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Dal neoclassicismo al romanticismo, Chiara Savettieri, Sintesi del corso di Storia dell'arte contemporanea

Manuale di storia dell'arte dal neoclassicismo al romanticismo. PARTE 2

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 23/10/2017

ElenaFerramosca
ElenaFerramosca 🇮🇹

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Scarica Dal neoclassicismo al romanticismo, Chiara Savettieri e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! CAP. VIII – LA STORIA DELL’ARTE Herder scrive il testo Monumento a Johann Winckelmann nel 1777, in cui esalta Winckelmann nel suo ruolo determinante come fondatore della storia dell’arte: a suo avviso egli era un pioniere che non si era fermato ai singoli fatti, ma aveva cercato di comprenderne il senso globale, cogliendo la totalità di una cultura e di un popolo nella sua evoluzione storica; Winckelmann è quindi colui che per primo ha rivelato il solido legame tra filosofia e storia. Nonostante ciò, Herder riconosce alcuni limiti nella storia dell’arte antica elaborata da Winckelmann: il suo è un sistema eccessivamente dottrinario che finiva per deformare la storia, plasmandola secondo un punto di vista troppo rigido; quindi la storia dell’arte di W. appariva più come una dottrina dell’arte, un’estetica, il cui fulcro era la convinzione che l’arte greca attingesse una perfezione assoluta, che rappresentasse l’irripetibile bellezza del mondo e che costituisse il criterio secondo cui valutare la produzione artistica di altre epoche e popoli. Winckelmann presenta l’arte greca nella sua opera Storia dell’arte degli antichi, dandole un doppio volto: quello di prodotto storico legato ad un contesto concreto e irripetibile e quello di modello assoluto e inimitabile di perfezione. Egli concepisce l’arte greca come storia, come dogma e come paradiso perduto. Era proprio il volto normativo di questa teoria a turbare Herder, per questo criticherà un’altra opera di W., la Geschichte, su due aspetti: per essersi rifiutato di riconoscere che l’arte greca traeva origine da quella egizia e per non aver incluso nei suoi studi anche le arti di altri popoli, che dovevano essere trattate in maniera autonoma e non giudicate negative per comparazione. Per Herder ogni cultura deve essere trattata non secondo criteri fissi, ma iuxta propria principia: in questo modo egli apre la strada allo storicismo. Comunque sia, Herder riconosceva in W. una figura chiave che aveva osato rompere con la tradizione storiografica, consegnando un’enorme eredità ai posteri, con l’opera Geschichte, ai quali ha permesso, anche attraverso le critiche, di sviluppare il suo pensiero. Per questo si è discusso a lungo se Winckelmann possa essere considerato l’inventore della storia dell’arte. I presupposti di questa disciplina affondano già nei secoli precedenti, soprattutto in Italia, dove vari eruditi hanno cercato di far emergere le glorie artistiche cittadine o regionali, facendo fiorire una storiografia artistica locale. Uno di questi, tra i più noti, è Giorgio Vasari con la sua opera Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori (1550-1568): egli vuole dimostrare come l’arte è rinata dopo la ‘barbarie’ dell’epoca medievale, sviluppandosi grazie a Michelangelo, la cui arte è considerata l’apice di questo processo evolutivo. Inoltre quest’opera serve al Vasari per rendere omaggio a Firenze, presentandola come centro propulsore dell’arte italiane, e quindi esaltare la famiglia regnante dei Medici: la sua è quindi una concezione toscanocentrica che relega in secondo piano altri fiorenti centri italiani (es. Venezia). La sua visione è influenzata dalla nozione di ‘rinascita’, che ha posto fine ad un’età oscura, ed è deformata da un atteggiamento dogmatico che insiste sul raggiungimento della ‘perfetta regola’ attraverso l’imitazione dei modelli antichi della terza età. Il Vasari concepisce il processo storico come una catena di fenomeni strettamente connessi tra loro, per cui egli tratta anche di epoche e artisti meno valorosi rispetto agli artisti della terza età, ma comunque notevoli in rapporto alla qualità del loro tempo. Egli capisce che esiste un valore relativo che va riconosciuto a opere medievali che, se confrontate con quelle moderne appaiono ricche di difetti, ma se viste in rapporto al loro tempo appaiono belle e ‘miracolose’. La sua opera però è costituita più da un sistema di biografie e quindi la sua storia è ricca di aneddoti sulle vite degli artisti più che una globale storia dell’arte. È con Winckelmann che si ha una svolta: lui pone al centro della sua opera l’arte e lo stile, non le biografie degli artefici; inoltre per ‘stile’, W. intende un tipo di arte che ha un’evoluzione storica legata a precisi contesti climatici, sociali e politici. Dobbiamo quindi considerare Winckelmann il punto di riferimento imprescindibile nella trattazione storica; anche se ha commesso degli errori, ha dato inizio ad una nuova era. VIII.1: Arte, condizioni climatiche, pratiche sociali e ordinamenti politici. Già dall’opera Gedanken, W. scava un solco tra il presente e l’arte greca, la quale costituisce un modello di perfezione che i moderni devono imitare per diventare a loro volta inimitabili. Sarà poi nell’opera Storia dell’arte degli antichi che W. farà una storicizzazione del bello ideale greco. Qui lui presenta la perfezione greca come il frutto di un preciso contesto climatico e sociale: i greci erano favoriti dal fatto di operare in un luogo in cui regna la bellezza; i loro corpi erano belli grazie all’influenza del cielo ‘mite e puro’ e degli esercizi corporali. In Grecia fioriva un vero e proprio culto della bellezza e W. esalta il ‘buon sangue’ di questo popolo. Nella Geschichte l’autore aggiunge anche l’elemento politico, cioè l’innato amore per la libertà, tipico del popolo greco anche durante regimi dispotici, ma ancor di più nell’Atene del V secolo, durante la democrazia di Pericle, quando l’arte greca ha raggiunto il suo apogeo. Al contrario, egli afferma, altri popoli che hanno conosciuto solo regimi dispotici non hanno potuto sviluppare degnamente le arti, come gli egizi, i persiani, i fenici. Libertà e fioritura artistica costituiscono un nesso indissolubile: la critica di W. verso il barocco e il Bernini infatti, è legata a motivazioni estetiche ma anche politiche, in quanto questo scultore era artista di corte per eccellenza, al servizio di despoti come papi o Luigi XIV, configurandosi dunque come l’opposto dell’artista greco, che era animato da uno spirito libertario. Nella condanna al despotismo e nell’esaltazione dei sistemi politici democratici, Winckelmann si ispira chiaramente a Monstesquieu e all’Esprit des Lois. Dunque per W., la Grecia deve la sua eccellenza sia a cause naturali (clima e sague) che culturali (libertà); ma a ben vedere anche l’aspetto culturale è legato all’ordine naturale, in quanto W. afferma che il greco nasce libero, non ci diventa, possiede in sé fin dalla nascita il sentimento della libertà. La perfezione greca è il frutto di un albero, le cui radici affondano tutte nel suolo greco e che è cresciuto autarchicamente: l’arte greca è perfetta perché ‘endogena’. La critica di Herbert parte dunque da questo fatto, dal non considerare i nessi e la comunicazione tra diverse culture artistiche, e, in questo caso, dal rifuggire il legame dell’arte greca con quella egizia. Secondo Winckelmann la dolcezza del clima ha determinato bellezza fisica, mentalità moderata e lingua armoniosa. La teoria dei climiera già stata sostenuta da Shaftesbury e Montesquieu, ma nell’elaborarla W. cita soprattutto le Réflexions critiques dell’Abbé Du Bos, oltre a servirsi di diari e resconti di viaggiatori. Secondo costui, il mondo è diviso in tre zone climatiche, la fredda, la torrida e la temperata, ma solo la terza è quella propizia alla nascita di regimi politici moderati e allo sviluppo di civiltà raffinate. Per Du Bos è la Francia a beneficiare di questi effetti positivi, mentre per W. è la Grecia. Winckelmann riconduce la bellezza ideale greca ad uno specifico contesto, creando così un forte senso di distanza tra il mondo greco e quello contemporaneo: contestualizzare il bello ellenico significa rilevarne la sottomissione al potere del tempo ed essere coscienti che è qualcosa di perduto. Al contrario, altri intellettuali rivoluzionari francesi, partendo dalle considerazioni winckelmanniane, hanno concepito l’idea di una rinascita della Grecia classica nella Francia liberata dal regime dispotico, considerando quindi Parigi una nuova Atene. Questa utopia della rinascita era però quasi un tradimento e stravolgimento del pensiero di Winckelmann; ma è proprio nella capacità di suscitare interpetazioni nuove e orginali, anche contraddittori, che sta la fecondità del suo pensiero. Alla teoria dei climi si oppose un pittore irlandese, James Barry, ritenendola assurda: egli era stato criticato da W., il quale aveva affermato che le sfavorevoli condizioni climatiche inglesi avevano causato nei britannici la scarsa inclinazione per le arti. Barry invece crede che la fioritura artistica dipenda da circostanze morali, da fluttuazioni di opinioni e dal tipo di educazione ricevuta; spiega l’attardato sviluppo dell’arte inglese con cause religiose, legate alla scissione della Chiesa anglicana da quella cattolica, che implicò la fine dell’arte religiosa e il restringersi della produzione artistica su generi minori. VIII.2: Il senso della storia e la nascita dello storicismo. Quando Dante nel XI canto del Purgatorio afferma che la fama di Cimabue è stata superata da quella di Giotto, esprime l’idea di un avvicendamento storico cha ha portato alla ribalta artisti più moderni. La fortuna artistica di Giotto è legata al riconoscimento della sua modernità rispetto alla maniera greca (bizantina) tipica di Cimabue. La pittura di Giotto costituisce una svolta, fatto ben assimilato dalla letteratura artistica del ‘400 e ‘500: egli è considerato l’iniziatore di una rinascita dell’arte che è andata proseguendo nelle epoche successive con Masaccio, Brunelleschi e, successivamente, coi grandi artisti cinquecenteschi. Questo modello di sviluppo storico era stato delineato dalle Vite del Vasari, il quale trovò però l’opposizione di alcuni eruditi appartenenti ad altre tradizioni artistiche, sfociando quindi in una storiografia artistica regionale o cittadina. gli appariva deforme e penosa. I ‘secoli bui’ entrano così nella storia dell’arte, non perché apprezzati esteticamente, ma perché utili alla storia, la quale non si interrompe mai, così come lo spirito dell’uomo è sempre attivo. Anche l’approccio di Séroux è normativo: egli vuole indicare ciò che gli artisti devono fuggire, regolando dunque il giudizio altrui. I modelli di Séroux furono Montesquieu con le sue Considerations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadencee l’inglese Eduard Gibbon che scrive Decline and Fall of the Roman Empire, entrambi concentratisi sul processo di rovina dello Stato romano, dimostrando come la sua decadenza, scaturita dalla crisi della Repubblica, aveva implicato il declino delle belle arti e della cultura. Montesquieu, insieme a Voltaire, critica l’antiquaria per la sua aridità e inuilità, preferendo lo studio dello sviluppo dell’umanità e di una globale civiltà. Gibbon riunisce il metodo della storia filosofica a quello dell’antiquaria, concentrata su singoli fatti e fenomeni individuali, infondendo al quadro storico generale del declino dell’impero romano la concretezza e la ricchezza dei documenti forniti dalla ricerca antiquaria. Séroux non fu l’unico a trattare di arte medievale. Il Vasari infatti ne inserisce una parte nelle sue Vite, facendo cominciare l’inizio della ‘rinascita’ dell’arte da Cimabue, escludendo però i secoli precedenti; lo stesso Mancini dichiara la continuità dell’arte nei secoli bui; e nella prima metà del ‘700 Muratori rivaluta l’arte medievale in chiave classicistica e antibarocca. In Francia, Montfaucon pubblica i cinque volumi dei Monuments de la monarchie française, cioè la storia dei re francesi del Medioevo illustrata da alcune incisioni che riproducevano monumenti sparsi sul territorio di Francia: per lui l’arte aveva la funzione di illustrare la storia. Nel Settecento si hanno anche alcuni apprezzamenti sull’arte gotica da parte di Milizia, Frézier, Lodoli e in particolare dall’inglese Horace Walpole, legato al fenomeno del collezionismo, diffuso soprattutto in Italia. A Roma, nel 1757, viene aperto il Museo Cristiano, voluto da papa Benedetto XIV; esso raccoglie oggetti provenienti dalle catacombe e quadri che testimoniassero la storia dell’iconografia del culto cristiano. Un altro caso è quello del cardinale Stefano Borgia, che raccolse a Velletri una variegata collezione di opere medievali, ispirata all’idea di svolgere una storia comparata dei popoli, delle religioni e delle arti. Lo stesso Séroux era proprietario di una collezione, la quale deve essere stata di grande importanza per la decisione di illustrare l’opera tramite incisioni. Inoltre può essere stato influenzato dall’Etruria Pittrice di Marco Lastri, un testo che illustra incisioni di pitture toscane medievali, dando un esempio di storia dello sviluppo artistico. Un altro promotore della coscienza dell’arte medievale è Della Valle con le sue Lettere Sanesi, contribuendo alla riscoperta della scuola pittorica senese del Medioevo.Séroux nutriva per l’arte medievale un interesse prettamente storico, non estetico, mentre altri suoi contemporanei (Zanetti, Della Valle, Ottley) l’apprezzavano non solo come documento di un’evoluzione storica, ma anche come arte in sé e per sé. Un altro francese, Legrand d’Aussy, scrive un saggio sulle sepolture nazionali francesi, sottolineando che lo scopo dello storico non è occuparsi di ciò che è bello, ma di ciò che è utile per la ricostruzione storica: la storia deve liberarsi da pregiudizi estetici, concentrandosi sullo sviluppo della cultura nelle sue connessioni con usi e religioni dei popoli. Legrand suddivide la storia in sei epoche, in cui individua una serie cronologica di tipologie di sepolture, dalle più semplici alle più complesse, proponendosi anche di riprodurne dei modelli da esporre in museo; egli non si occupa però delle tombe romane, in quanto sono per i francesi dei monumenti stranieri eretti da un popolo vincitore. Legrand separa quindi l’arte classica da quella medievale e manifesta una chiara componente nazionalista. Dal XVI secolo si distinguono due poli dentro la cultura antiquaria: uno è quello dell’individualità nazionale, l’altro è quello della classicità sovranazionale e dei valori universali. Il primo polo individua nel gotico e nell’arte medievale l’espressione dello spirito germanico. In Italia è importante la figura di Luigi Lanzi con la sua Storia pittorica dell’Italia, che rappresenta l’espressione del fermento storiografico e primitivistico del tempo, ma anche un momento di sintesi, in cui i risultati di ricerche locali furono unificati in una visione globale della storia della pittura italiana e delle scuole regionali. Grazie a lui e al direttore della galleria degli Uffizi Bencivenni Pelli, nel 1782 fu aperta una sala di pitture antiche, cioè di primitivi toscani, ordinati secondo il criterio geografico e cronologico. In questo anno Lanzi sente l’esigenza di allargare le sue conoscenze sulla pittura italiana attraverso ricerche che lo spingessero a viaggiare e a scoprire di più sulla scuola senese, romana e napoletana. La Storia pittorica è concepita come un ‘libro portatile’, che facilitasse la comprensione delle diverse maniere regionali, enfatizzando il metodo della divisione per scuole; l’autore dichiara la propria avversità al genere delle biografie e degli aneddoti, inutili per la comprensione dell’arte; egli vuole studiare non l’uomo ma il pittore, dunque il suo talento, il metodo, le invenzioni, lo stile. Inoltre anche il lui la storia si fonda su una selezione delle opere esaminate, le più atte a illustrare la storia degli stili. Il suo obiettivo principale è colmare la mancanza di una storia globale della pittura italiana, quindi conferire unità, significato e correttezza all’insieme di informazioni sparse della letteratura artistica a disposizione. Di qui la sua struttura incentrata sulla divisione in scuole regionali, cioè stili, maniere proprie di una località; egli distingue anche tre/quattro epoche cui corrispondono i cambiamenti di gusto e individua dei capiscuola, illustrandone lo stile. Questa storia non rispetta una successione cronologica degli artisti, ma le grandi connessioni stilistiche tra le varie scuole; questo suo progetto è quindi ispirato da Winckelmann. La storiografia lanziana si configura come policentrica: non c’è uno stile unico e perfetto, perché ci sono tante scuole e altrettante maniere diverse, ciascuna con una propria individualità ed evoluzione; la sua è un’empirica e concreta adesione alla ricca varietà geoculturale italiana. Lanzi fa riferimento anche a Zanetti (pittura veneziana), il cui modello viene esteso a tutta l’Italia. Altro obiettivo di Lanzi è far emergere una componente didattico-dottrinale, i cui destinatari sono gli artisti del suo tempo, mostrando le ragioni di fioritura o decadenza dell’arte. L’opera del Lanzi è stata sollecitata anche dalla pubblicazione di Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, che ingloba la storia delle scienze, delle biblioteche e delle arti, fondendo il modello enciclopedico con la tradizione storica italiana. Tiraboschi vuole sottolineare la necessità di aumentare le conoscenze sull’arte delle fonti, svolgendo quindi accurate ricerche filologiche. La scultura ha una sua storia specifica grazie al conte Leopoldo Cicognara, che collabora col letterato Pietro Giordani. I due pubblicano Storia della scultura e qui il fattore stilistico costituisce la trama di un tessuto storico suddiviso in cinque fasi: 1) dalla rinascita a fine XII secolo fino a Donatello; 2) da Donatello a Michelangelo; 3) Michelangelo; 4) Bernini; 5) Canova. Inoltre, il metodo di Cicognara vuole affrontare la ricostruzione storica a partire da un esame diretto delle opere oltre ad introdurre ogni epoca con un parallelo sulla politica, le scienze e le arti. Cicognara giustifica di volersi limitare alla scultura, sottolineando il carattere prettamente italiano di quest’arte, per contrastare la colonizzazione francese. Lo stesso Giordani riconosce in Canova l’artista in cui si realizza un ideale estetico, morale e civile che ne fa il protagonista dell’imminente rinascita italiana. Cicognara si occupa comunque di arte medievale, rilevando il ruolo determinante di personalità come Nicola Pisano, ma anche di arte romanica, trattando di Buschero, Gruamonte e Biduino. Infine Domenico Fiorillo, pittore e erudito tedesco, realizza una storia dell’arte europea, inglobando anche fonti medievali. Il suo progetto storiografico si distingue per la sua sterminata estensione cronologica e biografica ed è diviso in due parti: Storia delle Arti del Disegno dal loro risorgimento fino ai tempi più recenti e Storia delle Arti del Disegno in Germania e nei Paesi Bassi. Il suo punto di riferimento è Lanzi: entrambi hanno la necessità di ordinare e sintetizzare il ricco e variegato materiale messo a disposizione dalla letteratura artistica precedente, strutturano la divisione secondo coordinate cronologiche e geografiche e rifiutano, come Winckelmann, la biografia di tipo vasariano. Fiorillo però biasima Lanzi per non aver messo in relazione la storia dell’arte con le condizioni civili, religiose, militari e politiche. Il suo approccio empirico vuole osservare l’arte in rapporto alle grandi ‘ruote motrici della storia’, religione e politica, fattori fondamentali per influenzare la produzione artistica: l’arte di una data epoca o popolo è tale secondo un preciso contesto sociopolitico e culturale. Inoltre Fiorillo riconosce che nell’arte medievale si esprime l’autentico spirito del popolo tedesco, ma non presenta quest’arte come il modello a cui rifarsi. Un’ulteriore opera è la Italienische Forschungen dell’ottocentesco Von Rumohr, testo che costituisce una pietra miliare nella rivalutazione storica dell’arte medievale, da parte di un autore capace di equilibrare la tradizione settecentesca con l’interpretazione romantica del Medioevo in chiave religiosa. VIII.4: Un approccio antropologico e funzionale all’arte: la scoperta della policromia delle statue antiche. In Paris Sketch Book, l’inglese William Thackeray sembra identificare l’arte neoclassica col biancore, tipico delle statue antiche da cui artisti come David avevano tratto ispirazione. Quest’arte è però legata al pregiudizio di essere troppo bianca, candida e uniformemente marmorea, ma a quei tempi era già stata rivelata l’esistenza nell’antichità della scultura policroma. Nella Storia dell’Arte degli Antichi, Winckelmann afferma che il bello consiste nella forma, mentre il colore è un fatto accessorio, che può rendere più piacevole l’opera, ma non è un fattore costitutivo del bello. Per W. la bellezza ha un carattere intellettuale, mentre il colore, legato alla categoria del piacevole, ha un carattere sensuale. Se lui predilige il bianco è solo perché fa apparire le forme più grandi, accentuando quindi la bellezza, ma candore e bello non si identificano. In questo periodo viene pubblicata da Octavien Guasco l’opera De l’usage des statues chez les anciens, in cui l’autore considera la statuaria antica in rapporto alla società che l’ha vista nascere e svilupparsi, quindi religione, morale e politica sono importanti. In questo modo egli vuole rispondere ad una provocazione di Montesquieu, che prendeva in giro gli antiquari, proponendo di attualizzare lo studio degli antichi. Guasco dimostra che è possibile studiare le statue degli antichi in termini filosofici, sottraendole ad un’arida catalogazione tipica dell’antiquaria tradizionale, e interpretandole secondo i loro nessi con la società e la religione. L’esame di fonti e oggetti non è più fine a se stessi, ma diventa funzionale alla ricostruzione di un fitto tessuto in cui le opere sono strettamente connesse alle esigenze sociali e religiose per le quali sono nate. Guasco, osservando i monumenti in rapporto all’uomo, misura tutta la sua distanza rispetto all’antiquaria: egli vuole adottare un punto di vista relativo, valutando le statue antiche non secondo criteri astratti, ma calandosi nell’orizzonte mentale degli uomini che le hanno eseguite e del pubblico che le ha ricevute. Guasco distingue la statuaria antica in due gruppi a seconda dell’uso: quelle sacrali (oggetto di culto) e quelle onorifiche (onorare personaggi illustri); grazie a questa impostazione funzionale, egli può esaminare anche le differenti materie delle statue, sottolineando il loro carattere policromo. Questo modello è ripreso anche da Quatremère nell’opera Jupiter Olympien, di fondamentale importanza per la riscoperta della policromia della statuaria antica. Quatremère è uno eruditi che hanno condannato la politica delle spoliazioni, basandosi sull’idea che un’opera d’arte è strettamente legata al suo contesto geografico, sociale, politico, culturale per cui è nata; un’opera è legata anche a tutte le altre opere d’arte, precedenti o successive, proprie di quel contesto. Grazie a questa trama di rapporti, il singolo oggetto artistico può essere compreso, altrimenti, tolto dal suo contesto, perde di significato: il nesso arte-milieu deve farci capire che l’arte nasce per soddisfare concrete esigenze della società, solo alla luce dei quali un’opera può essere davvero compresa. Il metodo di Quatremère parte dalla consapevolezza che ciò che resta dell’arte antica è solo una minima parte di quanto è stato globalmente prodotto; sulla base di questi resti è possibile concludere che gran parte della statuaria era di marmo, ma questo tipo di produzione era solo una porzione, così come il bronzo, della statuaria dei greci, i quali infatti nutrivano una predilezione anche per la scultura criso-elefantina, in avorio, oro e altri materiali preziosi. Q. dimostra che queste statue policrome rappresentavano delle divinità ed erano situate nei santuari più importanti, erano oggetti di culto che dovevano suscitare incredulità e superstizione nei fedeli, creare un effetto di magnificenza e sfarzo. Dunque per Q. l’arte non va valutata secondo principi astratti e convenzioni estetiche, ma deve essere interpretata calandosi nella società che l’ha vista nascere, ricostruendone la funzione. VIII.5: Il restauro. Nella Geschichte Winckelmann sottolinea che molti antiquari avevano male interpretato le statue antiche perché non avevano saputo distinguere le parti autentiche da quelle restaurate. Questa affermazione dimostra l’esigenza di individuare gli interventi di restauro, che deriva dalla lucida consapevolezza della distanza storica che separa gli antichi dai moderni; è necessario dunque indicare quanto nelle statue antiche è stato aggiunto posteriormente. Winckelmann esamina le statue secondo due criteri: la recensio, recensione e comparazione di opere simili per selezionare la parte più antica; l’emandatio, la correzione di aggiunte apocrife. Spinto dalla propria coscienza storicistica, Winckelmann concepisce il restauro delle statue come un momento conoscitivo, che deve rispettare lo stile, la tecnica e il materiale originale: la posizione di W. è una novità, in quanto finora il restauro era considerato un atto tecnico per integrare frammenti antichi e ricostruirne la presunta iconografia; restauro e ricerca archeologica erano quindi su due piani distinti. Infatti, anche secondo un celebre restauratore del tempo, Orfeo Boselli, il restauro era estraneo al rispetto dello stile e all’esatta interpretazione del soggetto: per restaurare bastava saper ben scolpire. di lettere che con i loro studi promuovono il progresso nella conoscenza del bello e del vero: le scienze e le arti devono restare patrimonio comune dell’Europa; chi volesse attribuirsi un privilegio esclusivo su di esse, dovrebbe venir punito. Secondo lui, il Direttorio sta distruggendo tutto ciò, dandosi l’arrogante diritto di conquista e spoliazione dei paesi aggrediti. Il suo discorso ruota attorno al principio dell’unità inscindibile tra patrimonio artistico e luogo in cui si trova, le opere possono essere comprese ed apprezzate solo se viste nel contesto in cui sono nate, perché solo in questo modo è possibile svolgere tutta una serie di confronti. L’opera d’arte non esiste come monade, ma come relazione. Di qui l’idea che un paese come l’Italia è di per sé un museo, un deposito completo di tutti gli oggetti propri allo studio delle arti, grazie alla conservazione dei monumenti locali e delle tradizioni dell’antichità che l’hanno preservata dal generale contagio dell’ignoranza e della barbarie. Anche una città come Roma è già un museo, che ha la sua ragion d’essere nelle opere e nei rapporti che esse hanno instaurato tra loro, con i monumenti e col paesaggio. Questo concetto di contesto è chiaramente ripreso da Winckelmann. Per Quatremère dunque, asportare parti del museo di Roma, significa distruggerlo; a Parigi, quei capolavori diventeranno muti e indecifrabili frammenti, in quanto hanno perso il loro vitale legame col contesto e lo stesso contesto da cui l’opera è sottratta risulterà mutilato. La dispersione del patrimonio romano costringerà artisti e studiosi a viaggiare e a ricomporre virtualmente quello che è un’unità indissolubile. Il risultato delle requisizioni è dunque un attentato contro la scienza. Quatremère si concentra soprattutto sulla pittura, affermando che i capolavori pittorici italiani resteranno silenti se tolti dal loro contesto geografico, contesto in cui le opere maggiori possono essere comprese solo se paragonate a quelle minori e viceversa. Quatremère non può che constatare il carattere distruttivo delle requisizioni, affermando che per il superiore bene della conoscenza, del bello e del vero, proprio di tutta l’Europa, il museo di Roma e le scuole regionali devono essere lasciate intatte, altrimenti si corre il rischio di ammutolirle per sempre, a causa della cupidigia di una nazione. Dalle Lettres di Quatremère emerge una metodologia della storia dell’arte molto feconda, che amplia il suo orizzonte anche all’antropologia e all’etnografia. L’obiettivo dell’autore di fermare l’impetuoso procedere della politica del Direttorio però si rivela un fallimento, anche se molti giornali si schierano dalla sua parte. Il governo invece rimase sulle sue posizioni, ritenendo che la presenza a Parigi di grandi capolavori fosse una fonte di ispirazione per gli artisti francesi; 50 illustri artisti del tempo (anche David, Girodet…) firmano una petizione al Direttorio affinché la questione fosse gestita da un’apposita commissione di eruditi, ma anche questo tentativo è vano. Canova non esitò a esprimere il suo dispiacere per la spoliazione delle opere d’arte a Napoleone, suo committente: gli spiega che allontanare dal contesto d’origine opere italiane era un delitto e impediva di apprezzarle a pieno. Caduto Napoleone (1815), Canova è persuaso a capeggiare la delegazione pontificia inviata a Parigi per negoziare la restituzione di opere d’arte requisite in Italia. Dopo il colpo di mano dell’Olanda, fu la volta dell’Italia, scortata da truppe austriache e prussiane, a recuperare gran parte delle opere. XI.2: La tutela. Andrea Emiliani scrive un testo che raccoglie leggi e bandi per la tutela dei beni culturali (1571-1860), in cui afferma che il primato storico nell’emanazione delle antiche leggi di tutela spetta al governo pontificio. Nella storia del papato emerge una costante preoccupazione per la salvaguardia di monumenti e scavi archeologici; tale propensione alla tutela ha una svolta con il chirografo pontificio sottoscritto da papa Pio VII Chiaramonti. Nel XVIII secolo, importanti provvedimenti di tutela vengono emanati in tutta Italia (Regno di Napoli e Granducato di Toscana e Venezia soprattutto), ma è proprio l’editto del 1802 del papa che rappresenta uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo modo di concepire l’intervento dello stato sui beni artistici. Carlo Fea, curatore dell’editto, ha così modo di verificare i furti perpetrati dai francesi, ma anche di constatare la diffusa pratica di vendite clandestine operate spesso dallo stesso clero a danno dello Stato pontificio e delle chiese romane. Quella di Fea è una motivazione forte nello stabilire a livello legislativo un’azione di protezione del patrimonio artistico, dato che finora le leggi precedenti non avevano frenato questa esportazione da Roma. Inoltre, alla base del suo chirografo sta la coscienza di dover comprendere l’opera nel suo contesto. Il fondamento di questo editto è quindi un divieto di esportazione che coinvolge una vasta gamma di oggetti artistici e che implica sanzioni molto severe. In questo modo Fea esercita anche uno stretto controllo sui privati, ai quali richiede una lista di tutti gli oggetti d’arte in loro possesso; inoltre gli ispettori hanno il diritto di fare controlli periodici per verificare che queste opere non vengano vendute o mutilate. Per Fea le opere d’arte sono esemplari, guide da conservare ‘religiosamente’, ‘per ornamento’ e ‘per istruzione pubblica’. L’editto prevede lo stanziamento di fondi consistenti per l’acquisto di cose interessanti in aumento dei Musei. L’idea di base del provvedimento è che il miglioramento di strutture culturali pubbliche (accademie, musei) può produrre vantaggi economici, intensificando il flusso degli stranieri a Roma. Il chirografo del 1802 costituisce un primo fondamentale passo verso il concetto moderno di tutela. Esso è impiegato affinché la fitta rete di relazioni necessarie per comprendere l’oggetto artistico sia mantenuta e per far valere i diritti della collettività su quelli dei privati. Nel 1820 ci sarà un altro editto, sottoscritto dal cardinale Pacca, rimasto in vigore fino all’unità d’Italia; esso è simile al precedente, ma ha una più strutturata definizione degli organi amministrativi preposti alla tutela. XI.3: Il ruolo del Museo pubblico. La parola ‘museo’ (dal greco) in origine indicava un luogo di culto, l’altare dedicato alle Muse, protettrici delle arti e delle scienze. In età ellenistica si passò a designare il Museo di Alessandria, luogo consacrato allo studio e alle ricerche; le uniche opere qui presenti erano statue o busti di uomini illustri che si erano distinti nelle discipline coltivate in quel museo. Caduta in disuso nel Medioevo, la parola riapparve nel Rinascimento in riferimento alla biblioteca e poi a collezioni di varia natura. Il risorgere del termine si collega al fenomeno dello sviluppo delle collezioni, iniziato nel XIV secolo: il concetto moderno di museo è infatti il fatto di essere una collezione, non appartenente ad una persona fisica, ma ad un’entità morale (uno Stato); il museo ha quindi un carattere pubblico e permanente. Come sottolinea Pommier, il museo del XVIII secolo andrebbe considerato come lo sviluppo di un’intuizione rinascimentale. La donazione da parte di papa Sisto IV al popolo romano, collocata nel Campidoglio, rappresenta il primo nucleo del Museo Capitolino; altri episodi rimandano per esempio alla donazione di Giovanni Grimani alla Repubblica di Venezia esposta nella Biblioteca Marciana. A fine ‘500, il granduca di Toscana Francesco I trasforma gli studioli e le raccolte medicee in una galleria, quella degli Uffizi, nel palazzo costruito dal Vasari nel 1581, sede del potere granducale ed espressione della grandiosità della famiglia regnante. Questa Galleria ha la funzione di salvaguardare le opere e renderle visibili al pubblico; la collezione appartiene materialmente alla famiglia regnante, ma moralmente è una ricchezza dello Stato toscano, un bene pubblico. L’intuizione del museo sorge in un momento di forte presa di coscienza del valore culturale, estetico, storico ed educativo del patrimonio artistico e quindi si ha l’esigenza di salvaguardare le opere. In Francia, alcuni musei di provincia nascono nel XVIII secolo in rapporto con le accademie e le scuole di disegno, aventi la funzione di costituire un supporto didattico agli allievi e contemporaneamente accogliendone le opere. Questa correlazione museo-accademia si ha anche in Italia, ad esempio con la pinacoteca istituita nel Palazzo dei Conservatori annessa ad una Scuola di nudo, a Roma. Nel 1683 l’inglese Elias Ashmole dona la sua collezione all’Università di Oxford, raccolta poi nel Musaeum Ashmolianum.La dialettica che sorge nel Settecento tra il museo come insieme di exempla e il museo come visualizzazione di storia dell’arte non fa che riproporre la duplicità tra arte come storia e come dogma. Nel 1714 Scipione Maffei è nominato padre dell’Accademia filarmonica di Verona; nel ’20 egli rende noto il programma di un museo di iscrizioni che prevede la conservazione del patrimonio epigrafico in nome della sua utilità per la storia, per l’arte e per le lingue, organizzando il materiale dalla preistoria al Medioevo, cercando di coprire lingue e aree geografiche diverse de bacino del Mediterraneo. A Roma nel 1734 viene aperto al pubblico il museo del Campidoglio e il Museo Pio-Clementino viene ampliato nel 1784 grazie all’intensificazione degli scavi archeologici durante il pontificato di papa Pio VI. Lo stile degli ambienti espositivi s’armonizzava perfettamente col carattere delle opere qui presentate. Il museo pubblico, dagli anni ’50, diventa una realtà europea: il British Museum nasce in seguito all’acquisto da parte del Parlamento della collezione di Hans Sloane, medico della famiglia reale, che voleva destinarla alla nazione per il progresso della medicina; a Dresda viene organizzata da Algarotti la collezione principesca di Augusto II di Sassonia in forma di museo universale, concepito per il bene del pubblico e la cui architettura si ispira al Pantheon, ma questo progetto non è stato realizzato. Quest’ultima collezione viene divisa in due sezioni, quella della scuola italiana e quella di opere fiamminghe. Il museo Belvedere di Vienna fu voluto dall’imperatore Giuseppe II ed è rigorosamente ordinato secondo una ripartizione in scuole, dentro le quali le opere sono disposte in successione cronologica. Questa sistemazione è permeata da una chiara valenza patriottica, in quanto prevalenti sono le opere della scuola tedesca. L’esigenza di classificazione di Mechel, curatore del museo, si manifesta in una forte tendenza a distinguere, ordinare e ripartire in classi omogenee i dati del mondo visibile, ma ciò fu criticato come esposizione di campioni, più che collezione interessata al piacere degli occhi. Il museo del ‘700 si distingue per la volontà di separare classi d’oggetti differenti e sistemarli in modo razionale. Solo l’ordine e la chiarezza possono garantire la funzione educativa e pubblica del museo. La Galleria degli Uffizi deriva dalla collezione dei Medici, in particolare all’ultima ereditaria Anna Maria Ludovica, la quale trasferisce allo Stato di Toscana la proprietà della sua famiglia. In seguito, Pietro Leopoldo di Lorena si occupa di dare un più razionale assetto alla Galleria fiorentina, eliminando gli oggetti ritenuti inutili, concependola come bene pubblico, un patrimonio statale. Questo riordinamento, seguito da Querci e poi da Bencivenni Pelli, consiste in un lavoro di eliminazione e contemporaneamente di accrescimento: vengono trasportati altrove oggetti non appartenenti alle Belle Arti, mentre il settore artistico viene incrementato con l’arte etrusca e altre collezioni fiorentine. Questa sistemazione museale è capace di dar conto dell’evoluzione storica della scuola toscana, in cui vengono inseriti anche dipinti dei ‘primitivi’ magari ritenuti rozzi esteticamente ma utili per la storia dell’arte. Il criterio cronologico e per scuole era stato proposto da Bencivenni Pelli, mentre Lanzi aveva optato per la tipologia del museo sacro, esemplificato dal museo cristiano aperto nel 1757 da Benedetto XIV e annesso alla Biblioteca Vaticana, in cui si conservano antichità cristiane varie che testimoniano la storia dell’iconografia del culto cristiano. Lanzi è convinto che gli oggetti medievali della Galleria devono essere riuniti in una sala apposita, che costituirebbe un ‘museo sacro’. In seguito, si lascia persuadere dal modello di classificazione cronologica e per scuole. Il confronto tra Pelli e Lanzi porta però l’apertura della Sala delle pitture antiche. Qualche anno dopo viene pubblicata l’Etruria Pittrice di Marco Lastri, che illustra, attraverso la successione cronologica di incisioni di pitture toscane medievali, commentate, la storia pittorica di questa scuola.In questo periodo si passa quindi da criteri museografici di tipo enciclopedico a un’organizzazione della Galleria di tipo storicistico. Nell’allestimento si punta alla maggiore luminosità possibile, attraverso l’apertura di lucernai e una decorazione molto sobria alle pareti. A Parigi, La Font de Saint-Yenne, critico d’arte, invoca l’apertura di un museo pubblico al Louvre, il quale, fornendo alti esempi di pittura di storia, costituirebbe un mezzo fondamentale per rilanciare questo genere e porre fine al rococò. Gli artisti vi troverebbero dunque le guide sicure per ritornare alla grande maniera della pittura di storia, ma tutto ciò si sarebbe avverato solo se il sovrano avesse riordinato e reso pubblica la sua ricca collezione di dipinti. Il museo è concepito come un bene utile all’istruzione di artisti e amatori, per cui deve essere facilmente visitabile. Nel 1750 si decise che un certo numero di dipinti della collezione reale a Versailles fosse esposto al Palazzo del Lussemburgo, nell’attesa di un edificio destinato appositamente a ciò. Le opere furono esposte senza alcun criterio né cronologico né per scuole, ma dominava un’impostazione eclettica, lasciando libero lo spettatore di fare confronti più o meno arbitrari. Questa Galleria del Lussemburgo era una soluzione provvisoria, chiusa nel 1779. Il direttore generale d’Angiviller si propose di assicurare la preminenza alla pittura di storia per rianimare la virtù e i sentimenti patriottici, riprendendo episodi dalla storia della monarchia francese. Le inziative di Angiviller hanno una connotazione politica e patriottica e rilanciano la gloria della corona francese attraverso le arti. Con questo progetto viene poi aperto il Louvre, che fornisce modelli di ispirazione oltre ad accogliere delle opere, esempi di virtù individuali e civiche. La vocazione del museo di Angiviller è duplice: didattica, attraverso la presentazione di modelli pittorici del passato, e patriottica, celebrando la Nazione francese. Il lavoro di trasformazione della Galleria del Louvre in museo si è svolto lentamente per la meticolosità con cui si è valutato il parere di architetti e pittori. Inoltre questo processo è rallentato da una crisi finanziaria e dalla Rivoluzione.
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