ci dà di un negozio di sartoria su misura di Londra, potrebbe valere senz’altro anche oggi per un negozio dello stesso tipo: clientela molto esigente, che fa lavorare in genere a credito, spese notevoli per le stoffe e le decorazioni più care, che costano più del salario pagato per la confezione, il lavoro differenziato in taglio, molto qualificato, e cucito, meno specializzato. Il tagliatore guadagna bene: oltre ai ritagli e alla mancia, che i gentlemen sono soliti dargli quando provano il vestito, guadagna una ghinea alla settimana: i buoni tagliatori sono sempre richiesti. Gli altri lavoranti sono una schiera “numerosa come cavallette”, e in genere “poveri come topi”: tre o quattro mesi all’anno sono disoccupati, e conducono un’esistenza da proletari. Va ricordato che la prima associazione sindacale della quale si ha notizia è quella dei lavoranti di sartoria70. La sartoria da donna e i negozi di modista sono peraltro a loro volta cominciati in grande stile già nel XVIII secolo. La sarta di Maria Antonietta, che abbiamo già ricordato più volte, fece una bancarotta da 3 milioni di franchi71. […] La fabbricazione dei cappelli “Chiunque, dal principe al contadino, ha bisogno di un cappello. Il cappellaio esercita quindi un mestiere necessario in ogni nazione. Ma la maggior parte dei cappellai, specialmente nelle città piccole, in genere produce solo pochi e scadenti cappelli per le classi inferiori. Poiché i personaggi cittadini, la gente ricca, e gli ufficiali statali considerano tali articoli al di sotto del proprio censo e cercano cappelli fini, si comprende come anche in questo paese sia necessario produrre cappelli fini”72. Di conseguenza manifatture di cappelli di qualità vengono impiantate a Parigi, Marsiglia, Lione, Rouen, Caudebec, ecc. Abbiamo notizia di un famoso cappellaio già alla fine del XVII secolo: egli lavora a Rouen con 19 aiutanti, 12 dei quali portò poi con sé quando si trasferì a Rotterdam73. Più tardi anche in Inghilterra si svilupparono tali fabbriche, dove per esempio si fabbricavano i cappelli cardinalizi (ciascuno costava 3 o 6 ghinee!). Infine, anche in Germania, a Erlangen come a Berlino; e proprio a Berlino, fin verso la fine del XVIII secolo, la fabbricazione di cappelli fu caratterizzata in linea di massima dal lavoro ar- tigianale; nel 1782, però, viene fondata una fabbrica di cappelli dove sono impiegati 37 ope- rai e che produce per un totale di 21.800 talleri, “cappelli di eccellente qualità e raffinatezza” (la corporazione dei cappellai, allora 133 membri, produsse in tutto, nello stesso anno, merce per 43.240 talleri)74. L’industria edilizia. Già al tempo dei papi rinascimentali, la costruzione di grandi palazzi e chiese assunse forme organizzative capitalistiche. Per esempio, Beltramo di Martino da Varese vicino Como, che costruiva sotto Nicola V, disponeva di un vero e proprio esercito di operai e possedeva, a Roma, grandi fabbriche di tegole nonché forni per la calce; le sue forniture costavano, alla cassa papale, ogni anno, circa 30.000 ducati. Ad alcuni imprenditori molto attivi non era più possibile supervisionare personalmente la costruzione di tutti gli edifici presi in appalto: si facevano così rappresentare da un responsabile alla costruzione o da un sovrintendente (il “soprastante”). Filarete riferisce, nel suo trattato, che ciascun sovrintendente poteva contare su 85 muratori75. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che nel XVII secolo la costruzione di palazzi reali francesi fosse affidata a imprenditori dotati di forti capitali. […] L’immagine che ricaviamo dell’industria edilizia parigina tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo è riassumibile come segue: muratoria e carpenteria sono già ampiamente organizzate secondo il modello capitalistico (naturalmente, solo finché si tratta di grandi edifici monumentali). In entrambi i settori incontriamo sempre le stesse ditte, che in linea di massima appartengono a due soci, e che vengono esplicitamente denominate “en- terpreneurs du bastiment neuf du Louvre”, “enterpreneurs des ouvrages de charpenterie du bastiment du Louvre”, ecc. Nel 1664, le due maggiori ditte sono Jacques Mazières & Pierre Bergeron che, in un anno, al Louvre hanno costruito per 861.330 lire, un altro anno per 610.600 lire, e a Versailles per 200.963 lire; e la ditta Poncelet Cliquin & Paul Charpentier, per lavori attorno ad una cifra di 100.000/150.000 franchi, e poi una dozzina d’altre ditte minori. A questi due principali settori dell’edilizia si affianca poi il lavoro di copertura dei tetti, che presto si trasforma in organizzazione capitalistica. Analizzando le attività di tale Ch. Yvon, si evince che nel 1664 egli fece lavori al Louvre, a St. Germain e a Versailles per una somma di 49.900 lire. Più o meno della stessa importanza è la ditta Jean Pillart & Claude Freneau, che si firmano “maistres couvreurs, enterpreneurs des ouvrages de couverture et plomberie”. I rimanenti rami specializzati dell’edilizia, ebanisteria, serramenti, vetreria, sono ancora organizzati artigianalmente all’inizio della nostra epoca; si tratta comunque chiaramente di maestri con disponibilità monetarie e con una mezza dozzina di lavoranti e apprendisti e che lavorano spesso in 10 o 20 contemporaneamente, allo stesso […] La fabbricazione di carrozze, di tappezzerie e di selleria, durante il periodo iniziale del capitalismo, prendono i tratti di una nuova industria di lusso su base capitalistica, per la lana nello Yorkshire, per il lino nella Slesia, ed entrambe lavoravano per il mercato mondiale, ed entrambe erano organizzate in modo assolutamente artigianale. Dunque, la dilatazione geografica delle vendite non può certo essere la ragione decisiva che ha consentito al capitalismo di emergere. La mia tesi è che la ragione decisiva sia invece proprio l’ampliarsi dei consumi di lusso e che, comunque, le industrie sopra citate si adattano al capitalismo perché sono industrie di lusso. Le ragioni che rendono l’industria di lusso più adeguata all’organizzazione capitalistica sono: a) la natura del processo di produzione. Quasi sempre un bene di lusso richiede materia prima costosa, che spesso deve venire acquistata lontano. Ciò favorisce il commerciante ricco ed esperto: se le filaresses parigine, già nel XIII secolo, lavoravano la seta in cambio di un salario per un commerciante di tessuti che poi vendeva la seta in città, il lino e la lana, ancora dopo secoli, sono lavorate dai singoli contadini in economia; quale altra causa ha, in questo caso, l’organizzazione industriale del lavoro a domicilio, se non quella che solo un ricco committente può acquistare una materia prima molto costosa? Nella maggior parte dei casi, poi, il procedimento tramite il quale viene prodotta la merce di lusso, è molto più dispendioso di quello utilizzato per produrre merci di qualità ordinaria (affermazione questa che vale per allora non per oggi). Si pensi alle prime industrie tessili (con le difficoltà della colorazione e dell’apprettatura), alla fabbricazione del vetro e delle porcellane, all’annodatura dei tappeti, alla tessitura, alla produzione degli specchi - in breve, alla maggior parte dei procedimenti dell’industria di lusso. Ancora una volta, dunque, è favorito chi dispone di un forte capitale. Ma il procedimento per la produzione di beni di lusso non è solo più costoso, presuppone anche maggior ingegno, è più complesso, esige più conoscenze, una più ampia visione d’insieme, più talento e inclinazione. Per queste ragioni, solo i più capaci, nel senso dei migliori, riescono ad emergere dalla massa, e con le loro abilità possono occupare la posizione di nuovi soggetti economici, destinati soprattutto alla direzione e all’organizzazione. Molto spesso, l’alto livello qualitativo dei prodotti di lusso si può ottenere solo se il processo di produzione ha già raggiunto, mediante il lavoro specializzato e in squadre, un alto livello di complessità: la sartoria su misura di tipo capitalistico produce solo merce di qualità, perché il lavoro, molto costoso, di tagliatori di talento è utilizzato da una massa di mediocri cucitori. E una differenziazione di prestazioni di notevole valore è possibile solo su una base produttiva ampia, come quella attuata dall’or- ganizzazione produttiva creata dall’impresa capitalistica. Una causa che spinge proprio l’industria di lusso, piuttosto che le altre, verso il capitalismo, è data b) dalla natura delle vendite. Non intendo insistere su un fenomeno che abbiamo già menzionato ovvero il fatto che la sprezzante trascuratezza dei nobili dell’Ancien régime nel pagare i conti procurava frequenti perdite a chi trattava beni di lusso e che, di conseguenza, egli aveva bisogno di risorse di capitale assai maggiori di quanto non fosse il caso in tempi precedenti. Mi pare comunque importante ricordare che il commercio di pro- dotti di lusso è evidentemente assai più condizionato da grandi oscillazioni congiunturali di quanto lo sia la vendita di articoli d’uso corrente e di massa. La storia di tutte le industrie di lusso ci insegna che i capricci dei ricchi, i cui gusti già nel periodo iniziale del capitalismo cominciano ad orientarsi in base alle dinamiche della moda, cambiano rapidamente. Questo rapido mutamento comporta, da un lato, frequenti eccessi di merci invendute e, dall’altro, esige dal produttore una grande flessibilità mentale, perché egli possa adeguare la produzione alle nuove esigenze. Ora, l’organizzazione capitalistica supera l’artigianato non solo nella capacità di far fronte alle congiunture sfavorevoli ma anche in quella di sfruttare al meglio quelle favorevoli. A queste cause d’ordine generale, fondate sulla natura stessa della cosa” (in der Natur der Sache), si aggiunge una terza causa di ordine storico: c) tutte le industrie di lusso, nel medioevo europeo, sono state create artificialmente da principi, o da stranieri dotati di spirito d’impresa. Come mostrerò altrove, lo straniero svolge un ruolo decisivo nella nascita dell’industria moderna80. A cominciare dagli Umiliati che fondarono l’industria del panno a Firenze, fino agli emigranti francesi che sono i padri dell’industria berlinese, vi è un’ininterrotta catena di industriali migranti e di imprese industriali da loro fondate. Quelle che hanno fondato sono però quasi sempre industrie del lusso, il cui sviluppo interessa certa- mente soprattutto i vari signori delle nazioni in cui si vengono a trovare. Proprio tutte queste industrie che vennero deliberatamente fondate dagli stranieri presentano fin da principio un’impronta razionale. Esse sorgono, in genere, al di fuori delle limitazioni poste dalle antiche corporazioni, e spesso si contrappongono agli interessi consolidati dagli artigiani del luogo. Nel momento in cui si stabiliscono, tali nuove industre non badano ad altro se non all’utile e al profitto; esse costituiscono perciò il migliore terreno su cui può svilupparsi il nuovo e superiore sistema economico. Ma la più importante precondizione che dovette essere soddisfatta affinché potesse esistere un tale sistema economico era l’esistenza di uno smercio adeguato. Ora, e questa e l’ultima causa, poiché d) le altre possibilità di grossi giri d’affari - la vendita in grandi quantità di merci di minor valore, o la vendita di merci “complesse” - si realizzarono solo molto più tardi, le industre del lusso erano le uniche a poter offrire l’opportunità di investire con profitto del denaro da trasformare in capitale. Così il lusso che, come abbiamo visto, era esso stesso figlio legittimo dell’amore illegittimo divenne il padre del capitalismo.
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