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Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Sintesi del corso di Storia Economica

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Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica e più Sintesi del corso in PDF di Storia Economica solo su Docsity! STORIA ECONOMICA La rivoluzione industriale 1. LA STORIA ECONOMICA È una disciplina giovane che si sviluppo fra il 1930 e il 1970. (Prima si insegnava la storia del commercio). LA STORIA ECONOMICA È LA STORIA DEI FATTI E DELLE VICENDE ECONOMICHE A LIVELLO INDIVUDUALE, AZENDALE O COLLETTIVO. Si occupa prevalentemente della produzione, della distribuzione e del consumo di beni e servizi: ✳ la produzione si ottiene combinando assieme i fattori della produzione, ovvero i fattori naturali, il lavoro e il capitale, al quale si aggiunge la capacità imprenditoriale ( capacità di combinare i 3 fattori al fine di ottenere un output>input); ✳ la distribuzione consiste nella ripartizione del valore dei beni e servizi fra coloro che hanno contribuito a produrli (lavoratori, finanziatori…); ✳ il consumo è l'utilizzazione che si fa dei beni e servizi prodotti. I beni sono utilizzati per soddisfare i bisogni individuali o collettivi dell'uomo oppure per produrre altri beni (beni strumentali). La produzione, la distribuzione e il consumo sono oggetto d’indagine di almeno altre due discipline: l’economia politica e la politica economica. ECO. POLITICA studia l’attività economica per comprenderne il funzionamento e formulare nuove leggi POL. ECONOMICA si occupa del modo in cui i governi cercano di modificare la composizione, la distribuzione e il consumo della ricchezza prodotta. STORIA ECO. studia le modalità con le quali i problemi della produzione, della distribuzione e del consumo di beni e di servizi sono stati effettivamente risolti in certe epoche e luoghi. Anche i compiti dell’economista e dello storico sono diversi. L’economista studia il presente alla luce del passato per fini che hanno a che fare con il futuro (Keynes). Lo storico è orientato al passato (Cipolla). 1.2 LE GRANDI RIVOLUZIONI DELLA STORIA DELL’UMANITA’ 3 grandi rivoluzioni che hanno segnato il destino dell’umanità: 1. la rivoluzione cognitiva: homo sapiens vive per millenni cibandosi di frutti selvatici e dei prodotti della caccia e della pesca e imparando a utilizzare il fuoco per cucinare e rendere i prodotti commestibili. 70.000 anni fa partì dall’Africa orientale e si diffuse in tutto il mondo, soppiantando le altre specie di esseri umani presenti. Da allora, l’homo sapiens realizzò la rivoluzione cognitiva consistente nella comparsa del pensiero astratto e nell’uso dei simboli per esprimerlo. I gruppi di cacciatori-raccoglitori si spostavano in continuazione alla ricerca di territori più ricchi di frutti, per potersi trasferire altrove dovevano avere conoscenze più approfondite sul mondo che li circondava, perché dovevano tenere conto del mutamento delle stagioni. La loro vita era dura e il loro numero continuava a crescere. 2. La rivoluzione agricola: ebbe inizio intorno a 12.000 anni fa per far fronte alla crescita della popolazione e impiegò alcuni millenni per diffondersi su tutta la Terra. Fu un processo inevitabile per permettere di alimentare più persone, ma comportò un peggioramento delle condizioni di vita. L’uomo cominciò a lavorare duramente da mattina a sera, la dieta diventò meno varia di prima, basata su poche piante e animali. La convivenza con gli animali favorì la circolazione di germi e batteri e con essi la diffusione delle malattie, si abbassò la vita media e aumentò mortalità infantile e decessi per parto. Con questa rivoluzione si affermarono anche una nuova concezione di vita e una più complessa organizzazione sociale. Le visioni animistiche erano in grado di imporre un ordine gerarchico e comuni modelli di comportamento a gruppi vasti di persone. Fu così che nacquero i primi villaggi e le prime città. La dimora stabile favorì il concetto di proprietà. L’uomo sedentario dedito all’agricoltura doveva essere previdente e accumulare le scorte necessarie per la semina. Nelle società agricole si sviluppò la divisione del lavoro, che portò alla nascita di alcune attività artigianali e poi al commercio interno. Le società agricole si andarono uniformando grazie a 3 fattori: • Gli imperi che, governando popoli distinti, diedero loro un’identità; • Le religioni che danno una legittimazione alle strutture create dall’uomo e assicurano la cooperazione tra le grandi masse, con pari funzioni unificatrici. • Il denaro avvicina i popoli in quanto tutti lo hanno subito accettato e gli hanno attribuito un valore. Le società agricole furono caratterizzate dalle profonde disuguaglianze tra i suoi membri, in cui piccoli gruppi di ricchi privilegiati si contrapponevano al resto della popolazione, raggruppata in classi subalterne. In Europa durante il medioevo era stata codificata nel sistema feudale, ancora evidente alla vigilia della rivoluzione industriale. 3. Il SISTEMA FEUDALE Nel Settecento il sistema feudale era ormai in decadenza. Conservava, però, alcuni elementi che erano oggetto di continue lamentele e proteste da parte delle classi non privilegiate. Il sistema feudale si basava su rapporti personali e patrimoniali, intercorrenti fra il sovrano e i suoi vassalli e tra costoro e i loro contadini, in origine, i vassalli promettevano fedeltà al proprio sovrano o signore e si obbligavano a fornirgli auxilium (militare e finanziario) et consilium. In cambio, il signore garantiva al vassallo la sua protezione e gli assicurava il mantenimento mediante l’assegnazione di un feudo, un’estensione di terreno che, in genere, non era sua proprietà privata. Il sovrano poteva in qualsiasi momento revocare la concessione, specialmente in caso si tradimento o infedeltà del vassallo. I feudi, con il tempo, divennero ereditari e, previo assenso del sovrano, anche vendibili ad altri, oltre che frazionabili in suffeudi, che potevano essere concessi ad altri vassalli (valvassori e valvassini). Va ricordato che i vassalli, oltre i feudi, possedevano anche terre di proprietà privata, gli allodii, di cui potevano disporre a loro piacimento. Le terre del feudo erano normalmente divise in più parti: a. La riserva dominica che il signore teneva per sé e faceva coltivare dai suoi servi. b. I mansi che erano i poderi dati in concessione ai contadini liberi perché li lavorassero per potersi mantenere. c. Le terre comuni, ossia le terre non coltivate, riservate allo sfruttamento comunitario degli abitanti del luogo (pascolo, raccolta di legna…). Il feudatario, inoltre, garantiva la difesa contro i nemici con i suoi uomini armati, amministrava la giustizia, in genere tramite un uomo di legge, soccorreva contadini in caso di bisogno, mediante anticipazioni di derrate o in altro modo, e costruiva e teneva funzionanti mulini, forni e gualchiere, frantoi e altre strutture di cui gli abitanti del luogo si servivano a pagamento (diritti bannali). LO SVILUPPO ECONOMICO 2.1.CRESCITA, SVILUPPO E PROGRESSO Nel linguaggio comune, i termini crescita e sviluppo vengono spesso utilizzati come sinonimi, ma essi presentano alcune importanti differenze. La crescita economica è un aumento del valore complessivo di beni e servizi prodotti da una determinata popolazione in un certo periodo di tempo (di genere un anno). Lo sviluppo economico indica una crescita elevata e prolungata, accompagnata da trasformazioni culturali, sociali e strutturali. La crescita è un processo reversibile, perché a un periodo di crescita può seguirne uno di decrescita. Anche lo sviluppo può essere reversibile, ma è difficile che trasformazioni profonde possano essere annullate per ritornare a forme economiche esistenti prima del cambiamento. Crescita e sviluppo sono termini neutri, in quanto possono essere misurati e descritti prescindendo da giudizi etici. Dal punto di vista economico, infatti, vi è crescita quando aumenta la produzione di beni e servizi, indipendentemente dalla loro natura, e quindi anche quando si tratta di attività moralmente condannabili. Diversa è la nozione di progresso che è legata alla concezione moderna del mondo, affermatasi in Europa tra 600 e 700 da scienziati che credevano che l’uomo potesse oggettivamente comprendere il mondo e di poterlo misurare e migliorare. La storia in seguito fu vista come un passaggio graduale dalla società con forme primitive di organizzazione a forma avanzate. Questa idea di progresso appartiene all’uomo occidentale contemporaneo ed è diversa da quella accettata in altre epoche o luoghi. 2.2 LA MISURAZIONE DELLA CRESCITA La crescita viene misurata facendo riferimento ad alcuni aggregati, come il PIL e il PNL. Il prodotto interno lordo è il valore monetario dei beni e dei servizi finali prodotti in un determinato periodo (generalmente un anno) all’interno di un paese da residenti e stranieri, al lordo degli ammortamenti, vale dire compreso il valore dei beni consumati nel processo produttivo. Il prodotto nazionale lordo è il valore monetario di beni e servizi finali prodotti in un determinato periodo soltanto dai residenti all’interno di un paese e all’estero, sempre al lordo degli ammortamenti. La determinazione del PIL serve non solo per conoscere la sua variazione fra un anno e l’altro, ma anche per stabilire confronti internazionali e comparare livelli di crescita di diversi paesi. Il Pil complessivo di un paese è poco significativo se non lo si rapporta alla popolazione. Dividendo il Pil per il numero degli abitanti, si ottiene il Pil Pro Capite, che permette di conoscere il valore dei beni e dei servizi che ciascun cittadino ha mediamente contribuito a produrre. Solo così è possibile stabilire confronti tra diversi paesi. Un altro problema che si pone, quando si vogliono fare confronti tra economie di diversi paesi, è quello del valore delle monete nelle quali è espresso il PIL di ciascuno di essi e del conseguente tasso di cambio da applicare. Da qualche tempo, si fa sempre più ricorso al metodo della Parità di potere d’acquisto (PPA), in inglese Purchase power parity (PPP), che consiste nell’individuazione di una certa quantità (paniere) di beni e servizi di uso più comune e nella determinazione del loro prezzo della moneta di ciascun paese. Questo metodo, anche se si presta a critiche, è comunque preferibile al tasso di cambio, dato dall’incontro fra D e O di moneta. 2.3 I MODELLI DI SVILUPPO Per spiegare lo sviluppo economico, gli economisti e gli storici hanno spesso fatto ricorso a schemi o modelli nel tentativo di individuare meccanismi applicabili all’evoluzione della società. Il ricorso a tali modelli richiede cautela, perché se essi sono utili come ipotesi di lavoro e studio, risultano pericolosi quando vengono utilizzati per spiegare i processi storici, che sono complessi e sfuggono a rigide classificazioni e schematismi. Un modello che si può ricordare è quello di Walt Rostow del 1960 perché ha introdotto il concetto di “take off” (decollo). Secondo Rostow, la realizzazione dello sviluppo economico passa attraverso 5 stadi, dalla società tradizionale a quella dei consumi di massa: 1. la società tradizionale, è lo stadio della società preindustriale, in cui l’agricoltura è attività predominante e non riesce a fornire significative risorse aggiuntive da destinare ad attività extra agricole, la produttività è bassa in tutti i settori e la popolazione stenta a crescere. 2. la società di transizione, fase di cambiamento durante la quale si avviano condizioni che determinano lo sviluppo successivo. È caratterizzata dall’incremento delle produttività agricola, che mette a disposizione degli altri settori le risorse necessarie alla loro crescita, dall’incremento dell’istruzione, dalla formazione di una classe imprenditoriale dinamica e da un susseguirsi di innovazioni. Non mancano però le resistenze ai cambiamenti messe in campo da chi vede in pericolo la propria posizione e i propri privilegi. 3. la società del take off, è lo stadio più importante perché segna il momento in cui una società conosce una forte accelerazione, riuscendo a superare tutte le resistenze che si frappongono al suo sviluppo. Il sistema economico subisce profonde trasformazioni. La produzione e la produttività crescono sia in agricoltura che negli altri settori, i quali diventano dinamici e contribuiscono all’accumulazione di capitale. Le innovazioni si fanno più numerose, gli investimenti aumentano e le trasformazioni investono anche il quadro politico ed istituzionale. Il decollo riguarda principalmente alcuni settori guida (leading sectors) che trascinano lo sviluppo, mentre altri, non essendo coinvolti, generano squilibri economici all’interno di un paese. 4. La società matura, è la società che ormai è decollata e vede aumentare produttività, innovazioni tecnologiche e investimenti in un processo di crescita regolare e continua. Le trasformazioni ora si allargano ad altri campi come le industrie meccaniche utensili, dei prodotti chimici e delle attrezzature elettriche. Lo sviluppo comincia ad autoalimentarsi. 5. La società dei consumi di massa, è questa la società che Rostow osservava tra gli anni 50 e 60 negli USA e che si è estesa in molti paesi. In questo stadio si assiste a un forte aumento della domanda dei beni di consumo durevoli e di servizi, reso possibile dall’incremento del Pil pro capite. Il processo di accumulazione, che era costato parecchi sacrifici alle generazioni precedenti, è terminato ed è possibile destinare risorse al miglioramento della qualità della vita. Nonostante i numerosi apprezzamenti, è stato però anche osservato che questa teoria non spiega in modo esauriente il passaggio da uno stadio all’altro, non chiarisce come si realizzano le condizioni di decollo né come si formano gli imprenditori che lo stimolano, né considera i rapporti fra i diversi paesi e cioè la dimensione internazionale dello sviluppo. 2.4 CRISI E CICLI ECONOMICI Una delle caratteristiche principali del mondo industrializzato fu la comparsa delle crisi economiche. Anche nell’età preindustriale vi erano state delle crisi, ma era trattato di crisi di sottoproduzione, nel mondo industrializzato, invece, si presentano le crisi di sovrapproduzione. (NB: Le crisi di sottoproduzione non finirono con l’industrializzazione 1846-1848 grave crisi di sussistenza (cattivi raccolti) che colpì particolarmente l’Irlanda). Le crisi di sovrapproduzione sono apparse con il sistema capitalistico industriale, hanno inizio con una fase di congiuntura favorevole, cioè di forte aumento della domanda e di rialzo dei prezzi, che induce a una crescita della produzione, facendo ricorso all’uso di macchine sempre più perfezionate e alle banche, pronte a finanziare le imprese di espansione. Per conseguenza, le vendite aumentano e si realizza il pieno impiego dei fattori della produzione. Ma è difficile dire fino a che punto si spinge la produzione e si corre il rischio di produrre più di quanto si riesca a vendere, sicchè si determina una sovrapproduzione (le merci restano invendute, le imprese non possono rimborsare i prestiti alle banche e spesso falliscono, gli operai perdono il lavoro e inizia la crisi). Le imprese sono costrette a riorganizzare la produzione per ridurre i costi in attesa della ripresa. L’evoluzione del capitalismo industriale è fortemente instabile, con periodi di espansione della produzione seguiti da periodi di depressione e di disoccupazione. Lo studio delle crisi è stato quindi inquadrato in quello dei cicli economici, al quale si sono dedicati diversi economisti a partire dalla seconda metà dell’800. Ricordiamo brevemente solo tre cicli, quelli che l’economista Schumpeter ha chiamato ciclo breve, ciclo maggiore e ciclo lungo. Clement Juglar fu il primo nel 1860 a comprendere che le crisi si inseriscono in meccanismi ad andamento ciclico. Identificò le crisi come il punto di inversione di tendenza fra espansione e depressione e individuò cicli dalla durata di 8 o 10 anni durante i quali si susseguono una fase di espansione e una di depressione. Per molto tempo si pensò che esistesse solo una categoria di andamenti ciclici, finchè J. Kitchin mise in evidenza (1923) l’esistenza di un ciclo dalla durata di 3-4 anni. Nel 1923 Nikolaj Kondratieff individuò onde lunghe che duravano anche 50 anni, basandosi sull’andamento dei prezzi e sulla variazione della produzione. Le due fasi che compongono il ciclo lungo di Kondratieff vennero chiamate da Simiand fase a (espansione e fase b (depressione). I cicli si sono svolti in un lungo periodo caratterizzato da un trend secolare in crescita, sicchè nelle fasi di depressione l’andamento generale dell’economia è stato in genere espansivo. I cicli di Kondratieff, Juglar e Kitchin si appoggiano l’uno sull’altro in ciascun ciclo lungo ci sono più cicli di Juglar e all’interno di ogni ciclo di Juglar vi sono più cicli brevi di Kitchin. Bisogna, infine, notare che i cicli di cui si è discorso non esauriscono la gamma di tutte le fluttuazioni ad andamento ciclico. Si parla ad esempio di “ipercicli” di durata di 18-22 o di “cicli dell’edilizia” residenziale collegati ad attività edilizia. I cicli individuati dal Settecento al momento in cui Kondratieff scriveva sono quattro: - 1730-1790 - 1790-1848 - 1848-1897 - 1897-1933 metà Settecento ai 50 del primo Novecento agli 80 di oggi, con le donne che in media vivono da 4 a 6 anni più degli uomini). Tra metà 700 e metà 800, la popolazione mondiale aumentò del 60%. La popolazione europea arrivò a 275 milioni e la GB nell’arco di un secolo si triplicò. Il legame tra aumento popolazione e disponibilità alimentari si stava spezzando. L’incremento demografico, però, dava preoccupazioni, come dimostra il “Saggio sulla popolazione” di Malthus, il quale riteneva che la crescita della popolazione rispondesse a una legge naturale che si sarebbe raddoppiata ogni 25 anni, se non fosse stata frenata dall’insufficiente disponibilità di generi alimentari. La razza umana, sosteneva l’economista inglese, cresce secondo una progressione geometrica (1,2,4,8,16) mentre i mezzi di sussistenza crescono secondo una progressione aritmetica (1,2,3,4,5). Per evitare che la popolazione restasse indigente, bisognava limitare l’incremento. Egli non suggeriva alcun controllo per limitare le nascite e non era neanche favorevole a norme per ritardare l’età del matrimonio; faceva però appello al moral restraint, ossia al ritardo volontario del matrimonio e alla pratica della castità, in modo da ridurre le nascite. 4. CAUSE RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA Cause che determinarono la crescita della popolazione, prima britannica e poi europea, sono molteplici. La riduzione del tasso di mortalità fu determinata da diversi fattori: • Alimentazione: diventò più regolare e ciò fu reso possibile dalla disponibilità dei generi alimentari e dalla possibilità di trasportare a notevole distanza le derrate, grazie alla costruzione di strade, ponti, ecc… • Le condizioni igieniche: sia quelle pubbliche che private cominciarono a migliorare. Nelle città si sistemarono le fognature, le strade vennero rese più pulite, migliorò igiene personale, si fece uso più frequente del sapone e si cominciarono ad adoperare indumenti di cotone che si potevano lavare con maggior frequenza. Il miglioramento dell’igiene contribuì a rafforzare le difese immunitarie. • Primi progressi della medicina: anche se non furono così rilevanti come quelli realizzati nei periodi successivi, ci furono alcune scoperte, come il vaccino contro il vaiolo. Vi fu una maggiore attenzione verso la medicina, che venne sostenuta in modo adeguato da pubblici poteri e venne divulgata. • Riduzione mortalità infantile: fu uno dei fattori che maggiormente contribuì al calo del tasso di mortalità. La riduzione più consistente fu realizzata nei ceti abbienti, segno che il benessere, igiene, migliore qualità dell’alimentazione ecc furono tutti elementi determinanti per abbattere la mortalità infantile. Il tasso di natalità rimase elevato ancora per molto, ma anch’esso cominciò a mostrare qualche segno di cedimento verso la fine del periodo. Il mantenimento dei figli diventa difficile quando i raccolti sono scarsi, ma una delle ragioni per cui nelle società contadine le coppie continuavano a mettere al mondo molti figli era la necessità di assicurarsi il mantenimento in vecchiaia. La famiglia allargata cominciò a cedere il posto alla famiglia composta dal solo nucleo genitori – figli. né la fecondità né la mortalità della popolazione europea dipendevano più dalle disponibilità alimentari!!!! Questa evoluzione, lenta e incerta nelle campagne, fu più evidente nelle città che stavano crescendo non solo per l’incremento della popolazione, ma anche per l’arrivo di molte persone dalle zone agricole circostanti. Si stava sviluppando un nuovo urbanesimo, che costituisce l’ultima caratteristica demografica del secolo della prima rivoluzione industriale. L’Inghilterra e il Galles furono nettamente in anticipo sul resto d’Europa, perché gia intorno alla metà dell’800 circa il 50% della popolazione viveva nelle città, mentre negli altri paesi non si raggiungeva il 20%. I fattori riportati hanno avuto un peso diverso nei vari periodi storici. LE PREMESSE DELLE RIVOLUZIONE INDUSTRIALE INGLESE •.1. L’AGRICOLTURA DELL’ANCIEN REGIME Nonostante la rivoluzione agricola del Neolitico e l’incremento demografico, l’uomo non riusciva a vedere i suoi sforzi per far crescere la popolazione, anche perché non riusciva a produrre una quantità di beni sufficiente a consentire l’accumulazione di risorse da destinare allo svolgimento di attività diverse da quelle agricole. Verso la metà del 700, le persone dedite all’agricoltura costituivano il 90% della popolazione. La prevalenza del settore primario durò per molti secoli; ancora oggi prevale in alcune zone come Asia o Africa. Col tempo però ha ceduto il posto al settore secondario, poi superato da quello terziario. C’è infatti una riduzione degli addetti nel settore primario, e l’aumento dapprima degli addetti nel settore secondario e poi del terziario. Questa trasformazione è stata chiamata legge dei tre settori o legge di Clark, dall’economista inglese Colin Clark che ha individuato la tendenza di lungo periodo, nelle economie in crescita, a passare dalla prevalenza di addetti all’agricoltura a quella di addetti all’industria e infine alla prevalenza di addetti nel settore terziario. A causa della scarsa produttività, prima dell’industrializzazione, l’agricoltura era l’attività economica predominante. I pochi ed elementari prezzi agricoli usati non consentivano un incremento della produzione o della produttività. Da secoli si usava l’aratro semplice, poi sostituito, nel Medioevo, dall’aratro a ruote. Di grande utilità erano anche gli animali da tiro, i quali dovevano però essere nutriti e questo comportava un costo. Due importanti caratteristiche dell’agricoltura dell’ancien regime erano la pratica della policoltura e la scarsa commercializzazione dei prodotti agricoli: • Policoltura: era una necessità dal momento in cui era difficile e molto costoso trasportare a distanza i prodotti agricoli; ogni regione si sforzava di produrre tutto ciò che serviva per soddisfare le proprie (e anche della popolazione locale) esigenze alimentari, con la conseguenza che le rese si abbassavano, poiché si era costretti a coltivare delle piante non sempre adatte a terreni e alle condizioni climatiche del luogo; • La commercializzazione dei prodotti agricoli era molto limitata e solo i grandi proprietari potevano vendere parte della produzione sul mercato, che peraltro si limitava alle zone circostanti; la massa dei coltivatori, invece, non era in grado di immettere nulla sul mercato. •.2. LA RIVOLUZIONE AGRARIA: LE TECNICHE La crescita della popolazione comportava un aumento della domanda e dei beni di pria necessità, con un conseguente rialzo dei prezzi. Il problema principale era quello di alimentare un maggior numero di persone e per questo bisognava incrementare la produzione agricola. In Inghilterra ci fu una rivoluzione agraria forte incremento della produzione e della produttività in agricoltura, grazie all’introduzione di nuove tecniche e al mutamento del regime della proprietà fondiaria. L’Europa settecentesca, al contrario delle Americhe, non aveva molte terre ancora da conquistare, sicchè doveva far fronte alle maggiori necessità derivanti dall’incremento demografico con le terre disponibili, mediante un loro uso più produttivo. Il problema principale dell’attività agricola era costituito dalla necessità di ripristinare la fertilità del suolo dopo le coltivazioni. Tale risultato si poteva ottenere lasciando la terra a riposo e ricorrendo alla concimazione: a. il periodo di riposo, detto maggese, durante il quale bisognava comunque coltivare il terreno e tenerlo libero dalle piante infestanti. I più comuni erano la rotazione biennale e la rotazione triennale. Questi metodi comportavano uno spreco di terra: ciò non era sopportabile in un periodo in cui la popolazione stava aumentando e aveva bisogno di maggiore quantitativo di generi alimentari; b. le concimazioni che dovevano accompagnare il periodo di riposo, che da solo non bastava a dare fertilità alla terra. Il risultato migliore si otteneva con il letame ottenuto dalla fermentazione degli escrementi animali mescolati con la paglia che si ricavava dalle stalle. Ma le stalle erano poche perché si praticava l’allevamento brado, il quale sottraeva ulteriori terre alla coltivazione La produzione di cereali era aumentata da tempo per la necessità di rifornire le città: questo aveva dato il via a un commercio sia interno che di esportazione. La rotazione più diffusa in Inghilterra era quella triennale. La soluzione per evitare lo spreco era già stata trovata in Olanda: la soluzione consisteva nell’eliminazione del maggese e nell’inserimento nelle rotazioni di leguminose e di le ferrovie e la navigazione a vapore, ma anche prima di allora furono realizzati importanti miglioramenti nelle vie di comunicazione e nei mezzi di trasporto. I trasporti terrestri erano quelli più consistenti, ma erano anche molto più lenti e costosi. Con la decadenza della rete stradale dell’Impero romano, l’Europa era rimasta priva di strade efficienti per tutto il Medioevo. Le strade inglesi erano considerate le peggiori d’Europa per il modo in cui erano costruite, esse si deterioravano facilmente, tanto che furono emanati provvedimenti per limitare il peso dei carri, il numero dei cavalli che li trainavano e l’eccessiva strettezza delle ruote, responsabili dell’usura del manto statale. La necessità di rifornire di generi alimentari e di carboni e le città in espansione, indusse il governo a intervenire, favorendo il sistema delle strade a pedaggio. a poco, a poco, la manutenzione di numerose strade venne sottratta alla responsabilità delle parrocchie e affidata a società private che percepivano un pedaggio dagli utenti, come avviene nelle moderne autostrade. Negli anni 30 dell’800 c’erano 30.000 km delle strade a pedaggio. Ma la vera rivoluzione sta all’inizio del XIX secolo quando alcuni ingegneri come Metcalf, Telford e McAdam ripresero i sistemi di costruzione dei romani e cominciarono a realizzare strade più solide e compatte. Su uno strato di pietre grosse si disponevano diversi strati di pietre più piccole, ricoperti con una o più gettate di pietrisco minuto, il tutto schiacciato in modo da formare una superficie dura e liscia. La carreggiata doveva essere leggermente arrotondata per assicurare il deflusso dell’acqua in tal modo fu consentito lo spostamento più veloce ed economico dei passeggeri, delle merci e delle notizie. Le diligenze si fecero sempre più numerose, comode e frequenti. Sembra che nel 1820 ne partissero da Londra, nell’arco di 24h, ben 1500 dirette in tutta la Gran Bretagna. Fino all’avvento dell’automobile si ebbero pochi altri sviluppi nella tecnica delle costruzioni stradali, se si esclude l’introduzione, intorno al 1860, del rullo a vapore per comprimere le pietre. La grande innovazione dei trasporti terrestri fu la comparsa delle strade ferrate negli anni 30 dell’800: le strade ferrate nacquero dall’abbinamento delle rotaie con la locomotiva a vapore. I binari, all’inizio di legna e poi di legno ricoperti di ghisa, non erano una novità, perché venivano utilizzati da tempo per il movimento di vagoncini, a spinta o trainati da cavalli, nelle cave e nelle miniere. La prima locomotiva a vapore fu costruita da Trevithick nel 1801, ma non ebbe successo. Bisognò attendere il 1825 quando Stephenson costruì una locomotiva impiegata sulla ferrovia che collegava le miniere di Stockton e Darlington. Cinque anni più tardi (1830) fu inaugurata la linea Liverpool-Manchester, che utilizzava la locomotiva Rocket di Stephenson e che è considerata la prima linea ferroviaria di trasporto al mondo. Inizia da allora la straordinaria avventura delle ferrovie, che si diffusero in breve tempo in tutti i paesi. A metà secolo XIX, erano già stati costruiti, in tutto il mondo, 35mila km di strade ferrate, di cui 14500 negli Stati Uniti e 10500 in Gran Bretagna. 5.2.LA RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI: LE VIE D’ACQUA Nel 700 le strade non consentivano, a costi convenienti, il trasporto di merci pesanti sulle lunghe distanze, per le quali erano più indicate le vie d’acqua interne. Risultava comunque difficile risalire i fiumi e per farlo bisognava trainare le imbarcazioni dalla riva, utilizzando funi tirate dagli uomini o da animali. Altri inconvenienti erano costituiti dagli sbarramenti creati per alimentare i mulini che erano sorti lungo i fiumi, dai pedaggi da pagare alle città o ai signori dei feudi attraversati, dalla presenza delle corporazioni dei barcaioli che imponevano l’uso delle proprie barche alle tariffe da esse stabilite. Nella seconda metà del 700, in Inghilterra si sviluppò una febbre di canali, tanto che tra il 1760 e il 1800 ne furono costruiti molti per la lunghezza complessiva di un migliaio di km ad opera di società appositamente costituite. I canali ebbero un’importanza notevole perché quasi sempre collegavano due fiumi navigabili e perciò contribuirono ad ampliare la rete di comunicazione formata dalle acque interne. L’Inghilterra possedeva un gran numero di fiumi che potevano facilmente diventare navigabili con alcune opere di sistemazione. I canali erano sorti specialmente per rifornire di carbone le città, dove esso era utilizzato in primis come combustibile per il riscaldamento, ma consentirono poi il trasporto di merci voluminose, pesanti e di largo consumo come pietre, mattoni, legname, bestiame, grano, fieno, paglia e concime. Il trasporto marittimo era la forma di trasporto più economica. Il viaggio per mare, però, presentava molti pericoli come le tempeste e la presenza di pirati, che potevano portare alla perdita del a carico o della nave o persino della vita dei marinai. Ancora nel XVIII secolo i marinai venivano catturati dai pirati che chiedevano un riscatto per la loro liberazione i proprietari delle navi, per garantirsi da questi rischi, stipulavano polizze con le compagnie di assicurazione che stavano sorgendo. In questo rilievo sorsero i Lloyd’s a Londra, una grande associazioni di assicuratori privati. La Gran Bretagna è un’isola stretta in cui non vi è un centro abitato che disti più di 160 km dal mare, sicché il trasporto di carbone, pietre e grano veniva attraverso una flotta di piccole imbarcazioni dedite al cabotaggio, ossia alla navigazione lungo la costa, anche in questo caso per il rifornimento di Londra. L’evoluzione della capitale, infatti, rappresentò un elemento importante nella trasformazione economica dell’Inghilterra. Il nuovo secolo vide anche numerosi esperimenti nel campo della navigazione a vapore. L’inventore americano Fulton sperimento il primo battello a vapore sulla Senna (1803) e il secondo, il Clermont, sul fiume Hudson (1807), sul quale fu inaugurato un servizio regolare di collegamento fra le città di New York e Albany. I nuovi battelli, con le caratteristiche ruote a pale si diffusero sia in Europa che negli Stati Uniti. Sui mari, le navi a vapori subirono la concorrenza dei velieri fino alla metà dell’800, sicché non poterono dare un contributo significativo alla prima rivoluzione industriale. 5.3.COMMERCIO E MERCANTILISMO Secondo la massima Adam Smith, “il consumo è l’unico fine di tutta la produzione” ciò significa che sia i prodotti industriali sia agricoli dovevano essere venduti, altrimenti non vi era convenienza a continuarne la produzione. Ma i mercati dell’epoca però erano troppo ristretti e questo era un grande ostacolo per la crescita dell’attività produttiva. I beni vendibili erano collocati, per la maggior parte, sul mercato cittadino, solo una piccola quota usciva dall’ambito locale per raggiungere mercati più lontani e un’altra ancora più piccola concorreva ad alimentare il mercato transoceanico. Gli ostacoli di commercio erano di diversa natura e contribuivano a determinare la ristrettezza dei mercati interni. Vi erano barriere naturali e artificiali: quelle naturali erano costituite da grandi distanze, aggravate dalla presenza di montagne, dal cattivo stato delle strade ecc; quelle artificiali erano costituite principalmente da numerosi dazi che bisognava pagare sulle merci importate e spesso anche su quelle inviate da un luogo all’altro dallo stesso Stato. Altri fattori che impedivano l’espansione dei mercati erano basso reddito della popolazione, che limitava le possibilità di acquisto di molti beni, l’insicurezza dei viaggi sia terrestri che marittimi e l’insufficienza della moneta in circolazione e difficoltà di accesso al credito. Il commercio internazionale era stato il ramo più dinamico dell’economia nei secoli successivi alle grandi scoperte geografiche fra Quattro e Cinquecento. Ormai anche alcune merci pesanti e voluminose di minor pregio (cereali, metalli, legname, carbone, tessuti…) partecipavano a tali traffici, grazie ai miglioramenti realizzati nella progettazione e nella costruzione delle imbarcazioni, che rendevano relativamente conveniente il loro trasporto a distanza. A ciò aveva contribuito la politica mercantilistica, che ancora nella prima metà del 700 improntava l’azione di quasi tutti i governi europei. Il mercantilismo era sia una dottrina economica riteneva che la ricchezza di una nazione fosse assicurata dalla quantità di metalli preziosi da essa posseduti, che una politica economica permetteva l’accrescimento della ricchezza nazionale con ogni mezzo, anche illecito, come contrabbando e guerra di corsa. Il modo più sicuro era tramite le esportazioni che sarebbero state pagate con monete d’oro o argento, assicurando un costante flusso in entrata di tali metalli. Questa visione trovava accordo sia con i mercanti che con i governanti. I mercanti vedevano nell’incremento del commercio ottime occasioni di guadagno, mentre i governanti vi scorgevano la possibilità di accrescere le entrate statali, mediante le imposte e i dazi che potevano colpire la produzione e i dazi. La preoccupazione dei governanti era diventata quella di procurarsi le somme necessarie per far fronte alle spese statali, soprattutto per mantenere gli eserciti e le flotte e per sostenere il crescente costo delle guerre, in modo da aumentare la potenza dello Stato. La politica mercantilistica fu insieme di provvedimenti adottati da vari stati, ognuno dei quali perseguiva un proprio disegno di potenza. Tutti, però, miravano a costituire abbondanti riserve d’oro e d’argento. I paesi europei, che generalmente non possedevano grandi giacimenti di metalli preziosi sul loro territorio, dovevano procurarselo diversamente: mediante la conquista di colonie provviste di tali metalli oppure con il commercio, che doveva essere incoraggiato. Bisognava esportare più di quanto si importasse, cioè avere una bilancia commerciale attiva. ma se tutti gli Stati si ponevano come obiettivo l’esportazione delle proprie merci e la limitazione delle importazioni non si comprende chi avrebbe dovuto acquistare le merci che tutti volevano esportare. La conseguenza era che il commercio internazionale veniva ostacolato e non riusciva a svilupparsi ulteriormente. Gli Stati attuarono la politica mercantilistica in vario modo, ma principalmente tramite una politica economica protezionistica e nazionalistica, che mirava a proteggere e a far sviluppare le industrie nazionali. Ciò poteva avvenire con la protezione doganale e con forme di sostegno diretto alle manifatture. La protezione doganale garantiva le industrie nazionali dalla concorrenza estera, colpendo con dazi molto elevati l’importazione di beni che si potevano produrre in patria o, in casi estremi, addirittura vietandole. Assicurava l’approvvigionamento delle materie prime necessarie alle manifatture nazionali, vietando o limitando la loro esportazione o agevolandone l’importazione se dovevano venire dall’estero. Il sostegno diretto alle manifatture avveniva tramite premi alla produzione o all’esportazione e, se questi non risultavano sufficienti, anche con la concessione di privilegi, come esenzioni fiscali, diritto di assumere liberamente la manodopera in deroga agli statuti delle corporazioni e finanche con il monopolio della produzione e della vendita di determinati beni. Nel caso di attività ritenute strategiche o costose, lo stato poteva intervenire direttamente impiantando proprie manifatture. Le flotte mercantili dovevano essere incoraggiate e sostenute perché favorivano le esportazioni e consentivano anche, in caso di noleggio, entrate di denaro. Quasi tutti gli Stati avevano introdotto le leggi sulla navigazione, che si proponevano di riservare il commercio estero alle navi nazionali e di favorire la marina mercantile. Per esempio, i Navigation Acts, una serie di provvedimenti del Parlamento inglese a partire dal 1651, imponevano che le merci importate in Inghilterra dovessero essere trasportate su navi inglesi o sulle navi del paese di provenienza. Solo la piccola Olanda, governata da un ceto di ricchi mercanti e che viveva in buona parte di commercio e di trasporti marittimi, seguì politiche meno ristrettive, accettando nei suoi porti e nei suoi mercati commercianti da tutte le nazioni. I governi attribuivano grande importanza al possesso delle colonie, considerate fattori di ricchezza. Le colonie potevano essere utili alla madrepatria per fornirle i beni di cui non disponeva e per accogliere la popolazione eccedente o indesiderata. Acquistavano dalla madrepatria parecchi manufatti che non erano in grado di produrre autonomamente. Per favorire il commercio internazionale e coloniale vennero fondate numerose compagnie commerciali nei principali paesi, come la Compagnia inglese delle Indie orientali (1600) e la Compagnia olandese delle Indie orientali (1602). Queste compagnie vennero favorite dai governi che accordarono loro privilegi, privative e monopoli. In tal modo, esse riuscirono ad accumulare grandi ricchezze e a concentrare nelle loro mani un grande potere, sia economico che politico. 5.4. IL COMMERCIO INTERNAZIONALE In Inghilterra, il miglioramento delle vie di comunicazione e dei mezzi di trasporto consentì un ampliamento del mercato, sia nazionale che internazionale. Il mercato interno fu spinto dall’incremento dei consumi, alimentato dall’aumento del reddito pro-capite che, nel corso del 700, Bisogna infine ricordare la produzione domestica alla quale attendevano i membri della famiglia per soddisfare i propri bisogni. Le donne si occupavano della filatura, preparavano il pane salavano la carne, gli uomini erano addetti ai lavori pesanti. Ovviamente, i beni di consumo prodotti nell’ambito della famiglia non entravano nel circuito commerciale, ma venivano direttamente consumati per soddisfare le esigenze ei bisogni familiari. 6.2 LE FORME GIURIDICHE DELL’IMPRESA Le imprese assumevano diverse forme giuridiche, dalla ditta individuale, in cui una sola persona svolgeva la sua attività con il capitale proprio, alla società, che prevedeva l’apporto di un capitale da parte di più persone, le quali partecipavano ai rischi dell’impresa e ripartivano fra di loto l’eventuale utile conseguito. • la società in nome collettivo: nota, in genere, con il nome del fondatore, della famiglia o di uno dei soci, è caratterizzata dal fatto che i soci sono responsabili solidalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali e di norma sono anche tutti amministratori della società ciascun socio risponde dei debiti contratti anche dagli altri soci in nome della società con tutto il suo patrimonio e non soltanto con la quota capitale sottoscritto. • La società in accomandita: prevede due categorie di soci, gli accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente delle obbligazioni sociali e amministrano la società; gli accomandanti i quali non partecipano alla gestione e rischiano solo i fondi che vi hanno investito. Alla società in accomandita ricorsero quegli imprenditori che, volendo sviluppare la loro attività e non desiderando di accogliere nuovi soci a pieno titolo nella loro azienda, preferivano associarsi con persone provviste di capitali, che assumevano la qualità di soci accomandanti, senza entrare direttamente nella gestione. • La società anonima (o società per azioni): detta “anonima” perché non contiene nella sua denominazione il nome dei soci, i quali non sono noti ai terzi che con essa intrattengono rapporti di affari. Essa raccoglie un certo numero di soci che sottoscrivono frazioni di capitale, dette azioni, hanno diritto a una quota di utile, detta dividendo e partecipano all’assemblea che elegge gli amministratori della società stessa. La responsabilità de soci è limitata alle azioni possedute, che possono vendere o trasferire ad altri, per cui rischiano di perdere solo la quota di capitale versata. Le società anonime possono contrarre prestiti mediante l’emissione di proprie obbligazioni. Nel 700 solo poche imprese avevano la forma di società anonime. Sotto questa veste erano costituite imprese che si occupavano del commercio marittimo, compagnie di assicurazione, banche ecc. La possibilità di vendere e comprare azioni aveva dato luogo ad alcune speculazioni (bubbles o bolle) e perciò la costituzione di queste società era stata sottoposta a restrizioni, che riguardavano sia il trasferimento delle azioni sia l’autorizzazione delle loro costituzioni, che da allora diventò una procedura lunga, costosa e di esito incerto. Queste norme furono abrogate solo a inizio 800 negli USA, circostanza che diede vita a quel paese un vantaggio competitivo fino a quando non vennero abrogate, fra il 1855 e il 1870, anche nei principali paesi europei (GB, Francia e Germania). 6.3 MACCHINA A VAPORE E INNOVAZIONI L’industria del cotone e del ferro furono le attività che maggiormente sperimentarono le moderne tecnologie. Sono le cosiddette industrie traenti capaci di imprimere un impulso particolare allo sviluppo e di coinvolgere anche altri settori produttivi. Le innovazioni tecniche concernenti queste industrie e l’introduzione della forza vapore costituiscono il nocciolo della prima rivoluzione industriale inglese. Anzi, la rivoluzione industriale fu assicurata prevalentemente dalla macchina a vapore. La forza del vapore era già nota ai Greci, ma la prima applicazione moderna del vapore fu dovuta al fisico francese Papin nel 1690. Nel 1698 Savery brevettò una pompa a vapore per estrarre l’acqua dalle miniere, anche se essa presentava dei difetti, come la tendenza ad esplodere. Nel 1712 Newcomen riuscì a costruire una pompa più perfezionata che però era ingombrante e consumava troppo combustibile. Fu solo James Watt, un tecnico che aveva aperto un laboratorio presso Glasgow, il quale nel riparare un modello della macchina di Newcomen, vi apportò alcune modifiche brevettate nel 1769. Watt ebbe la fortuna di incontrare Boulton che gli mise a disposizione il capitale necessario per continuare le ricerche. Watt riuscì a trasformare il movimento lineare del pistone (avanti e dietro) in movimento rotatorio, che consentì molte altre applicazioni, dai mulini alle macchine per filare fino alle locomotive. La società di Watt e Boulton costruì moltissime macchine, che riuscì anche ad esportare. Il caso di Watt è particolare in quanto, pur non essendo uno scienziato, mise a punto la sua macchina partendo da un ragionamento scientifico, che sviluppò grazie al fatto che ebbe modo di seguire alcuni corsi universitari all’università di Glasgow. Come lui, gli inventori inglesi del XVIII secolo cercarono di dare una risposta a problemi concreti. Si trattava di operai o artigiani addetti al funzionamento delle macchine, la maggior parte dei quali seguì metodi empirici, mentre altri operarono in modo più scientifico. Le numerose invenzioni inglesi furono stimolate anche dal sistema di brevetti che garantiva all’inventore l’utilizzazione esclusiva del suo ingegno, sia pure per un periodo limitato. Il ruolo della tecnologia fu essenziale durante la prima rivoluzione industriale non per le invenzioni quanto per le innovazioni che cambiarono il processo produttivo e l’organizzazione della produzione e premiarono gli imprenditori che vi investivano capitali. La distinzione tra invenzione e innovazione, dovuta a Schumpeter, è che l’invenzione è qualsiasi novità brevettabile, ossia un qualunque miglioramento di metodi e processi di lavorazione; l’innovazione si ha quando l’invenzione viene applicata al processo produttivo. Un’invenzione può non diventare un’innovazione, ma può dare luogo ad una serie di altre innovazioni. 6.4 L’INDUSTRIA DEL COTONE L’industria tessile si era sviluppata nelle campagne e riguardava le tradizionali lavorazioni della lana, del lino e della canapa. La nuova industria del cotone, era modesta ed arretrata. Introdotta nel XVII secolo nel Lancashire subì la concorrenza delle stoffe cotonate indiane e in particolare del calicò, un tessuto leggero e poco costoso, fino a quando non ne fu vietata l’importazione (Calico Act, 1701). I metodi di lavorazione davano prodotti finiti di bassa qualità e i tessuti non erano nemmeno di puro cotone. La filatura del cotone richiedeva l’impiego di molta manodopera e non riusciva a stare dietro alla domanda dei tessitori. La prima invenzione riguardò proprio la tessitura in cui sono elencate le innovazioni riguardanti l’industria tessile: a. Navetta volante (flying shuttle): inventata nel 1733 da John Kay, per velocizzare la tessitura, era un meccanismo molto semplice, formato da una spoletta munita di rotelline, che scorreva lungo una guida ed era tirata con una cordicella dall’operaio; un solo tessitore poteva così lavorare più velocemente e ottenere tessuti di larghezza maggiore di quella tradizionale, che si doveva limitare all’apertura delle sue braccia; con la navetta lo squilibrio fra filatura e tessitura si accrebbe, ragion per cui essa tardò ad affermarsi e diventò ancora più urgente migliorare i filatoi. b. Spinning jenny (giannetta) era un filatoio messo a punto solo nel 1764 da James Hargreaves esso consisteva in una ruota che muoveva una batteria di fusi ed era azionata da una sola persona, la giannetta si diffuse rapidamente perché costava poco, non era ingombrante e si prestava in modo particolare a essere utilizzata nell’industria a domicilio. c. Water frame era un filatoio idraulico brevettato nel 1769 da Richard Arkwritght (un barbiere), che era capace di produrre un filato molto resistente che mise fine ai tessuti di misto lino. d. Mule jenny (o spinning mule) era un filatoio derivato dalla fusione tra la giannetta e la water frame ad opera di Crompton (1779); essa era in grado di azionare un gran numero di fusi e di produrre un filo più liscio e sottile, consentendo di ottenere tessuti di qualità superiore a quelli indiani. e. Il telaio meccanico a vapore brevettato nel 1785 da Cartwright, risolveva il problema della nuova strozzatura che si era venuta a creare fra filatura e tessitura in seguito alle invenzioni ricordate. f. Sgranatrice meccanica (cotton gin) inventata da Whitney nel 1793, consentiva di separare agevolmente la fibra di cotone dai semi e fece diminuire di molto il prezzo e aumentare la produzione e l’esportazione di cotone negli USA verso l’Inghilterra. Questo grappolo di invenzioni si concentrò nel breve periodo di pochi decenni e apportò benefici a tutta l’industria tessile, perché le nuove macchine potevano essere facilmente adattate alla lavorazione di qualsiasi fibra. L’industria cotoniera, però, fu quella che riuscì ad avvantaggiarsene maggiormente e divenne la più importante dell’Inghilterra. Nel 1830, la metà delle esportazioni britanniche era costituita da tessuti di cotone, che avevano preso il posto della lana. I motivi dell’espansione dell’industria cotoniera furono molti: 1. Era un’industria nuova intorno alla quale non si erano ancora costituiti interessi particolari da difendere. 2. Le macchine adoperate si adattavano al lavoro a domicilio 3. Era un’industria labour intensive che richiedeva una quantità alta del fattore lavoro rispetto agli altri fattori della produzione e che poté utilizzare manodopera a basso costo (donne e bambini) 4. Aveva già un mercato, perché gli inglesi si erano abituati al consumo di calicò mussole indiane, tessuti più leggeri e igienici della lana 5. Fu subito orientata all’esportazione e, quindi riuscì ad evitare la saturazione del mercato interno 6. Fu caratterizzata dalla concentrazione geografica del Lancashire, dove il grande porto di Liverpool facilitiva l’importazione della materia prima e l’esportazione del prodotto finito. 6.5 L’INDUSTRIA DEL FERRO Dalla fusione dei minerai ferrosi (magnite, limonite, ematite…) con il carbone in un forno a tino, detto altoforno, si ottiene la ghisa, la quale, con successivi processi di decarburazione, fornisce ferro e acciaio. Nel 700 per la fusione si usava quasi solo carbone di legna, sicchè gli altiforni erano costruiti in genere nelle vicinanze dei boschi e venivano smantellati quando il combustibile si esauriva per essere ricostruiti altrove. La scarsa disponibilità di carbone di legna costrinse gli Inglesi ad utilizzare il carbon fossile. Questo materiale era abbondante ma non veniva adoperato nella fusione perché dava una ghisa molto fragile. Agli inizi del secolo XVIII Darby riuscì ad estrarre il coke dal carbon fossile (litantrace): il minerale veniva riscaldato in un ambiente chiuso per eliminare le impurità sottoforma di gas e ottenere come residuo il coke. La scoperta fu tenuta nascosta, ma anche quando, alcuni decenni più tardi, fu nota tardò ad affermarsi perché non dava una buona qualità di ferro. Fu necessario attendere l’altra importante innovazione di Peter Onions ed Henry Cort, che separatamente brevettarono il puddlellaggio, un processo di decarburazione mediante il quale la ghisa veniva fusa in un forno a riverbero e agitata continuamente con lunghe aste per liberarla dal carbonio in eccedenza e ottenere ferro e acciaio (inizio 900). LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE INGLESE (I PROBLEMI) 7.1 I MEZZI DI PAGAMENTO E LA FUNZIONE DELLE BANCHE La rivoluzione industriale presentò non pochi problemi che bisognò risolvere e il cui superamento costituì esso stesso un ulteriore stimolo allo sviluppo economico. Il problema dei mezzi di pagamento e del finanziamento dell’industrializzazione, il problema dello sfruttamento dei lavoratori e il problema degli sbocchi per la produzione manifatturiera britannica. A metà 700, le monete in circolazione erano quasi esclusivamente metalliche; erano d’oro o d’argento per i pagamenti più consistenti, oppure di altri metalli per i pagamenti minuti. Il valore delle monete era definito dal contenuto di metallo prezioso. Di conseguenza, il valore di una monera rispetto a un’altra si otteneva confrontando il fino delle due monete. Lo Stato provvedeva alla coniazione, servendosi delle zecche gestite direttamente o date in appalto a privati. I sistemi monetari erano 3: il monometallismo argenteo, il monometallismo aureo e il bimetallismo. Il metallo prezioso assunto a base del sistema era detto anche tallone dire che un paese aveva l’argento come tallone monetario non significa che tutte le monete in circolazione fossero d’argento, ma significa che l’argento godeva di libero conio e aveva potere liberatorio illimitato. Il libero conio era la possibilità concessa ai privati di consegnare alla zecca il metallo prezioso in loro possesso e ottenere in cambio l’equivalente in monete, dedotte dalle spese di fabbricazione ed eventuali diritti. Il potere liberatorio illimitato era la possibilità concessa in qualsiasi legge alla moneta assunta a base del sistema di essere utilizzata in qualsiasi pagamento e per qualsiasi importo. Verso metà 700, i sistemi monetari più diffusi, in Europa, erano in monometallismo argenteo e il bimetallismo. Solo l’Inghilterra, anche se ufficialmente adottava il sistema bimetallico, si era di fatto avvicinata al monometallismo aureo, perché la circolazione di monete d’argento si era ridotta notevolmente, essendo state utilizzate per pagare le merci importate dall’Asia, dove prevaleva il monometallismo argenteo. Con il tempo le monete d’oro e d’argento cominciarono a rivelarsi insufficienti per la necessità dei traffici, che erano in aumento. Fu necessario ricorrere alla moneta cartacea introdotta dalle banche di emissione esse, non disponendo di una quantità sufficiente di monete metalliche da prestare, pensarono di consegnare propri biglietti con la promessa di cambiarli in monete metalliche ad ogni richiesta dei loro possessori. Per assicurare il cambio, le banche emittenti dovevano tenere una riserva di monete. Nessuna banca sarebbe stata in grado di cambiare tutti i biglietti in circolazione se essi si fossero presentati più o meno simultaneamente. A metà 700 le banche d’emissione esistevano soltanto in Inghilterra, Scozia e Svezia. La Bank of England era la più importante e fu merito suo se i biglietti di banca (banknotes) si diffusero dappertutto. Le banconote erano una promessa di pagamento, ossia l’impegno di cambiarle in moneta metallica. Le banconote circolavano a corso fiduciario, ma poi ebbero anche corso legale e in alcuni momenti si dovette ricorrere al corso forzoso. All’inizio erano soltanto a corso fiduciario, cioè nessuno era obbligato ad accettare le banconote e se la gente le prendeva era solo perché nutriva fiducia nella banca; in seguito ottennero per legge anche il corso legale, ossia il potere di estinguere qualsiasi debito, sicché nessuno poté rifiutarle. Infine, quando le banche di emissione non disponevano di sufficienti riserve per garantire il cambio dei biglietti emessi, una legge poteva imporre, per un periodo limitato il costo forzoso, ossia l’inconvertibilità delle banconote che dovevano essere accettate in pagamento senza poterle più cambiare in moneta metallica. Nel 700, un vero sistema bancario, ossia un insieme di banche che coprisse tutte le esigenze degli operatori economici e dello Stato, non esisteva in alcun paese ad esclusione dell’Inghilterra e della Scozia. In Inghilterra, accanto alla Banca d’Inghilterra, strettamente legata al governo, al quale concedeva frequenti anticipazioni, esistevano, intorno al 1750, una trentina di banche a Londra (city banks) e una dozzina di banche di provincia nel resto del Paese e nel Galles (country banks). In diverse città europee c’erano le banche pubbliche, che accettavano depositi, senza corrispondere su di essi ad alcun interesse e rilasciavano ai depositanti una ricevuta che poteva essere girata ad altri per effettuare un pagamento. Queste banche investivano in vario modo i fondi disponibili, ma in genere li impiegavano nel debito pubblico. Anche numerosi banchieri privati erano interessati ai titoli pubblici, oltre che al credito mercantile. In alcuni paesi, come Italia, Spagna e Francia, operavano i Monti di pietà, sorti a partire dal 400 per opera dei Francescani con lo scopo di combattere l’usura, concedendo piccoli prestiti su pegno alle persone bisognose, in cambio di un modico interesse. I Monti frumentari, particolarmente numerosi nelle zone rurali, esercitavano anch’essi il prestito su pegno, ma invece di denaro prestavano grano per la semina. 7.2 I PROBLEMI DEL FINANZIAMENTO E DEL CREDITO La prima rivoluzione industriale risultò poco costosa, nel senso che non erano necessari molti capitali per avviare un’attività produttiva, essendo relativamente modesto il costo delle macchine e basso quello della manodopera. I primi industriali erano spesso artigiani, piccoli proprietari terrieri e operai che iniziarono l’attività con pochi fondi. In genere, gli imprenditori dell’epoca consideravano il capitale impiegato nella loro impresa alla stregua di un investimento finanziario e si accontentavano di un rendimento oscillante intorno al 5%, lasciando all’azienda qualsiasi guadagno ulteriore. L’autofinanziamento era il reinvestimento nell’azienda di una parte degli utili e fu il modo principale con il quale gli imprenditori si procuravano i fondi necessari all’ampliamento della loro attività. Le imprese costituite sottoforma di società anonima cominciarono a rivolgersi al mercato, sul quale collocavano le obbligazioni che erano in grado di emettere. Proprio per questo le banche inglesi difficilmente intervennero per concedere alle imprese finanziamenti cospicui e di lunga durata. Se i primi investitori non avevano bisogno di un elevato capitale fisso, necessitavano di denaro per l’acquisto di materie prime e per pagare i salari agli operai. Le banche londinesi e quelle provinciali finanziavano di continuo i piccoli imprenditori, mediante lo sconto di cambiali a tre mesi, che era ritenuto un periodo sufficiente perché le imprese potessero acquistare le materie prime, trasformarle e vendere il prodotto finito. Questi prestiti venivano spesso rinnovati e quindi si trasformavano di fatto in finanziamenti di durata più lunga. Dopo le guerre napoleoniche, nel 1816, il valore della sterlina (fissato nel 1717 da Newton, quando era direttore della Zecca) fu confermato a 7.32 grammi d’oro fino e a quel rapporto fu ristabilita, nel 1821, la convertibilità dei biglietti della Banca d’Inghilterra. Da allora solo le monete d’oro ebbero potere liberatorio illimitato e soltanto l’oro godette di libero conio: la Gran Bretagna aveva formalmente adottato il gold standard. Nel 1833, infine, una legge dichiarò le banconote della Banca d’Inghilterra, moneta a corso legale e da allora poterono essere adoperati per tutti i pagamenti. A questo punto si poneva il problema della quantità di biglietti da emettere. Essi potevano essere stampati in quantità illimitata, al contrario delle monete metalliche. Bisognava quindi stabilire a quale ammontare fosse possibile emettere banconote. A ciò provvide la legge bancaria del 1844 (Bank Charter Act) che stabilì i limiti di emissione e l’ammontare delle riserve. La Banca d’Inghilterra fu autorizzata a emettere biglietti fino a 14 milioni di sterline senza copertura metallica, da investire in titoli, in maggioranza titoli di Stato. Oltre tale importo la riserva (monete e lingotti d’oro) doveva essere pari al 100% del valore dei biglietti messi in circolazione. La legge vietava la costituzione di nuove banche di emissione in Inghilterra e el Galles. I suoi biglietti erano sicurissimi, nel senso che il loro cambio in moneta metallica o in oro era garantito dalle riserve imposte dalla legge. La decisione di limitare l’emissione di biglietti senza copertura ad appena 14 milioni fu anche determinata dal fatto che la sterlina stava diventando la moneta dei pagamenti internazionali e quindi doveva essere molto solida, vale a dire che i possessori stranieri di sterline dovevano essere sicuri che sarebbero state sempre cambiate in moneta metallica o in oro. L’Inghilterra, però, continuò a soffrire di un’insufficiente circolazione di mezzi di pagamento, fino a quando no si diffuse l’uso degli assegni bancari. 7.3 I PROBLEMI DEL LAVORO Nella società preindustriale, in cui il lavoro e la produzione erano regolati dagli statuti delle corporazioni, prevaleva l’idea di una società protetta. Si riteneva cioè che i salari dovessero restare stabili, i profitti dovessero essere mantenuti a un livello ragionevole e i consumatori dovessero essere tutelati sia riguardo alla qualità che al prezzo dei prodotti. Anche se i regolamenti e le disposizioni in materia erano ormai osservati in modo superficiale, fu solo con l’avvio della pria rivoluzione industriale che si cominciò a manifestare con tutta evidenza l’idea di una società caratterizzata dalla libera iniziativa e dalla ricerca del profitto, con poche o nessuna protezione per i lavoratori. Nelle fabbriche si affermò un modo diverso di lavorare rispetto a quello agricolo e artigianale, in cui il ritmo era molto più lento e non vi era alcun obbligo di orario. I lavoratori salariati furono reclutati fra i lavoratori a domicilio, gli artigiani e i lavoratori dei campi. I lavoratori a domicilio non vollero trasformarsi in operai perché non volevano rinunciare all’indipendenza di cui godevano e assoggettavano alla rigida disciplina della fabbrica; gli artigiani, specie quelli rovinati dall’industria, evitavano di diventare operai e, quando potevano, si trasformavano in piccoli imprenditori, spesso in società con un capitalista, oppure diventavano commercianti dei manufatti che prima producevano direttamente e che ora acquistavano presso le fabbriche; i contadini costituirono il grosso della classe operaia, poiché il lavoro dei campi non riusciva più ad assorbire l’incremento demografico ed essi avevano perso gli usi comunitari sulla terra. Gli operai, nei primi tempi, reagirono al duro lavoro in fabbrica assentandosi frequentemente e lasciavano spesso un datore di lavoro per un altro. Il passaggio dalla vita di campagna a quella di città comportò un peggioramento delle condizioni di vita materiale. Le prime fabbriche, in particolare quelle tessili, fecero largo uso del lavoro di donne e di bambini. Quando sorsero i primi opifici, le autorità si affrettarono a collocare i bambini presso gli imprenditori, che si impegnavano a fornire loro vitto e vestiario e a istruirli nel mestiere. L’orario di lavoro era massacrante e le condizioni igieniche pessime. Nel 1833 la giornata lavorativa dei bambini sotto i 13 anni fu ridotta a 9 ore; nel 1847 la giornata lavorativa in fabbrica fu fissata a 10 ore sia per le donne che per i ragazzi tra i 13 e i 18 anni. 7.4 LE ASSOCIAZIONI OPERAIE E LE TRADE UNIONS Nel XVIII secolo nacquero molte unioni di mestiere (trade unions) fra gli operai specializzati per proteggere i privilegi di cui godevano e ostacolare l’ingresso di altri lavoratori nella categoria e non tanto per difendere i loro interessi nei confronti degli imprenditori. Spesso queste unioni chiedevano l’osservanza delle norme dell’apprendistato. Agli inizi del 700 il Parlamento accolse le loro richieste di far rispettare tali norme, ma in seguitò aderì alle istanze degli imprenditori che volevano essere liberi di assumere e licenziare gli operai secondo le necessità della produzione. Le unioni di mestiere praticavano anche il mutuo soccorso, vale a dire che offrivano agli iscritti un sostegno in caso di malattia, disoccupazione, vecchiaia, infortuni e altre avversità. I lavoratori generici non avevano costituito proprie associazioni, ma spesso si univano per difendere i loro interessi. La protesta sfociava in tumulti celebre fu il movimento luddista che si opponeva all’introduzione delle macchine nelle fabbriche, considerate responsabili della disoccupazione e dei bassi salari. Il luddismo si sviluppò in anni in cui erano in vigore i Combination Acts (1800), leggi che vietavano qualsiasi associazione sia di lavoratori che di datori di lavoro, perciò il movimento luddista fu considerato illegale. Esse comunque non riuscivano a impedire agli imprenditori di accordarsi. Gli operai invece subirono un duro colpo perché essendo in molti risultava difficile difendere i propri interessi senza potersi associare e tenere alle assemblee. 8.1 FIRST COMER E SECOND COMER Secondo una convinzione comune condivisa anche da Marx, diffusasi nel corso dell’800, i paesi industrializzati mostravano a quelli rimasti indietro l’immagine del loro futuro. L’Inghilterra, che aveva ormai raggiunto la maturità, era vista da tutti come un paese da imitare. Qui gli addetti all’industria e all’artigianato superavano i contadini, mentre il commercio dava lavoro a moltissime persone. Lo sviluppo inglese era spontaneo, lento e graduale. Alla sua realizzazione avevano contribuito soprattutto gli imprenditori innovativi e le banche. La gradualità e la lentezza del decollo consentirono un progressivo adattamento dei lavoratori e della popolazione alle innovazioni, che cominciavano a trasformare il modo di lavorare e di vivere. La Gran Bretagna era il first comer, ossia il paese decollato per primo e perciò potè godere di determinati vantaggi, come l’assenza di concorrenza ai suoi manufatti. Lo svantaggio era che essendo il primo paese a percorrere la nuova strada dell’industrializzazione, commise errori e dovette affrontare problemi sconosciuti, che fu costretta a risolvere solo per approssimazioni successive. I second comers (paesi che decollarono più tardi/followers/last comers) poterono godere dei vantaggi dell’arretratezza (definiti così da Gerschenkron), costituiti dalla possibilità di utilizzare le innovazioni e i processi tecnologici sperimentati dalla GB. Il loro principale svantaggio era dato dalla necessità di compiere un grande sforzo per agganciare il paese leader realizzando una rapida accumulazione, grazie al sacrificio di lavoratori e consumatori. Per indicare questo sforzo si dice catching up. Secondo Gerschenkron, se in GB esistevano alcuni prerequisiti dello sviluppo, i paesi che ne erano privi dovettero ricorrere ai fattori sostitutivi, capaci di dover svolgere la stessa funzione dei prerequisiti. I principali fattori sostitutivi sarebbero stati lo Stato e le banche, che sostenevano l’iniziativa privata e consentirono a parecchi paesi ritardatari di accelerare il ritmo del loro sviluppo. Agli inizi del 700 però la GB non era il paese più sviluppato d’Europa, ma lo erano i Paesi Bassi, che avevano trasformato in fertile poderi (polders) molte terre sottratte al mare mediante le costruzioni di dighe, praticavano l’allevamento del bestiame, avevano una lunga tradizione nel ramo tessile e in quello delle costruzioni navali, disponevano di un grande impero coloniale e si erano specializzati nel trasporto per conto di terzi, tanto che gli Atti di navigazione inglesi avevano proprio lo scopo di contrastare la loro potenza; e, infine, erano all’avanguardia nelle operazioni finanziarie, grazie alla Borsa, alle banche e alle compagnie di assicurazione. Nel 700 però l’Olanda venne superata da Inghilterra e Francia. Con la sua decadenza, la GB non ebbe più rivali e il suo modello di sviluppo fu imitato da altri paesi europei. 8.2 FATTORI FAVOREVOLI E SFAVOREVOLI ALLO SVILUPPO ECONOMICO FRANCESE Anche se l’industrializzazione francese fu molto meno evidente di quella inglese, lo sviluppo francese ebbe gli stessi risultati di quello inglese. La GB non aveva bisogno di accelerare il suo sviluppo perché stava distanziando i principali paesi europei sui diretti concorrenti (come risulta dalla tabella che riporta le stime di Maddison sul Pil pro capite dei diversi paesi). Verso la metà del XVIII secolo, la Francia aveva una popolazione tripla rispetto a quella britannica, un grande mercato interno e una buona tradizione di manifatture. Secondo alcuni studiosi, essa possedeva i prerequisiti per potersi sviluppare almeno contemporaneamente alla GB. Infatti, nella seconda metà del 700 realizzò buoni progressi, anche se il secolo terminò con la GB impegnata nella rivoluzione industriale e con la Francia sconvolta dalla rivoluzione politica e sociale. Ci sono numerose ragioni per le quali la Francia rimase indietro e si possono compendiare in una serie di fattori sfavorevoli allo sviluppo: 1. Un lungo periodo di guerra: la Francia rivoluzionaria e napoleonica dovette combattere le potenze europee coalizzate contro di essa per quasi un quarto di secolo (1792-1815); la guerra fu combattuta in Europa e sui mari e impose alla Francia un costo umano e materiale molto superiore rispetto a quello supportato dagli inglesi. Né va dimenticato che la Francia subì, dopo la fine delle guerre napoleoniche, diverse insurezzioni politiche, sicuramente più numerose di quelle della maggior parte dei paesi europei, fra cui le rivoluzioni del 1830 e 1848. 2. Una modesta crescita demografica, la popolazione cresceva poco e diventava anche più vecchia. Fu trattenuta nelle campagne e non si registrarono flussi di migrazione. 3. Insufficienza risorse naturali, in particolare id carbone e minerali di ferro. Lo sviluppo economico francese però potè contare su alcuni fattori favorevoli: a. La rivoluzione francese, che se per un verso ritardò lo sviluppo, ma dall’altro lo favorì, perché in breve tempo spazzò via l’ancien regime mediante la liquidazione della feudalità, si soppressero i dazi interni e l’affermazione della piena proprietà individuale della terra. La rivoluzione ebbe il merito di chiudere per sempre con il passato e di farlo in tempo breve, esportando comunque le sue idee, le sue riforme e le sue istituzioni in molti paesi europei; b. L’insegnamento e la ricerca, riformate dalla rivoluzione, puntando sullo studio della matematica e della fisica. c. L’opera dei sansimoniani, considerati gli apostoli dell’industrialismo. Assegnavano una funzione trainante a scienziati ed industriali e inneggiavano al processo scientifico, ritenuto capace di assicurare la felicità all’umanità. A loro si deve la costruzione del canale di Suez, la creazione di numerose banche e la costruzione delle prime linee ferroviarie. 8.3 LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE IN FRANCIA Durante la prima rivoluzione industriale la Francia rimase un paese legato all’agricolura. La Francia era la patria della fisiocrazia scuola di pensiero con a capo Quesnay che, in opposizione al mercantilismo, predicava le virtù dell’agricoltura. I fisiocratici ritenevano che la ricchezza di una nazione si fondasse sull’agricoltura e che solo essa era in grado di fornire un prodotto netto, ossia un sovrappiù, mentre le altre attività erano dette “sterili” perché si limitavano alla trasformazione dei beni o al loro trasporto da un luogo all’altro. La rivoluzione francese contribuì notevolmente al consolidamento della piccola proprietà contadina; i contadini furono liberati dai pesi di origine feudale che ancora li opprimevano (piccoli censi in denaro o in natura, corvées) e diventarono proprietari delle terre che coltivavano. Inoltre, durante la Rivoluzione, furono messi in vendita i beni confiscati alla Chiesa e ai nobili fuggiti all’estero, che andarono ad incrementare il numero dei piccoli proprietari, mentre l’abolizione delle decime liberò i contadini dall’obbligo di versare una parte del raccolto al clero. La prevalenza della piccola proprietà costituiva un ostacolo a un ulteriore sviluppo agricolo perché il contadino francese era attaccato ai vecchi metodi di coltivazione ed era ritenuto conservatore. L’industria fu caratterizzata dalla prevalenza di piccole imprese, specialmente di quella siderurgica che insieme a quella tessile furono sostenute dallo Stato. I francesi inventarono il meccanismo Jacquard (1806) che era un dispositivo applicato al telaio o alle macchine di maglieria; la Francia si vantava un’antica tradizione nelle industrie del lusso,rivolte a soddisfare i bisogni dei ceti più ricchi e raffinati, come quella della seta, dei panni e dei teli fini, del mobilio, della moda, dell’orredamento e delle porcellane. Le riforme attuate nel periodo rivoluzionario e l’impero napoleonico favorirono attività industriale. La rivoluzione abolì le corporazioni (1791) e concesse la piena libertà al mercato del lavoro. Sempre nel 1791 fu approvata la legge Le Chapelier che vietava qualsiasi associazione di lavoratori ed imprenditori, come farnno dopo i Combination Acts in GB. In Francia, però, il divieto rimase in vigore fino a metà 800, sicchè il movimento operaio assunse un carattere politico e rivoluzionario e si legò al movimento socialista. I Codici Napoleonici (Codice civile1804 e il Codice di commercio1807), fondati sui principi di uguaglianza di tutti i cittadini, della libertà, della proprietà individuale e della libera iniziativa, regolarono con chiarezza i rapporti fra gli individui e quelli relativi all’attività economica. Non sancirono però l’uguaglianza tra i datori di lavoro e i loro dipendenti, perché in caso di controversia sui salari e sulla loro corresponsione, la dichiarazione giurata dell’imprenditore prevaleva sulla parola del lavoratore, norma che rimase in vigore fino al 1868. Un’importanza rilevante per industrializzazione e per lo sviluppo economico la ebbe il sistema dei trasporti basato su ferrovie e rete stradale. Nel 700, la costruzione e la riparazione delle strade erano affidate agli abitanti delle zone attraversate, che dovevano provvedervi con prestazioni di lavoro gratuito. In seguito, fu adottato, come in Inghilterra, il sistema delle strade a pedaggio e, a metà del secolo XIX, la Francia arrivò a possedere il migliore sistema stradale d’Europa. I mezzi di trasporto, però, erano lenti e inadeguati e le vie fluviali non erano molto sviluppate, perché solo la Senna e qualche altro fiume erano navigabili e i canali non raggiunsero i livelli di efficienza di quelli inglesi. Le ferrovie si diffusero con lentezza. La prima linea, che congiunse Lione con Saint-Etienne è del 1832 e, a metà secolo, la Francia non raggiungeva i 3000km di strade ferrate (metà rete tedesca e mendo di 173 della rete inglese). Un altro passo per lo sviluppo economico fu la fondazione della Banca di Francia, nel 1800. Napoleone, pur non amando i banchieri, favorì la costituzione della Banca di Francia, una società privata autorizzata ad emettere banconote. Essa contribuì a diffondere l’uso delle banconote e dal 1848 divenne l’unico istituto di emissione. Anche se sottoposta a controllo del governo la Banca era comunque una società privata. 8.4 LA NASCITA DI UN PAESE LIBERO E NUOVO: GLI USA Lo sviluppo economico degli USA fu rapido e spettacolare e si svolse in un modello nuovo e originale, caratterizzato dall’esistenza di un territorio immenso, ricco di risorse e spopolato, da un uso delle macchine molto più ampio che in Europa, da un’elevata produttività e da un mercato interno in continua espansione. Il decollo degli USA è stato collocato tra il 1840 e il 1860, anno in cui essi erano ormai il secondo paese più industrializzato del mondo, preceduti solo dalla GB. Al momento della loro costituzione, gli USA si presentavano come un paese libero e nuovo. Era un paese libero per diversi motivi: • Non conobbero né il feudalismo né le corporazioni • I primi emigranti avevano scelto la libertà contro oppressione religiosa e politica subita in patria • Non vi erano classi privilegiate che si opponessero ai cambiamenti, ma prevaleva una middle class convinta che non vi dovesse essere alcun ostacolo alla crescita sociale ed economica di ogni individuo. • La libera iniziativa era garantita poiché l’assenza delle corporazioni consentiva a chiunque di intraprendere una qualsiasi attività lavorativa. La Guerra di Indipendenza (1775/1783) era scaturita da un moto di libertà, perché le 13 colonie inglesi si erano ribellate alla politica mercantilistica della madrepatria, che imponeva una serie di vincoli alla Verso la metà del XIX secolo, l’economia dei vari paesi del mondo era caratterizzata dalla presenza del settore primario. Le aree arretrate prevalevano di gran lunga su quelle sviluppate, ma dalla metà 800 alla Grande Guerra si registrò uno sviluppo economico senza precedenti; in seguito la crescita rallentò sia per le due guerre mondiali sia per la Grande depressione degli anni 30 del 900. La produzione di generi alimentari e l’allevamento bovino crebbero in misura molto superiore all’incremento della popolazione. Anche la disponibilità di fonti di energia aumentò in misura eccezionale; da notare anche l’estensione delle reti ferroviarie. L’industria divenne il settore più importante e la borghesia assunse il ruolo di classe dominante, impadronendosi del potere politico. La crescita non fu uniforme e si alternarono, oltre a numerose crisi cicliche (Juglar), lunghe fasi di espansione e recessione. Fino al 1914 le fasi di espansione furono 2, mentre quella recessiva una sicchè l’intero periodo fu complessivamente caratterizzato dallo sviluppo dell’economia 9.2 L’ESPANSIONE DI META’ SECOLO 1848-1873 prima fase di espansione (fase a del ciclo di Kondratieff) che fu contraddistinta dall’aumento dei prezzi, dei salari e dei profitti. Nel periodo in esame vi fu un rapido sviluppo di tutti i settori, alimentato dal libero scambio, dallo sviluppo dei trasporti e dalla disponibilità di oro. 1. Affermazione del libero scambio: adottato da quasi tutti i paesi europei. I governi europei ricorsero ai trattati commerciali, che fissavano dazi che i paesi contraenti avrebbero applicato alle merci che si scambiavano. I trattati contenevano la clausola della nazione più favorita, che imponeva ai paesi contraenti una reciproca estensione a loro favore delle condizioni più vantaggiose che ciascuno di essi avesse stabilito con un altro paese. 2. Sviluppo dei mezzi di trasporto: aumentò la rete ferroviaria mondiale e si sviluppò la navigazione marittima 3. Maggiore disponibilità dell’oro: verso metà 800 furono scoperti dei giacimenti in California, Australia, Canada e Nuova Zelanda. 9.3 LA DEPRESSIONE Nel 1873, in coincidenza con una crisi finanziaria che investì i mercati di Berlino, Vienna e New York, iniziò un lungo periodo di depressione per il quale si usò la locuzione “Grande depressione” durata fino al 1896 (fase b del ciclo di Kondratieff). I prezzi agricoli ed industriali diminuirono, i salari frenarono e vi fu la tendenza alla riduzione del tasso di profitto. La diminuzione dei prezzi e dei profitti ebbe diverse cause: A. Aumento dell’offerta sia dei prodotti agricoli che di quelli industriali che non si riuscivano sempre a collocare sul mercato per deficienza della domanda B. Riduzione dei costi di trasporto e la conseguente crisi agraria europea. Le nuove tecnologie resero più veloci e sicuri i mezzi di trasporto e consentirono alle merci di raggiungere anche mercati molto lontani. Prezzi di prodotti agricoli risentirono e calarono dappertutto, rovinando parecchi contadini che furono costretti ad abbandonare le campagne per trasferirsi in città alla ricerca di lavoro o emigrare all’estero C. Diminuzione della produzione di oro: il progressivo esaurimento delle miniere della California e dell’Australia provocò una diminuzione della produzione aurifera. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, anche se si era in presenza di una depressione, questa si inseriva su un trend positivo dell’economia. Proprio in questi anni paesi come USA e Germania stavano crescendo a ritmi sostenuti. I paesi colpiti dalla depressione tentavano di difendersi in vario modo (riduzione dei costi di produzione sfruttando innovazioni e accrescendo le loro dimensioni in modo da realizzare consistenti economie di scala); inoltre i governi decisero di tornare al protezionismo. Siccome in seguito alle due guerre mondiali il protezionismo fu inasprito e si diffuse in tutti i paesi, si può affermare che almeno nel secondo dopoguerra il protezionismo è stata la regola e il libero scambio l’eccezione la crescita dell’economia, quindi, non si è realizzata in regime di libertà completa con gli scambi, ma all’ombra del protezionismo. Negli anni della depressione vi fu anche una ripresa del colonialismo da parte dell’Europa. 9.4 LA BELLE EPOQUE Dal 1896 iniziò un nuovo periodo di espansione, durato fino alla prima guerra mondiale, in cui prezzi, profitti, salari e investimenti ripresero a crescere. La produzione industriale si sviluppò in particolare nel settore dei metalli e della chimica, si affermò una nuova fonte di energia (il petrolio), si diffuse l’impego dell’elettricità, si svilupparono i moderni mezzi di trasporto e il commercio internazionale raddoppiò in meno di 15 anni. Si stava costituendo una prima forma di economia mondiale, che assicurò una sostanziale libertà di movimento a uomini, merci e capitale. Fu un periodo intenso di crescita, noto come Bella Époque, vissuto dai contemporanei con grande fiducia nel futuro e nel progresso e confidando nelle conquiste della scienza e della tecnica. Questa fase di espansione fu avvertita in tutte le parti del mondo; la ristrutturazione del sistema produttivo consentì di affrontare il periodo di ripresa ed espansione. In una ventina d’anni si estrasse tantissimo oro e fu così possibile disporre dei mezzi di pagamento necessari per sostenere lo sviluppo in atto. Questa volta si trattò di biglietti da banca garantiti dalle riserve auree. LE CONDIZIONI DELLA CRESCITA – LA POPOLAZIONE 10.1 LE DINAMICHE DELLA POPOLAZIONE Una delle condizioni della crescita economica fu l’incremento demografico. La popolazione mondiale aumentò di circa il 40% fra il 1850 e il 1914. Il peso demografico dell’Europa fu in crescita per tutto il XIX secolo e raggiunse il suo punto massimo alla vigilia della Grande guerra, quando la popolazione europea (Russia inclusa) rappresentava il 27% di quella mondiale (nell’800 era il 20%). La riduzione del tasso di mortalità fu determinata da diversi fattori: maggiore disponibilità dei generi alimentari, miglioramento condizioni igieniche, progresso medicina i farmaci si moltiplicarono e l’industria farmaceutica avviò la produzione di massa dei medicinali (Pasteur capì che le malattie contagiose si diffondono nell’organismo attraverso i germi microbici che era possibile isolare, identificare, combattere e distruggere). le cure mediche si diffusero grazie all’intervento dello Stato che organizzò l’assistenza e i servizi sanitari, rendono obbligatorie alcune vaccinazioni. Cominciò a diminuire anche il tasso di natalità: il controllo delle nascite si diffuse in molti paesi, mentre i nuovi stili di vita indussero le coppie a limitare il numero dei figli. Anche la riduzione mortalità infantile indusse a fare meno figli. La vita media si allungò nei paesi occidentali, contemporaneamente la popolazione invecchiava e il numero delle persone con + di 60 anni cresceva dappertutto. L’incremento demografico provocò una sovrappopolazione nelle campagne europee una parte della popolazione rurale dovette lasciare le campagne e cercare lavoro altrove. La popolazione divenne più istruita e il numero degli analfabeti continuò gradualmente a diminuire. C’era una maggiore attenzione al capitale umano, costituito dalle capacità professionali dei lavoratori a tutti i livelli. 10.2 L’URBANESIMO L’esodo dalle campagne comportò anche l’accentuazione del fenomeno dell’urbanesimo. Fino alla metà del secolo XIX solo due città europee superavano un milione di abitanti, Londra e Parigi, ma nel 1911 erano sette. Nel corso del XIX secolo, la struttura e funzioni della società si modificarono. Il centro delle attività si spostò nel quartiere degli affari, in genere situato tra la città vecchia e la nuova stazione ferroviaria. Variò anche l’insediamento abitativo dei vari ceti sociali: la vecchia città vedeva la coabitazione in uno stesso edificio di varie categorie di persone commercianti e artigiani occupavano il pianterreno, i borghesi agiati occupavano i primi piani e agli ultimi impiegati, lavoranti a domicilio, studenti e povera gente; la nuova città contrapponeva invece i quartieri borghesi ai quartieri operai. L’urbanizzazione pose diversi problemi: illuminazione stradale e delle abitazioni, dapprima con il gas e poi con la luce elettrica, costruzione di acquedotti e fognature. Bisognò pensare, anche, alla mobilità della popolazione, all’inizio con i tram a cavalli e successivamente a trazione elettrica. A fine 800 furono costruite le prime metropolitane che utilizzavano l’elettricità come forza motrice e che richiesero un grosso sforzo finanziario. 10.3 I GRANDI FLUSSI MIGRATORI L’emigrazione fu un’altra conseguenza dell’esodo dalle campagne. Fra i motivi di espulsione di gente dalle campagne ci furono sicuramente le cattive condizioni economiche, ma si emigrava anche per migliorare la propria condizione. Il costo del viaggio continuava a diminuire e quindi incoraggiava ad emigrare. I motivi di attrazione erano dati dalla possibilità di trovare un lavoro e di migliorare il proprio stato nel paese di destinazione. La presenza di familiari e di compaesani nelle località di arrivo, inoltre, costituiva un forte stimolo ad emigrare, perché si poteva contare sul loro appoggio per affrontare il primo impatto con una realtà sconosciuta e spesso molto diversa da quella da quella del paese di provenienza. Fra il 1821 e il 1914 lasciarono l’Europa tra i 46 e i 51 milioni di persone; le principali destinazioni furono gli USA, l’Argentina, il Brasile e il Canada. I paesi di provenienza non furono sempre gli stessi: fino gli anni 80 dell’800 gli emigranti europei provenivano principalmente dalla GB e Irlanda, successivamente anche da Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. A partire dalla Grande Guerra il fenomeno delle migrazioni si ridusse a causa del conflitto; nel primo dopoguerra i maggiori paesi di immigrazione (USA, Canada e America Latina) regolamentarono l’afflusso degli stranieri. Il governo americano aveva introdotto il sistema delle quote l’immigrazione delle persone provenienti da un determinato paese non doveva superare un ammontare prestabilito rapportato al numero di loro connazionali presenti negli USA. Una novità durante e dopo le guerre fu quella dei profughi. 10.4 GLI EFFETTI DELL’EMIGRAZIONE Questi spostamenti produssero effetti negativi e positivi sia nei paesi di provenienza che in quelli di destinazione. • Le banche (chiamate a finanziare sia le compagnie ferroviarie che quelle marittime e realizzarono buoni profitti) 11.3 LE COMUNICAZIONI Alla vigilia della prima guerra mondiale, anche le notizie ormai viaggiavano con grande rapidità, grazie al telegrafo e al telefono. Il telegrafo elettrico di Morse (1840) si diffuse in breve e nel 1870 una rete telegrafica ricopriva L’Europa e gli USA, peraltro congiunti telegraficamente con un cavo sottomarino. Entro il 1902 i cavi collegarono tutti i continenti e le notizie potevano raggiungere ogni punto del pianeta. Prima le notizie andavano alla stessa velocità del trasporto delle merci e gli operatori economici non erano in grado di conoscere con sufficiente anticipo le notizie riguardanti i prezzi delle merci, l’andamento dei raccolti, le quotazioni in Borsa o le rotte delle navi per poter effettuare le loro scelte ed investimenti. Il telegrafo rese possibile tutto ciò e consenti, anche, lo sviluppo di una stampa commerciale specializzata in gradi di fornire notizie riguardanti i mercati di tutto il mondo. Il telefono messo a punto da Meucci (1871) venne sfruttato commercialmente da Bell. Cominciò a diffondersi tra la fine degli anni 70 specialmente negli USA, anche se il suo impiego effettivo rimase confinato al mondo degli affari e alle comunicazioni ferroviarie fino alla prima guerra mondiale. Infine, i primi esperimenti di Marconi portarono all’invenzione della radio, destinata ad aprire la strada alla creazione di un sistema di comunicazioni di massa. Durante la seconda guerra mondiale la radio svolse un ruolo importante come strumento di propaganda e comunicazione. In quegli anni comparve un nuovo strumento, il radar, che sfruttando la trasmissione delle radioonde permise di localizzare e colpire navi e aerei nemici. 11.4 I SISTEMI BANCARI Fino a metà 800 il credito era stato sostanzialmente esercitato da banchieri privati e dalle banche di emissione. Nella seconda metà del secolo furono introdotte altre forme di credito e si istituirono nuove forme di banche che diedero vita a veri e propri sistemi bancari in grado di soddisfare le esigenze a una vasta gamma di clienti: 1. Casse di risparmio sorte già nella prima metà dell’800 in Europa e in America per iniziativa pubblica o di privati cittadini, le casse di risparmio raccoglievano piccoli risparmi dalle persone di modesta condizione, come contadini, artigiani, operai o domestici, ai quali corrispondevano un interesse. Il loro scopo era si consentire anche ai meno abbienti di accumulare un discreto capitale da utilizzare in caso di necessità, educandoli al risparmio. Le somme raccolte erano destinate ad impieghi sicuri, in genere titoli di Stato. Nella seconda metà del secolo, alle casse di risparmio ordinarie si affiancarono le Casse di risparmio postali, incaricate di raccogliere il risparmio presso gli uffici postali presenti anche nei centri più piccoli, dove quasi sempre mancava uno sportello bancario. 2. Istituti di credito fondiario il loro scopo era quello di concedere mutui di lunga durata (fino a 50 anni), rimborsabili a rate, secondo un piano di ammortamento, garantiti da ipoteca su immobili. Si approvvigionavano di fondi mediante l’emissione di proprie obbligazioni, dette “cartelle fondiarie” e si diffusero in molti paesi (tranne che in GB e USA). Sorti per sovvenire i proprietari fondiari riuscirono, invece, più utili alla proprietà urbana e finanziarono spesso le speculazioni edilizie. 3. Banche cooperative fondate sottoforma di società cooperative, si dividevano in banche popolari, nei centri più importanti, e casse rurali, nelle zone agricole, con il compito di accettare depositi e concedere prestiti ai soci che, in genere, erano negozianti, impiegati, contadini e altre persone di media condizione. 4. Banche commerciali o di deposito costituite sottoforma di società anonime (joint stock banks), disponevano di una rete di sportelli, raccoglievano depositi del grande pubblico e investivano i fondi disponibili prestandoli in varie forme a operatori economici grandi e piccoli la varietà di aziende di credito consentiva a tutti di accedere ai servizi bancari. La varietà di aziende di credito consentiva a tutti di accedere ai servizi bancari, dallo Stato al grande capitalista, dal proprietario terriero all’imprenditore, dal commerciante all’industriale, dall’artigiano al contadino. Al vertice dei sistemi bancari c’erano gli istituti di emissione che agivano come prestatori di ultima istanza o banche delle banche le altre banche quando avevano bisogno di prestiti si rivolgevano agli istituti di emissione, ai quali pagavano un interesse in base al tasso ufficiale di sconto. Questo tasso era fissato dagli stessi istituti di emissione ed era detto così perché i prestiti consistevano nello sconto delle cambiali detenute dalle banche che a loro volta le avevano scontate ai propri clienti. Per conseguenza, gli interessi attivi e passivi delle banche si dovevano adeguare al tasso ufficiale di sconto: se questo saliva gli interessi aumentavano e se scendeva gli interessi diminuivano. Con il tempo gli istituti di emissione ottennero la funzione di controllare il sistema bancario di un paese e perciò si dissero banche centrali. I biglietti degli istituti di emissione venivano riconosciuti dappertutto come moneta a corso legale la conseguenza fu una generale riduzione delle monete metalliche in circolazione. Ormai i principali mezzi di pagamento erano rappresentati dalla moneta bancaria, in cui non solo erano compresi i biglietti di banca ma anche i depositi a vista presso le banche, utilizzabili mediante assegni. 11.5 I MODELLI BANCARI Durante la seconda rivoluzione industriale, l’industrializzazione divenne più costosa. L’impianto di una fabbrica richiedeva ingenti capitali che vennero forniti dalle banche i sistemi bancari furono chiamati a sostenere la crescita industriale e si dovettero adeguare al livello di sviluppo e alle esigenze del paese in cui operavano. In Europa si formarono due modelli: 1. Modello anglosassone fondato sulla specializzazione bancaria e sulla banca pura. In Inghilterra si formò un tipo di banca che raccoglieva depositi a vista e concedeva prestiti a breve termine alle imprese. Le operazioni finanziarie di durata più lunga erano svolte dalle merchant banks, specializzate sia nel collocamento sul mercato inglese dei titoli obbligazionarie di società o di governi stranieri sia nel sostegno al commercio internazionale, di cui facilitavo i pagamenti 2. Il modello continentale o tedesco consisteva nella prevalenza della banca mista, un tipo di banca che raccoglieva depositi a vista e li impiegava a breve, medio, lungo termine, soddisfacendo ogni richiesta delle imprese. Questo modo di operare era molto rischioso, perché si impiegavano con scadenza medio-lunga fondi raccolti a vista, con grave pericolo per l’equilibrio finanziario della banca. Difatti, se le banche immobilizzavano molto non sarebbero state in grado fi far fronte a un’eventuale consistente richiesta di rimborso da parte dei depositanti. Se all’epoca le banche miste non si trovavano in difficoltà fu perché operavano in un periodo di crescita economica e riuscirono a realizzare buoni profitti. Le banche miste finanziavano le imprese acquistandone le obbligazioni oppure sottoscrivendo parte del loro capitale sociale (acquisendo loro azioni). Queste banche quindi allacciavano stretti rapporti con le imprese. Il modello tedesco si mostrò adatto per questi paesi, come la Germania, che giunsero con ritardo all’industrializzazione e perciò avevano bisogno di un forte sostegno da parte delle banche per recuperare il ritardo nei confronti dei front comers. Gerschenkron le considerò uno dei fattori sostitutivi dei prerequisiti allo sviluppo. Dalla Germania le banche miste si diffusero agli altri paesi che si stavano industrializzando come l’Italia, la Russia, l’Austria e il Giappone. La Francia adottò, intorno agli anni 80, un sistema simile a quello britannico, distinguendo fra banche di deposito e banche d’affari. 11.6 IL GOLD STANDARD La contemporanea esistenza in un paese di monete d’oro e d’argento chiedeva che il rapporto di valore fra i due metalli restasse invariato. Invece, tale rapporto mutò, in particolare dopo il 1870, quando la produzione di argento delle miniere scoperte nel Nevada fece diminuire il valore dell’argento rispetto all’oro. Di conseguenza si adoperarono a questo scopo solo le monete d’argento, mentre quelle oro venivano tesaurizzate o erano usate per effettuare pagamenti all’estero, dove erano accettate al valore del metallo fino contenuto. In tal modo, la moneta cattiva (argento) scacciava la moneta buona (oro) dalla circolazione. Perciò, a poco a poco, fra il 1873 e il1900, i paesi industrializzati preferirono aderire al gold standard. Con l’adesione al gold standard si realizzava un sistema di cambi fissi fra le monete, tutte legate all’oro. Il cambio dipendeva dal contenuto di oro fino in ogni moneta, anche quando si utilizzavano le banconote, poiché queste ultime erano convertibili in oro. Un regime di cambi fissi elimina il rischio di cambio e perciò il commercio estero è favorito dal fatto che importatori ed esportatori possono fare i loro calcoli di convenienza sulla base di cambi stabili delle monete. Anche gli investimenti all’estero risultano più sicuri. Nel sistema dei pagamenti internazionali va ricordato il ruolo della sterlina, accettata in ogni parte del mondo e quindi diventata una sorta di moneta internazionale, sia perché era più solida delle altre, sia per i servizi finanziari che la piazza di Londra era in grado di garantire (banche, assicurazioni, borsa, investimenti esteri ecc.). LE ATTIVITA’ PRODUTTIVE 12.1 LE INNOVAZIONI IN AGRICOLTURA Nonostante la popolazione europea aumentasse notevolmente fino al 1914, le carestie scomparvero dall’Europa occidentale i generi alimentari disponibili erano sufficienti a soddisfare l’accresciuta domanda, anche se c’era molta miseria negli stessi paesi industrializzati. L’aumento della produttività in agricoltura fu determinato soprattutto dall’utilizzo delle macchine e dal maggior impiego dei fertilizzanti. Le prime macchine agricole erano trainate dagli animali o mosse dal vapore. Un sistema che si diffuse rapidamente in Europa, già a partire dalla metà del XIX secolo, fu quello di Fowler che consisteva in due locomobili opposte, le quali, ai bordi del campo, tiravano alternativamente l’aratro. Verso la fine dell’800 iniziò l’epoca della motorizzazione agricola. Le nuove macchine si diffusero soprattutto negli USA. In tal modo, la produttività del lavoro in agricoltura crebbe enormemente e molti operai agricoli si trovarono senza occupazione. Le macchine agricole si diffondevano specialmente quando ricorrevano almeno due condizioni speciali: la presenza della grande proprietà e la pratica della monocultura granaria. Solo i grandi proprietari si potevano permettere di effettuare i necessari investimenti; i piccoli proprietari invece non erano in grado di dotarsi delle macchine più costose, a meno che, come avveniva in Germania, non si associassero per costituire cooperative per il loro acquisto e per l’uso a turno da parte dei soci. Né era possibile adoperare le macchine nei poderi che praticavano la policoltura, mentre risultavano particolarmente efficaci nelle zone cerealicole, dove sostituivano i lavoratori giornalieri. L’altro elemento che favorì l’aumento della produttività in agricoltura fu l’uso dei concimi. La meccanizzazione aveva consentito soltanto di accrescere la produttività del lavoro, ma fu merito dei fertilizzanti se aumentarono anche i rendimenti e la produzione. Dopo la metà del secolo i paesi europei cominciarono ad importare il guano e il nitrato sodio dal Cile, poi si utilizzarono le scorie da parte dell’americano Edison, l’illuminazione elettrica delle città, degli uffici, delle fabbriche e delle abitazioni private, sostituì a poco a poco le candele, le lampade a petrolio e a gas. I mezzi di trasporto vennero elettrificati e l’elettricità si rilevò indispensabile ai sistemi di comunicazione a distanza. Ma anche la metallurgia e le industrie chimiche vi fecero ricorso per i processi elettrolitici e per i forni e i motori elettrici adoperati. Va anche ricordato che l’elettricità si deve anche alla nascita dell’industria cinematografica. A partire dal1895, quando i fratelli Lumiere presentarono la prima pellicola cinematografica il nuovo strumento si diffuse rapidamente sia in Europa che in America. L’elettrificazione fu l’innovazione più importante del periodo fra le due guerre mondiali, presentava il vantaggio di essere silenziosa, pulita, facile da trasportare e disponibile a un prezzo basso. 12.7 COMMERCIO E INVESTIMENTI ESTERI L’incremento della produzione e l’evoluzione dei sistemi di trasporto favorirono fortemente gli scambi. Il commercio interno conobbe profonde trasformazioni: fino alla metà del XIX secolo si era sviluppato nelle fiere, punto di incontro di venditori di merci di ogni tipo o tramite mercanti ambulanti, presenti in ogni parte d’Europa. Fiere e venditori ambulanti non scomparvero del tutto neanche successivamente. Con l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto e della produzione in fabbrica apparve la nuova figura del commesso viaggiatore che collocava merci per conto di case rinomate presso i negozianti. Nel fratello si sviluppò il commercio fisso con l’apparizione di numerosi negozi che vendevano i nuovi prodotti dell’industria moderna. Nella seconda metà del secolo i negozi si diffusero specialmente nelle città. Verso metà 800 apparvero i grandi magazzini nelle principali città d’Europa. Negli Usa si svilupparono anche le prime forme moderne di pubblicità commerciale e furono introdotti il sistema dei saldi, la vendita per corrispondenza e la vendita a rate, abbastanza frequente fra i negozi di mobili e casalinghi. Un’importanza molto maggiore ebbe il commercio internazionale: la crescita del commercio mondiale riguardò i paesi sviluppati nell’Europa e gli altri continenti. Questo schema degli scambi tra materie prime vs manufatti non esauriva il commercio estero dell’Europa, era affiancato da un altro circuito, lo scambio dei manufatti tra i paesi industrializzati, fra i quali si stabilirono strette relazioni commerciali. Un necessario complemento allo sviluppo degli scambi internazionali furono gli investimenti esteri da parte dei principali paesi europei. La GB, Francia e Germania effettuarono cospicui investimenti all’estero dato che avevano risorse da impiegare e i tassi di profitto e di interesse in Europa non erano più remunerativi. I paesi che ottennero i maggiori prestiti furono numerosi: a. Gli USA che accolsero capitali per finanziare le costruzioni ferroviarie, le imprese minerarie e i ranches b. La Russia che si servì di capitali per finanziare ferrovie, flotte ed esercito c. Molti paesi dell’America Latina che costruirono ferrovie, crearono banche e società di assicurazione grazie ai capitali inglesi d. Il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda e. Diversi paesi europei in fase di sviluppo che furono finanziati dalle nazioni europee più ricche I fondi da destinare agli investimenti esteri erano costituiti da oro, valute o divise che un paese si procurava quando riusciva ad esportare + di quanto importasse, cioè quando realizzava un avanzo della bilancia commerciale. Ma anche quando tale bilancia risultava in disavanzo, fu possibile effettuare investimenti all’estero con le entrate derivanti dall’esportazione di servizi, cioè con l’avanzo della bilancia dei pagamenti. LA GRANDE IMPRESA 13.1 LA FORMAZIONE DELLA GRANDE IMPRESA La dimensione delle imprese rimase ancora modesta fino all’ultimo quarto del XIX secolo. Solo nei settori che producevano beni intermedi o strumentali si erano costituite grandi industrie, capaci di sfruttare economie di scala nella produzione, nella commercializzazione e nella ricerca tecnica. Negli ultimi decenni del secolo, i vantaggi delle imprese di grandi dimensioni divennero più numerosi ed evidenti ed esse si allargarono a tutta una serie di beni di consumo il cui mercato si stava ampliando (calzature, abbigliamento, sigarette…) grazie allo sviluppo della rete di trasporti e alla promozione pubblicitaria. La grande impresa, che gli americani chiamano corporation era tale sia perché disponeva di un capitale elevato e concentrava in fabbrica un gran numero di lavoratori, ma anche perché costituiva un centro di accumulazione di conoscenze scientifiche e tecniche, un luogo di concentrazione del potere economico e un sistema di organizzazione. La grande impresa si diffuse per far fronte ai periodi depressione. La forma giuridica assunta era quella della società anonima o per azioni. La grande impresa si formò in seguito a un processo di concentrazione, sia verticale che orizzontale, realizzato mediante fusioni di più imprese o mediante incorporazioni di imprese più piccole da parte di quelle più grandi: a. La concentrazione orizzontale ha lo scopo di riunire sotto un’unica direzione strategica imprese che operano nello stesso stadio della produzione o nello stesso comparto; b. La concentrazione verticale unisce imprese che partecipano al processo di fabbricazione di uno stesso prodotto. L’affermazione di un’economia mondiale sorta tra la fine dell’800 e la Grande guerra indusse alcune imprese a costituire all’estero proprie filiali o a fondarvi società da esse controllate nascita di imprese multinazionali che operavano in diversi paesi con società autonome, costituite sotto la legislazione del paese ospite, ma di fatto sottoposte a un’unica direzione che restava nel paese d’origine. La prima multinazionale sembra sia stata, negli anni 60 dell’800, l’americana Singer, produttrice di macchine per cucire. Quando non si voleva/poteva costituire una grande impresa era possibile giungere ad accordi fra imprese, sottoforma di cartelli o trust. I cartelli si diffusero principalmente in Germania stipulati tra imprese che trattavano lo stesso prodotto, avevano lo scopo di fissare i prezzi di vendita, la quota di produzione o le quote di mercato spettanti a ciascuna impresa aderente. Il trust fu la forma prevalente di concentrazione industriale attuata negli USA. In questo caso, una società capogruppo (holding) acquistava azioni di altre società fino ad averne il controllo e porre tutte le imprese del gruppo sotto un’unica direzione strategica. I trust giunsero a controllare importanti rami economici e nelle lor mani si concentrò un grande potere. In diversi paesi furono contrastati da leggi (leggi antitrust) le quali non riuscirono, però, a conseguire risultati di rielevo e le concentrazioni continuarono. Le imprese nacquero quasi tutte come imprese familiari ossia appartenenti a un solo individuo o a pochi individui della stessa famiglia. A mano a mano che la dimensione dell’impresa continuava a crescere, la gestione diretta da parte del proprietario diventava + difficile e le risorse finanziarie personali si rivelavano insufficienti x sostenere espansione si giunse alla separazione fra proprietà e management. I proprietari dell’impresa preferirono affidarne la guida a persone esperte, i manager, e limitarsi ad esercitare il controllo tramite il consiglio di amministrazione. Per la preparazione di manager si svilupparono apposite scuole: le scuole superiori di commercio e le business schools (la prima fu costituita ad Harvard). Difficilmente le aziende rimanevano nelle mani della stessa famiglia per + di un paio di generazioni sindrome di Buddenbrook: la prima generazione di imprenditori era quella del fondatore, che crea quasi dal nulla una nuova attività; la seconda generazione porta avanti a elevati livelli di organizzazione e di produzione mentre la terza, cresciuta negli agi, non mostra + interesse nell’azienda e si dedica ad altre attività (Buddenbrook famiglia di imprenditori di Lubecca le cui vicende furono descritte da Thomas Mann nel 1901 nel suo romanzo). 13.2 TAYLORISMO E FORDISMO All’interno della grande impresa il lavoro fu organizzato scientificamente. Per aumentare il rendimento dell’operaio furono condotti molti studi, i + importanti fatti dall’ingegnere americano Taylor nel 1911 taylorismo. Egli si rese conto che l’organizzazione del lavoro nelle fabbriche era del tutto casuale e che i risultati non corrispondevano agli sforzi posti in essere per realizzarli. Divise quindi il processo di lavorazione in operazioni semplici e ne misurò il tempo di esecuzione. In tal modo potè fissare i tempi standard di ogni operazione ai quali si dovevano adeguare gli operai, che dovevano essere opportunamente istruiti sui movimenti da compiere e incentivati con compensi in denaro per ciascun pezzo prodotto (cottimo). Gli studi sull’organizzazione scientifica furono applicati alla catena di montaggio. Siccome le mansioni alla catena di montaggio erano molto semplici, gli operai specializzati persero prestigio e potere contrattuale all’interno della fabbrica a favore degli operai generici. I ritmi di lavoro subirono una forte accelerazione e la spersonalizzazione dell’attività lavorativa divenne la caratteristica specifica del sistema di fabbrica. La catena di montaggio fu molto usata dall’industria automobilistica nei primi decenni del secolo XX. Il merito di averla usata a larga scala va a H. Ford che ebbe anche l’intuizione di fare dell’automobile un oggetto a portata delle masse. Praticò quindi una politica di alti salari, in modo da consentire agli operai e ai lavoratori di potere acquistare le autovetture standardizzate che era in grado di produrre a costi contenuti modello fordista di sviluppo (o fordismo). La fabbrica fordista risultò conveniente anche per la produzione di altri beni standardizzati, da collocare su un mercato che si andava ampliando. Dagli Stati Uniti, dove era nato e dove si affermò fra le due guerre mondiali, il modello fordista si estese fino ai paesi europei. La fabbrica standardizzata secondo il modello taylorista mostrava qualche punto debole: la catena di montaggio doveva funzionare senza alcuna interruzione, perciò bastava uno sciopero a scacchiera di pochi lavoratori nei vari reparti per paralizzare l’intera produzione. Il taylorismo e la catena di montaggio furono molto criticati, in particolare dai sindacati, per la monotonia delle operazioni da compiere e per i disturbi psichici che potevano arrecare ai lavoratori oltre che per la liquidazione della professionalità operaia. 13.3 LE PICCOLE E LE MEDIE IMPRESE E LA COOPERAZIONE Nonostante l’affermazione della grande impresa, le piccole e medie imprese conservarono un ruolo molto importante. La maggioranza dei lavoratori era impiegata nelle imprese medie e piccole e molti osservatori contemporanei ritennero che l’evoluzione economica favorisse la conservazione delle vigilia della prima GM però la sua quota si era ridotta al 14% (dal 32 al 14%) ed essa era stata superata dagli USA (36%) e dalla Germania (16%). Le industrie traenti della prima rivoluzione industriale persero rispetto ai concorrenti. Se la posizione di prima nazione industriale della GB era insidiata da altri paesi, essa conservava il primato del commercio estero il paese doveva importare la maggior parte dei generi alimentari e molte materie prime, che pagava con l’esportazione dei propri manufatti. Il disavanzo della bilancia commerciale veniva colmato con i proventi derivanti dai servizi resi agli stranieri dalle banche, dalle compagnie di assicurazione e dalla marina mercantile, oltre che con i rendimenti degli investimenti esteri e con le rimesse degli immigrati. Per conseguenza, la bilancia dei pagamenti britannica presentava un avanzo. L’agricoltura, sacrificata dalla scelta liberoscambista, conobbe periodi di crisi, specialmente quando i prezzi dei prodotti agricoli crollarono in seguito all’arrivo di prodotti a buon mercato da paesi lontani. Non vedendo speranze di migliorare la loro condizione, molti agricoltori abbandonarono le fattorie per cercare occupazione in altri settori. Le campagne si spopolarono, anche perché la meccanizzazione stava sostituendo il lavoro dei braccianti e molte terre prima coltivate a grano furono convertite al pascolo. Si vennero formando, così, fattorie ben organizzate che si specializzarono nella produzione di carne e latticini. 14.3 LE CAUSE DEL DECLINO Le cause del declino furono: 1. Lo svantaggio dei first comer: l’Inghilterra era stato il primo paese a industrializzarsi e, verso la fine del secolo XIX, possedeva un apparato industriale obsoleto. Molti manufatti inglesi rimasero a basso contenuto tecnologico e furono superati da quelli dei paesi di nuova industrializzazione. Essi tuttavia continuarono a trovare facile sbocco nelle colonie. Sembra che la possibilità di esportare prodotti tradizionali nelle colonie abbia contribuito a ritardare l’ammodernamento industriale del Paese, che non sentiva l’esigenza di effettuare investimenti per lanciarsi in nuovi rami dell’industria. Qualche studioso ha notato una sorta di inerzia degli imprenditori, i quali non apparvero interessati alla nuove industrie (chimiche ed elettriche). 2. La dipendenza dall’estero: l’incremento della produzione industriale richiedeva l’importazione di molte altre materie prime e di prodotti fondamentali del tutto assenti in GB. 3. Il sistema di istruzione: si rivelò inadeguato di fronte alle esigenze dello sviluppo industriale perché le scuole inglesi rimasero legate all’educazione classica riservando scarsa attenzione alla ricerca scientifica. 4. Il ruolo dello stato: ebbe in GB una funzione meno propulsiva per lo sviluppo. Lo stato si ispirava al principio del Lasseiz-faire alla base della dottrina economica liberista, contrario all’intervento dello stato in economia e fiducioso nella sua liberazione. Il declino relativo dell’economia britannica, iniziato dopo il 1870, continuò anche successivamente alla Prima guerra mondiale. La GB non fu più in grado di riconquistare la prima posizione nell’economia mondiale e, dopo la Seconda guerra mondiale, fu sorpassata, per livello di Pil pro-capite, anche da altri paesi. 14.4 LA FRANCIA DAL SECONDO IMPERO ALLA BELLA EPOQUE Fra metà 800 e la Grande guerra l’economia francese continuò la sua lenta, ma costante crescita. Essa, però, seguitava a soffrire di un debole incremento demografico e di un eccessivo peso del settore agricolo. L’industria conobbe una lenta evoluzione. I centri industriali erano pochi, come quello di Parigi, che era un grande mercato di consumo, e quello costituitosi intorno Lione, dove si era sviluppata una fiorante industria per la lavorazione della seta. Nel resto del Paese vi era una miriade di microimprese, condotte con il lavoro del lavoro del titolare e dei suoi familiari, e molte piccole e medie imprese, concentrate nelle tradizionali e vi erano una miriade di microimprese e medio imprese. Concentrate nelle tradizionali attività artigianali. Esse, se non riuscivano ad assicurare economie di scala, presentavano l’indubbio vantaggio di costituire una struttura produttiva flessibile, capace di fronteggiare le crisi economiche meglio di quanto potesse farlo una struttura fondata su grandi complessi industriali. Queste imprese, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna, svolgevano attività molto diversificate, sicchè un’eventuale crisi ne avrebbe colpite solo alcune, senza creare grossi problemi all’economia locale e a quella nazionale. Al contrario, il crollo di una grande impresa avrebbe avuto effetti disastrosi su un gran numero di individui. I Francesi erano tuttavia dei gran risparmiatori i borghesi e i contadini si impegnavano con tenacia ad incrementare i loro risparmi e ad indirizzarli verso impieghi + sicuri. Questo comportamento era una conseguenza del dinamismo demografico e dell’invecchiamento della popolazione, che distribuiva tra i francesi la mentalità dei rentier, ossia chi amava vivere di rendita. Durante il Secondo Impero (1825-70), lo sviluppo economico conobbe un’accelerazione. Napoleone III rivolse la sua attenzione all’economia in quel periodo la Francia costruì la sua rete ferroviaria, fu avviato un vasto programma di lavori pubblici, che riguardò la costruzione di alcuni porti e, principalmente, il rinnovamento edilizio di Parigi, dove, sotto la guida del prefetto Haussmann, furono demoliti i vecchi quartieri operai e vennero edificati monumentali palazzi e grandi viali rettilinei (boulevards). Per sostenere lo sviluppo industriale sorsero alcune banche costituite sottoforma di società anonime, fra cui il Credit Mobilier, il Credit Lyonnais e la Societè Generale una particolare importanza la ebbe il Credit Mobilier che fece conoscere il credito mobiliare anche ad altri paesi europei. Era un nuovo tipo di banca che raccoglieva fondi con l’emissione di proprie obbligazioni e concedeva finanziamenti a lungo termine delle imprese. Sotto il secondo impero la Francia si avvicinò al libero scambio, ma questa politica aveva molti oppositori. Siccome una nuova tariffa generale con i dazi più bassi avrebbe incontrato l’ostilità del Parlamento, Napoleone III decise di ricorrere alla stipulazione di trattati commerciali, il primo fu con la GB (1860), noto come trattato Cobden-Chavalier. Negli anni successivi vennero stipulati nuovi trattati con il Belgio (1861), la Prussia (1862), l’Italia (1863) e altri paesi europei contenenti la clausola della nazione più favorita. La guerra franco – prussiana portò alla caduta del secondo impero. Napoleone III perse il trono e in Francia fu instaurata fu instaurata la Terza Repubblica e il paese dovette cedere Alsazia e Lorena alla Germania e versarle una grossa indennità di guerra. Una parte dell’indennità fu utilizzata dai tedeschi per acquistare prodotti francesi con il beneficio del paese sconfitto, che grazie ai grossi risparmi di cui disponeva riuscì a pagarla rapidamente in oro. Ripresa velocemente dalla disfatta la Francia conobbe un nuovo periodo di espansione durato fino al 1881. In seguito, tornò al protezionismo, avendo sentito della crisi agraria. Questa politica provocò contrasti e rotture commerciali (guerre dei dazi) con paesi come la Svizzera e l’Italia e il commercio estero rimase stazionario per molto tempo. Una forte ripresa si ebbe a fine secolo con la Belle Epoque, espressione coniata proprio nel paese per indicare un periodo di prosperità materiale e di fioritura culturale. L’industria conseguì importanti risultati sia nei settori tradizionali sia nelle industrie nuove e il commercio estero riprese a crescere. Il turismo si sviluppò notevolmente e la Francia divenne il paese più visitato, primato che ha conservato fino ai nostri giorni. I PAESI A FORTE CRESCITA – GERMANIA E USA 15.1 LO SVILUPPO ECONOMICO TEDESCO Prima delle guerre napoleoniche, la Germania era un paese molto frazionato, diviso in 360 Stati. Il Congresso di Vienna (1815) diede vita alla Confederazione germanica, riducendo il numero degli Stati a 39, due dei quali (Prussia e Austria) più grandi degli altri. L’economia tedesca risultava ancora poco sviluppata, tanto che nel 1820 il Pil pro capite era la metà di quello britannico e per giunta la sua posizione era peggiorata nel corso del secolo precedente. L’agricoltura costituiva l’attività prevalente, ma le condizioni dei contadini erano molto diverse fra la parte orientale (A est dell’Elba), dove vivevano alle condizioni servili alle dipendenze dei Junker (signori feudali discendenti dei conquistatori tedeschi) ed occidentale (dove erano + liberi) del paese. L’industria era quasi assente e il sistema di fabbrica si affermò in ritardo, utilizzando macchine importate dall’Inghilterra, che si affermarono con molta lentezza: basti pensare che la prima macchina a vapore fu introdotta in una fabbrica prussiana nel 1788, la seconda solo nel 1822. Le corporazioni erano molto forti, almeno fino al 1810, quando in Prussia il lavoro fu reso libero e ognuno potè esercitare un mestiere o trovare un’occupazione senza doversi iscrivere alle corporazioni le quali, però, rimasero in vita in alcuni Stati fino a metà secolo e anche oltre. Nella prima metà dell’800 furono realizzate alcune riforme: a. Emancipazione dei servi tra 1807 e 1811 che portò alla fine della servitù e alla ripartizione delle terre fra i signori e contadini. La proprietà terriera fu affrancata da vincoli e si formò un mercato delle terre liberamente commerciabili. b. Creazione di un mercato comune fra gli stati tedeschi. Il commercio era intralciato dalla presenza di un elevato numero di barriere doganali, non solo fra i 39 Stati, ma anche all’interno di ciascuno di essi (nella sola Prussia ve ne erano 67). Per realizzare l’unione doganale furono necessarie lunghe lotte politiche ed economiche, nelle quali si distinse Friedrich List, sostenitore dell’economia nazionale. Nel 1828 si costituirono 3 leghe: al Nord quella prussiana, al Sud una lega fra la Baviera e il Wurttemberg e al Centro una Lega favorita dall’Austria, che mal vedeva il progetto prussiano di costituire un ampio spazio commerciale sotto il suo controllo. A poco a poco la Lega centrale si disintegrò e molti Stati aderirono a quella prussiana per dare vita all’Unione doganale (Zollverein), costituita nel 1833 ed entrata in vigore l’anno successivo. c. Miglioramento mezzi di trasporto amplificò gli effetti dello Zollverein. Furono migliorate le strade e si costruirono le prime ferrovie, a partire dalla linea, molto breve, fra Norimberga e Fürth in Baviera (1835). A metà secolo, la Germania, con circa 6000 lm di strade ferrate, aveva la rete più estesa dell’Europa continentale. La difficoltà di pagamenti, derivante dall’esistenza di numerose monete, fu parzialmente risolta con accordi fra i singoli Stati: quelli del Sud adottarono una moneta in comune, il fiorino (1837), mentre quelli del Nord si diedero come moneta unica il tallero (1838). I biglietti di banca erano quasi sconosciuti: a metà 800 costituivano appena il 3% della moneta circolante in Germania. In seguito alla vittoriosa guerra contro la Francia, la Prussia riuscì, grazie all’azione del cancelliere Bismarck, a realizzare l’unificazione tedesca, proclamata nel 1871 nella reggia di Versailles, nella Francia ancora occupata. Si era costituito l’Impero (Reich), ossia una confederazione di 25 Stati, che aveva una notevole forza economica, a capo della quale fu posto il re di Prussia Guglielmo I, con il titolo di imperatore (Kaiser). Dopo l’unificazione, la Germania conobbe una fase di grande sviluppo, nonostante il periodo di depressione che stava caratterizzando l’economia europea, tanto che alcuni studiosi collocano in quegli anni il decollo della sua economia e parlano di “miracolo tedesco”. Tra la fine del secolo XIX e la Prima guerra mondiale, lo sviluppo si fece travolgente e la Germania diventò la principale potenza economica continentale. Nel settore industriale si formarono imponenti complessi e vennero costituite migliaia di società per azioni. La siderurgia si giovò di un forte incremento della produzione di carbone, specialmente nella dieci volte superiore di quello del Texas, i proprietari degli allevamenti texani organizzarono trasferimenti di bestiami per 1500km, lungo le piste che collegavano le zone di produzione ai nodi ferroviari più importanti, da dove gli animali proseguivano in treno per i luoghi di destinazione. In un primo momento, furono inviati bovini per i mattatoi, ma in seguito partirono mucche destinate alle fattorie degli agricoltori del Nordovest. Quando questi ultimi non ebbero più bisogno di altro bestiame e il prezzo diminuì, gli spostamenti di mandrie guidate da cow-boys cessarono quasi improvvisamente dopo il 1885. 15.4 GRANDI IMPRESE E MERCATO Lo sviluppo industriale degli USA fu eccezionale per la quantità di manufatti prodotti e per l’organizzazione dell’attività produttiva delle imprese. Le industrie americane si organizzarono sottoforma di grandi società per azioni (corporations) che occupavano, nel 1914, quasi 6 milioni di persone. Si formarono potentissimi gruppi riuniti attorno a poche famiglie, che costituirono vere e proprie dinastie, molto ricche, potenti e conosciute in tutto il mondo. I fondatori dei principali gruppi erano Carnegie (acciaio), Vanderbilt (ferrovie), Morgan (banche, ferrovie e acciaio), Rockefeller (petrolio, fondatore della Standard Oil) e Ford (automobili). Numerosi furono i trust e i cartelli (qui chiamati pools), che riuscirono a controllare il mercato di diversi prodotti. L’opinione pubblica protestò contro queste grandi concentrazioni di potere economico e il governo federale varò una serie di provvedimenti antitrust, volti a combattere i monopoli. L’avversione per i trust era una delle convinzioni più profonde degli americani che volevano uguali opportunità di successo per tutti e quindi erano ostili alla formazione di grandi concentrazioni industriali e bancarie che potessero impedire la concorrenza e l’ingresso sul mercato di nuovi soggetti. Nel campo bancario vi riuscirono, mentre nel settore industriale i risultati furono deludenti. Gli Stati Uniti erano anche la patria del fordismo. Nel 1913, Ford era riuscito a dimezzare il costo di produzione del famoso “modello T”, utilizzando la catena di montaggio e potè vendere questa vettura agli stessi operai che la fabbricavano. Il fordismo fu anche il nuovo grande fattore di sviluppo degli USA ed ebbe la funzione trainante che era stata propria della frontiera nel secolo precedente. Lo sviluppo americano si basò anche sulla formazione di un mercato nazionale di oltre 90 milioni di consumatori. Per renderlo possibile era necessario un sistema di trasporti furono costruite ferrovie transcontinentali, che collegarono la costa atlantica con quella del Pacifico. Accanto alle ferrovie, un ruolo importante lo continuarono a svolgere i canali e i grandi fiumi solcati da numerosissime imbarcazioni, nonché la navigazione di cabotaggio lungo le coste dell’Atlantico e del Pacifico, specialmente dopo l’apertura del canale di Panama nel 1914. Così, per molto tempo, la maina mercantile americana, superata per tonnellaggio solo da quella britannica, rimase quasi sconosciuta sui mari. Essa era impegnata principalmente nella navigazione costiera e nella navigazione interna lungo i fiumi maggiori e sui Grandi laghi. Il commercio estero rappresentava una quota limitata dell’intero movimento commerciale degli USA, ma il suo peso sul commercio mondiale fu in continua crescita. Questa scarsa partecipazione agli scambi internazionali spiega anche la ragione per la quale gli USA rimasero legati a una politica protezionistica. L’avanzo della bilancia commerciale, diventata definitivamente favorevole nell’ultimo decennio del secolo XIX, serviva in buona parte a pagare gli interessi e a rimborsare capitali che i paesi europei, soprattutto la GB, investivano negli Stati Uniti. 15.5 UN PUNTO DEBOLE: IL SISTEMA BANCARIO Il sistema bancario americano non risultava adeguato al grande sviluppo che il paese stava conoscendo. Con la riforma (1863-64) adottata in piena Guerra di secessione, per regolare l’emissione dei biglietti, che avevano diviso le banche tra nazionali e banche statali. Le principali caratteristiche del sistema americano risultano sostanzialmente due: • Dual system consistente nella presenza delle banche nazionali, sottoposte alla legge federale, che ebbero il compito di emettere biglietti secondo rigidi criteri, e le banche statali costituite secondo le leggi più permissive dei singoli stati che vennero scoraggiate dall’emettere propri biglietti. • Unit bank system secondo il quale tutte le banche, grandi e piccole, avevano un’unica sede e non potevano costituire filiali fuori dall’area in cui operavano, ma successivamente (1909 e 1927) fu loro consentito di operare nell’intero Stato di appartenenza, ma non egli altri Stati dell’Unione. Lo scopo di tale limitazione era impedire che sorgessero banche di notevoli dimensioni, in gradi di diffondersi in tutto il territorio nazionale e di condizionare le grandi imprese. Non si voleva, cioè, la contrapposizione fra due poteri economici forti come le banche e le imprese. Un tale ordinamento portò alla proliferazione di aziende di credito. Il principale difetto di questo sistema era l’assenza di un istituto centrale di emissione che, in caso di necessità, potesse fungere da prestatore di ultima istanza. Questo limite risultò evidente durante la crisi finanziaria del 1907. Alcune importanti banche di New York, trovatesi in difficoltà, poterono essere salvate solo grazie all’autorevole intervento di J. P. Morgan, il quale riuscì a mobilitare in loro soccorso alcuni grandi banchieri privati. La situazione non era più sostenibile: la maggiore potenza economica del mondo non aveva un istituto di emissione capace di svolgere la funzione di regolatore del sistema bancario. Perciò, nel 1913 una legge introdusse il Sistema della Riserva Federale (Federal Reserve System), guidato da un consiglio con sede a Washington, composto da 12 banche federali, ognuna delle quali operava in un proprio distretto di competenza, dove emetteva biglietti a corso legale, fissava il tasso ufficiale di sconto e riscontava gli effetti alle altre banche. Qualche anno prima, nel 1900, gli Stati Uniti avevano formalmente aderito al gold standard ed erano entrati con la loro moneta nel sistema dei cambi fissi, che ormai comprendeva quasi tutti i paesi industrializzati. DUE CASI PARTICOLARI - RUSSIA E GIAPPONE La Russia e il Giappone costituiscono due casi particolari. A metà 800 erano ancora paesi con strutture feudali e accusavano un gravissimo ritardo nei confronti delle altre nazioni. Essi presero coscienza della condizione economica e sociale e in cui versavano dopo due eventi per loro traumatici: la sconfitta della Russia nella guerra di Crimea (1853-56) da parte di un corpo di spedizione franco-britannico e l’apertura forzata del Giappone al commercio con l’Occidente (1854), in seguito all’arrivo di una squadra navale americana. Questi fatti resero evidente che i due paesi necessitavano di profonde trasformazioni se volevano allinearsi alle principali potenze economiche. In entrambi i casi il ruolo dello Stato fu determinante. 16.1 L’EMANCIPAZIONE DEI SERVI IN RUSSIA La popolazione russa conobbe l’incremento + consistente fra i paesi europei, ma questo incremento non costituì un elemento di forza per la Russia come lo era stato per gli altri paesi. Infatti, esso fu causato dalla necessità dei contadini di avere molti figli per ottenere una maggiore assegnazione di terra. Il principale problema della Russia era la permanenza della servitù della gleba. I due terzi della popolazione erano servi, si dividevano in diverse categorie: • I servi che appartenevano ai pomesciki, cioè ai grandi proprietari terrieri considerati “proprietà battezzata” dei loro signori, che potevano venderli o affittarli, darli in garanzia alla Banca dei nobili per i prestiti ottenuti, cederli ai padroni delle fabbriche e delle miniere e consegnare quelli più riottosi all’esercito per una lunga ferma sotto le armi. Le terre dei pomesciki erano affidate alle comunità di villaggio che le distribuivano alle famiglie in base alle unità di lavoro che le componevano. In cambio, i servi dovevano pagare un canone o fornire gratuitamente la loro opera ovvero erano tenuti a entrambe le prestazioni, ma non potevano sposarsi senza l’autorizzazione del signore, per non mutare la composizione della forza lavoro familiare. • I servi che dipendevano dallo stato si trovavano in una condizione migliore, con un minor carico di obblighi. • I servi della famiglia imperiale erano in una condizione intermedia. I contadini spesso si ribellavano ed uccidevano i loro padroni. Ci fu un movimento di idee contrario alla permanenza della servitù e la sconfitta nella Guerra di Crimea portarono all’emancipazione dei contadini e alla riforma agraria. Durante la guerra di Crimea emerse in tutta evidenza l’arretratezza del Paese: le navi da guerra russe non riuscirono a tenere testa alle forze navali inglesi e francesi, i fucili adoperati erano antiquati e risultò difficile fornire la città di Sebastopoli assediata per l’insufficienza dei trasporti. Si comprese che per affrontare una guerra moderna non poteva essere condotta da un esercito di soldati arruolati per 25 anni, ma richiedeva il ricorso alla mobilitazione generale di uomini liberi. Quindi nel 1861 lo zar Alessandro II decretò l’emancipazione dei servi dei nobili e qualche anno dopo (1863-66) anche quella dei servi della famiglia imperiale e dello stato. I servi conquistarono la libertà personale e i signori non ebbero più alcuna autorità su di loro. Ottennero le terre e la casa dove abitavano in uso permanente in cambio di un canone annuo di pomesciki. Non ebbero la proprietà della terra, ma potevano riscattare le terre assegnate e diventare proprietari pagando una somma pari alla capitalizzazione del canone al 6%. Siccome i contadini non avrebbero mai potuto pagare il riscatto, lo Stato anticipò l’80% di quanto dovuto ai signori con obbligazioni statali a interesse annuo. I contadini dovevano pagare il restante 20% ai signori e rimborsare in 49 anni l’80% anticipato dallo stato. Le terre furono affidate alle comunità di villaggio (mir), responsabili della riscossione delle annualità e dell’imposta personale dei contadini. Il forte incremento della popolazione rese necessaria la riduzione delle quote assegnate a ciascuna famiglia, mentre lo sviluppo dell’industria, soprattutto quella tessile, sottrasse ai contadini il lavoro a domicilio solto durante i lunghi inverni russi. Le condizioni della classe rurale si fecero sempre + difficili e il malcontento aumentò. La rivoluzione del 1905, scoppiata durante la guerra contro il Giappone, indusse il primo ministro Stolypin a varare una riforma agraria con lo scopo di formare una classe di piccoli proprietari, che avrebbero costituito la “cellula fondamentale dello stato”. La riforma prevedeva la possibilità di uscire dai mir da parte dei contadini, e di ottenere un appezzamento di terra e una casa in piena proprietà individuale. Essa, però, non ebbe successo perché la maggior parte dei contadini preferì restare nella comunità di villaggio e non mettersi in proprio. Fino alla Grande guerra solo il 22% delle famiglie era uscita dai mir. Spesso coloro che ebbero le quote individuali le vendettero ai contadini più agiati e rimasero senza terra, con le uniche prospettive di diventare salariati agricoli o emigrare in Siberia. Si formò una categoria di contadini ricchi proprietari di terre: i kulaki. Costoro prendevano altre terre in affitto oppure le acquistavano dai contadini usciti dal mir o dai numerosi nobili indebitati e, in molti casi, riuscirono ad accrescere le loro ricchezze prestando denaro con interesse. 16.2 L’INDUSTRIALIZZAZIONE DELLA RUSSIA ZARISTA a. Disponibilità manodopera che fu sempre abbondante, a buon mercato e per giunta sobria e disciplinata b. Disponibilità capitali che si concentrarono nelle mani dello Stato e in quelle dei grandi proprietari e dei samurai, che erano stati indennizzati con titoli pubblici c. Disponibilità sul mercato mondiale di una moderna tecnologia di cui i Giapponesi s’ impadronirono velocemente d. Livello di istruzione molto elevato al quale peraltro lo Stato riservò parecchie cure, mediante l’istituzione di scuole professionali e di scuole itineranti nelle province e. Esistenza di sbocchi esteri per le proprie materie prime ed anche per alcuni manufatti, che non potevano contare sulla domanda interna; il Giappone praticò anche il dumping sui propri prodotti, favorita dal basso valore della sua moneta fino all’adozione del gold standard f. Ruolo dello stato in ogni aspetto della vita economica e sociale e il cui intervento servì a guidare lo sviluppo dell’Impero del Sol levante. L’UNITA’ DI ITALIA E L’ECONOMIA NAZIONALE 17.1 GLI OSTACOLI ALLO SVILUPPO ECONOMICO DELL’ITALIA L’Italia, dopo essere stata, almeno fino al Rinascimento, fra le zone più sviluppate d’Europa, aveva conosciuto in periodo di declino, dal quale si era cominciata a risollevare solo durante il 700, la sua antica ricchezza è testimoniata dal fatto che il Pil pro-capite era ancora, nel 1700, pari a quasi l’80% di quello britannico, ma nel 1820 si era ridotto al 53%. L’Italia rimase ai margini dell’economia europea fin a dopo l’unificazione. Mancavano le condizioni per realizzare il decollo, che perciò si verificò solo all’inizio del secolo XX. Gli ostacoli che frenavano lo sviluppo economico italiano erano numerosi: I. Lenta crescita della popolazione che non consentì di dare un impulso alle attività produttive; II. La natura del suolo, arabile solo per metà della sua estensione e con poche zone pianeggianti, sicchè la produzione di generi alimentari non era sufficiente a soddisfare i bisogni di una popolazione che comunque stava crescendo; III. Scarsità di risorse minerarie con una modesta quantità di carbone e pochi giacimenti di materiale ferroso, solo la Sicilia possedeva importanti miniere di zolfo, che alimentavano un consistente flusso di esportazione IV. Inadeguatezza del sistema dei trasporti, con strade insufficienti, anche per la presenza di catene montuose, e senza una rete di vie d’acqua interne, perché mancavano fiumi navigabili; solo la navigazione di cabotaggio lungo le coste consentiva il collegamento fra le diverse parti della Penisola, ma teneva fuori le zone interne e le distanze erano spesso molto grandi (Venezia-Genova) V. Scarsa disponibilità di capitali che non si erano riusciti ad accumulare precedentemente, inoltre, quelli disponibili si rivolgevano verso impieghi sicuri, come l’acquisto di terre o titoli di Stato; VI. Assenza di un mercato nazionale e la permanenza di ristretti mercati locali, limite di cui molti erano consapevoli, tanto che una delle aspirazioni più sentite dagli uomini che si posero alla guida del movimento nazionale unitario fu proprio la formazione di un mercato nazionale. Nella seconda metà del 700 erano state avviate alcune riforme dai governanti + illuminati, completate durante l’occupazione francese, che avevano portato alla fine delle corporazioni, delle dogane interne e del regime feudale. Il congresso di Vienna aveva diviso sostanzialmente l’Italia in 7 Stati, di cui uno molto esteso (Regno delle due Sicilie), tre di dimensioni medie (Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, e Stato Pontificio), due molto piccoli (ducati di Modena e di Parma) e l’ultimo sotto la dominazione austriaca (Lombardo-Veneto). 17.2 L’UNITA’ E IL DIVARIO NORD – SUD L’unificazione era avvenuta mentre l’avvio della seconda rivoluzione industriale mostrava già il cammino da percorrere. L’Italia si presentava con un’agricoltura arretrata, un’industria inesistente, una rete ferroviaria limitata, una marina costituita da velieri e un sistema bancario inadeguato. Al momento dell’Unità, essa era ancora un paese fortemente agricolo, in cui la maggior parte della popolazione attiva, il 70%, era occupato nel settore primario. Il Pil pro-capite italiano, inoltre, si era ulteriormente ridotto rispetto a quello della GB, portandosi a poco più del 40%; solo in seguito esso comincerà a recuperare il ritardo, per ritornare nel 1913 al 50%. Oltre a questo stato di arretratezza nei confronti dei paesi più progrediti, l’Italia unita si rese conto che un ulteriore problema era l’esistenza di un divario regionale che con il tempo cominciò ad approfondirsi arretratezza del Mezzogiorno. Secondo molti studiosi, il divario al momento dell’unità fra il centro-nord e il mezzogiorno, in termini di Pil pro-capite, non sarebbe particolarmente elevato e oscillerebbe tra il 10-20%. Secondo altri, il divario fra sud e nord sarebbe addirittura inesistente. Anzi sembra che vi fossero maggiori differenze fra est e ovest, nel senso che le regioni orientali risultavano per Pil pro- capite più arretrate di quelle occidentali. E, inoltre, le due macroaree nord e sud non erano nemmeno omogenee al loro interno, poiché si registravano profonde differenze, per esempio, fra Liguria e Veneto al Nord o fra Campania e Calabria al sud, o fra zone costiere e zone interne di una medesima regione. 5 fasi nell’evoluzione del divario tra centro-nord e sud-isole: 1. Periodo della stabilità (1861-1890) ossia il primo trentennio dopo l’Unità, durante il quale il divario aumentò di poco, sicchè sembra che da questo punto di vista l’unificazione non abbia avuto effetti immediati sulle condizioni delle diverse aree del nuovo regno. 2. Periodo della formazione del divario (1890-1920) quando l’Italia conobbe il suo decollo industriale, che si concentrò in alcune regioni del nord favorite dalle commesse belliche durante la Grande guerra. 3. Il periodo della divergenza (1920-50) che abbraccia il ventennio fascista e la seconda GM, durante il quale il divario aumentò notevolmente 4. Il periodo della convergenza (1950-75) che coincide con il periodo del miracolo economico italiano, in cui per la prima volta il Mezzogiorno crebbe più del nord e il divario si ridusse. 5. Il periodo di stagnazione (1975-) il divario ha ripreso a crescere. Il divario del Mezzogiorno è del tutto evidente quando si prendono in considerazione alcuni elementi, come la dotazione di infrastrutture o l’organizzazione creditizia, il livello di istruzione o la vita media. In tutti questi campi le differenze tra nord e sud, al contrario di ciò che è avvenuto con il Pil pro-capite, si sono andate ad affievolire, e in alcuni casi sono scomparse. Il mezzogiorno ha beneficiato del diffuso processo di modernizzazione dell’intero paese. Ma si è trattato di una modernizzazione passiva, ossia di un processo trascinato dal generale miglioramento economico e sociale del paese, che però non è riuscito a stimolare un percorso autonomo di crescita delle regioni meridionali e insulari. Le istituzioni politiche ed economiche del mezzogiorno non sono state in grado di promuovere lo sviluppo che è stato ostacolato o rallentato anche da negative condizioni sociali, fra le quali una particolare funzione frenante ha avuto la diffusa presenza della malavita organizzata. 17.3 IL DIVARIO NEI SETTORI PRODUTTIVI Il ritardo del Mezzogiorno, al momento dell’Unità, era più evidente nel settore agricolo che in quello industriale. L’agricoltura delle regioni settentrionali aveva un punto di forza nelle grandi aziende agrarie della bassa Pianura Padana, dove si produceva una grande quantità di seta tratta, destinata all’esportazione. Qui le grandi aziende agrarie praticavano la cerealicoltura integrata da culture foraggere. Nel Mezzogiorno vi era una scarsa presenza di aziende agrarie capitalistiche e dominavano la cerealicoltura estensiva e la pastorizia transumante, con poche aree destinate all’agricoltura intensiva. Nel settore industriale, invece, anche le manifatture delle regioni settentrionali erano ancora basate sull’artigianato e sul lavoro a domicilio, con pochi nuclei industriali moderni. Questi nuclei erano presenti pure al sud, attorno Napoli (metalmeccanica), nei pressi di Salerno (cotofonici) e nella valle del Liri, attorno a Sora, nella attuale provincia di Frosinone (lanifici e cartiere). Il nucleo napoletano si reggeva sulle commesse statali e quello salernitano era in mano a imprenditori svizzeri. Le industrie meridionali erano favorite dal protezionismo accordato dal governo borbonico, data la ristrettezza del mercato locale ciò rendeva la struttura meridionale industriale esposta maggiormente alla concorrenza appena si fosse adottata una politica di libero scambio, scelta che fu effettuata dopo l’Unità. Se a ciò si aggiungono le difficoltà in cui si dibatteva l’agricoltura del Mezzogiorno, con l’esistenza di latifondi mal coltivati, piccoli fondi insufficienti alle esigenze delle famiglie e con la lontananza dai mercati europei, si comprende come il divario fra nord e sud fosse in qualche modo destinato ad accrescersi. Le regioni tra nord e sud non erano complementari dal punto di vista economico, poiché la loro agricoltura dava più o meno gli stessi prodotti. Le costruzioni ferroviarie si mantennero entro i confini di ciascuno stato per diffidenze politiche e gelosie e per la loro possibile utilizzazione a scopi militari. La popolazione dell’Italia risultò nel 1861 di quasi 26 milioni di abitanti, diventati 36 milioni nel 1911. Un merito dello stato unitario fu il potenziamento dell’istruzione, ma quella obbligatoria era limitata ai primi due anni delle scuole elementari, il cui mantenimento era a carico degli enti locali. Nell’istruzione superiore si registrava, nella parte settentrionale della Penisola, una maggiore propensione per gli studi scientifici, tecnici ed economici, come dimostra la presenza del Politecnico di Milano (1863), di Torino (1906) e di alcune scuole superiori di commercio. Nel Mezzogiorno i figli delle classi agiate venivano indirizzati agli studi classici e poi all’avvocatura o alla medicina. Il ritardo iniziale del Mezzogiorno, che pare si fosse sostanzialmente prodotto nel regno borbonico fra fine 700 e l’Unità, costituì un grosso ostacolo allo sviluppo successivo delle regioni meridionali e insulari. 17.4 L’UNIFICAZIONE DELLE STRUTTURE ECONOMICHE Realizzata l’unificazione politica in modo ancora incompleto (fuori ancora Roma il veneto e trentino), fu necessario unificare le strutture economiche. In tutti i casi in cui fu possibile, si procedette rapidamente mediante l’estensione al nuovo regno degli ordinamenti piemontesi. Tralasciando l’unificazione legislativa e amministrativa, realizzate nel 1865, dopo qualche anno di intenso dibattito è opportuno ricordare l’unificazione monetaria e bancaria, quella del debito pubblico e l’unificazione doganale. • Si dovette dare al regno una moneta propria. la lira piemontese divenne la moneta ufficiale la lira italiana introdotta nel 1862, ma che impiegò parecchio tempo a sostituire le precedenti monete. L’Italia adottò il sistema bimetallico. La moneta cartacea era poco diffusa e il compito provocò una riduzione di quasi tutti i prezzi agricoli. L’Italia avvertì in ritardo la crisi sia perché meno inserita nei circuiti internazionali sia perché il corso forzoso agì come una sorta di protezione avendo provocato una svalutazione della moneta che rendeva le merci più costose. La riduzione dei prezzi agricoli comportò una diminuzione della produzione e una riduzione della superficie agricola coltivata. L’attività industriale conobbe, nella prima metà dell’800, un notevole impulso sia per la protezione che era stata accordata da alcuni suoi rami sia per la maggiore disponibilità di capitali in seguito all’abolizione del corso forzoso, che attirò anche investimenti esteri. La crisi agraria e la crescita industriale dei primi anni 80 portarono a una coalizione tra industriali e proprietari terrieri che chiesero il ritorno al protezionismo. Nel 1887 fu adottata una tariffa protezionistica con una scelta a favore dell’industrializzazione con l’aiuto dello Stato. Qui si era giunti perché l’Italia non era riuscita a sottrarsi alla dipendenza dei paesi industrializzati e non poteva aspirare a diventare una grande potenza e neanche a partecipare alle conquiste doganali. L’adozione della nuova tariffa portò alla rottura commerciale con la Francia (1888-91). Il trattato tra i due paesi non fu rinnovato alla scadenza perché non si trovò un accordo e l’Italia applicò alla Francia la tariffa del 1887. La Francia rispose con dazi di rappresaglia e gli scambi fra i due paesi risultarono compromessi, con gravi conseguenze soprattutto per l’Italia. Fra il 1888 e il 1894 il Paese fu scosso da una profonda crisi economica e bancaria. Una buona parte dei capitali affluiti all’estero con il momentaneo ritorno alla convertibilità della moneta si erano indirizzati alle speculazioni edilizie, favorite dalla costruzione di abitazioni private e di edifici pubblici in molte città. Le speculazioni interessarono soprattutto Roma, diventata capitale, che doveva ospitare una crescente burocrazia ministeriale e Napoli dove si stava procedendo al risanamento edilizio dopo il colera del 1884. In entrambi casi lo Stato era intervenuto con cospicui finanziamenti e su di essi si era appuntato l’interesse di numerosi investitori desiderosi di partecipare al grande affare edilizio. Queste imprese furono sostenute dalle banche, comprese quelle di emissione, ma quando il boom delle costruzioni cessò, parecchi investitori si trovarono in difficoltà e trascinarono con loro le banche che li avevano finanziati. Fra le banche coinvolte vi erano anche quelle di credito mobiliare, ossia il Credito Mobiliare e la Banca Generale che furono travolte e dovettero chiudere, e alcune banche di emissione che attraversarono brutti momenti. La Banca Romana aveva ceduto nelle emissioni di banconote e aveva finanziato alcuni uomini politici. Ne scaturì un grosso scandalo che, all’epoca, fece molto scalpore. Lo Stato fu costretto a intervenire e, con una legge del 1893, ridusse a 3 istituti di emissione: la Banca d’Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. La Banca d’Italia nacque dalla fusione fra la Banca Nazionale nel Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca di Toscana di Credito, mentre la Banca Romana venne messa in liquidazione. Il vuoto lasciato dal fallimento dei due istituti mobiliari fu colmato con la costituzione della Banca commerciale italiana (1894), grazie all’intervento di capitali tedeschi, chiamati in Italia dallo stesso governo (ma ritirarsi dopo qualche anno), e del Credito italiano (1895). Queste banche assunsero il carattere di banche miste ed ebbero un ruolo importante nel decollo dell’età giolittiana, per i finanziamenti che riuscirono ad assicurare alle principali industrie nazionali. 18.4 IL DECOLLO INDUSTRIALE Dopo il 1896, l’economia italiane riprese a crescere rapidamente, almeno fino alla crisi ciclica del 1907. Furono gli anni di maggiore sviluppo con un tasso di crescita superiore al 5% l’anno. È il periodo della Belle Époque che in Italia coincide con l’età giolittiana. L’economia parte sotto i migliori auspici: la rete ferroviaria è sostanzialmente completata, il sistema bancario è stato risanato e dispone di grandi banche miste, la moneta è stabile, le finanze statali sono in ordine e il bilancio dello Stato presenta finanche degli avanzi, gli scambi con la Francia sono ripresi e i prezzi mostrano una tendenza all’aumento. L’agricoltura si giovò dei prezzi elevati. Si fece ricorso ai concimi chimici e alle prime macchine agricole. I lavori di bonifica resero coltivabili circa 400.000 ettari di terra. Ma l’età giolittiana fu caratterizzata principalmente dallo sviluppo industriale, che fu formidabile e riguardò tutti i rami. L’industria si concentrò in 3 regioni: Liguria, Lombardia e Piemonte i cui capoluoghi costituirono i vertici del triangolo industriale (Torino, Genova, Milano). I progressi dell’industria tessile riguardarono soprattutto l’industria cotoniera, diventata la maggiore industria italiana, e l’industria laniera, che conobbe una crescita più lenta e non riuscì a soddisfare per intero la domanda nazionale. L’industria della seta conservò una quota rilevante del mercato mondiale e il suo ruolo risultò molto importante perché oltre a mantenere l’Italia sui mercati internazionali, consentì l’integrazione dei redditi alle famiglie che allevavano i bozzoli e permise l’accumulazione di capitali. I comparti più rilevanti del periodo in esame furono quelli dell’industria pesane: la siderurgica, la meccanica, la chimica e l’industria elettrica. L’industria siderurgica, appoggiata dallo Stato e sostenuta finanziariamente dalla Banca commerciale e dal Credito italiano, conobbe una notevole espansione. Lo Stato promosse la nascita del grande impianto siderurgico di Terni (1884), e diverse società siderurgiche diedero vita all’Ilva (1905), sorta per la gestione dello stabilimento a ciclo integrale (cioè che non usava rottami di ferro) di Bagnoli, vicino a Napoli. La produzione di acciaio giunse a quasi un milione di tonnellate alla vigilia della Grande guerra, ma si trattava ancora di una produzione modesta se confrontata con i 17 milioni della Germania. L’industria meccanica crebbe poco, anche perché godeva di una minore protezione doganale e molte macchine venivano importate dall’estero, soprattutto in Germania. Tuttavia, si svilupparono la produzione di locomotive e di carrozze ferroviarie (specialmente dopo la nazionalizzazione delle ferrovie), quella di navi a vapore di ferro, la fabbricazione di motori elettrici, di biciclette e di motociclette, nonché la produzione di locomotive, ma che poi si dedicò anche alle costruzioni navali. Nella meccanica acquistò particolare importanza l’Ansaldo, una società sorta di Genova nel 1853, che si era affermata nella produzione di locomotive, ma che poi si dedicò anche alle costruzioni navali. Le automobili erano fabbricate da un gran numero di piccoli produttori. La Fiat, sorta nel 1899, a poco a poco soppiantò le altre fabbriche. L’industria chimica fece registrare una crescita modesta, limitandosi alla produzione di concimi chimici e gomma, la cui produzione raggiunse un certo rilievo grazie alla Pirelli (1872). L’industria elettrica puntò quasi soltanto sull’utilizzo delle risorse idriche poiché l’Italia difettava di risorse carbonifere. L’iniziatore di questo ramo di attività fu Colombo, fondatore della società Edison (1884). Nonostante l’affermazione dei grandi complessi industriali, le piccole imprese, che conservavano un carattere artigianale e sovente si servivano di lavoranti a domicilio, continuarono ad avere un peso di rilievo, tanto che alla vigilia della Grande guerra assicuravano circa i 2/3 del valore della produzione industriale. Il commercio estero aumentò in misura considerevole, giungendo a raddoppiarsi dal 1900 al 1913. La bilancia commerciale rimase passiva ma il disavanzo venne colmato con le rimesse dei numerosi emigrati e con le spese dei turisti stranieri, i quali cominciavano ad essere più numerosi. Lo sviluppo economico italiano fu sicuramente influenzato da diversi fattori: il ruolo dello Stato, tanto si è parlato di una sorta di “capitalismo di Stato” per sottolineare la sua presenza nella vita economica, la funzione delle banche, in particolare le banche miste, il regime protezionistico, l’apporto di capitali stranieri e bassi salari reali. L’economia italiana presentava due punti oscuri: la questione meridionale e l’emigrazione. Nel momento in cui una parte del Paese cominciò a crescere con una certa vivacità, l’altra rimase indietro, provocando la formazione o l’ampliamento del divario fra Nord e Sud di cui si è già detto. L’emigrazione, poi, si fece consistente proprio con il nuovo secolo, quando, allo scoppio della Grande guerre, lasciarono l’Italia ben 8,6 milioni di persone, per lo più provenienti dalle regioni dell’Italia meridionale e dalla Sicilia e dirette principalmente verso Stati Uniti, Argentina e Brasile. Lo sviluppo faceva le sue vittime, in particolare non riuscendo ad assicurare il mantenimento della popolazione rurale, costretta ad abbandonare le campagne sia per la crisi agraria sia per le innovazioni che comportavano una continua riduzione della manodopera impiegata in agricoltura. A tute queste persone non restava che prendere la dolorosa via dell’emigrazione, talvolta temporanea, ma molto più spesso definitiva. LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LE SUE CONSEGUENZE 19.1 LA GRANDE GUERRA Nell’estate del 1914 scoppiò la prima GM, che vide contrapposti da un lato l’Intesa (GB, Francia e Russia) e dall’altra gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria). Successivamente entrarono in guerra altri paesi, come l’Impero turco che si schierò con gli imperi centrali, mentre il Giappone, l’Italia e gli USA con L’intesa. All’inizio tutti erano convinti che si sarebbe trattata di una guerra breve (Blitzkrieg, guerra lampo), perché si riteneva che un conflitto moderno fosse troppo costoso per poter durare a lungo. Invece si trasformò in una guerra di posizione e gli uomini rimasero bloccati nelle trincee. Sul fronte orientale, anche se le truppe degli imperi centrali avanzarono in territorio russo e occuparono la Polonia, furono poi costrette a una serie di offensive e di controffensive non risolutive. I paesi europei furono quelli maggiormente impegnati nel conflitto, scatenato per le loro rivalità politiche, militari ed economiche. La crescita economica tedesca aveva preoccupato Francia e GB che allora erano confinanti, in più la questione dei Balcani vedeva contrapposte le principali potenze europee. Era la prima guerra del mondo industrializzato, le cui sorti sarebbero state decise dalla quantità e dalla qualità di armamenti, rifornimenti e vettovagliamenti che ognuno sarebbe stato in grado di mettere in campo, più che dal numero di combattenti e del loro coraggio individuale. Gli sforzi dovevano essere rivolti alla produzione di tutto ciò che serviva per vincere la guerra. La guerra fu combattuta anche sui mari, mentre la guerra aerea, nonostante alla fine fossero impiegati migliaia di piccoli velivoli, ebbe una ridotta efficacia militare. Gli Alleati imposero il blocco agli Imperi centrali, vietando il commercio con essi anche ai paesi neutrali, e i Tedeschi risposero con a guerra sottomarina, condotta dai loro sommergibili (U-Boot), con i quali attaccavano sia le navi da guerra sia quelle addette al trasporto di merci e di passeggeri. 19.2 L’ECONOMIA DI GUERRA E IL COSTO DEL CONFLITTO Appena scoppiata la guerra i governi dichiararono l’inconvertibilità dei biglietti di banca, per evitare la corsa del pubblico per cambiare le banconote in monete metalliche. Si passò al corso forzoso che sanciva la fine del gold standard. Vennero chiuse le Borse per evitare speculazioni sui titoli. Un problema che si manifestò immediatamente fu la difficoltà di far funzionare molte fabbriche, in seguito alla mobilitazione generale. Fu subito chiaro che bisognava programmare un’economia di guerra. Lo Stato dovette organizzare sia la produzione di beni necessari alle forze armate e alle esigenze vitali dei cittadini, sia la loro distribuzione, specialmente dei generi alimentari, per evitare accaparramenti da parte degli speculatori. Fu anche introdotto il calmiere (provvedimento amministrativo che stabilisce il prezzo massimo di vendita delle merci) sui generi alimentari, con la conseguenza che si diffusero le contrattazioni illegali (il mercato nero/borsa nera). Si giunse al razionamento dei generi di prima necessità e si tentò di far aumentare la produzione agricola. I tedeschi colpiti dal blocco, fecero ricorso a prodotti succedanei (Ersatz) di quelli che non riuscivano a importare, come la gomma sintetica o il successivi il piano Dawes (1924) e il piano Young (1929) furono ridotti, dapprima l’importo delle rate e poi anche il debito complessivo. In seguito alla crisi del 1929 il presidente degli USA, Hoover, dichiarò la moratoria dei debiti tedeschi, cioè la temporanea sospensione dei pagamenti, che in sostanza mise fine al versamento delle riparazioni e al rimborso dei debiti interalleati. • Questione sociale alla fine del conflitto la società europea era percorsa da un profondo malessere. L’inflazione aveva falcidiato i salari e gli stipendi e la crisi del dopoguerra non aveva consentito di reinserire nel mondo del lavoro numerosi ex combattenti. Oltre agli operai e al ceto medio anche i contadini erano scontenti, poiché le promesse di riforma agraria, a guerra finita, non furono rispettate. Questi movimenti ebbero esiti diversi. Nei paesi con una maggiore tradizione democratica furono riassorbiti, mentre altrove ebbero uno sbocco reazionario Fascismo e Nazismo. 19.7 I MUTAMENTI STRUTTURALI DELL’ECONOMIA Ben più gravi e duraturi furono i mutamenti strutturali. 1. Intervento dello stato nell’economia: il liberismo, basato sulla fede nell’individualismo, sulla illimitata libertà economica e su una ridotta presenza dello Stato, sembrava aver fatto il suo tempo. Durante il conflitto lo Stato aveva dovuto assicurare l’approvvigionamento e la distribuzione delle materie prime e dei generi alimentari. A guerra terminata, si riteneva che si dovessero ripristinare al più presto le regole del mercato e ritornare alla libera iniziativa. Ma la cosa non fu così semplice come si era creduto. Dapprima il turbolento dopo guerra, poi la lunga depressione degli anni 30 e la seconda GM non consentirono la riduzione dell’ingerenza statale, anzi l’aumentarono. 2. Perdita dell’egemonia politica ed economica dell’Europa: rubata da paesi come USA e Giappone, che approfittarono del conflitto per conquistare il primato. Il vecchio continente era in grossa difficoltà per i danni causati dal conflitto e il suo accresciuto frazionamento economico non gli concesse di mantenere l’egemonia. I mercati si frammentarono: quello tedesco si restrinse per le perdite subite e quello austro-ungarico si frantumò. I mercati non erano sufficientemente grandi per assorbire i prodotti standardizzati delle industrie moderne. Il nazionalismo politico ed economico che pervase l’Europa tra le due guerre indusse ogni stato a impiantare proprie industrie e a favorirne l’espansione con l’inasprimento delle tariffe doganali, in modo da assicurare ai loro prodotti almeno il mercato interno. Per tentare di limitare gli effetti negativi di questa politica, si diffuse il meccanismo dei rapporti bilaterali, ossia di accordi diretti fra due paesi, che fissavano i quantitativi di merci da scambiare. L’UNIONE SOVIETICA 20.1 LA RIVOLUZIONE E IL COMUNISMO DI GUERRA Una delle conseguenze più importanti della grande guerra fu l’instaurazione del regime collettivistico in Russia. La rivoluzione socialista si proponeva di realizzare una maggiore eguaglianza fra gli uomini, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione e affidando allo stato il compito di regolare tutta l’attività economica. Essa, al contrario di quanto aveva previsto Marx, si verificò in un paese non ancora industrializzato e con un’economia prevalentemente agricola. La partecipazione della Russia nella prima guerra mondiale, sotto la guida di una classe dirigente incapace e corrotta, fece crescere il malcontento delle masse popolari. Nel febbraio del 1917 scoppiò la rivoluzione, che costrinse lo zar Nicola II ad abdicare e portò al potere dapprima il principe Georgij L’vov e poi Kerenskij. Il nuovo governo, di orientamento liberale, era debole e decise di continuare la guerra, mentre si andavano organizzando i primi Soviet (consigli) dei rappresentanti degli operai, dei soldati e dei contadini. Intanto si rafforzava il partito bolscevico, poi detto comunista, sotto la guida di Lenin. Il programma sintetico prevedeva la fine della guerra senza annessioni né indennità e il diritto di autodeterminazione dei popoli, nonché la distribuzione delle terre ai contadini e il controllo degli operai sulle fabbriche. I comunisti conquistarono il potere con la rivoluzione di ottobre nel 1918, poco dopo stipularono la pace separata con la Germania (pace di Brest-Litovsk). Seguì una lunga guerra civile alla fine della quale nel 1922 fu proclamata l’Urss, composta da diverse repubbliche e moltissime nazionalità. La realizzazione del socialismo in Russia passò attraverso 3 fasi distinte: il comunismo di guerra, la NEP e la pianificazione. Il comunismo di guerra (1917-1921) fu il regime economico instaurato mentre era in corso la guerra fra l’Armata rossa e le armate bianche controrivoluzionarie, sostenute da alcune potenze straniere (USA, Inghilterra, Francia e Giappone). Fra i primi provvedimenti vi fu l’abolizione della proprietà privata delle terre e la confisca di quelle dei nobili, della chiesa e della corona, senza il pagamento di alcuna indennità. Le terre, divenute statali, passarono in usufrutto ai lavoratori e vennero assegnate ai Soviet dei contadini dei distretti. Chiunque ne avesse fatto richiesta avrebbe avuto diritto a un appezzamento, che però non poteva vendere, affittare o coltivare con lavoratori salariati. I contadini non furono affatto contenti della riforma perché aspiravano alla proprietà individuale della terra. Comunque, molte persone trasferitesi in città, dove risultava sempre più difficile sopravvivere in tempo di guerra, ritornarono ai loro villaggi per partecipare alla distribuzione delle terre. Il risultato fu che in molte zone gli appezzamenti assegnati si rivelarono troppo piccoli, mentre in altre regioni parecchie terre rimasero incolte. Un’equa distribuzione avrebbe richiesto lo spostamento di milioni di persone da una parte all’altra del paese e ciò non era possibile. Gli scambi fra città e campagna s’interruppero. La produzione di manufatti era crollata e i contadini non volevano vendere i loro prodotti agli abitanti delle città in cambio di rubli di carta privi di valore. Per rifornire le città, i contadini furono obbligati a versare all’ammasso i raccolti e commandos di operai e soldati giunsero nelle campagne per procedere alla requisizione forzata dei generi alimentari. La demotivazione dei contadini, la guerra civile e i cattivi raccolti del 1920 fecero crollare la produzione agricola alla metà di quella media dell’anteguerra. Una nuova carestia (1920-21) causò, secondo le stime ufficiali, ben 5milioni di morti, anche perché era impossibile rifornire le zone più colpite per i gravi danni subiti dalla rete ferroviaria. Le industrie furono dapprima sottoposte al controllo degli operai (le fabbriche agli operai) e poi nazionalizzate, a partire dalle grandi imprese per finire alle più piccole. Durante la guerra civile, con il sistema ferroviario fuori gioco in un paese dalle grandi distanze e con e imprese mal gestite, era difficilissimo continuare la produzione industriale, che infatti quasi si fermò, portandosi ad appena il 20% di quella del 1913. Forse il fato che l’apparato industriale russo fosse completamene distrutto ebbe anche un risvolto positivo, in quanto fu possibile ricostruirlo successivamente su basi più moderne, utilizzando le nuove tecnologi importate all’estero. Anche le banche e il commercio furono nazionalizzati. Il commercio estero divenne monopolio di Stato e fu vietato il commercio privato. Le banche furono espropriate senza indennizzo e assorbite dalla Banca di Stato, tranne le cooperative di credito che furono conservate. La Rivoluzione russa fu finanziata con una massiccia emissione di moneta cartacea, la cui conseguenza fu il crollo del rublo. La completa perdita di valore della moneta e il sostanziale ritorno a forme di scambio in natura provocarono la dissoluzione del sistema bancario. 20.2 LA NEP Dal 1921 al 1928 fu applicata da Lenin la Nuova Politica Economica (NEP), che fu adottata in seguito al fallimento del comunismo di guerra. Si rinunziava provvisoriamente alla realizzazione del socialismo per consentire la ripresa economica. Furono liberalizzati l’agricoltura, la piccola industria e il commercio, mentre lo stato conservò il controllo delle grandi industrie, delle banche e del commercio estero. Si diede vita a una società in cui convivevano elementi di capitalismo e socialismo. Nel settore agricolo si ritornò a forme più libere di organizzazione della produzione. L’obbligo di cedere le eccedenze agricole all’ammasso fu sostituito con un’imposta n natura, successivamente trasformato in denaro, che sostanzialmente rappresentava la metà dei prevalenti effettuati in precedenza con le requisizioni. I contadini furono autorizzati a vendere i loro prodotti sul mercato libero ed ebbero la possibilità di dare in affitto la terra e di assumere salariati. Nacquero 4 categorie di contadini: • il proletariato rurale di braccianti • i contadini poveri spesso costretti a dare in affitto il loro piccolo pezzo di terra e lavorare come salariati • contadini medi possedevano appezzamenti abbastanza grandi ed erano dotati di attrezzi agricoli • i kulaki contadini ricchi che prendevano in affitto terre, le coltivavano con l’ausilio di braccianti e vendevano i prodotti sul mercato libero. La produzione agricola nonostante fosse cresciuta non fu sufficiente ad alimentare la popolazione sia nelle campagne che nelle città, anche per il susseguirsi di una serie di cattivi raccolti. Il settore industriale fu diviso in due: quello privato e quello pubblico. Le imprese con meno di 20 dipendenti, che però fornivano appena il 5% della produzione, furono restituite ai precedenti proprietari, mentre le grandi imprese rimasero nelle mani dello Stato. Le fabbriche nazionalizzate avevano una gestione decentralizzata: le più grandi erano gestite direttamente dall’URSS, le medie dalle repubbliche federate e le più piccole dalle autorità locali. L’unione sovietica puntò sull’industria pesante, che ebbe una funzione trainante anche di altri rami produttivi, ma trascurò la produzione di beni di consumo. Il commercio interno fu liberalizzato e si creò una vastissima rete di punti vendita al dettaglio, il 90% dei quali fu lasciato in ano a privati, mentre il commercio con l’estero rimase di competenza dello stato. Il sistema bancario fu ricostituito. Fu fondata una nuova Banca di stato, la Gosbank, incaricata di emettere il nuovo rublo, in sostituzione di quello precedente completamente svalutato, dando vita al sistema monobanca. Il rublo non venne definito in oro e la Russia non entrò nel gold exchange standard. (c’erano altre banche specializzate in particolari dome di credito). 20.3 LA PIANIFICAZIONE Alla morte di Lenin (1924) si scatenò la lotta per la successione tra Stalin, che puntava al socialismo in un solo paese, vs Trotzkij, che riteneva necessaria la rivoluzione in tutto il mondo. Nel 1928 Stalin, salito al potere, considerando superata la Nep, riprese la strada verso il socialismo e promosse l’economia pianificata. In agricoltura fu avviata la collettivizzazione delle terre con lo scopo di giungere ad aziende di vaste dimensioni per favorire l’ingresso delle macchine e l’incremento della produttività. Si scatenò una lotta tra kulaki e nepmen. La proprietà privata era ammessa, ma i contadini furono spinti a creare dei kolchoz, ossia aziende agricole collettive, conferendo la loro terra. Accanto alle fattorie collettive si formarono i sovchoz, aziende agricole di proprietà statale i cui lavoratori erano dipendenti pubblici e i cui prodotti erano distribuiti attraverso le aziende statali di commercio all’ingrosso. Nel commercio e nell’industria si eliminò gradualmente il settore privato e si passò alla pianificazione. L’attività economica fu pianificata e il compito di provvedervi fu affidato al legami economici che erano stabiliti tra di loro; b) coinvolse tutti i settori dell’economia; c) ebbe effetti su tutte le categorie sociali. La crisi esplose alla Borsa di NY, in Wall Street, alla fine di ottobre 29. Sull’onda dell’euforia degli anni 20, oltre ai tradizionali investitori avevano cominciato ad investire in azioni molti risparmiatori, che poi furono presi dalla frenesia speculativa. A ciò erano stati incoraggiati anche gli agenti di cambio, sostenuti dalle banche, i quali, per consentire l’acquisto di azioni chiedevano agli acquirenti solo una piccola quota (il 10%) della somma da investire e di saldare il resto a rate, ma trattenevano i titoli acquistati, che cedevano in garanzie alle banche per ottenere nuovi prestiti e continuare la loro attività. Da parte loro, le holding, che possedevano azioni, spinsero verso l’alto il valore delle azioni anche con pratiche scorrette come l’aggiotaggio (diffusione di notizie false per provocare il rialzo o la diminuzione del prezzo dei titoli quotati in borsa). Normalmente, un investitore acquista azioni in Borsa per ottenere il “dividendo”, ossia la quota di utile che gli spetta ogni anno in remunerazione del capitale investito. Talvolta, se il valore delle azioni sale, egli può approfittare dell’occasione e vendere quelle in suo possesso, realizzando un capital gain ossia un guadagno sul capitale investito, dato dalla differenza fra il prezzo di vendita e il prezzo di acquisto. Quando il prezzo delle azioni continua a crescere per un periodo abbastanza lungo, molti investitori sono indotti ad acquistarle nella speranza di vedere la loro quotazione crescere ancora e rivenderle con profitto. Se il prezzo delle azioni continua ad aumentare, il guadagno è assicurato e la speculazione si scatena. Ma tutti sanno che il valore delle azioni, siccome dipende dal dividendo che sono in grado di assicurare, non può crescere all’infinito. E allora perché continuano ad acquistarle? Perché immaginano di venderle prima che il loro valore cominci a diminuire. Quando il prezzo delle azioni comincia a scendere per mancanza di acquirenti, all’euforia succede il panico e tutti si precipitano a vendere i titoli azionari per ridurre il danno prima che il prezzo cali ulteriormente. Ma la loro decisione di vendere fa diminuire ancora più velocemente la quotazione delle azioni. Il crollo si arresta solo quando il prezzo si stabilizza attorno al valore reale delle azioni che è rapportato al dividendo che sono in grado di assicurare. Il meccanismo appena descritto è quello della speculazione di Wall Street del 1929, che presentò le stesse caratteristiche di tutte le speculazioni che l’avevano preceduta e che si ritroverà in quelle che la seguiranno. Qualche sintomo di crisi si avvertì già a maggio, quando la diminuzione dei prezzi del rame e dell’acciaio lasciò prevedere un calo del valore dei titoli che riguardavano questi rami dell’industria. Ma economisti, banchieri e uomini di industria facevano a gara ad infondere ottimismo e a sostenere che la Borsa sarebbe salita ancora. Invece, la mattina del 24/10/1929 furono messe in vendita quasi 13 milioni di azioni e la loro quotazione scese di colpo. Dopo una pausa, il venerdì, dal lunedì successivo il prezzo dei titoli continuò a precipitare, facendo segnare, martedì 29, un altro giorno nero (martedì nero), quando furono offerti in vendita ben 33 milioni di titoli. Era il panico e tutti si precipitarono a vendere a metà novembre l’indice delle azioni era caduto a 198. In poco tempo aveva perso il 48% e continuò a diminuire fino al minimo di 41 nel luglio 1932. Chi aveva investito i suoi risparmi fu rovinato, così come lo furono parecchie banche e istituzioni finanziarie che avevano concesso prestiti agli speculatori o avevano esse stesse investito grosse somme in borsa. Il pubblico dei piccoli investitori, che non comprendeva i meccanismi della speculazione sui titoli e che credeva di aver trovato un modo semplice per arricchirsi, si sentì vittima di una colossale truffa e perse fiducia negli economisti e nei banchieri. 21.5 LA DEPRESSIONE NEGLI USA E IN EUROPA La crisi di Borsa, tuttavia, non spiega del tutto la depressione successiva. Una crisi borsistica rovina sicuramente molti risparmiatori poco previdenti e parecchie banche che rischiano il denaro dei depositanti (con danno anche per questi ultimi), ma se l’economia è sana, la crisi viene presto riassorbita, com’è sempre avvenuto prima e dopo il 1929. Viceversa, l’economia americana e quella mondiale soffrivano degli squilibri prima ricordati, che si acuirono quando la sovrapproduzione latente divenne palese in tutti i settori e molti prodotti non riuscirono più ad essere collocati sul mercato. La crisi di sovrapproduzione (o di sottoconsumo) fu aggravata dalla speculazione borsistica solo in modo indiretto: a) fallirono numerose banche e molti risparmiatori persero i loro depositi; b) le banche ridussero il credito alle imprese, facendole fallire; c) si contrasse la domanda di beni e servizi, tenutasi elevata durante la fase speculative anche per gli accresciuti consumi di chi aveva guadagnato in Borsa. La depressione fu molto grave e durò a lungo. In pochi anni la produzione industriale americana si ridusse notevolmente e gli investimenti crollarono. La produzione automobilistica che aveva un ruolo trainante nell’economia oltreoceano, diminuì del 75% in tre mesi. Le banche non riuscirono a recuperare i prestiti concessi alle imprese e fallirono in migliaia. Il governo dovette intervenire per salvare quelle più solide, acquisendone anche i pacchetti azionari (successivamente rivenduti sul mercato) e sottopose la Borsa l controllo di un apposito ente, la SEC (security exchange commission). Nemmeno l’agricoltura, che già soffriva di bassi prezzi, fu risparmiata, anche se la produzione di generi alimentari di contrasse giacché bisogna pur continuare ad alimentarsi. I prezzi crollarono del 57% e provocarono la rovina di molti agricoltori. L’introduzione delle macchine agricole, inoltre, espelleva manodopera. Dagli USA la depressione si diffuse in altri paesi tramite gli scambi internazionali e per il ruolo predominante che quel paese aveva nell’economia mondiale. Inoltre, molti capitali americani erano stati investiti in Europa, soprattutto in Germania, che fu il paese più colpito. L’Unione Sovietica non fu toccata dalla crisi perché si era chiusa in sé stessa per realizzare l’economia pianificata. in Germania la crisi assunse le caratteristiche di una crisi bancaria. Dal punto di vista politico la Repubblica di Weimar era fragile ed instabile, con una lunga serie di governi che si succedettero in pochi anni; dal punto di vista economico si era venuto a creare un legame molto stretto tra banche e imprese. Inoltre, dopo il crollo di Wall Street, il richiamo dei capitali che erano stati prestati alla Germania aumentò notevolmente per timore che la crisi potesse estendersi. I tedeschi ebbero difficoltà a pagare, ma furono salvati dalla moratoria Hoover che sospese tutti i pagamenti. LE POLITICHE CONTRO LA DEPRESSIONE 22.1 IL DEFICIT SPENDING Per uscire dalla depressione, i Paesi colpiti adottarono quasi tutti politiche ispirate ai principi keynesiani che prevedevano un maggiore intervento dello stato in economia. I governanti però tardarono ad intervenire con decisione perché erano legati alle concezioni economiche liberali, secondo le quali un’ingerenza dello stato in economia era ritenuta dannosa e avrebbe finito per aggravare la crisi. Gli economisti che seguivano l’ortodossia liberale erano convinti che il mercato sarebbe riuscito da solo a riassorbire la crisi ea ristabilire l’equilibrio economico. Lo Stato si sarebbe dovuto limitare ad assicurare una moneta sana e un bilancio statale in pareggio. Per contrastare la diminuzione dei prezzi si cerò di ostacolare le importazioni, in particolar quelle dei prodotti alimentari, ricorrendo a un inasprimento della politica protezionistica. Negli USA la legge Hawley-Smoot (1930) aumentò i dazi d’importazione provocando reazioni di rappresaglia da parte degli altri paesi. La GB aumentò le tariffe doganali (1931), ma firmò con i paesi del Commonwealth gli accordi di Ottawa (1932), che introdussero la c.d. preferenza imperiale, ossia dazi ridotti sugli scambi reciproci. In sostanza, si venne a creare uno spazio commerciale comune con cui le merci potevano circolare più facilmente e la GB si legò maggiormente alle sue colonie o ex colonie, verso le quali era diretta la metà delle sue esportazioni e dalle quali riceveva il 40% delle importazioni mentre si riduceva la quota degli scambi commerciali. Anche la Francia e il Giappone incrementarono gli scambi con i loro possedimenti e cercarono di far fronte alla crisi stringendo rapporti commerciali più intensi all’interno delle aree che controllavano. In generale, si può affermare che ogni paese cercò di uscire dalla crisi da solo, senza che si giungesse ad alcuna forma di cooperazione internazionale, anzi ognuno tentò quando possibile, di risolvere i propri problemi a discapito di altri paesi (beggar thy neighbour riduci in miseria il tuo vicino). I risultati delle politiche liberiste non furono soddisfacenti, soprattutto per l’occupazione, e negli USA costarono la presidenza al repubblicano Hoover, che perse le elezioni a vantaggio del democratico Roosevelt (1933). Le imprese cercarono di ridurre i costi di produzione, anche con la diminuzione dei salari. Quando nemmeno così riuscirono a vendere le loro merci con profitto furono costrette a ridurre la produzione licenziando operai o riducendo l’orario di lavoro. I governi si convinsero con ritardo che una crisi di sovrapproduzione e la forte disoccupazione che ne scaturiva non si potevano contrastare con politiche restrittive. Era necessario sostenere la domanda globale dei prodotti, sia interna che internazionale. La domanda interna fu sostenuta dai governi in vario modo, in particolare con la politica del deficit spending (spesa in disavanzo), che si rifaceva alle teorie di Keynes. Lo Stato era invitato ad abbandonare l’idea dell’economia classica che imponeva un bilancio in pareggio, ma veniva stimolato a spendere comunque, in modo da sostituire l’insufficiente domanda privata con la domanda pubblica. Furono avviati dappertutto grandi lavori pubblici che assicuravano un salario ai lavoratori. 22.2 LE SVALUTAZIONI COMPETITIVE Il sostegno alla domanda globale interna non bastava specialmente per certi prodotti. Era necessario quindi stimolare la domanda estera, che poteva essere sostenuta solo con le svalutazioni competitive ribasso dei prezzi espressi in valuta estera attraverso la svalutazione della propria moneta. La prima nazione industrializzata costretta a svalutare la propria fu la GB. Siccome alcuni paesi, come Francia, Belgio, Olanda e svizzera evevano deciso di cambiare in ore le riserve che detenevano in I germi della Seconda guerra mondiale erano sostanzialmente contenuti nei trattati di pace della Grande guerra, che non seppero dare un assetto stabile all’Europa e lasciarono in giro insoddisfazione e spirito di rivincita. Molto più della prima, questa fu una guerra “mondiale”, perché coinvolse il 90% dei popoli della Terra e provocò danni enormi, specialmente a causa dei bombardamenti aerei che distrussero città, porti e impianti industriali. Questa volta la guerra fu preparata e scoppiò nel 1939 e terminò nel 1945. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, la Francia e la GB dichiararono guerra alla Germania; in seguito furono coinvolti molti altri paesi, soprattutto USA e Russia che si schierarono contro la Germania, e Italia e Giappone che invece si allearono ad essa. Questa volta la guerra fu di movimento, con gli eserciti che si affrontarono in Europa, Asia e in Africa, e con la lotta portata non solo sui mari, ma anche nei cieli. La capacità produttiva dei belligeranti fu determinante e la produzione industriale crebbe enormemente, assorbendo completamente la disoccupazione. L’organizzazione dell’economia di guerra fu accuratamente preparata. Gli Alleati attuarono nuovamente il blocco navale contro la Germania, che rispose con una guerra sottomarina molto dura. Si dovette di nuovo far ricorso al razionamento di benzina e dei generi alimentari. Le città soffrirono di fame mentre nelle campagne la produzione agricola riusciva a soddisfare le esigenze minime degli abitanti. Com’è ovvio, il mercato nero fu particolarmente fiorente, la produzione agricola diminuì dappertutto per la mancanza dei pezzi di ricambio delle macchine agricole e per l’insufficienza dei concimi chimici. Gli USA, non subendo la guerra sul proprio territorio, poterono sfruttare al massimo la loro capacità produttiva. Il sistema della produzione in serie si rilevò particolarmente adatto per fabbricare grandi quantità di armi, carri armati, aerei e persino navi. L’evoluzione tecnica subì una forte accelerazione in tutti i campi, ma soprattutto in quello della chimica. Fu inventato il radar e si portarono avanti le sperimentazioni sui razzi e sull’utilizzazione dell’energia atomica. Il costo della guerra fu almeno 5 volte superiore a quello della prima GM e fu finanziato allo stesso modo di allora con imposizione fiscale, debito pubblico, prestiti fra Alleati e massiccia emissione di biglietti da banca. La guerra arricchì i paesi lontani dai campi di battaglia, che poterono continuare indisturbati la loro attività produttiva per rifornire gli eserciti. L’Europa e il Giappone uscirono dal conflitto stremati, ma furono in grado di riprendersi velocemente. PARTE TERZA L’ECONOMIA CONTEMPORANEA (1950-2017) UNA NUOVA RIVOLUZIONE – I PROBLEMI DEMOGRAFICI 23.1 I CARATTERI DELL’ECONOMIA CONTEMPORANEA Dopo la Seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di nuove trasformazioni chiamato terza rivoluzione industriale trasformazioni più profonde rispetto a quelle delle altre due rivoluzioni, acceleratasi con l’avvento dell’informatica. Gli anni dalla fine della guerra ai nostri giorni hanno visto una crescita senza precedenti dell’economia mondiale, come dimostrano gli indicatori riportati in tabella. Di fronte ad un incremento della popolazione mondiale, che è cresciuta, tra 1955 e il 2014, di 2,6 volte, si registra un incremento molto più consistente delle principali produzioni alimentari. Anche la produzione di molte materie prime è cresciuta più della popolazione, mentre particolarmente consistente è stato l’incremento produttivo dell’energia elettrica e dei fertilizzanti azotati. È evidente che le risorse a disposizione dell’umanità sono notevolmente aumentate, al contrario di quanto aveva ipotizzato Malthus a proposito del rapporto fra mezzi di sussistenza e popolazione. Purtroppo, esse non sono equamente distribuite fra i popoli della Terra, sicchè vi sono molte nazioni che soffrono la fame e altre che sprecano le derrate e i beni di cui possono disporre. La crescita si può dividere in 2 fasi: una vigorosa espansione e una successiva di rallentamento, anche se non generalizzato. Dopo la guerra fu necessario procedere alla ricostruzione economica dei paesi coinvolti nel conflitto, molti dei quali avevano subito parecchie distruzioni sul loro territorio, e riconvertire la produzione bellica in produzione per il tempo di pace. Questa volta non furono richieste riparazioni, ma i paesi usciti vincitori dalla guerra aiutarono alleati ed ex nemici nello sforzo della ricostruzione, realizzata in poco tempo. Intanto, venivano gettate le basi per una più solida convivenza fra le nazioni, fondata anche sull’incremento degli scambi internazionali. Effettuata rapidamente la ricostruzione, l’economia di quasi tutti i paesi del mondo, specialmente di quelli industrializzati, conobbe una lunga fase di sviluppo come non si era mai registrata prima di allora, che durò almeno un quarto di secolo. Si trattò di un periodo di elevata crescita economica e di grandi conquiste tecnologiche, che consentirono di mantenere una popolazione in continuo aumento. A partire dagli anni 70 del 900, l’economia mondiale rallentò senza però esaurirsi, anzi molti paesi asiatici, fra i quali spiccano la Cina e l’India, fecero registrare una crescita straordinaria e un miglioramento delle condizioni di vita. Un’altra caratteristica fu la contrapposizione fra due modelli economici: l’economia di mercato e l’economia pianificata. I paesi che si rifacevano all’economia libera di mercato erano gli USA, l’Europa occidentale e il Giappone, nonché altri paesi ad essi collegati, come quelli del Commonwealth, quasi tutta l’America Latina e molte ex colone europee. L’economia pianificata, già realizzata in Unione Sovietica, si diffuse nell’Europa orientale, in Cina e in qualche altro paese asiatico e latino-americano. Si trattò di una vera sfida tra sistemi economici e politici diversi, condotta sotto la guida delle due superpotenze dell’epoca, gli USA e la Russia, che difendevano e cercavano di imporre il loro modello. Il crollo dell’economia pianificata segnò il predominio dell’economia di mercato. 23.2 L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA La popolazione mondiale non è mai cresciuta come negli ultimi 70 anni. Essa, fra il 1950 e il 2017 si è triplicata, passando da 2.6 a 7.6 miliardi. Forse non si riflette mai abbastanza su tale fenomeno e sul fatto h la popolazione è destinata a crescere ancora, con i problemi che ciò comporterà la pacifica convivenza fra i popoli e per assicurare un’equa ripartizione delle risorse del Pianeta e un tenore di vita dignitoso a tutti gli esseri umani. La crescita demografica più consistente fu realizzata dall’Africa e quella più modesta dall’Europa. Il peso della popolazione europea è continuato a diminuire. I tassi di natalità e mortalità sono diminuiti dappertutto. Il regime demografico moderno si è ormai affermato nella maggior parte delle nazioni del mondo. La vita media si è portata agli 80 anni. Sia i paesi con un alto numero di anziani, sia quelli con una popolazione molto giovane devono mantenere classi di età non produttive o poco produttive. Il nucleo familiare ha subito profonde modifiche, la famiglia del XXI secolo è composta mediamente da 3 unità. Le cause del forte incremento demografico vanno ricercate principalmente nei progressi della medicina e della chirurgia e nelle campagne di prevenzione contro le malattie. Le principali novità in campo medico hanno riguardato la diffusione di nuovi medicinali, come gli antibiotici e i chemioterapici. Ma importanza forse maggiore hanno avuto il progresso della chirurgia e trapianto organi. Nei paesi industrializzati si è registrato dapprima un calo della mortalità e solo successivamente una diminuzione del tasso di natalità, viceversa, si è verificata una diminuzione del tasso di mortalità, per effetto della diffusione dei farmaci e delle cure mediche, senza che vi fosse un deciso miglioramento delle condizioni di vita senza un consistente calo del tasso di natalità. 23.3 URBANESIMO E GRANDI MIGRAZIONI Una delle conseguenze dell’incremento demografico è stato l’ulteriore espansione dell’urbanesimo. Negli ultimi tempi si erano formate enormi agglomerazioni urbane. Le migrazioni hanno assunto nuove caratteristiche. Con l’entrata in funzione della Comunità economica Europea (1958) vi fu una forte corrente migratoria dei paesi del Mediterraneo verso quelli dell’Europa centrale e settentrionale che durò fino agli anni 70. Un gran numero di emigranti italiani, La rivoluzione industriale, come si è sviluppata dalla metà del 700, si è basata dapprima sul carbone e poi sul petrolio e sul gas naturale. L’economista americano Rifkin, riferendosi alle diverse fonti di energia utilizzate e alle tecnologie da esse consentite, ha di recente proposto di distinguere fra: a. Prima rivoluzione industriale, (durata fino a tutto il secolo XIX) fondata sul carbone e sulla macchina a vapore b. Seconda rivoluzione industriale, sviluppatasi nel XX secolo, basata su petrolio e motore a scoppio c. Terza rivoluzione industriale che non si fonderà + sui combustibili fossili, ma sulle fonti di energia rinnovabili, dalle quali si potrà ricavare energia elettrica necessaria alle attività produttive I combustibili fossili hanno una quantità limitata, sicchè un sistema economico imperniato su di loro non può durare ancora per molto tempo. Oggi, però, quasi tutte le attività economiche sono dipendenti da combustibili fossili, il cui utilizzo è la principale causa del surriscaldamento del pianeta. Per queste ragioni si è preso coscienza della necessità di ricorrere a fonti energetiche rinnovabili, il cui costo di produzione tende costantemente a diminuire per via della evoluzione tecnologica. Queste sono alla base di quella che si chiama economia verde (green economy). Si prevede in particolare che la diffusione delle cellule fotovoltaiche possa fare di ogni edificio un mini-impianto di produzione. Nel campo dei trasporti, i veicoli elettrici sostituiranno i motori a scoppio. La nuova rivoluzione che si annunzia presenta alcune caratteristiche del tutto originali. I combustibili fossili si trovano solo in determinati luoghi del pianeta e ciò ha provocato numerosi conflitti per il loro controllo. Inoltre, è stato necessario creare grandi e complesse imprese per il loro sfruttamento, in grado di realizzare consistenti economie di scala. Viceversa, il sole, il veto e le altre fonti di energia rinnovabili sono presenti quasi ovunque e sono per la maggior parte gratuite e il loro sfruttamento può essere affidato a imprese più piccole, evitando così un’eccessiva concentrazione di potere in poche mani. Inoltre, l’energia elettrica prodotta con le cellule fotovoltaiche degli edifici potrà essere condivisa con gli altri consumatori attraverso una rete intelligente, basata sulle tecnologie informatiche. In tal modo, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le fonti di energia rinnovabili sono in grado di dare inizio alla terza rivoluzione industriale di Rifkin. Va osservato che il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili richiederà ancora del tempo, durante il quale esse saranno utilizzate assieme ai combustibili fossili, anche perché la produzione, la trasformazione e la distribuzione di tali combustibili danno lavoro a un enorme numero di persone e attorno ad essi si concentrano interessi enormi. 24.5 LA TERZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA L’elemento che maggiormente ha caratterizzato questo periodo è stato lo sviluppo del settore terziario, diventato il settore predominante dell’economia si parla di terziarizzazione dell’economia, di deindustrializzazione o anche di società post-industriale. Una delle conseguenze dello sviluppo economico e della terziarizzazione dell’economia è stata la maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro, non solo nei paesi avanzati, ma anche in quelli in via di sviluppo. Il settore terziario ha messo a disposizione delle persone, delle imprese e delle istituzioni una vasta gamma di servizi che si sono aggiunti a quelli precedenti e sono andati sempre più aumentando. I principali sono: • Commercio interno ha cambiato aspetto dalla metà del XX secolo. Fino ad allora nei principali paesi sviluppati continuarono a prevalere modesti negozi al dettaglio, presenti in ogni piccolo paese e nei rioni delle grandi città, nonostante si stessero diffondendo i grandi magazzini, i negozi con molte succursali e numerose cooperative di vendita. La necessità di adattare il commercio alla produzione di massa e alle accresciute dimensioni delle città portò alla rapida diffusione dei supermercati. • Commercio estero dopo le difficoltà degli anni 30 fu agevolato da una politica di libero scambio, dal ripristino di un sistema di cambi fissi e dalla costituzione di organizzazioni internazionali. • Il sistema bancario ha subito profonde trasformazioni; le banche estesero la loro attività a una vasta gamma di servizi rivolti a molti soggetti, come le famiglie. Il processo di concentrazione portò alla formazione di grandi gruppi bancari in tutti i paesi e fu accelerato dalla globalizzazione dei mercati. La concorrenza si fece mondiale e, per seguire le imprese multinazionali loro clienti, le banche aprirono filiali all’estero diventando esse stesse delle multinazionali. Un’altra novità fu la despecializzazione. La netta distinzione fra banche commerciali o di deposito e banche d’affari o d’investimento, introdotta durante la depressione degli anni 30, fu superata negli anni 60-70 quando cominciò a diffondersi la banca universale, ossia un tipo di azienda di credito in grado di servire qualsiasi servizio ai clienti. Si diffuse la carta di credito e quindi la moneta elettronica. • Il turismo diventò di massa una volta aumentato il reddito familiare e l’aumento di tempo libero, grazie all’introduzione delle ferie pagate ai lavoratori dipendenti, si potè accedere al piacere di viaggiare. Fu solo nel secondo dopoguerra che il turismo divenne un fenomeno di massa e acquistò un notevole rilievo economico, quando per gli spostamenti si utilizzarono l’aeroplano e l’automobile. I movimenti di valuta determinati dai flussi turistici influenzarono le bilance dei pagamenti dei singoli stati, sia di quelli che accoglievano turisti, sia di quelli da cui essi partivano. La gestione di flussi turistici richiese l’intervento dei tour operator, società capaci di organizzare viaggi e soggiorni in ogni parte del pianeta. Grande rilievo economico ha avuto anche il turismo interno. LA RICOSTRUZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE 25.1 GLI ACCORDI POLITICI: YALTA E ONU I danni della guerra all’apparato industriale dei paesi che avevano subito bombardamenti o sul cui territorio si era combattuto si mostrarono subito inferiori a quanto fosse potuto sembrare. Le distruzioni maggiori erano state inferte alle infrastrutture e alle abitazioni, che furono presto riparate, consentendo a molte industrie di riprendere a lavorare a pieno ritmo. Ancora prima della fine del conflitto, gli Alleati cominciarono a progettare l’economia mondiale del dopoguerra, con l’obiettivo di sviluppare la cooperazione internazionale, che era mancata durante il periodo precedente e aveva reso difficile la fuoriuscita dalla depressione degli anni 30. Nel campo economico, il problema era evitare la sovrapproduzione e la disoccupazione. Bisognava equilibrare la produzione e regolare gli scambi internazionali. Furono tenuti diversi incontri e stipulati alcuni trattati che gettarono le basi del nuovo ordine politico ed economico mondiale: nel 1944 furono firmati gli accordi di Bretton Woods, nel 1945 si svolse la conferenza di Yalta e fu costituita a San Francisco l’ONU e nel 1947 furono stipulati gli accordi per il commercio internazionale (Gatt). Le intese più politiche furono quelle di Yalta e San Francisco. Alla conferenza di Yalta (1945) si incontrarono il presidente degli USA Roosvelt, il primo ministro britannico Churchill e Stalin per l’URSS. La conferenza portò alla divisione del mondo in due zone di influenza: americana e sovietica, si estese dall’Europa quella che Churchill chiamò “cortina di ferro” ed era iniziata la cosiddetta Guerra Fredda. La Germania fu divisa in 2 stati: a ovest la Repubblica Federale Tedesca, a est la Repubblica Democratica Tedesca. Berlino fu divisa in 4 zone: una controllata dai sovietici e le altre 3 dagli americani. Nel 1961, siccome molti tedeschi dell’Est continuavano a fuggire in Occidente attraverso Berlino, le autorità della Germania orientale fecero erigere un lungo muro che divise in due la città e che rimase in piedi per quasi 30anni (1989). A San Francisco (1947) nacquero le Nazioni Unite, con lo scopo di mantenere la pace e la sicurezza, realizzare la cooperazione internazionale in campo economico, sociale, culturale ed umanitario e promuovere il rispetto delle libertà fondamentali e dell’uomo. I paesi aderenti all’ONU aumentarono progressivamente fino a comprendere tutti gli stati indipendenti della Terra. Le Nazioni Unite, che hanno sede a New York , non sempre riuscite a svolgere in pieno la loro missione, per i 5 paesi vincitori della guerra che si riservarono il “diritto di veto”. 25.2 GLI ACCORDI ECONOMICI: BRETTON WOODS E GATT A Bretton Woods (USA) i rappresentanti di 44 paesi ripristinarono, nel 1944, un sistema monetario internazionale basato sui cambi fissi. Si diede vita a un nuovo gold exchange standard con una sola moneta convertibile in oro, il dollaro statunitense, secondo il rapporto di 35 dollari per un’oncia d’oro fino. Il dollaro, come stabilito nel 1936, poteva essere cambiato in oro soltanto alle banche centrali degli altri paesi e non ai cittadini o le altre banche. Ogni paese doveva definire in oro la propria moneta, dichiarandone la parità ossia il quantitativo di oro corrispondente all’unità monetaria, in modo da poter determinare il cambio fra tutte le monete in base al rapporto con l’oro. La parità doveva oscillare entro una banda dell’1% in più o meno ed era compito delle banche centrali d’intervenire sul mercato dei cambi per assicurare il rispetto di tali limiti. Ciò voleva dire che, se in determinato paese vi era abbondanza di moneta straniera e il suo prezzo (cambio) scendeva, la banca centrale doveva acquistarla (con moneta nazionale che doveva stampare) per bloccarne la discesa; viceversa, se una moneta straniera era molto richiesta e il suo valore tendeva a salire, la banca centrale doveva vendere quella in suo possesso per frenarne il rialzo. Quando la banca centrale non possedeva una sufficiente quantità di valuta straniera poteva attingere al Fondo Monetario Internazionale (Fmi), istituito proprio per assicurare la stabilità dei cambi. Per attuare il nuovo sistema monetario internazionale fu necessario procedere alla ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra e soprattutto al risanamento delle monete screditate dall’inflazione. Solo quando le monete furono stabilizzate, verso la fine degli ani 40, e i paesi furono in grado di difendere la parità prefissata, il nuovo sistema monetario internazionale cominciò a funzionare in pieno. Un altro organismo sorto a Bretton Woods fu la Banca Mondiale (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, Birs), che era stata istituita per finanziare la ricostruzione postbellica. Siccome molti di essi furono sostenuti dagli aiuti del Piano Marshall, la Banca si dedicò al finanziamento dei paesi sottosviluppati. A Ginevra, nel 1947, 23 paesi firmarono il General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt). Si voleva creare un’Organizzazione internazionale del commercio (International Trade Organization, Ito), da affiancare al Fondo monetario e alla Banca mondiale. In attesa di realizzare quest’obiettivo, si diede vita a un accordo provvisorio, denominato Gatt che invece durò mezzo secolo, perché il Congresso degli USA non approvò mai il trattato istitutivo dell’Ito. Il Gatt era un semplice trattato multilaterale, privo di una propria struttura organizzativa, che richiedeva estenuanti negoziati per giungere ad accordi che vincolassero i paesi che li avevano sottoscritti. Il Gatt si proponeva come obiettivo la fine degli accordi bilaterali, che avevano regolato gli scambi fra le due guerre e l’affermazione della multilateralità nei rapporti commerciali internazionali, mediante l’applicazione della clausola della nazione più favorita e la progressiva riduzione delle barriere doganali. Nel corso della sua esistenza si tennero diversi lunghi negoziati o round, alla fine dei quali si giungeva alla riduzione dei dazi su una serie di prodotti con il tempo, il Gatt si occupò anche di rimuovere ostacoli di tipo regolamentare che limitavano gli scambi internazionali ed estese la sua attività al settore dei servizi. Il primo accordo (1947) stabilì la riduzione dei dazi su 45.000 voci. Vi furono 8 cicli di trattative, i più importanti furono gli ultimi 3: il Kennedy Round, il Tokyo Round e l’Uruguay Round. Al paesi europei. Ai nostri giorni queste spese assorbono, negli stessi paesi il 65-70% della spesa pubblica complessiva, centrale e locale. I costi del Welfare divennero enormi, anche per molti sprechi cui il sistema diede luogo in diversi paesi. I governi furono costretti ad aumentare la pressione fiscale e dovettero ricorrere all’indebitamento, facendo lievitare il debito pubblico. ciò creò grossi problemi specialmente quando, con la fine della fase di espansione economica, vi furono meno risorse finanziarie a disposizione. Perciò il Welfare entrò in crisi e si dovettero ridurre alcune prestazioni, per esempio in materia pensionistica e sanitaria. DALLA GOLDEN AGE ALLA CRISI 26.1 LA GOLDEN AGE Con l’espressione “golden age” gli storici fanno riferimento a quel lungo periodo di crescita economica continua e stabile, che riguardò tutti i paesi sviluppati e andò dal 1950 al 1973, che presenta le caratteristiche di una nuova fase a del ciclo di Kondratieff. Si trattò di una vera età dell’oro, che riguardò i paesi sviluppati, mentre il divario con i paesi più arretrati si andava allargando, nonostante gli sforzi delle nazioni prospere di fornire aiuti economici al cosiddetto Terzo Mondo (termine coniato nel 1952 che cominciò ad essere utilizzato dopo la conferenza di Bandung (Indonesia, 1955) per indicare quei paesi che non vollero identificarsi né con i paesi capitalistici (Primo Mondo) né con i paesi socialisti (Secondo Mondo),l’espressione finì poi per indicare i paesi sottosviluppati. Nell’età dell’oro, la crescita del Pil pro-capite raggiunse livelli mai registrati prima, soprattutto nelle nazioni uscite sconfitte dalla guerra (Giappone, Germania e Italia). Se si fa uguale a 100 il Pil pro- capite del 1950 dei principali paesi, il Giappone, la Germania e l’Italia riuscirono a raddoppiarlo in appena 10 anni (entro 1960-63), mentre USA e GB impiegarono più di 30 anni (1984-85). Al tempo della seconda rivoluzione industriale erano stati necessari tempi molto più lunghi: USA e Germania avevano raddoppiato il Pil pro-capite del 1850 in 40anni, mentre GB, Francia, Giappone e Italia ne impiegarono oltre 60. La rincorsa iniziata 2 secoli prima era terminata. Intorno al 1990, i principali paesi industrializzati europei erano più o meno allineati alla GB, mentre gli USA erano diventati la principale potenza economica mondiale. Era ad essi che orai gli altri paesi dovevano guardare e nei confronti dei quali esercitare l’azione di catching up, che finora non è riuscita ad alcuna grande nazione. Dopo un avvicinamento, la crisi iniziata nel 2008 provocherà una nuova divaricazione fra le economie di questi paesi. La nuova contrapposizione era fra gli USA da un lato e l’Unione Sovietica e il Giappone dall’altro. Con l’Unione Sovietica si trattò di un confronto politico, ideologico, militare e anche tecnologico. Il tenore di vita dei russi rimase mediamente sempre molto più basso di quello degli americani e il pil pro-capite giunse a poco più di 1/3 di quello americano. Il Giappone risultò viceversa un temibile avversario economico. La crescita riguardò tutti i settori. I beni a disposizione dell’uomo aumentarono diffusione del consumismo. Si diffusero i beni di consumo durevoli prodotti di serie, come le automobili, elettro domestici e televisori, che poterono essere venduti a un gran numero di persone (pagamento a rate). Erano il fordismo e il taylorismo che ormai dagli USA si diffondevano nelle nazioni più progredite. Il commercio internazionale riprese a pieno ritmo e fece registrare un forte incremento, grazie alla scelta di quasi tutti i paesi di passare al libero scambio grazie al perfezionamento dei mezzi di trasporto. Le merci cominciarono a viaggiare, negli anni 60, in pratici “containers” che possono essere trasportati su navi, treni e autocarri, con un notevole abbattimento dei cost. Le imprese multinazionali crebbero di numero e dispiegarono la loro capacità produttiva e di vendita nei principali paesi. La produttività consentì soddisfacenti margini di profilo alle imprese, anche senza che esse fossero costrette ad alzare i prezzi e persino quando dovettero aumentare i salari. 26.2 I FATTORI DELLA CRESCITA La rapida crescita economica del dopoguerra fu dovuta a numerosi fattori: • Disponibilità di una tecnologia pronta ad essere utilizzata, grazie all’accumulo di innovazioni tra le due guerre mondiali che non si erano diffuse a livello internazionale, prima per la crisi economica e il protezionismo e poi per la guerra. Alla fine del conflitto molti paesi poterono attingere a questo serbatoio di innovazioni disponibili, mentre la tecnologia faceva passi giganteschi. La frontiera della tecnologia si spostava sempre più avanti e riguardava tutti i campi, dalla medicina all’agricoltura, dall’industria ai mezzi di trasporto. • Ruolo dello stato. In diversi paesi si registrò una forte presenza del settore pubblico, che da solo concorreva alla formazione di una consistente quota del Pil. Lo Stato, che assunse il compito di stabilizzare la domanda e garantire l’occupazione, estese le sue funzioni: fu programmatore, produttore e consumatore di beni e fornitore di una vasta gamma di servizi e prodotti. In tal modo, ai consumi e agli investimenti privati si aggiunsero quelli pubblici e lo Stato contribuì a sostenere la domanda, anche per evitare il ripetersi di una situazione simile a quella degli anni 30. • Cooperazione internazionale. La cooperazione fra le nazioni, che era mancata nel periodo fra le due guerre mondiali, si sviluppò successivamente quando furono costruite numerose organizzazioni internazionali. Anche se non sempre funzionarono bene, esse riuscirono ad assicurare un clima di cooperazione fra le nazioni, con frequenti incontri di capi di stato e di governo. In Europa furono molto positivi gli effetti del processo d’integrazione economica, avviata con la costituzione del mercato comune. • Formazione del capitale umano. Quasi dappertutto si raggiunse un più elevato grado d’istruzione della popolazione e si riuscì ad abbattere l’analfabetismo. i paesi di antica industrializzazione, ma anche paesi meno sviluppati, impostarono vasti programmi di alfabetizzazione. Furono investite molte risorse per i cittadini, in modo da metterli nella condizione di inserirli nel mondo del lavoro. • Disponibilità di capitali e sistema di cambi fissi. L’economia potè giovarsi di un’abbondanza di capitali, che si potevano facilmente spostare da un paese all’altro, e del sistema dei cambi fissi inaugurato a Bretton Woods, co il dollaro divenuto la moneta dei pagamenti internazionali, che facilitò gli scambi. • Bassi prezzi delle materie prime e bassi salari, che consentirono di ottenere beni di consumo a costi contenuti. In particolare i bassi salari, dovuti all’abbondanza di manodopera, garantirono alle imprese per due decenni un costo del lavoro non elevato, specialmente nei paesi europei, dove si era realizzata con relativa facilità di movimento dei lavoratori grazie al Mercato comune. 26.3 LA CRISI: LA FINE DEL SISTEMA DEI CAMBI FISSI Il periodo di sviluppo economico che aveva caratterizzato il dopoguerra s’interruppe all’inizio degli anni ‘70. A livello mondiale, l’incremento del Pil pro-capite, che era stato dell’ordine del 2,9% all’anno fra il manodopera, mentre l’automazione industriale rendeva necessario un numero sempre più ridotto di addetti per produrre un numero sempre maggiore di beni. La tecnologia continuava a realizzare notevoli progressi. Gli economisti a tal proposito hanno parlato di jobless growth, cioè crescita economica senza creazione di nuovi posti di lavoro. 26.6 DAL FORDISMO AL POSTFORDISMO Lo stesso modello di sviluppo fordista cominciò ad evolvere verso un nuovo modello, quello postfordista. Il fordismo, caratterizzato da una produzione di massa, attuata mediante la catena di montaggio e assicurata dalla grande impresa, produceva per un mercato in continua espansione, alimentato dall’aumento del reddito delle famiglie. Il nuovo modello postfordista, invece, sperimentato dalla fabbrica giapponese Toyota, si proponeva di abbandonare la produzione basata sulla catena di montaggio (mass production) per passare alla “produzione snella” (lean production), più adatta alle mutate esigenze di mercato e in grado di sfruttare le nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Il modello fordista si era diffuso nel dopoguerra dagli USA all’Europa occidentale, al Giappone, al Canada, all’Australia e qualche paese asiatico. Esso si adattava particolarmente alla produzione di automobili, ma anche al comparto aeronautico, a quello degli elettrodomestici e dagli anni 50 ai televisori. A partire dagli anni ’70, il modello fordista entrò in crisi per diverse ragioni. Innanzitutto, la possibilità di realizzare economie di scala si stava esaurendo; la produzione infatti una volta spinta fino a sfruttare interamente gli impianti esistenti richiedeva la costruzione di nuovi impianti che sarebbero stati utilizzati solo in parte per le necessità aggiuntive dell’azienda. Ciò avrebbe provocato un aumento dei costi unitari e quindi avrebbe reso inefficaci le economie di scala. Inoltre, i mercati si stavano saturando e la domanda cominciava a diminuire, per stabilizzarsi a livelli più bassi. Si andò affermando allora il nuovo modello della produzione snella, che si fondava su una maggiore flessibilità collaborativa. Le grandi fabbriche fordiste non potendo realizzare ulteriori economie di scala fecero ricorso al decentramento e alla delocalizzazione: A. decentramento produttivo, consiste nell’affidare determinate operazioni o lavorazioni ad aziende più piccole, sulle quali scaricavano il rischio di impresa; si venne a costituire un complesso sistema di subforniture molto flessibile, che consentiva di aumentare o ridurre la produzione con una certa facilità: se gli affari fossero andati male, sarebbe stato il subfornitore a risentirne maggiormente fino al fallimento; B. Delocalizzazione, consiste nel trasferire alcune fasi del processo produttivo in paesi dove vi sono condizioni più favorevoli, in particolare bassi costi di manodopera e una tassazione contenuta. Ulteriori risparmi si realizzarono, per esempio, riducendo le scorte di magazzino, le quali, con i nuovi mezzi di comunicazione e trasporto, potevano facilmente essere fatte giungere just in time, poco prima della loro utilizzazione. Si applicarono diverse modalità lavorative, che portarono alla graduale riduzione del ripetitivo lavoro alla catena di montaggio, sostituito sul lavoro di gruppo e su una pluralità di mansioni affidate al dipendente. Diminuì la sicurezza sul posto di lavoro e i lavoratori furono costretti a cambiare spesso occupazione, sicchè divenne difficile per un individuo restare tutta la vira presso la stessa azienda o svolgere le stesse mansioni. In questo modello l’impresa divenne più leggera, agile, snella, capace di adattarsi alle variabili esigenze della produzione e della domanda. Un’altra caratteristica fu la costituzione di piccole e medie imprese, spesso concentrate in alcune zone, che assunsero le caratteristiche di distretti industriali (clusters industriali). Il modello fordista tuttavia non scomparve, fu esportato nei paesi in via di sviluppo dove era ancora possibile sfruttare le economie di scala e contare su una manodopera a buon mercato. Così il modello fordista ha continuato a funzionare in alcuni settori produttivi in Cina, in India e in altri paesi asiatici. NEOLIBERISMO E GLOBALIZZAZIONE 27.1 LE POLITICHE NEOLIBERISTE Con la svolta degli anni 70 si modificò il ruolo dello stato nell’economia. I liberisti avevano sempre sostenuto che il mercato sarebbe stato capace di risolvere autonomamente la crisi e perciò sostenevano che lo stato dovesse limitarsi alle funzioni essenziali, predisponendo un insieme di regole generali per tutelare la proprietà privata, assicurare il rispetto degli obblighi contrattuali, garantire la stabilità della moneta e favorite lo sviluppo di mercati liberi e aperti. A partire dalla grande depressione degli anni 30, le teorie liberiste non erano state giudicate idonee ad affrontare e risolvere i problemi delle complesse economie moderne. Keynes aveva fornito la giustificazione teorica all’intervento dello Stato e le sue teorie si affermarono dappertutto nel secondo dopoguerra. Secondo il suo pensiero l’intervento statale era l’unico modo per rimediare alle carenze del capitalismo e del mercato, e quindi di assicurare pieno impiego dei fattori produttivi. I governi attuarono gradualmente politiche ispirate alle teorie dell’economista inglese. Esauritasi la fase espansiva del dopoguerra, i neoliberisti ripresero il sopravvento sui keynesiani e riproposero le teorie sulla capacità del mercato di autoregolarsi. Negli anni 80, le politiche economiche ispirate a questa corrente di pensiero trovarono i loro più convinti sostenitori nel presidente degli USA, Regan (1981-89), e nel primo ministro britannico, Thatcher (1979-90), tanto che si parlo di reganismo o thatcherismo. In quegli anni, i governi erano principalmente preoccupati per l’inflazione e si affidarono alle idee dei monetaristi che insistevano sulla necessità di una moneta solida, anche se ciò comportava il ricorso a politiche monetarie restrittive. I neoliberisti, al contrario dei keynesiani che puntavano sul sostegno della domanda, proponevano una politica dal lato dell’offerta (supply-side), capace di garantire il funzionamento dei mercati e assicurare la crescita economica. Secondo questa teoria era necessario: • Attuare una deregolamentazione dei mercati (deregulation), rimuovendo norme e regolamenti che ne impedivano il libero funzionamento, come la fissazione dei salari minimi o i controlli sulle operazioni finanziarie; • Introdurre forti sgravi fiscali (diminuzione della spesa pubblica), nella convinzione che, riducendo le imposte da pagare, si sarebbe consentito ai ricchi di spendere di più e sostenere i consumi privati, anche se ciò avrebbe comportato un aumento delle disparità sociali, che i sostenitori del supply-side ritenevano un fenomeno del tutto temporaneo, perché alla fine il benessere si sarebbe progressivamente propagato dai ricchi alle altre categorie. E, infine, se Keynes aveva visto l’intervento dello Stato come una conseguenza del fallimento del mercato, i neoliberisti sottolineavano il fallimento dello Stato, che con il suo intervento impediva il libero funzionamento del mercato. Chiesero il drastico ridimensionamento della sua presenza nell’attività economica e con essa anche la revisione dell’impalcatura del Welfare State. Reagan sosteneva che lo Stato non era la soluzione dei problemi, ma che esso stesso era il problema. Quando però nel 2008-2009 esplose una nuova grave crisi, favorita dall’eccessiva libertà del mercato, in particolare quello finanziario, il prestigio dei neoliberisti sembrò incrinarsi e molti di loro reclamarono a gran voce l’intervento dello Stato. Si chiesero massicce iniezioni di denaro a sostegno delle imprese e delle banche in difficoltà e a favore dei redditi delle famiglie per sostenere i consumi., nonché nuove efficaci regole per garantire un più corretto funzionamento dei mercati. Negli anni precedenti, però, nonostante le politiche indicate dai neoliberisti, era stato possibile ridurre solo in parte la presenza dello Stato nell’economia. Se risultò abbastanza agevole liberalizzare i mercati e privatizzare parecchie banche e imprese, finite nelle mani dello Stato per i salvataggi degli anni 30 o con le nazionalizzazioni del dopoguerra, risultò molto più difficile contenere i costi del Welfare. Ormai i cittadini ritenevano una conquista irrinunciabile le prestazioni fornite dallo Stato e non ne avrebbero accettato la riduzione, specialmente in un periodo di crisi. I governi, perciò, per conservare tali servizi, dovettero indebitarsi ulteriormente e il debito pubblico non fece che crescere, creando non pochi problemi a parecchi paesi, che dovettero pagare interessi più elevati per collocare i loro titoli sul mercato. 27.2 LA GLOBALIZZAZIONE La ristrutturazione economica e le politiche neoliberiste adottate in seguito alla crisi degli anni 70 favorirono la globalizzazione dell’economia. Con questo termine, che s’iniziò ad utilizzare negli anni 80, fenomeno che ha portato alla formazione di un mercato mondiale dei fattori di produzione, dei prodotti, dei servizi e dei capitali. Ciò è stato reso possibile dal progresso tecnologico, in particolare nel campo dell’informazione e della comunicazione, che permette di effettuare transazioni finanziarie con immediatezza, e in quello dei trasporti, che consente di trasferire merci e persone a grande distanza a costi molto contenuti. La globalizzazione dei mercati non è un fenomeno del tutto nuovo. Per tacere dell’espansione dei traffici internazionali nei secoli XVI-XVII, si può ricordare che già dalla Bella Époque si era formato un vasto mercato mondiale di molti beni e servizi, oltre che di capitali e della manodopera. Sicuramente ai giorni nostri il fenomeno ha coinvolto un numero molto maggiore di paesi e non riguarda solo l’ambito economica, ma investe tutte le sfere della vita sociale, come la cultura, le istituzioni, le comunicazioni e la tecnologia. Ormai gli uomini di quasi tutto il mondo hanno accesso alle medesime informazioni, grazie alla rete, sicchè hanno gusti, preferenze, opinioni e modelli di comportamento molto simili. La globalizzazione economica è stata agevolata dal trionfo delle imprese multinazionali, le cui unità all’estero godono di un’ampia autonomia operativa (imprese transnazionali). La conseguenza è stata un’enorme intensificazione di scambi e di investimenti internazionali, che comportano una maggiore interdipendenza delle diverse economie in tal modo le decisioni assunte in qualsiasi punto del pianeta o gli avvenimenti che vi si verificano fanno sentire i loro effetti anche in luoghi molto lontani. Negli ultimi decenni, più di 2 miliardi di persone sono entrate nei circuiti del mercato; sono principalmente le classi medie dei paesi emergenti che hanno incrementato i loro consumi e crescono a ritmo elevato. Munite di una certa capacità di spesa, le classi medie costituiscono un elemento propulsivo allo sviluppo economico e sociale di ogni paese. Esse forniscono gli imprenditori che cercano posti di lavoro, sostengono la necessità di migliorare il capitale umano e di favorire il risparmio e spingono la classe politica a investire in beni pubblici fondamentali per lo sviluppo economico. La globalizzazione ha ricevuto consensi entusiastici e critiche violente. I suoi fautori ritengono che essa possa condurre a un mondo più ricco, libero ed equo, contribuendo a ridurre la distanza fra i
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