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Dal lusso al capitalismo (Werner Sombart), Sintesi del corso di Sociologia

Riassunto completo e dettagliato del saggio di Werner Sombart, inclusivo dell'introduzione di Roberta Sassatelli. Tutte le citazioni sono riportate integralmente.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 03/02/2021

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Atanor_93 🇮🇹

4.6

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92 documenti

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Scarica Dal lusso al capitalismo (Werner Sombart) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! DAL LUSSO AL CAPITALISMO WERNER SOMBART DAL LUSSO AL CAPITALISMO a cura di ROBERTA SASSATELLI PRESENTAZIONE (ROBERTA SASSATELLI) Sui nostri giornali appaiono spesso critiche contro il “capitalismo”. Una delle retoriche normative a cui si ricorre spesso nella cultura contemporanea è quella che stigmatizza la “società di consumo” che incarnerebbe i vizi dell’epoca: materialismo, superficialità, edonismo, insoddisfazione, massificazione, disordine mentale. Si tratterebbe di una nuova forma di depravazione che si esprime in una rincorsa ad oggetti superflui che rispondono a falsi bisogni, indotti dall’industria pubblicitaria. In questa retorica anti- consumistica la nozione di lusso raramente figura come elemento a sé stante. “consumo”, “consumismo”, “materialismo”, “bisogni indotti”, “moda” sono le categorie fondamentali, opposte a “produzione, “operosità”, “spiritualità”, “utilità”. Il lusso è ora un concetto poco usato dal discorso pubblico “serio”: è una categoria che è stata assorbita dalla retorica pubblicitaria e viene associata a oggetti innocenti che la maggior parte delle persone desidera e che non sempre può permettersi. I consumi voluttuari non figurano in modo consistente neanche come categoria di analisi nelle descrizioni canoniche della nascita del capitalismo. Si fa riferimento a una serie di variabili diverse, tutte tendenzialmente inerenti alla sfera della produzione: dalla diffusione di una mentalità borghese acquisitiva e calcolatrice, alla rivoluzione industriale e tecnica, dal diffondersi di punti vendita sempre più numerosi e allettanti, al sistema della moda e allo sviluppo dei media e della pubblicità. È questo uno schema consolidato che si esprime nella duplice equazione tra struttura materiale e produzione, e tra cultura e consumo. La storia del lusso è importante per comprendere la nascita e la genesi del sistema capitalistico e della sua variante tardo-moderna, fortemente caratterizzata dalla visibilità, dal volume e dalla continua innovazione delle merci. È in una simile ottica che il lavoro di Sombart sul lusso può esser rivalutato e riletto, fornendoci spunti. Nel suo “Luxus und Kapitalismus”, di cui presentiamo il capitolo conclusivo, sostiene la tesi che siano stati i beni voluttuari ad avere un ruolo importante nello sviluppo del capitalismo. Nella visione sombartiana, il consumo di beni di lusso contribuisce, incentivando commercio e produzione, a quell’accumulazione di capitale che ha costituito uno dei prerequisiti materiali per lo sviluppo dell’industria moderna. Tali forme di consumo segnano il propagarsi, a partire dalle corti rinascimentali, di un orientamento edonistico-estetico nei confronti degli oggetti. Senza perder d’occhio gli sviluppi dal lato della produzione, Sombart sembra indicare che la domanda, e in particolare quella di beni voluttuari, occupa un posto importante tra i fattori genetici del capitalismo, e questo sia materialmente, sostenendo i consumi e favorendo lo sviluppo di forme di produzione sempre più efficienti e su larga scala, sia culturalmente, connotandosi come spia e catalizzatore di una nuova configurazione dei bisogni che si andrà diffondendo dalla nobiltà all’alta borghesia, e poi a tutto il tessuto sociale. Seguendo lo sviluppo del lusso, dal primo capitalismo a quello maturo, Sombart vuol mostrare che i lussi e con essi la configurazione edonistico-estetica dei bisogni rappresentano un importante elemento dinamico del sistema capitalistico. A promuovere il capitalismo non sono stati solo la mentalità calcolatrice ed acquisitiva dei piccoli borghesi del 700’-800’, magari ispirati da quell’ascetismo calvinista che affascina Weber, ma anche i consumi voluttuari, i lussi e le stravaganze della nobiltà e dell’alta finanza a partire dagli ultimi scorci del tardo Medioevo. Tali consumi avrebbero gradualmente incentivato lo sviluppo del sistema di credito e di indebitamento, e più in generale avrebbero dato impulso a processi di scambio non solo economico tra classi e gruppi sociali diversi, velocizzando, allargando e liberando le dinamiche del gusto dalla costruzione in gerarchie sociali stabili e chiuse e inducendo la necessità di continui e sempre più veloci aggiornamenti degli stili di vita. - Sombart e la genesi del capitalismo Nato nel 1863, l’anno prima di Weber, Sombart si formò in un periodo in cui il dibattito storiografico sullo sviluppo economico-politico aveva segnato il tenore e le problematiche delle nascenti scienze sociali tedesche. La così detta scuola storica si era sviluppata come reazione all’economia politica inglese e poi all’economia neo-classica. I classici inglesi apparivano agli storici economici tedeschi, influenzati da una 2 prestito di denaro. A questa nuova “ricchezza borghese” si aggiunge un modello politico caratterizzano dal progressivo avvento dello stato assolutista secolare. Già le corti rinascimentali italiane, dove si sviluppa un “tipo di vita completamente moderno”, hanno un ruolo cruciale nello stimolare i consumi di lusso e il raffinarsi dei gusti. Ad esse fanno seguito nel 600’le corti assolutistiche, di cui quella francese rimane l’esempio più importante: qui, grazie a un nuovo rapporto tra i sessi e ad un accresciuto ruolo della donna, i piaceri materiali raffinati diventano armi sociali, segnaposto del gioco cortese. L’intuizione di Sombart sul ruolo delle corti nello stimolare i consumi è stata poi felicemente ripresa in un lavoro recente e importante come quello di McCracken. Per lui, l’incremento dei consumi a fine 600’ in Inghilterra è riconducibile al tentativo di Elisabetta I di centralizzare il proprio regno usando, tra le altre cose, la magnificenza del proprio cerimoniale di corte e attirando i nobili in una rincorsa ai consumi vistosi; ciò finì col facilitare la diffusione di atteggiamenti individualisti, edonisti e presentisti anche in altre classi sociali. Sombart riporta anche il viere in città tipico del capitalismo, alla domanda di beni voluttuari. Nell’Amsterdam di fine 600’, ad esempio, “vengono a consumarsi gli eccessi di ricchezza coloniale di tutto il mondo”. Le grandi città, Parigi intesta, sono “consumatrici nel significato autentico del termine”, esse debbono la propria esistenza ad una vasta concentrazione di “grandi consumatori”: “i principi, gli ecclesiastici, i grandi, ai quali si aggiunge un gruppo importante, l’alta finanza, che può essere contemporaneamente considerata come categoria consumatrice, senza che ne sia minimamente diminuito il carattere “produttivo””. Il consolidarsi delle grande città contribuisce a sua volta ad aumentare le esigenze di lusso: essa “crea nuove possibilità di vita allegra ed esuberante”. Le feste non rimangono circoscritte ai palazzi dei principi, bensì si estendono ad altri ambiti sociali, che provano l’esigenza di “locali di divertimento” come i teatri, i music-halls, i ristoranti raffinati, gli hotels. Persino i negozi si evolvono, diventano spazi del tempo libero, di svago mondano e non meri punti di approvvigionamento. Con una varietà di dati disparati, Sombart cerca di documentare l’enorme incremento della domanda di beni voluttuari che ha luogo tra 600’ e 800’, e la loro diffusione in tutti i ceti sociali. Inizialmente è soprattutto l’alta borghesia, che ha rapidamente accumulato capitale per via commerciale o finanziaria, a rappresentare un nuovo bacino di consumo importante. Essa tenta di mescolarsi alla nobiltà utilizzando abili strategie matrimoniali e inizia a competere con l’élite non solo con la propria potenza economica ma anche con un appropriato comando di quegli oggetti di lusso atti a dimostrare gusto e raffinatezza: il “processo di mondanizzazione non si sarebbe realizzato con tanta rapidità, il lusso non avrebbe raggiunto in così breve tempo proporzioni tanto smisurate se accanto alla corte non fosse esistita un’altra ricca sorgente da cui in abbondanza scaturivano desideri di godimento, bramosie di vita allegra e brillante, di ostentazione e di fasto”, insomma “se “i nuovi ricchi” […] non avessero provato una vera e propria sete di lusso, in termini che potremmo considerare patologici”, e se i nobili non avessero di rimando partecipato al gioco emulativo, tentando di “oscurare lo sperpero e il lusso dei nuovi ricchi”, fornendo così sostegno e impulso ad una varietà di servizi finanziari al credito e innescando processi di ibridazione tra la cultura “alta” dello spreco e della raffinatezza e quella “bassa” della parsimonia e del calcolo. L’attenzione alle relazioni sociali che si rileva nell’analisi delle dinamiche emulative prende poi una direzione particolare. Uno dei più originali aspetti delle riflessioni di Sombart è dato dall’analisi del contributo apportato dalla trasformazione dei rapporti tra i sessi allo sviluppo dei consumi voluttuari e del capitalismo. Utilizzando arte e letteratura dell’Europa medievale e del Rinascimento italiano, Sombart suggerisce un legame tra la “secolarizzazione dell’amore” e quelle forme di uso dei beni e della ricchezza che prevedono il lusso, e in generale un orientamento edonistico-estetico alle cose. Se l’amore diventa più giustificabile in se stesso e come “godimento” terreno della bellezza ed “emancipazione della carne”, se di conseguenza si sviluppa, in una società che è ancora segnata da uno sbilanciamento di potere a favore degli uomini, una nuova “concezione edonistico-estetica della donna e dell’amore per la donna”, allora si aprono le porte a tutti i piaceri sensibili e al loro raffinamento. E così in “Luxus und Kapitalismus” troviamo diverse pagine sulle “cortigiane”, non semplici amanti ma dame “intelligenti e belle” che incarnerebbero una nuova figura femminile, intrinseca a quella forma socio- culturale che è la corte prima e, poi, presente quale maitresse o grande cocotte anche nella società alto 5 borghese. Si tratta di donne che, esperte nei piaceri raffinati e nel lusso, finiscono per impartire alla società nel suo insieme un’aspirazione per il consumo vistoso, l’intrattenimento elegante e la magnificenza: il progressivo affermarsi sociale della cortigiana “contribuisce alla formazione del gusto della donna onesta” poiché le spose borghesi, seguendo i gusti e lo stile della corte, portano nell’intero tessuto sociale nuovi desideri voluttuosi e stravaganti. La sessualità intesa come diletto dei sensi ed erotismo è intimamente legata al lusso personale e materialistico. Egli trova che “il lusso domina in tutti quei luoghi in cui si sviluppa la ricchezza e la vita amorosa riceve forme libere (o addirittura licenziose)”. Certo una volta innescato il meccanismo del lusso, esso si nutre anche del desiderio che l’essere umano ha di anteporsi agli altri, di dimostrare il proprio status. Tuttavia, nota Sombart, questa spinta emulativo-competitiva, cui Veblen in “Theory of he Leisure Class” aveva assegnato un ruolo causale primario, è un sentimento universale che può realizzarsi in molti modi diversi: si realizzerà attraverso il consumo vistoso e raffinato laddove “il diletto dei sensi e l’erotismo abbiano influito decisamente sulla forma di vita”. L’ultimo capitolo di “Luxus und Kapitalismus” è il più ambizioso del libro e per certi versi il più problematico, poiché come sottolineato da Sombart, pur cercando di fondare anche empiricamente la tesi del ruolo propulsivo del lusso, egli non può costruire un quadro né empirico né teorico compiuto. Si tratta di suggerire un percorso che, anche per mancanza di adeguate fonti dovrà poi esser proseguito e propriamente verificato da ulteriori studi storico- critici. Sombart ribadisce così che lo sfruttamento delle colonie, i fabbisogni degli eserciti e il commercio internazionale sono fondamentali nello sviluppo del capitalismo, utilizzando un’argomentazione più schiettamente economica: questi fenomeni aumenterebbero sia il numero di merci in circolo, sia la frequenza della loro circolazione. Egli rileva che non si può far risalire il capitalismo semplicemente ad un allargamento geografico o quantitativo dei mercati. Lo sfruttamento delle colonie e il commercio internazionale sono inizialmente soprattutto legati a merci particolari, i generi voluttuari appunto: spezie e droghe, profumi, sostanze coloranti, seta e lino, pietre preziose, poi, da fine 500’, zucchero, caffè, tè, cacao. Accanto agli effetti indiretti sulla mentalità edonistica, il lusso ha per Sombart la “capacità di creare mercati” perché è dato da merci di alto valore specifico che promuovono e richiedono capitalizzazione ed economizzazione razionale, inclusa una crescente diffusione di meccanismi di credito. La “natura delle merci determina l’organizzazione capitalistica”: sono cioè innanzitutto le caratteristiche di una parte della cultura materiale a promuovere una nuova organizzazione capitalistica in tutti gli ambiti dell’economia: il commercio, l’agricoltura e l’industria. Anche se non sempre risulta chiaro cosa Sombart intenda per “organizzazione capitalistica” né quali siano i nessi causali che privilegia, alcune delle sue osservazioni, ad esempio quelle sulle trasformazioni del commercio, sono ancora attuali nel panorama della contemporanea storiografia e sociologia del consumo. Lo “spirito del capitalismo” e l’organizzazione capitalistica dell’impresa entrano nel commercio voluttuario delle grandi città, “e soltanto in questo”, nel 700’. Se, come suggerito, si sviluppa un orientamento edonistico all’andar per compere, sono proprio quei negozi che vendono beni di lusso i primi a configurarsi come dei luoghi di divertimento elegante, raggiungendo dimensioni ragguardevoli, differenziandosi funzionalmente a seconda del bisogno complesso cui vogliono rispondere e che vogliono sollecitare e basandosi, mediante il diffondersi dei prezzi fissi, su una sempre più forte oggettivizzazione del rapporto tra commerciante e acquirente. Ma anche in agricoltura e nell’industria furono, per Sombart, le produzioni di beni superflui le prime ad essere organizzate in modo capitalistico. Facendo riecheggiare le tesi di Marx, sostiene che nelle colonie, “lontano dalle tradizioni della civiltà europea” si svilupparono più facilmente, anche grazie allo sfruttamento del lavoro degli schiavi, “forme puramente capitaliste” per la produzione di quelle merci voluttuarie e stimolanti, come tè e caffè, che presto, grazie alla rapida riduzione dei prezzi, poterono diffondersi in molti strati sociali. Analogamente le prime industrie a darsi “le forme organizzative e produttive del grande capitalismo”, con l’introduzione di macchinari al posto del lavoro manuale sono l’industria di lusso della seta e della lana. Nella visione sombartiana, l’allargamento del mercato si ebbe inizialmente in senso qualitativo, con la produzione e circolazione di oggetti raffinati dall’alto valore specifico che rispondevano e favorivano un nuovo orientamento edonistico-estetico, richiedendo capitalizzazione e mentalità d’impresa; è poi in senso 6 quantitativo, con la democratizzazione dei lussi, e cioè la diffusione in tutta la popolazione anche in forza di effetti imitativi, di tali oggetti di consumo, e più in generale di tali forme economiche e schemi di pensiero. La democratizzazione del lusso non si configura come una liberazione delle masse dal bisogno. L’intensificarsi dello spirito capitalistico spinge, nella visione di Sombart come in quelle di Weber e di Simmel, verso una razionalizzazione del sistema economico. Come Simmel e a differenza di Weber, egli si concentra però non solo sulla razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro e sulla burocratizzazione dell’impresa produttiva, ma anche su quella del consumo. Queste osservazioni si ritrovano più completamente in “Der moderne Kapitalismus”, dove si colloca un intero gruppo di capitoli che tenta di mettere a fuoco le trasformazioni della cultura materiale, dei bisogni e dei processi di consumo: come scrive Cavalli, si tratta di un insieme di pagine che “potrebbe esser raccolto sotto il titolo di sociologia del consumo”. Qui Sombart ritorna sull’evoluzione dei consumi dei generi voluttuari per considerare le caratteristiche del capitalismo “maturo”, quello che si afferma dalla 2° metà del 700’. Se il lusso è uno dei fattori propulsivi del primo capitalismo, esso è anche uno dei fattori che mantengono in costante movimento la ruota del commercio e aiutano a stabilizzare l’economia capitalistica nelle sue fasi più mature. Sombart soprattutto insiste sul fatto che nel capitalismo maturo i lussi vengono prodotti in serie per cerchie sempre più allargate di persone; in questo modo essi non solo si democratizzano ma anche si razionalizzano; si assoggettano alle dinamiche della “moda”, divenendo “responsivi”, per usare un termine poi di Galbraith, non tanto alle esigenze dei “ricchi” quanto a quelle della produzione programmata su larga scala. Sombart sarebbe d’accordo con l’affermazione di Appadurai secondo cui “i consumatori moderni sono vittime della velocità della moda tanto quanto i consumatori delle società primitive [o di quelle tradizionali] sono vittime della stabilità di leggi suntuarie” che, a seconda del censo, del genere, dell’età, ecc., vietano selettivamente l’utilizzo e il possesso di numerosi beni voluttuari. La democratizzazione dei lussi è, in quest’ottica, effetto e causa di quell’organizzazione capitalistica dell’economia che, anche grazie al diffondersi delle dinamiche della moda, può creare mercato per una crescente varietà di prodotti sempre nuovi, sottraendosi, almeno in parte, alle imprevedibili fluttuazioni dei capricci dei ricchi, disciplinando, per così dire, tutti i consumatori mediante linee guida che consentono comunque di operare distinzioni culturali tra gusti e desideri. - Consumi e produzione culturale del valore economico “Luxus und Kapitalismus” è un lavoro che riflette i punti di forza e di debolezza di Sombart, la sua capacità di utilizzare numerose fonti sia qualitative che quantitative per difendere tesi inaspettate, uno stile personale e caratterizzato, l’aspirazione ad integrare storia e teoria, ma anche una forte tendenza a generalizzazioni vaghe, a una periodizzazione confusa, a un eccessivo amore per il colpo retorico. Come suggerito, le tesi di Sombart si avvalgono di uno stile enfatico e polemico, simile a Marx, o ancor meglio a Veblen, che non alla sobrietà di Weber. C’è nei suoi lavori una tendenza polemica all’esagerazione, che fa sì che egli finisca spesso per sostituire una metafisica con un’altra. in generale, come dice Mitchell, “l’ampiezza dell’investigazione, la ricca documentazione, e la vasta massa di materiale sollecitano ammirazione”, tuttavia si ha l’impressione che la sua “principale debolezza […] come ricercatore scientifico sia che tralascia di rielaborare e arricchire le sue nozioni preconcette man mano che accumula e assimila dati. Il suo schema è troppo sbrigativo e rigido”. Al di là di questi rilievi critici, ricorrenti in tutta la letteratura più o meno recente su Sombart, è utile fermarsi sull’immagine che offre della genesi e dello statuto del capitalismo. Molti hanno posto l’accento sul fatto che, influenzato dalla dicotomia tonniesiana tanto in voga nella Germania di inizi 900’, Sombart concepisce la storia come una successione discreta di sistemi economici separati e unici, tendendo “a concentrarsi sulle loro differenze e a minimizzare gli elementi di continuità”. Ciò lo avrebbe portato a misconoscere le continuità tra il commercio medievale e lo spirito capitalista e a sottolineare la coerenza del capitalismo attraverso le nazioni, sottovalutando l’importanza dell’area anglosassone per lo sviluppo del capitalismo. È vero che Sombart tende a sottolineare più spesso le cesure che non le continuità storiche e che si ritrova in lui un’aspirazione a 7 contribuirono allo stile di vita borghese. Invece che perseguire superficialmente la retorica dell’a- valutatività, Sombart avrebbe quindi dovuto considerare il lusso non solo come un fattore economico propulsivo dell’economia capitalista, ma anche come un terreno di lotta politica e morale; egli avrebbe dovuto andare oltre l’osservazione che “troppo spesso il problema del lusso è stato affrontato col pathos etico del bravo e sobrio borghese”, e considerare che quegli stessi pensatori che avevano colto “la fondamentale capacità del lusso di animare i mercati”, Mandeville, Hume, Smith, stavano anche contribuendo alla riconfigurazione morale del ruolo dell’economia e delle partiche di consumo, e in ultima istanza alla promozione di un nuovo ordine sociale. A fronte di una tradizione classica che aveva sempre usato la categoria del lusso per scopi normativi, la “Fable of the Bees” di Mandeville, ad esempio, non solo segna il tentativo di de-moralizzare il lusso come variabile economica, ma vuole indicare alcune delle vie mediante le quali lo spirito borghese poteva impossessarsi legittimamente dei beni voluttuari. Questa demoralizzazione si fonda sull’idea che il lusso sia non più la spia di un insanabile conflitto tra attività commerciale e attività politica; l’attività commerciale diviene sempre più legittima e con essa il lusso viene ad esser valutato in base agli effetti che esso ha sulla vita economica e commerciale in quanto tale. Questo processo riflette però un altro processo, ovvero la privatizzazione della sfera del consumo: come visto nel caso dei beni voluttuari il consumo è svincolato da quella forma di regolazione legale-politica che era incentrata dalle leggi suntuarie, e agganciato piuttosto a quella forma di regolazione economico-culturale che è data dalle dinamiche e dal sistema della moda. La demoralizzazione del lusso lascia spazio per la moralizzazione di una nuova configurazione del valore economico più consona a quella modernità commerciale che si sta prepotentemente affermando nei 600’-700’, configurazione che tra l’altro divarica consumo e produzione, spingendo l’uno nel privato e l’altra nella sfera pubblica e proponendo stili di vita, a volte compromissori e instabili, che possono, magari mediante la divisione dei compiti nella famiglia, accomodare esigenze materialiste, sia di consumo che di produzione. Per Mandeville, per esempio, la modernità commerciale è e deve esser caratterizzata dalla combinazione di estremi contraddittori e si incarna in uno stile di vita raffinato che riconcilia tali estremi e favorisce il commercio: lo stile di chi, combinando razionalità acquisitiva ed edonismo raffinato, “si ingegna nell’ammassare sempre più ricchezza la maggior parte dl giorno e dedica il resto ai suoi piaceri […] vive nello splendore, si preoccupa solo di se stesso e lascia agli alti fare come più loro piace”. Ancor più interessanti sono i tentativi di addomesticare i lussi e il consumo di beni voluttuari definendo nuove categorie di merci: i lussi “buoni” di Hume o le “decencies”, gli agi borghesi, di Smith. Ascoltando anche le sfumature normative del dibattito sul lusso nel 700’, Sombart avrebbe potuto rilevare che esse non solo sottolineavano l’importanza di nuovi modelli di consumo, ma anche fornivano indicazioni sui compromessi morali cui occorreva giungere per integrare i valore dell’ascetismo intramondano e razionale con i requisiti della produzione di lusso e con il consumo di lusso. Ciò lo avrebbe, tra l’altro, condotto a porre più attenzione all’ipotesi weberiana, discutendo della relazione tra i consumi volontari e quell’etica religiosa, il protestantesimo, che presumibilmente aiutò a infondere allo spirito del capitalismo la sua identità moderna. È questo uno dei percorsi seguiti da Schivelbusch nel suo saggio sulla storia dei generi voluttuari. Considerando la diffusione del caffè tra fine 600’ e 1° metà del 700’, Schivelbusch mostra che si connota presto come qualcosa di più e di diverso dalla ricerca di raffinatezza supplementare di cui si alimentavano i consumi nelle corti. Il caffè per la nascente società borghese è contrapposto alle bevande alcoliche e associato a virtù puritane come la sobrietà, la ragionevolezza, l’operosità. Il puritanesimo inglese e l’etica protestante ne fanno la loro bevanda d’elezione: grazie al caffè “l’umanità perduta nelle nebbie dell’alcol si risveglia alla ragione borghese, riconquistando tutta la sua capacità lavorativa: questo all’incirca il tenore della pubblicità per il caffè che si faceva nel XVII secolo”. Questo breve excursus sulla genesi della classificazione morale degli oggetti nel 700’ ci da uno schizzo di come Sombart avrebbe potuto perseguire con più coerenza ed efficacia un approccio culturale all’economia. Sombart in effetti tende ad altalenare tra un approccio culturale e costruzionista ed uno essenzialista. Ciò risulta chiaro soprattutto laddove considera il ruolo delle donne e del rapporto tra i sessi nello sviluppo della cultura di consumo moderna che, come visto, è una delle sue chiavi interpretative. 10 Arriviamo a un ultimo rilievo critico che, nella cornice attuale degli studi sula genesi della cultura di consumo, non può non esser mosso al lavoro sombartiano sul lusso: Sombart sembra naturalizzare, senza accento critico, quell’associazione tra lusso e femminilità/leggerezza/effemminatezza che è stata connessa all’erosione delle virtù civiche maschili. Nel saggio sul lusso il diffondersi della cioccolata e dello zucchero sono riportati al gusto “innato” delle donne per le cose dolci, e lo stesso vale per il rococò, stile definito “femmineo”. Sombart non sembra riuscire a considerare il genere come una costruzione sociale che contribuisce a dar forma, ed è allo stesso tempo costruita, dalle pratiche di consumo. Qui Sombart si sarebbe potuto avvalere delle osservazioni di Veblen che conosceva e che si era soffermato con accenti più critici e costruttivisti sul ruolo lasciato alle donne dallo sviluppo del capitalismo mostrando che la divaricazione produzione/consumo era arrivata a corrispondere alla complementarità dei sessi nella famiglia borghese. La sfera di consumo, i negozi, i lussi, i beni voluttuari, i gusti raffinati, lo sfoggio e lo sfarzo sono per Veblen riservati alle donne, così confinate al polo consumatrice della famiglia e sempre soggette a fungere da status symbol per il proprio marito; la sfera della produzione con la sua sobrietà è la provincia privilegiata del capo-famiglia. Prendendo più sul serio queste osservazioni, Sombart avrebbe potuto aiutarci a capire le ambiguità dell’intreccio tra lusso e genere, laddove la sfera dei consumi, soprattutto voluttuari, ha offerto alle donne uno spazio legittimo, privato e pubblico, di azione, al contempo confinandole, a lungo, in uno spazio che è stato spesso costruito, proprio per rafforzare la complementarietà tra i sessi, in modo speculare alla sfera della produzione come un ambiente frivolo, superfluo, dipendente. 11 DAL LUSSO AL CAPITALISMO (WERNER SOMBART) - Come impostare la questione del lusso in modo corretto Il problema che qui si propone ha impegnato gli economisti dei secoli XVII e XVIII, quelli empirici come quelli teorici […]. Allora non si parlava ancora di capitalismo, si usavano termini come “industria”, “manifattura”, “ricchezza”, ecc. C’era tuttavia unanimità sui fondamenti della questione: si riconosceva che il lusso sollecitava lo sviluppo di quelle forme economiche che allora potevano esser colte sul nascere, quelle capitalistiche. Tutti i fautori del “progresso” economico erano anche sostenitori del lusso. Temevano che un eccessivo consumo di beni di lusso potesse pregiudicare la formazione del capitale; ma per lo più si consolavano, come Smith, con la convinzione che vi fossero già sufficienti risparmiatori per assicurare la necessaria riproduzione e accumulazione del capitale. I governi adottarono un atteggiamento favorevole al lusso. Nei paesi a rapido sviluppo capitalistico nel XVII sec., furono presto abolite le leggi suntuarie che proibivano/limitavano i consumi di lusso. In Inghilterra l’ultima disposizione relativa all’abbigliamento, e contenente anche divieti relativi ad altre spese voluttuarie e gastronomiche, venne promulgata nel 1621. In Francia, l’ultimo editto sui lussi a tavola è del 1629; nel 1644 e 1672, venne ancora regolato l’abuso di metalli preziosi per forgiare gioielli. Nel 1656 c’è un divieto che proibisce i cappelli di castoro che costano più di 50 lire; nel 1708 viene pubblicata in Francia l’ultima legge suntuaria sull’abbigliamento. Da allora le classi al governo si dimostrano convinte della “necessità” dei consumi di lusso e anche i più eminenti letterati dell’epoca presero partito per il lusso. Ciò che si apprezzava del lusso era la sua capacità di creare mercati. “È necessario che ci sia il lusso”, scrive Montesquieu e continua: “se i ricchi non sperperassero, i poveri morirebbero di fame”. Alcune osservazioni pertinenti sull’importanza del lusso per lo sviluppo del primo capitalismo si trovano in uno scritto dell’abate Coyer, a proposito della “nobiltà mercantile”: “il lusso è come il fuoco, che scalda e può bruciare. Se consuma le case opulente, sostiene le manifatture. Se prosciuga il patrimonio di un dissipatore, nutre gli operai. Se diminuisce le ricchezze dei pochi, moltiplica le sostanze delle masse. Se si condannano le stoffe di Lione, gli arazzi, i pizzi, gli specchi, i mobili eleganti, le delizie della tavola, tutto a un tratto vedo milioni di braccia intorpidirsi e sento altrettante voci chiedere pane […]”. Nella ricca letteratura francese sul lusso spicca un saggio, che ha come autore un ebreo, Pinto. Si intitola “Teoria del Lusso, o Trattato, nel quale ci si propone di dimostrare che il lusso è un mezzo non solo utile, ma perfino necessario e indispensabile alla prosperità dello Stato” (1771). Il suo motto, tratto dal “Mondain” di Voltaire, è: “il superfluo, cosa estremamente necessaria”. La stessa idea, che, pur essendo un “male” ed un vizio il lusso vada considerato utile per la collettività perché stimola l’industria, era diffusa anche in Inghilterra. “La prodigalità è un vizio che danneggia il singolo, non il commercio”. Hume, nonostante il suo atteggiamento “etico”, afferma che il lusso “buono” è un “bene” e quello “cattivo è un male”, e tuttavia questo è sempre ”preferibile alla pigrizia la quale, se il lusso scomparisse, probabilmente ne prenderebbe il posto”. Bernard Mandeville, nella “Favola delle api” sostiene una concezione simile associandola ad una filosofia sociale: “la radice del male, l’avarizia / questo vizio malefico e dannato / era schiava d’un nobile peccato, / la prodigalità e al contempo il lusso / manteneva milioni di poveri / ad altrettanti odiosa gloria dava; / invidia stessa, e vanità / ministri erano d’industria; / la loro dolce folli ad incostanza / nel cibo, nei mobili, nei vestiti; / questo strano, ridicolo vizio / fu proprio questo a far girare / la ruota stessa del commercio”. Istruttivi sono i capitoli che Defoe dedica allo studio di questo problema nel suo “Complete English Tradesman”. È un gioco da equilibrista divertente quello fatto dal nostro anticonformista: egli detesta il lusso e ammira i quaccheri, che commerciano in oggetti frivoli, ma che se ne tengono lontani; ma, come panegirista del commercio, non può decidersi a condannare quello dei beni di lusso, nel quale vede l’origine di una ricchezza sempre crescente: “la smisurata vanità della nostra epoca nutre i commerci e, di conseguenza, il povero”: come vedremo, Defoe ci offre anche una serie di informazioni sui rapporti concreti 12 3. Profumi e sostanze odorose da bruciare: belzoino, mastice, muschio, legno di sandalo, incenso, ambra (anche per intagliare); 4. Coloranti: allume, legno brasiliano, robbia, indaco, carminio, lacca, mastici; 5. Materie prime per l’industria tessile: seta e lino egiziani; 6. Oggetti ornamentali: pietre preziose, coralli, perle, avorio, porcellana, vetro, fili d’oro/argento; 7. Materiali per abiti: tessuti di seta, broccato, velluto e stoffe fini di lino, lana, cotone. Nonostante le scoperte del XV sec. il tipo di merci scambiate cambiò poco, poiché fino al XIX sec. tra Oriente e Occidente, con l’America e in Europa venivano commerciati beni di lusso. Le quantità crescono di poco, solo alcuni nuovi prodotti si sostituiscono a quelli tradizionali; soprattutto, si commerciano 4 articoli di lusso: tabacco, caffè, tè, cacao. Fino alla fine del 1° capitalismo patrimonio quasi esclusivo dei ricchi, eccetto il tabacco. Queste cifre danno un’idea delle dimensioni del consumo nei secoli passati dei principali generi voluttuari: il tè veniva importato in Inghilterra dalla Compagnia delle Indie: 100 libbre nel 1668; 1.420 nel 1710; 8.169 nel 1731; 26.192 nel 1761; 86.063 nel 1784. Supponendo che 1/2 fosse consumato in Inghilterra, e dato che la popolazione assommava a circa 5 milioni nel 1700, a circa 6 nel 1760, a 9.187.000 nel 1800 il consumo pro capite sarebbe questo: 0,01 libbre nel 1700; 0,08 nel 1730; o,2 nel 1760; 0,5 nel 1784. Nel 1906 in Inghilterra il consumo totale fu di 270.000.000 libbre, circa 6,5 libre a persona. Ancor più significativo è il quadro che risulta da questi calcoli: le famiglie che potevano permettersi di consumare tè in quantità media erano: 3 nel 1668, 2.000 nel 1710, 40.000 nel 1760, 140.000 nel 1780. Il consumo di caffè in Europa ammontava a 1.400.000 quintali nel 1800; la popolazione europea assommava a 120 milioni di persone quindi, ogni europeo consumava poco più di una libbra di caffè l’anno. Si può dire che così questo genere voluttuario cominciò a diventare un genere di consumo di massa. Nel 1910, nella Germania imperiale, furono consumate a persona circa 6 libbre di caffè. Di zucchero se ne consumarono nel 1800 4.500.000 libbre (3 o 4 libbre a persona). Oggi in Germania il consumo medio annuo a persona è di 38 libbre. Che lo zucchero non fosse ancora, nel XVIII sec., un dolcificante comune, si desume dal ruolo del miele: il Germania intorno al 1750 lo si preferiva come dolcificante per le conserve e come additivo nella birra. Nei paesi ricchi d’Europa occidentale lo zucchero cessa di esser genere di consumo dei ceti ricchi dalla metà del XVIII sec.; nel resto d’Europa ciò si verifica solo dal XIX sec. Un articolo d’importazione dalle Indie che ritenne il suo carattere di bene di lusso per il XVII e XVIII sec. e che fu una parte rilevante del commercio internazionale è la mussolina, la cotonina indiana stampata, così come altri tessuti di cotone stampati d’altro tipo, che l’Asia smercia in Europa. Alla fine del XVII sec. divenne di moda usare cotone indiano negli ambienti ricchi, e questo prodotto entrò in concorrenza con quelli fabbricati in Europa. Si può dire che i principali destinatari di tali prodotti erano i ceti abbienti, poiché quei fabbricanti, che temevano la concorrenza, erano produttori di tessuti fini e di seterie. Ciò viene confermato anche dalla lotta che lo Stato ingaggiò contro i tessuti indiani. Nel 1700 se ne proibì l’uso. Tali divieti non servirono a nulla: vediamo che le signore eleganti continuarono a usare cotone indiano, quando da Parigi si trasferiscono nelle loro residenze di campagna. Abbiamo notizia di alcuni episodi: la marescialla di Villars importava di contrabbando le stoffe indiane; il 17 luglio 1715la marchesa di Nesle si presenta in pubblico ai giardini delle Tuilieries con una “veste da camera ricamata a fiorellini di seta, di fattura indiana, sopra un vestito dello stesso paese”. Stupore generale e indignazione della polizia che si occupa dei vestiti: il capo della polizia si reca in tutta fretta dal marchese a riferire. E il marchese promette di intimare alla moglie che, per l’avvenire, ecc. ecc. (qui si conclude il verbale). Queste osservazioni ci permettono di interpretare i dati sulle importazioni d’oltremare in Europa nei XVII e XVIII sec. Il quadro è sempre lo stesso, si parli di Inghilterra, Olanda o Francia. Le diverse Compagnie delle Indie importano: 1. Spezie; 2. Medicamenti; 3. Coloranti; 4. Seta e tessuti di seta; 15 5. Cotone e tessuti di cotone; 6. Pietre preziose, porcellane, ecc.; 7. Caffè, tabacco, zucchero, tè, cacao. Una sola lista di tali merci può far da esempio. In Francia, dalle Indie arrivano nel 1776 queste merci: caffè (3.248.000 franchi), pepe e cannella (2.449.000), mussoline (12.000.000), tele indiane (10.183.000), seta (1.382.000), porcellana (200.000), tè (3.399.000), altri prodotti (seterie, conchiglie, giunchi d’india, nitrati) (3.380.000), per un totale di 36.241.000 franchi. Queste merci venivano pagate: a. Con denaro coniato con l’oro e l’argento delle miniere americane; b. Con prodotti nazionali, principalmente vestiario di massa, di modesto valore, per vestire negri e malesi; e per il ceto medio delle colonie in cui vivevano europei, tra queste in primis l’America del Nord. Considerato l’intero valore del commercio, tali voci danno cifre modeste: il commercio interoceanico è figlio del lusso, è una faccenda privata ed esclusiva dei ricchi; la sola spesa per i lussi di Parigi lo mantiene in vita. se le importazioni, come visto, erano articoli di lusso, allora la natura delle merci esportate è del tutto indifferente: esse possono esser considerate forme di pagamento del tutto casuali. Il commercio stesso non esisterebbe senza le importazioni di beni voluttuari, perché senza questi, le persone dall’altra parte dell’oceano sarebbero incapaci di acquistare prodotti europei. Dobbiamo fare attenzione ad un settore molto importante del commercio d’oltremare e del quale sappiamo che si realizzò pressocché solo in forme capitalistiche: la tratta degli schiavi. Per la verità gli schiavi non sono merce di lusso, ma servono immediatamente allo scopo di produrre beni di lusso, come vedremo più precisamente. Sull’entità del commercio degli schiavi abbiamo informazioni, che offrono però dati in parte divergenti. I calcoli più noti, e forse più affidabili, sono quelli di Buxton: ogni anno sono commerciati dai mercanti cristiani di schiavi circa 400.000 negri, e dai mercanti musulmani circa 100.000. di quelli catturati come preda dai cristiani, 280.000 muoiono durante il trasporto o entro il primo anno, così ne restano disponibili solo 120.000 […]. Non c’è dubbio che il commercio interoceanico, soprattutto con le colonie, fu, nel XVII e XVIII sec., il campo nel quale si sviluppò il capitalismo mercantile. Rispetto al commercio interoceanico, il commercio internazionale europeo appare insignificante. Tuttavia anche nel commercio internazionale europeo si realizzano le forme capitalistiche, ed è importante sapere che anch’esso riguardava essenzialmente prodotti di lusso. Un commercio internazionale su larga scala di beni non di lusso e praticato in modo capitalistico esiste nel caso di solo 2 generi: i cereali e il rame. Questo commercio era sostenuto dalle commesse degli eserciti moderni […]. Quali merci nel XVII e XVIII sec. venivano vendute da un paese europeo all’altro? Può dircelo solo un esempio, un prospetto delle merci esportate dalla Francia in Olanda, redatto nel 1638 dalla Camera di Commercio di Parigi, e che un informato redattore del “Batavia Illustrata” riteneva, per molte voci, ancora corretto per la sua epoca, inizio XVIII sec., sebbene nel frattempo si fosse sviluppata in Olanda un’industria del lusso locale. Possiamo considerare tipico, nella storia del capitalismo in fase di sviluppo, il processo per cui tutti i paesi, uno dopo l’altro, producono internamente quegli articoli di lusso che prima importavano da paesi più progrediti capitalisticamente: prima l’Italia e poi la Francia furono i paesi industriali guida, ai quali seguirono Inghilterra, Olanda, Germania, ecc. Questa è la lita della Camera di Commercio di Parigi: la Francia esporta in Olanda questi prodotti: 1. Seta, felpa, raso, tessuti con oro e argento, taffetà e altre stoffe intessute d’argento, da Tour e da Lione (6.000.000 fr.); 2. Nastri, fettucce di seta e intrecciate, bottoni e passamanerie di Parigi (2.000.000 fr.); 3. Cappelli di seta e stoffe di Parigi e Rouen (1.500.000 fr.); 4. Piume, cinture, ombrelli, maschere, parrucche, specchi, cornici d’oro, orologi, piccoli oggetti di bigiotteria (2.000.000 fr.); 5. Guanti fatti a Parigi, Clermont, Vendòme e Rouen (1.500.000 fr.); 16 6. Filo di lana della Piccardia (500.000 fr.); 7. Carta di ogni tipo, del Poitou, Champagne, Limousin, Auvergne e Normandia (2.000.000 fr.); 8. Spilli e aghi da cucito, pettini d’avorio, ebano, bosso e corno fatti a Parigi e in Normandia (500.000 fr.); 9. Articoli di chincaglieria in ferro e acciaio fatti a Auvergne (500.000 fr.); 10. Stoffa per vele dalla Normandia e dalla Bretagna (5.000.000 fr.); 11. Mobili per abitazioni private, letti, materassi, trapunte, lenzuoli, frange (5.000.000 fr.); 12. Vini (9.000.000 fr.); 13. Liquori, aceto, sidro (2.000.000 fr.); 14. Zafferano, sapone, miele, mandorle, olive, capperi, prugne e frutti (2.000.000 fr.) Per un totale di 395.000.000 fr. Tutti questi articoli erano di lusso. Molto più di metà delle importazioni francesi al tempo di Luigi XIV era data da questi prodotti: seterie, tessuti fini, arazzi, batista, pizzi, posate preziose, oggetti di merceria. 2. Il commercio al dettaglio L’influenza del lusso si fece sentire in modo più insistente e profondo nel commercio al minuto. Dove, già nel primo capitalismo, vi furono rilevanti settori del commercio all’ingrosso che presentavano tratti capitalistici pur non trattando merci di lusso, non credo che sia prima del XIX sec. n solo caso di commercio al dettaglio che presenti tratti capitalistici e non si riferisca a oggetti di lusso. Al contrario, se esaminiamo i decenni attorno al 1700 troviamo che i desideri voluttuari dei ricchi e l’ansia dei commercianti di soddisfarli spinse questi a farla finita con la rutine di bottega, e a buttarsi sulla via dello sviluppo capitalistico. Forse non potremmo formarci un solido concetto del rapporto causale tra sviluppo del lusso e commercio capitalistico al dettaglio se una caso fortunato non ci avesse offerto una fonte affidabile e eloquente che ci permette di conoscere nei particolari le trasformazioni avvenute nel commercio inglese della seta nel periodo compreso tra la Restaurazione e il 1730. Questa fonte di dati è la narrazione dei fatti vissuti dal competente curatore dell’”English Tradesman”, che con orgoglio poteva dire che nessuno, al suo tempo, era più qualificato di lui in merito “dati i suoi anni e la sua esperienza”. Il mercante di seterie è il rappresentante tipico del commercio di beni voluttuari in quei secoli di sfrontata ricchezza. La lady esercita qui un dominio illimitato: è lei che da forma al commercio. E, poiché il mercante di seterie tratta anche stoffe intessute in oro/argento, broccato, velluto e pizzi, si vendono spesso pezze costosissime. Il mercante di seterie vecchio stile, come se ne incontrano a Londra al tempo dei primi Stuart, e come 20 anni dopo è ancora la regola, era contemporaneamente grossista e commerciante al dettaglio: di quelli che comperavano la stoffa del produttore e poi la vendevano, misurata a braccia, ai clienti finali. In periodi precedenti perfino i grossi mercanti lavoravano in questo modo. Per esempio, i Fugger, giunti quasi al culmine della loro potenza e ricchezza, ancora tagliano pezze di seta e di velluto; e certo erano già fornitori delle corti reali ed erano mercanti di prim’ordine, che trattavano rame e avevano a che fare con gli imperatori. Il signori Arnold o il signori Friedlander-Fould, oggi, non acconsentirebbero a vendere un paio di metri di fettuccia, neppure al nostro imperatore. I setaioli inglesi, al tempo dell’incendio di Londra, e ancora 20 anni dopo, vivevano tutti nella City, dove si erano stabiliti dal tempo dei Plantageneti, nella Pater Noster Row, che era stata costruita per loro. “I loro ampi negozi, le abitazioni sul retro, i lucernari, e altre comodità che erano state costruite per il loro commercio si possono ancora vedere” si legge nella 5° edizione del “Complete English Tradesman” (1745). I loro magazzini erano “straordinariamente grandi” ed essi vendevano seguendo quei metodi che erano stati dei loro antenati. Tutta la migliore clientela li andava a cercare nella Pater Noster Row, in primis la corte […]. La situazione cambiò quando vennero i tempi “gaudenti”, trascurando di dirci quando ebbe inizio tale periodo. Allora crebbe velocemente il numero dei mercanti che vendevano seta al minuto: iniziarono a stare stretti in Pater Noster Row, e ad insediarsi nella periferia di Londra. Pater Noster Row si spopolò, e in meno di 20 anni i vecchi mercanti furono costretti a lasciare i negozi e a seguire la corrente dei clienti: come in mare i pescatori seguono i pesci, così questi 17 per tessuti molto fini, prodotti per i consumi dei ricchi dalle tessiture di lusso molto sviluppate nelle Fiandre, nel Brabante e a Firenze. L’influenza del lusso sull’economia agraria favorisce uno sviluppo della tecnica produttiva, rendendola più raffinata; questo a sua volta accresce i profitti e di conseguenza aumenta il valore della terra e spinge i proprietari terrieri, se non proprio ad iniziare aziende agrarie capitalistiche, almeno ad una gestione economica di stampo più capitalistico tanto che si spezzeranno le vecchie forme dell’agricoltura feudale e si aprirà la strada ad uno sviluppo capitalistico generalizzato, come ho cercato di dimostrare in “Il Capitalismo moderno”. La maggior parte delle radicali trasformazioni tecniche ed economiche che si verificarono nell’economia agraria europea fino al XIX sec., è stata provocata dalla crescente richiesta di lusso della popolazione benestante. Rispetto a questa crescente influenza del lusso sull’economia agraria, le necessità delle masse hanno minor importanza. La domanda di massa esprime il suo carattere di novità solo in un punto: dal XVI sec. in poi, gli eserciti stabili che vanno acquistando importanza avanzeranno grosse richieste d’approvvigionamenti. Se non fosse stato per questo, la produzione di cereali per la popolazione cittadina sarebbe avvenuta nell’ambito dell’economia agraria feudale. E qualora mi si volesse contestare questo punto potrei rispondere che queste grandi capitali erano, a loro volta, tutte, figlie di lusso. Ma credo che non serva far ricorso a tale ragionamento per dimostrare che le trasformazioni dell’agricoltura, che si verificarono fino al XVIII sec., siano dovute essenzialmente al lusso. La rapida ascesa dei Comuni italiani negli ultimi anni del medioevo aveva avuto come risultato che, quasi ovunque in Italia, l’economia assumesse caratteri moderni: “l’abbondanza dei capitali aveva posto il paese in grado di dare ampio svolgimento alle opere d’irrigazione, di prosciugamento, di dissodamento e ad altre migliorie. La ricchezza diffusasi in tutti i ceti della popolazione aveva […] promosso l’aumento e il raffinamento della produzione agraria. La prosperità delle industri tessili aveva offerto il modo di allargare considerevolmente la coltivazione di varie piante industriali, ecc.”. E che ci fosse spirito capitalistico ad aleggiare sui campi e sui vigneti dell’Italia di allora, può insegnarcelo lo studio dei principali codici di leggi cittadine, che quasi sempre avevano una sezione dedicata all’agricoltura: essi tendevano a tutelare i proprietari difendendoli dalla morosità dei fittavoli o coloni, costituendo un corpo di guardie rurali (saltuari), punendo chi rubava frutti dai campi, ecc. Situazioni simili a queste si verificano durante il medioevo anche il Belgio e nell’economia tedesca, francese, inglese, senza che qui l’influenza esercitata dallo sviluppo capitalistico nelle città fosse stata così pronunciata e continua da stimolare una ristrutturazione delle condizioni dell’agricoltura già a partire dal medioevo. In Spagna, al contrario, l’unica volta in cui fiorì l’agricoltura capitalistica fu in XVI sec. Anche questo sviluppo fu il risultato di un rapido aumento dei consumi, soprattutto tra i quistadores improvvisamente arricchiti, ma anche tra i commercianti e i finanzieri delle città. Nel sud la viticoltura aveva assunto vaste dimensioni. Cadice e Siviglia esportavano in America 140.000 quintali di vino: “Allora i grandi commercianti di Siviglia pensarono di dare un impulso ancora maggiore ai propri affari, prendendosi in carico direttamente la produzione degli articoli più richiesti. Poiché disponevano di capitali, fu sufficiente volerlo, e la valle del Guadalquivir, sino alla Sierra Morena, si coprì di campi di grano, di frutteti, di oliveti, di vigneti, la cui produzione, da sola, riempiva intere stive di navi”. Le Cortes nel XVI sec. lamentarono che il vino, la cui produzione era redditizia, stava portando via terra per coltivare il grano; si cercò di impedire che le terre a grano fossero sostituite con vigneti. Istruttivo è però studiare i rapporti tra “le limitazioni dell’agricoltura e la crescente richiesta di lusso” in Inghilterra, nel XVII e XVIII sec. Ciò che rivoluzionò l’agricoltura fu la crescente importanza di Londra come centro di consumo di generi voluttuari. Il fatto che gli inizi dell’agricoltura razionale moderna abbiano luogo in Inghilterra ha la sua ragione nella posizione particolare di Londra, comparabile con quella dell’antica Roma per l’impero, come spiegavano Columella e altri. Anche gli autori che riferiscono sulla situazione dell’agricoltura inglese negli ultimi 25 anni del XVIII sec. danno l’impressione che l’agricoltura in Inghilterra debba solo a Londra l’impulso a scegliere nuove vie. Anche nei rapporti delle contee, che vennero redatti su sollecitazione del “Board of Trade” verso fine XVIII sec., la capitale veniva raffigurata come un sole dal quale le altre province ricevevano luce. Dove si produce per Londra, l’agricoltura progredisce […]. Se un viaggiatore, che si trovi molto lontano da Londra, incontra aziende agricole intensive, ne è stupito; al 20 contrario, si irrita se, vicino alla capitale, trova un’azienda che non sa trarre alcun vantaggio dalla sua posizione e continua ad esser gestita secondo i vecchi metodi dell’agricoltura estensiva. I prezzi dei prodotti crescono, di regola, dalla periferie di Londra. Gli abitanti della provincia osservano che le strade rendono più costoso il tenore di vita, le strade cioè che si dipartono da Londra verso la campagna; si lamentano che i londinesi si accaparrano i migliori prodotti, lasciandoli a mani vuote. Se ci chiediamo com’è possibile che i londinesi possano esercitare una tale influenza sul prezzo dei prodotti agricoli e, di conseguenza, sulla formazione delle aziende agricole, si deve rispondere che ciò non dipende dall’incremento demografico: esso non è stato marcato nel XVIII sec. Londra aveva già attorno al 1680 circa 700.000 abitanti; 100 anni dopo e all’inizio del XIX sec., nel 1801, anno prima del quale era aumentata l’immigrazione nella città, solo 864.845. Ciò che ha esercitato un’influenza così considerevole sulla domanda di prodotti della campagna deve esser stato il raffinamento dei consumi della popolazione benestante. Arriviamo alla stessa conclusione osservando l’andamento dei prezzi dei diversi prodotti agricoli durante il XVIII sec. Troviamo che in Inghilterra, almeno nella 1° metà del secolo, il prezzo del grano non tende a crescere, mentre il prezzo degli altri prodotti, soprattutto la carne, aumenta molto. Ciò che, di fatto, sappiamo sulla reale formazione dei consumi conferma la nostra ipotesi. Soprattutto il consumo di carne a Londra non solo dovette essere, in assoluto, nel XVIII sec., notevole, ma anche dovette pure aumentare molto. Sebbene non si debba attribuire eccessiva importanza alle cifre fornite da Eden si tratta di un consumo di carte straordinariamente alto. Lo vediamo, ad esempio, dalle informazioni sul famoso mercato del bestiame di Smithfield, che si teneva 2 volte la settimana, ed era il più grande di tutto il mondo, e dal non meno famoso mercato della carne di Leaden Hall, dove, secondo un ambasciatore spagnolo veniva venduta in un mese tanta carne quanta in un anno veniva consumata in tutta la Spagna. Attorno alla metà del XVIII sec. devono esser esistiti, a Londra, non meno di 17 “grandi mercati della carne”, “per tutti i tipi di carne”, che vendevano anche volatili e cacciagione, e molte macellerie, per le famiglie che vivevano lontano da un grande mercato. Altre informazioni possiamo ottenerle dai rapporti in nostro possesso concernenti il diffuso e progredito allevamento del bestiame nel XVIII sec. Tali informazioni concordano sul fatto che sono soprattutto la sistemazione dei pascoli e l’allevamento intensivo le basi per lo sviluppo dell’agricoltura, nel Kent come nel Norfolk, nell’Essex come nel Somerset. In molti casi c’era stata un’avanzata specializzazione nell’allevamento, soprattutto si distingueva tra allevamento di pecore e allevamento di bovini, ma si distinguevano anche i metodi in modo che i territori montani, come il Devonshire, furono destinati all’allevamento vero e proprio mentre le pianure fertili all’ingrasso […]. 2. Nelle colonie La nascita del lusso in Europa ha avuto altre conseguenze sull’agricoltura delle colonie: ha stimolato la nascita di imprese capitalistiche in grande stile, forse le prime del genere. In primis emerge chiaramente, da un esame degli articoli commerciati con le colonie, che, in quelle europee, la produzione riguardava oggetti di lusso di valore, un tipo di produzione che è intrinseco all’agricoltura coloniale. Gli articoli considerati qui sono: zucchero, cacao, cotone, caffè, merci prodotte nelle colonie americane, e spezie, prodotto delle colonie dell’Asia meridionale; […] “Nelle colonie si lavora solo per il lusso” scrive un autore a inizi XVIII sec. Se prescindiamo dall’organizzazione del lavoro nelle colonie olandesi, ancorata a piantagioni di spezie e che si basava su sistema di lavoro forzato imposto agli indigeni, tutte le cosiddette merci di lusso fornite dalle colonie degli europei venivano prodotte in grandi piantagioni che presentavano caratteristiche capitalistiche. Si è detto che qui, lontano dalla tradizione della cultura europea, si sia diffuso per la prima volta un modello puro di capitalismo. Certo si deve allora ulteriormente ampliare il concetto di capitalismo: si devono definire capitalistiche anche quelle organizzazioni che si basano sul lavoro non libero, eseguito da schiavi comprati, poiché è noto che la manodopera nelle colonie era per lo più fornita da schiavi. Ma tutti i requisiti propri di un’impresa capitalistica erano presenti: il predominio del principio del profitto, della razionalizzazione dell’economia, le grandi dimensioni dell’impresa, la separazione tra direzione della produzione e forza lavoro […]. Carattere capitalistico presentano le piantagioni nelle colonie delle città 21 italiane nel Mar Egeo già nel medioevo. Dalle isole più fertili (Creta, Chio, Cipro) provenivano vino, cotone, indaco, mastice, olive, gelso, fichi, laudano, coloquintide, carrube, zucchero. Nel distretto di Liflusso i Cornaro avevano una piantagione di zucchero, che Ghistele chiamava il più ricco magazzino dell’intera Cipro. Quando l’italiano Casola visitò la regione, nel 1494, vi lavoravano 400 persone. Nelle colonie americane, queste proporzioni si presentano ingigantite, e dopo un breve periodo si presentano ingigantite, e dopo un breve periodo di schiavitù dei pellerossa, prevalse quella dei negri[…]. Otterremo un’idea precisa dell’estensione e dell’importanza del sistema delle piantagioni analizzando il numero degli schiavi che vi lavoravano. Farlo non è difficile, perché è disponibile una statistica precisa della popolazione degli schiavi almeno per il XIX sec., e in parte per il XVIII. Il livello di sviluppo massimo raggiunto nell’impresa schiavistica precede di poco l’abolizione della schiavitù, quando già non tutte le piantagioni erano destinate alla produzione di merci di lusso. Le cifre necessarie si possono ottenere facilmente. Nei possedimenti inglesi delle Indie Occidentali c’erano, nel 1778, 663.899 schiavi negri […]. Negli anni dopo il 1830, la somma totale degli schiavi raggiunse i 6.822.759. L’idea che le vezzose signorine di Parigi e Londra abbiano messo in piedi questo enorme esercito di negri solo per soddisfare i proprio capricci è intrigante. - Il lusso e l’industria 1. L’importanza delle industrie di lusso È nella sfera della produzione industriale che meglio si nota l’influenza del lusso: in questo settore, il nesso tra espansione del lusso e sviluppo del capitalismo si può toccare con mano. Se è possibile dire a un primo sguardo che molte industrie sono nate per soddisfare le esigenze voluttuarie e che molte di loro debbono esser chiamate “industrie di lusso”, non appena si affronta più approfonditamente il problema, siamo costretti a chiederci se il concetto di “industria di lusso” non sia impreciso e se non sia necessario metterci d’accordo su cosa vogliamo indicare con esso. Le industrie di lusso sarebbero industrie che producono merci di lusso: abiti sfarzosi, mobili eleganti, ornamenti, ecc. Ma cosa dobbiamo intendere per merci di lusso? Senza dubbio quelle appena citate sono di lusso: tutte soddisfano una domanda immediatamente di lusso, e possono esser designate come beni ad uso personale e merci di prim’ordine. definiremo quindi, certamente e senza esitare, industrie di lusso quelle aziende che producono merci di tale genere. Ma quelle che producono il broccato, il velluto, non sono anch’esse industrie del lusso? Eppure tali industrie non producono beni ad uso personale, ma mezzi per produrli. Ma se una fabbrica di tessuti di seta è un’industria di lusso, non lo sarà anche la manifattura dove si fila la seta, poiché produce la materia prima per i tessuti di seta, una merce che possiamo definire un bene di terz’ordine? E allora: il telaio, sul quale si tesse la seta, è anch’esso un bene di lusso, e dobbiamo definire come industria di lusso una fabbrica di telai da seta? O la questione cambia non appena parliamo di mezzi di produzione? si può dire che la segheria, dove è lavorato il legno per la produzione di mobili di lusso, cioè un bene di second’ordine, destinato a diventare un bene di lusso, è anch’essa un’industria di lusso? Non credo. Penso che il termine industri a di lusso non debba venir applicato alla fonderia, nella quale vennero prodotte le tubature per i giochi d’acqua di Versailles, che fornì quegli stessi oggetti senza i quali quell’impianto di lusso non sarebbe esistito. Certo, c’è un rapporto tra tale tipo di industrie e la diffusione del lusso, e se si vuole valutare il significato di un fenomeno culturale in tutta la sua portata, si devono allora prendere in considerazione tutte queste connessioni. Eppure, tutte queste imprese, che partecipano in misura maggiore o minore alla copertura delle necessità voluttuarie, non esisterebbero se non esistesse il lusso. Una parte rilevante delle industrie nelle fasi iniziali del capitalismo è stata creata per questo. A volte queste vie erano tortuose: poiché l’industria del vetro di lusso avevano finito il legno dei boschi, il carbone divenne materiale per il riscaldamento sempre più richiesto, e questa domanda crebbe man mano che la gente si stabilì nelle metropoli, a loro volta prodotte del lusso. Così nacque una delle più grandi industrie degli inizi del capitalismo: l’industria del carbone di Newcastle. Quando mi riferisco all’influenza del lusso sulla 22 manifattura di porcellana di Berlino impiegava, nel 1798, 400 lavoratori; il personale della manifattura di Meissen aumentò di moltissimo. Altre industrie. Ha poco senso dare informazioni precise anche sugli altri tipi di industrie pure di lusso; il lettore si stancherebbe, perché si tratteggia sempre lo stesso quadro: non mi è nota alcuna industria che non si sia effettivamente trasformata, al più tardi nel XVIII sec., in una forma capitalistica di frequente anche di grandi dimensioni, quando non sia già stata costruita su basi capitalistiche o di grandi dimensioni. 3. Industrie di lusso “miste” Le industrie di lusso sono caratterizzate da capitalismo e, spesso, da attività su larga scala e, nei casi trattati, si sono sviluppate accanto alle vecchie forme artigianali. Solo quando avremo dato uno sguardo a quelle industrie di lusso che si sono formate nell’ambito del vecchio artigianato per poi differenziarsene potremo però meglio apprezzate quale importanza abbia avuto lo sviluppo della domanda di beni di lusso per lo sviluppo del capitalismo. Vedremo che sono quei settori dell’artigianato che producono anche per soddisfare i consumi voluttuari ad essersi evoluti in forma capitalistica. La maggior parte delle imprese artigiane subiscono, già nel primo capitalismo, un processo di differenziazione: il lavoro artistico qualificato si separa dal lavoro ordinario, e si rende autonomo con proprie industrie; queste assumono tratti capitalistici. La produzione ordinaria rimane a lungo alle imprese artigiane, finché anche questa si trasforma in produzione di tipo capitalistico. Artigianato e industria del lusso arrivano a contrapporti, escludendosi reciprocamente, anche nella coscienza dei contemporanei, come Mercier ci fa sapere in un passo: “gli artigiani sembrano gli individui più felici. Traendo profitto dalla propria industria e dalla propria abilità, stanno al proprio posto, il che è tanto saggio quanto raro. Senza ambizioni, e senza vanità, non lavorano che per mantenersi e per il proprio svago (!), sono onesti e civili nei confronti di tutti, perché hanno bisogno di tutti. La vita degli artigiani è ordinata: si potrebbe dire che, essendo rivolti a occupazioni più utili di quelle delle arti del lusso, ne sono ricompensati da una pace della coscienza e della vita tranquilla. Un semplice falegname ha un’aria di onestà che uno smaltatore certamente non ha”. In questo quadro, chiamiamo “miste” quelle industrie che, al contrario di quelle di lusso, producono sia oggetti di lusso che oggetti ordinari. Ovviamente, non si tratta di esaminare dettagliatamente l’insieme delle industrie di questo tipo; è sufficiente dimostrare che l’argomento vale per le più importanti. L’industria laniera. Inutile dire che l’industria della lana, accanto a quella della seta, era l’industria più importante all’epoca del primo capitalismo. Essa produceva per i poveri e per i ricchi. Dove però incontriamo un’industria laniera fiorente, vanto della nazione o della città e sulla quale si fonda la ricchezza di un territorio, si tratta di un’attività che produce merce fine e pregiata: è industria del lusso, organizzata molto presto su base capitalistica e su larga scala, almeno fino a quando la domanda indotta dagli eserciti non crea anche un’importante tessitura capitalistica che produce articoli di massa. Detto altrimenti, nella misura in cui l’industria laniera prende parte al formarsi del capitalismo moderno, essa è un’industria di lusso. Forse, la pima industria su grande scala organizzata su modello capitalistico è la tessitura della lana a Firenze. È noto che, con l’industria della seta, ha fondato lo splendore e la potenza di Firenze. Che essa poggiasse già molto preso, forse dal XIII sc., su base capitalistica, è stato dimostrato senza dubbio dalle eccellenti ricerche di Doren […]. Sappiamo poco dell’industria spagnola della lana. Fiorì, secondo molte fonti, nel XVI sec. Sappiamo abbastanza per affermare che: 1. Era un’industria di lusso (finché fiorente); 2. Era organizzata in modo capitalistico (dove produceva beni di lusso). Guicciardini dice: “oggi hanno cominciato in qualche luogo a attendervi e di già in qualche parte della Spagna si lavorano panni e drappi di altebasse e d’oro in fuora come in Valenza, in Toleto, in Sibilia”. In una relazione del XVI sec. su un corteo a Segovia leggiamo: “in seconda posizione giungevano i lanieri e i fabbricanti di tessuti, che il popolo chiama, a torto, mercanti. Essi sono come i padri di famiglia, che 25 impiegano nelle loro case e anche fuori di queste un gran numero di persone, molti fino a duecento, molti fino a trecento. Con il lavoro i terzi producono così una gran quantità di tessuti finissimi…”. In Francia. La tessitura dei panni fini si sviluppò nel XVII sec. a Rouen, Sedan, Elboef e Reims. Anche qui l’organizzazione capitalistica si sviluppò nei secoli XVII e XVIII. Il sistema manifatturiero domestico assunse in Sedan solo proporzioni modeste: di 4 enterpreneurs de fabrique in possesso di licenza 2 impiegarono ciascuno 104 telai, uno 65, uno 50; dei 21 che non avevano licenza, uno più di 40, 4 più di 30, ecc. Penso però all’azienda dei fratelli Van Robais, che avevano grosse fabbriche. Fonti statistiche su tale azienda ci permettono di determinare anche nei particolari la sua organizzazione: vediamo che il processo di lavorazione della lana, della materia prima sino al prodotto finito, era diviso in 22 operazioni e vediamo che non meno di 1692 lavoratori erano occupati in un solo stabilimento. In aggiunta a questa industria di lusso, troviamo nei dintorni una grande diffusione dell’artigianato laniero che produce merce ordinaria. La più famosa industria laniera del XVIII sec. è quella inglese. Su di essa si basava il “benessere della nazione”: “la lana è chiaramente ciò su cui si fonda la ricchezza inglese” (Child). Nel 1738 c’erano, in Inghilterra, un milione e mezzo di persone occupate nella lavorazione della lana il valore totale dei prodotti di lana, nel 1700, era già di 300.000 £ e nel 1815 era di 9.381.426 £. Si queste stoffe ce n’erano di fini e di grezze, e certo l’industria laniera, in Inghilterra, non era tutta di lusso. Soprattutto negli ultimi anni, soprattutto da quando l’America è divenuta una forte consumatrice delle merci dell’industria laniera inglese, la quantità di stoffe grezze per i borghesi e le masse diventò perfino forse preponderante. Ma certo tale industria era anche di lusso: nel XVIII i tessuti inglesi fini, come pure le costose stoffe fantasia erano apprezzate dai ricchi in tutto il mondo. Nella Germania settentrionale, in Polonia, il Russia, gli strati superiori prediligevano, sempre nel XVIII sec., le stoffe di lana inglesi: “in tutte queste nazioni, la nobiltà, l’alta società, i borghesi più ricchi si servivano con tessuti inglesi fini, di bigello, di saia, di panno, e ne consumavano gran quantità”. In Russia si sono convertiti al tessuto inglese anche lo zar, la sua corte, tutte le persone di rango di Pietroburgo, Mosca, Astrakhan: “negli ultimi due anni” tutti indossano tali tessiti, “il che fa crescere infinitamente il nostro commercio con quel paese”. La domanda che si impone è questa: è possibile riportare la distinzione tra tessuti grossolani e tessuti fini nell’industria laniera inglese e diverse forme economiche e aziendali? Questa domanda non è ancora stata atta, anche se mi sembra una delle più importanti. I fatti sui quali dobbiamo fondare il nostro giudizio sono i seguenti: alla fine della prima fase del capitalismo, esistevano nell’industria laniera inglese due sistemi di organizzazione della produzione: l’industria a domicilio capitalistica, e l’artigianato il primo, detto anche sistema dell’Inghilterra occidentale, era predominante appunto in quelle regioni, ma anche nelle grandi aree di produzione orientale, come il Norfolk, nel sud. L’artigianato sopravviveva, peraltro ancora intatto, nei distretti del nord come lo Yorkshire. Queste due zone si differenziano innanzi tutto come rispettivamente le aree della lana pettinata e di quella cardata. Con la prima si producevano tessuti più fini, la flanella, ecc. Non erano quindi merci di più valore, prodotti di lusso, quelle lavorate nella area ad organizzazione capitalistica, mentre la produzione dei tessuti ordinari era rimasta agli artigiani? Si deve anche ricordare che dell’industria tessile organizzata capitalisticamente abbiamo notizia già nel XVI sec.: “in una grande, lunga sala / duecento telai di numero”, è scritto in versi, in una descrizione dell’azienda di Jack di Newbury. L’industria della sartoria. Nel XVIII sec. derivano dal mestiere artigianale del sarto singole attività, che si costituiscono in imprese capitalistiche: sono appunto quelle attività che hanno carattere voluttuario e sono rivolte a una clientela raffinata e illustre che può spendere. Stranamente, è nel ramo della sartoria di lusso da uomo dove, per prima, si riorganizzò in modo capitalistico la produzione di abiti pronti che oggi, non è più comune in questa guisa; a quanto pare, nel XVIII sec., la produzione di abiti pronti e di lusso non era malvista. Si può constatare che tanto in Inghilterra quanto in Francia venivano prodotte confezioni di lusso. Un passo, che testimonia la loro esistenza nel XVIII sec., si trova nei rapporti della Camera Generale di Commercio tedesca: “al giorno d’oggi, in Germania, gli abiti confezionati sono quasi più di quanto sia necessario, in un libero commercio nel quale non solo molti signori tedeschi mandano in Francia soldi per 26 costosi vestiti […] ma anche i francesi portano nelle nostre fiere intere casse e botti piene […]”. Un altro è un annuncio di Dartigalongue, pubblicato su un giornale nel 1770: “il signor D., che confeziona e vende vestiti a Parigi, ha aperto da qualche tempo un negozio di abiti nuovi già pronti di ogni specie, di ogni taglia, e inoltre alla moda. Se quelli del negozio non incontrano il gusto dei clienti, che vogliono esser vestiti velocemente, egli è in grado di soddisfarli quasi subito, grazie alla quantità di lavoranti che impiega. Egli confeziona tutte le livree con la massima economia possibile. Fa delle spedizioni in provincia e anche nei paesi stranieri, ma le persone che vorranno scrivergli sono pregate di affrancare le lettere”. Che si tratti di vestiti per la “migliore clientela” mi sembra chiaro dal tenore dell’annuncio, e le livree, a quel tempo, appartenevano a un genere di articoli cari. Per A. Franklin, che ha trovato questo annuncio, Dartigalongue sarebbe il “primo fabbricante mondiale di abiti confezionati”, ma si sbaglia: è il primo del quale conosciamo il nome, avrebbe dovuto scrivere. L’esistenza di abiti confezionati è storicamente accertata già da prima: l’informazione della Camera Generale di Commercio è del 1741. A Londra si trovano già nel XVII sec. sarti che confezionano abiti pronti, con botteghe nei migliori quartieri. Questa dev’esser sorta attorno alla metà del secolo, probabilmente nel periodo agitato, durante il quale i commercianti di seta, “come uno sciame di api esaltate”, si erano andati spostando per la città. uno scrittore del 1681 fissa questo sviluppo così “molti si ricordano ancora l’epoca in cui a Londra non c’era nessuna fabbrica di abiti confezionati”. I sarti che hanno una clientela fissa si oppongono ai venditori di abiti che pagano affitti elevati nei quartieri eleganti, concedendo crediti a lunga scadenza alla loro clientela aristocratica e che nei loro laboratori impiegano una dozzina o una ventina di lavoratori. Ma il campo in cui si sviluppò la sartoria di tipo capitalistico fu la confezione di abiti su misura. La descrizione che Campbell ci dà di un negozio di sartoria su misura di Londra potrebbe valere senz’altro anche oggi per un negozio dello stesso tipo: clientela molto esigente, che fa lavorare in genere a credito, spese notevoli per le stoffe e le decorazioni più care, che costano più del salario pagato per la confezione, il lavoro differenziato in taglio, molto qualificato, e cucito, meno specializzato. Il tagliatore guadagna bene: oltre ai ritagli e alla mancia, che i gentlemen sono soliti dargli quando provano il vestito, guadagna una ghinea alla settimana: i buoni tagliatori sono sempre richiesti. Gli altri lavoranti sono una schiera “numerosa come cavallette”, e in genere “poveri come i top”: 3 o 4 mesi all’anno sono disoccupati, e conducono un’esistenza da proletari. Va ricordato che la prima associazione sindacale della quale si ha notizia è quella dei lavoranti di sartoria. La sartoria da donna e i negozi di modista sono a loro volta cominciati in grande stile già nel XVIII sec. La sarta di Maria Antonietta fece una bancarotta da 3 milioni di franchi. La fabbricazione dei cappelli. “Chiunque, dal principe al contadino, ha bisogno di un cappello. Il cappellaio esercita quindi un mestiere necessario in ogni nazione. Ma la maggior parte dei cappellai, specialmente nelle città piccole, in genere produce solo pochi e scadenti cappelli per le classi inferiori. Poiché i personaggi cittadini, la gente ricca, e gli ufficiali statali considerano tali articoli al di sotto del proprio censo e cercano cappelli fini, si comprende come anche in questo paese sia necessario produrre cappelli fini”. Di conseguenza manifatture di cappelli di qualità sono impiantate a Parigi, Marsiglia, Lione, Rouen, Caudebec, ecc. Abbiamo notizia di un famoso cappellaio già alla fine del XVII sec.: egli lavora a Rouen con 19 aiutanti, 12 dei quali portò poi con sé quando si trasferì a Rotterdam. Più tardi anche in Inghilterra si svilupparono tali fabbriche, dove si fabbricavano i cappelli cardinalizi. Anche in Germania, a Erlangen e a Berlino; qui, fino a fine XVIII sec., la fabbricazione di cappelli fu caratterizzata in linea di massima dal lavoro artigianale; nel 1782, però, viene fondata una fabbrica di cappelli dove sono impiegati 37 operai e che produce, per un totale di 21.800 talleri, “cappelli di eccellente qualità e raffinatezza”. L’industria edilizia. Già al tempo dei papi rinascimentali, la costruzione di grandi palazzi e chiese assunse forme organizzative capitalistiche. Beltramo di Martino da Varese, che costruiva sotto Nicola V, disponeva di un vero esercito di operai e aveva, a Roma, grandi fabbriche di tegole nonché forni per la calce; le sue forniture costavano, alla cassa papale, ogni anno circa 30.000 ducati. Ad alcuni imprenditori attivi non era più possibile supervisionare personalmente la costruzione di tutti gli edifici presi in appalto: si facevano così 27
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