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DANIELE DOTTORINI – LA PASSIONE DEL REALE, IL DOCUMENTARIO O LA CREAZIONE DEL MONDO, Sintesi del corso di Estetica del Cinema

Riassunto dettagliato del libro La passione del reale di Dottorini

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 03/05/2021

AmbraBentri
AmbraBentri 🇮🇹

4.7

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Scarica DANIELE DOTTORINI – LA PASSIONE DEL REALE, IL DOCUMENTARIO O LA CREAZIONE DEL MONDO e più Sintesi del corso in PDF di Estetica del Cinema solo su Docsity! DANIELE DOTTORINI – LA PASSIONE DEL REALE, IL DOCUMENTARIO O LA CREAZIONE DEL MONDO INTRODUZIONE Lo sguardo della macchina da presa è stato al tempo stesso una presa del reale e una sua reinvenzione fantastica: da una parte i FRATELLI LUMIERE: sguardo documentario sulla realtà dall’altra GEORGES MELIES: simbolo del cinema come creazione di mondi fantastici ->il cinema dunque non ha una sola origine bensì due analogamente alla filosofia, come dice anche Alain Badiou, essa infatti nasce come parola poetica e in seguito come forma argomentativo- razionale Le linee lumiere/melies non sono in opposizione, bensì si intersecano. “postcinema” punto di connessione di elementi eterogenei (cinema, tv, editoria che coesistono nello stesso ambiente mediale). All’interno dell’impero della visibilità (=stato dell’immagine come violenza politica, immagine mediatica, pubblicitaria)– Mondzain, è giunto il momento di rovesciare la pretesa totalitaria dell’immagine, della visibilità che finisce per svuotare di senso le immagini per riconoscere che esiste ancora un bisogno di verità, una necessità che si incarna nel cinema del reale.  Parlare di CINEMA DEL REALE significa: raccontare le possibilità di una forma di cinema che raccoglie le istanze della tradizione dello sguardo documentario così come le capacità innovative del cinema sperimentale, nonché il desiderio affabulatorio del cinema narrativo  Un cinema animato da uno sguardo documentario che sperimenta forme e linguaggi  Un cinema animato da un bisogno di verità, o dall’esigenza della testimonianza: dalla necessità di fare dell’immagine una traccia  Cubitt: “c’est la vie meme, c’este le mouvement pris sur le vif” (=è la vita stessa, il movimento ripreso sul vivo) “vif”= si riferisce a ciò che della vita coglie il cinema “ il suo dinamismo” Deleuze ricorda che il documentario classico, rifiutando la finzione, scopriva nuove strade, conservava però un’ideale di verità che dipendeva dalla finzione cinematografica stessa. Nietzsche ha dimostrato che l’ideale del vero è la finzione più profonda. ->rivoluzione del cinema moderno: la rottura non è tra finzione e realtà, ma sta nella nuova modalità di racconto che riguarda entrambe. -> ciò che cambia, afferma Deleuze, è il modo in cui chi filma e chi è filmato entrano in un rapporto di finzione costitutiva, il cui obiettivo è quello però di mettere in gioco una nuova verità -> cinema-verité: cinema produttore di verità, non sarà però un cinema della verità, ma la verità del cinema Anni 50’ si inizia a registrare il suono in sincrono: i registi si liberano della costruzione classica dell’inquadratura. I corpi sono liberi di muoversi, ora è la macchina da presa a inseguirli. fine anni ’50: cinema diretto: cinema che si muove insieme ai corpi. obiettivo= rifamiliarizzare il cinema diventato ormai troppo artificioso, mescolandolo di nuovo al quotidiano RIFAMILIARIZZARE: accogliere la sfida di un reale che rimane un luogo sfuggente e opaco cinepresa si muove con il personaggio, vive con, accompagna= rende familiare il cinema DIRETTO: non significa naturale, il cinema è diretto in quanto si pone direttamente di fronte all’incertezza del reale, cercando ogni volta la forma attraverso la quale esporla anni 60’: Il punto di partenza è lo stupore, la meraviglia nei confronti del reale. Richard Leacock: regista degli anni ’60 il cui obiettivo è trasmettere nei suoi film la sensazione che ha provato vivendo alle Canarie. Il suo sguardo è dunque basato sulla ricerca di un’immagine capace di restituire l’esperienza di un evento che coinvolge chi filma e chi è filmato. -> il reale è ciò che si apre nella dimensione dell’evento e dell’incontro, incontro alla cui base deve esserci fiducia reciproca tra chi filma e chi è filmato. La parola nel cinema diretto non è più uno strumento per spiegare l’immagine, ma è il luogo in cui le immagini sono interpretate dialetticamente, in cui il rapporto tra suono e immagine ci introduce al mistero del soggetto e del mondo. Il montaggio non è più adibito solo all’organizzazione del racconto, ma configura uno spazio nuovo, poetico. Le inquadrature e le sequenze vengono accostate secondo nuovi criteri. Italia anni 60: documentario->forma ibrida->il Neorealismo si scontra con il ritorno della configurazione “forte” del racconto del cinema di fiction Cinema contemporaneo: indaga le nuove tecnologie digitali dell’immagine, incorporandole alle forme tradizionali. Es. Gagnon: usa criticamente i materiali del web 2.0 Herzog: usa il 3D Inoltre, il cinema contemporaneo si sbarazza completamente dell’ideale del vero. CAPITOLO 1: LA PASSIONE DEL REALE 1.1 DISCORSO SUL METODO L’obbiettivo del libro è di mostrare la fecondità del documentario contemporaneo, si tratta pensare dei concetti chiave della contemporaneità attraverso le immagini del cinema del reale; cioè di riflettere sullo sguardo documentario del cinema inteso come laboratorio aperto, come luogo di sperimentazione di forme che si interrogano sul nostro rapporto con la realtà. 1) Interrogare la necessità di un cinema inattuale e centrato nella propria epoca; 2) È proprio in questo momento che interrogare la forma risulta necessario. Si parla di “cinema del reale” perché si cerca di uscire dai limiti storici dell’enunciato “cinema documentario”. La preposizione “del” rivela l’appartenenza al reale e l’esistenza di un legame tra cinema e reale, legame che è alla base di un cinema che ha sempre esplorato il problema del reale, senza mai pretendere di coglierlo in una immagine; un cinema che non produce rappresentazioni chiare, ma si impegna “per” il reale, attraverso la creazione continua di immagini, tutte le legate ad un movimento verso o a causa di qualcosa che non è mai già dato. Un luogo di sperimentazione. Benjamin, critico e filoso tedesco, nella ricerca di un nuovo metodo di lavoro afferma “Montaggio letterario. Non ho nulla da dire, solo da mostrare”. La sfida era quella di accostare tra loro materiali eterogenei, costruire un percorso come se fosse appunto un montaggio, facendo nascere una nuova discorsività. Però non deve essere solo l’accostamento a parlare: il montaggio è il piano dal quale un nuovo discorso può aver luogo. Nel Passengewerk, poi, aggiunge che il montaggio permette l’accostamento di minuscoli elementi, la cui analisi (il “piccolo momento singolo), permette la grande costruzione, l’elaborazione di un Per costruire un legame tra i soggetti e il mondo, deve creare una distanza. Quindi se “la contemporaneità è questa “singolare relazione con il proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze”,allora il cinema documentario è ontologicamente contemporaneo o, può esserlo proprio perché apre zone d’ombra aderendo al proprio tempo. La passione del reale è un concetto sviluppato da Badiou ne’ Il Secolo, affermando che il 900 è caratterizzato dalla consapevolezza che il reale non può essere oggetto di conoscenza in sé, non può essere colto come totalità, ma che il rapporto tra i soggetti e il reale, la possibilità stessa di costruire un rapporto sta in un uso di quello che Brecht chiama le jeu d’acteur, un continuo scarto tra idea di gioco, finzione, costruzione e la necessità di cogliere qualcosa che altrimenti eccede ogni rappresentazione, vale a dire il Reale. Il gioco d’attore brechtiano è una tecnica di smontaggio dei legami che risultano dal fatto che la parvenza è il vero principio di situazione del reale, ciò che localizza e rende visibili i brutali eccessi della contingenza del reale. Il 20esimo secolo è stato il secolo della violenza e della nascita del “nuovo” e il Reale non emerge come ideologia, ma come violenza appunto, rivelandosi in un sentimento di passione insostenibile. I termini: parvenza, finzione, maschera, narrazione e montaggio sono, dunque, le parole chiave per comprendere questo intimo movimento. Badiou aggiunge che è, però, un duplice movimento: distruttivo e sottrattivo. Per il primo termine si fa riferimento esplicito a quello di cui parla Benjamin nel suo scritto del 1931 intitolato Il carattere distruttivo, dove afferma che il nuovo si configura anzitutto come bisogno quasi ossessivo di “creare spazio” e “far pulizia”. Infatti, continua Badiou che questo secolo è quello della fine dell’arte. Per il secondo termine, invece, si intende la capacità di ridurre al minimo lo scarto, il gioco tra finzione, il montaggio e l’emergenza del reale. Un gesto tipico di molte avanguardie tipiche, da Mallarmè a Malevic. Il quadrato bianco su fondo bianco. Si elimina il colore, si elimina la forma, rimane solo un’allusione geometrica che supporta una differenza minima. Invece di trattare il reale come identità, lo si tratta subito come scarto. La questione reale/finzione viene regolata non per mezzo di una epurazione che isolerebbe il reale, ma comprendendo che lo scarto stesso è reale. (Malevic) KATARINA SCHRÖTER, The Visitor (2014) Il film si apre su una strada di una città sconosciuta di notte, piena di luci, insegne e persone, dove una macchina da presa segue da dietro una ragazza che cammina velocemente e che a sua volta sta seguendo un’altra donna. Le insegne si scorgono essere in caratteri cinesi e la donna inseguita dalla ragazza ha tratti orientali, ciò ci farà scoprire di essere a Shanghai. Una voce over, femminile, racconta della prima volta di un incontro casuale, di qualcuno che la stava seguendo e di come ciò finirà per cambiarle la vita. Poi l’immagine cambia trasportandoci di giorno e in una periferia anonima di una grande città, dove una ragazza dai tratti occidentali si muove lungo corridoi semi abbandonati di enormi edifici popolari. Un carrello in sovraimpressione ci avverte che il film è girato nelle strade di Mumbai, Shangahi e San Paolo. Ad un certo punto la ragazza si siede su un giardino della scala di un palazzo, dove dalla porta di un appartamento fa capolino un’altra ragazza, che rapidamente scruta tra il curioso e il turbamento la prima, mentre la camera rientra velocemente nell’appartamento; improvvisamente una scritta in sovrimpressione ci avverte che nessuna scena di questo film è stata scritta né messa in scena. Questo film è uno straordinario dispositivo dello scarto minimo di cui parla Badiou. Una ragazza che è attrice, personaggio e allo stesso tempo corpo reale, che interagisce in processi e dinamiche reali con gli uomini e le donne che incontra. Il film è infatti montaggio di alcuni di questi incontri nelle città visitate dalla macchina della finzione/reale messa in gioco dalla regista e mostra perfettamente come il cinema non lavori né su una opposizione tra reale e finzione, né su una semplice ibridazione. La regista stessa, infatti, parla della costruzione finzionale che ha creato, che è la realtà di ogni incontro che si serve dei gesti per comunicare.  Il reale si pone come problema, come qualcosa di sfuggente/eccedente, che ha bisogno di essere colto come finzione, attraverso montaggi, narrazioni ed esso si articola secondo un doppio movimento distruttivo/sottrattivo.  DAVID PERLOV, Diary (1973-1983) Il cameraman ebreo brasiliano di origine russa decide di trasferirsi nel 1972 a Tel Aviv e decide di comprare una piccola macchina da presa e di sperimentare un diario visuale. La prima parte del film è un esercizio graduale alla visione e all’ascolto. Perlov comincia a sperimentare, esercitare lo sguardo, a riprendere l’atto della visione. la voice-over, poi, ci tiene radicati in ciò che stiamo vedendo e ascoltando, come se quello che viene ripreso fossero i gesti di un bambino che compie i primi passi. Solo attraverso la tv l’esterno può entrare nel suo mondo e ciò che vediamo sono le immagini della guerra del Kippur dell’ottobre del 1973. La ripresa è una ripetizione e una creazione ex novo. Ripetere il gesto del filmare, imparare a vedere di nuovo la vita attraverso la macchina e il montaggio significa costruire uno sguardo sulla vita e il reale, capace di organizzare il caos del mondo in racconto di sé. Intuizione di Kierkegaard: ripetizione=andare avanti / ricordo= procedere all’indietro -> La ripetizione permette a Perlov di organizzare il caos della vita in una forma di cui ha l’assoluto controllo: al montaggio viene affidato il compito di organizzare e modulare lo scarto tra reale e finzione. Il montaggio trasforma il vissuto, è creatore di uno sguardo soggettivo. La riprese di Perlov, aperte al mondo e alla sua violenza, “non assicurano un accesso al reale, ma rendono conto di una volontà di accedervi” (Guy Gauthier). Il montaggio, in un secondo momento, assicura poi la modalità attraverso cui tale volontà può diventare forma. Si afferma, dunque, che per “passione del reale” non si intende la “cattura”, la “rappresentazione” o la riconquista della realtà. Il reale nel 900 è l’antagonista, è qualcosa che deve essere sottomesso. Per tutti e tre approcci dei registi (Miguel Gomes, Maysles o Perlov) analizzati fin ora NON si tratta di definire il reale, ma di creare percorsi in cui uno sguardo e una messa in questione siano ancora possibili. Di sperimentare nuove forme e nuove possibilità. IL TRENO, IL CINEMA, IL MONDO IN FRAMMENTI ALBERT MAYSLES, In Transit (2015) con Lynn True, Nelson Walker, Ben Wu e David Usui C’è prima di tutto da tener presente che Maysles vedeva nel cinema del reale un processo senza fine composto da tanti frammenti di vite tenute insieme dal montaggio, come i vagoni di un treno che tengono insieme in uno spazio e in un movimento dato il cinema. In Transit è un film collettivo e si pone come un lavoro che difende uno stato del cinema e della realtà. Girato all’interno dell’Amtrak’s Empire Builder, uno dei più antichi treni degli USA, che in un viaggio della durata di 3 giorni attraversa diversi Stati Americani, è strutturato come un montaggio di situazioni, di piccoli eventi e incontri. Le videocamere catturano e riorganizzano brani di conversazioni casuali tra i passeggeri, gesti e sguardi rituali, salite e discese, mentre la natura fuori appare indifferente. Ogni persona rimane per un tratto visibile, fino a che lasciando il treno non lascia spazio a un’altra persona: così i 3 giorni di viaggio diventano l’occasione di un ritratto collettivo, fatto di piccoli tratti che scivolano l’una dopo l’altra al ritmo scandito e costante del treno. Non è un caso questa ambientazione: da questo punto di vista In Transit è un film che ritorna ad un’origine del cinema, al suo movimento iniziale, allo stare seduti mentre uno spettacolo scorre, da un finestrino/schermo. La differenza è che lo spettacolo non sta più all’esterno del treno, ma al suo interno. Le inquadrature dell’esterno non corrispondono mai a un raccordo sullo sguardo, ma sono delle semplici inquadrature di stacco e raccordo tra un frammento e l’altro. Questo rovesciamento è malinconico, un gesto etico: negare la visibilità significa scegliere un mondo umano che è ancora da raccontare. CLARENCE BROWN, L’amante (1931) L’immagine malinconica si riversa in questo film, dove una ragazza di campagna si trova in una situazione in cui la realtà stessa riproduce la magia dell’esperienza cinematografica. La ragazza in attesa davanti a un passaggio a livello vede passare un treno e di fronte a lei, finestrino dopo finestrino, un mondo magico fatto di donne e uomini in abiti lussuosi, abitanti di un monto lontano e desiderabile. Lo sguardo della ragazza proietta di fronte a sé la magia dello schermo cinematografico, la potenza del cinema nella sua pura essenza (Zizek). Due treni: se il treno di Brown si presenta come proiezione di fronte allo sguardo del soggetto, quello di Maysles fa che il soggetto dello sguardo sia parte integrante dello spettacolo del mondo, ci chiede di credere ad un mondo che quella immagine in qualche modo mette in gioco. La percezione del movimento del treno produce visioni pittoriche, mutazioni animate del mondo, fantasmagorie, ma è sempre lo stesso mondo visto come cinema. 1.2 IL CREDITO DELLA VERITÀ Come dice Alessandro Comodin (L’estate di Giacomo, 2011) credere alle immagini, ai sentimenti che ti suscitano è la realtà, cioè significa pensare al documentario come cinema. Mondzain: bisogna pensare le immagini come movimento e connessione. Immagini che sono inserite in una serie di rapporti (tra chi guarda, chi è guardato, chi produce quello sguardo) = un commercio di sguardi che dona alle immagini significato. Nel testo Images (a suivre) Modzadin afferma che è proprio nel gioco continuo delle finzioni costitutive del documentario che si costruisce la dinamica della credenza del mondo. La forza del documentario sta dunque nel ricostruire e mostrare il tessuto delle finzioni, dei montaggi e delle narrazioni che caratterizzano il rapporto dei soggetti tra loro e il rapporto con il mondo. Ciò avviene però solo in virtù della credenza. “ciò che sappiamo è legato a ciò che crediamo. La relazione tra credere e sapere si chiama finzione costitutiva” Si colloca qui la critica di IVELISE PERNIOLA nel suo L’era postdocumentaria, dove afferma che ogni teoria le appare fuori tempo massimo, perché il cinema del reale di oggi riflette soltanto l’immagine di se stesso. Non c’è verità, solo infinita rappresentazione, di codici, norme, modelli culturali... Il cinema del reale è scomparso. Quella di Perniola è una linea forte, che nega al cinema del reale una capacità di rapporto con il reale stesso. Un cinema divenuto ormai performativo, cioè fondato sull’esperienza della scrittura più che dell’osservazione. Come se questo carattere performativo allontanasse il documentario dal suo possibile ruolo di “sguardo” sul reale. Una perdita di fiducia, come afferma Simone Moraldi. Il cinema del reale, forse, trova un suo senso se si intende l’evento come destabilizzazione di ogni situazione, come vuole Badiou, l’evento come “le vif”, come dice Sean Cubitt, l’evento come eccedere che trova a volte una forma. EMPIRISMO ERETICO Lo sguardo documentario deve recuperare e ricostruire un rapporto tra soggetto e mondo. Una delle tendenze più forti del cinema del reale contemporaneo mette in gioco proprio questa dinamica: la possibilità di pensare l’incontro di un soggetto con le proprie esperienze come costruzione poetica di un mondo, di associazione tra mondi, interni ed esterni, pensieri e racconti, corpi simbolici e materiali. Forse è questa la vera forma dell’empirismo eretico (Pasolini), inteso come continua creazione di forme, associazioni, idee e immagini che non rispecchiano o rappresentano né un reale stabile né una struttura mentale preesistente, ma che proprio per la loro continua attività “eretica” creano la credenza nel mondo e nell’Io. L’empirismo così inteso è anche la ricerca di regolarità, di forme stabili. Nel cinema lo sguardo empirico è allora il libero gioco aperto tra invenzione e ricostruzione del mondo, di fatto è un cinema inteso come trasformazione perenne. Deleuze analizzando il Trattato della natura umana di HUME mette in evidenza come la credenza sia parte integrante dell’approccio empirista, affermando che la soggettività si forma mediante il rapporto con il mondo esterno, mediante le associazioni che l’immaginazione non cessa di creare a partire dalle impressioni del mondo. Lo sforzo di Hume sta nel cercare le regole che permettono il discorso sul mondo, conoscitivo, etico e politico. Allo stesso modo l’immaginazione è il movimento che percorre l’universo, che siano deliranti o fantasiose, o associazioni di idee complesse, le immagini sono strutture dell’universo. Ecco perché la ricostruzione di una credenza nel mondo è un gesto empirico. Quando PATRICIO GUZMÀN in Nostalgia de la luz (2010) associa il deserto di Atacama, la ricerca astrofisica e il dramma politico dei desaparecidos in Cile in un percorso di immagini “non previste” (eretiche), compie un gesto filmico empirico, mostrando come in uno spazio unico, per clima e atmosfera, come il deserto cileno, corpi di antichi abitanti e di vittime della dittatura militare si conservano insieme, in una sorta di sospensione del tempo e della materia che necessita di essere pensata. L’associazione di idee, come quella di immagini apre ad un nuovo legame con il mondo e dunque a un nuovo pensiero del mondo stesso. Non è la libera associazione delle immagini freudiana, è un metodo empirico di montaggio di immagini e parole. Quello di Chris Marker: i suoi personaggi sono perlopiù voci, commenti, parole operative che riattraversano le immagini e le raddoppiano, partecipano in certo senso alla loro trasformazione, al loro evocare la vita e la morte. La credenza è dunque anche la fiducia che questi legami possano essere mantenuti, riconosciuti. Il testo Empirismo eretico di Pasolini non definisce in modo chiaro il significato del suo titolo, ma esso irrompe a partire dalla forza dei suoi concetti. Empirico è un atteggiamento, un metodo che consente di lavorare/vivere “fisicamente sempre al livello della realtà” pensando il cinema come tecnica che ha “punti di contatto con l’empirismo dei primitivi”, cioè che pensa e pratica la scrittura come sperimentazione continua, che necessariamente fa i conti con la realtà che interroga, filma, vive. L’eresia dell’empirismo così inteso sta allora nel non porre l’accento sulla regolativa della credenza, ma nell’accentuare quell’attività libera e fantasiosa che permette di vivere la realtà come punto di partenza per la creazione poetica di forme, associazioni, nuovi sguardi e prospettive sul mondo. Da questo punto di vista il cinema del reale è allora necessariamente empirista ed eretico. Un cinema “per” il reale significa che sperimenta empiricamente le sue forme, collocandosi al livello di una realtà che non smette di chiedere di essere esplorata, ripensata, messa in forma, interrogata e immaginata. Forse, allora, il termine empirico può essere sostituito con performativo. L’empirismo è creazione, eretica magari, ma proprio per questo quella creazione può porsi, a ragione o a torto, come creazione di verità. RICOSTRUIRE IL MONDO Ne Il Secolo Badiou afferma come la passione del reale novecentesca sia stata spesso accompagna dal sospetto che porta a non credere a ciò che si suppone sia reale e dunque consista nell’ affermazione di un nuovo reale e per affermare il vero reale occorre far piazza pulita, epurare il mondo (=distruzione e sottrazione). Anche se, ricorda Marie-Josè Mondzain che l’immagine documentaria si pone come gesto. Non si tratta di distruggere il mondo, astrarlo, purificarlo o sottrarlo, ma ricrearlo, costruirlo, infine, tornare a vederlo. ROBERT KRAMER, Route One: Usa (1989) Il personaggio concettuale di Doc (Paul McIsaacs) ritorna in America insieme a Robert, il regista sempre fuori campo del film. Entrambi sono stati fuori dal paese per molto tempo, non stanno ritornando a casa, ma stanno ritornando indietro. Non c’è più nostos, un Paese da riconoscere, ma un territorio da ricostruire visivamente e abitare. Nell’acclamazione dei versi da Song of the Open Road di Walt Whitman da parte di Doc dà la sensazione di una promessa di un mondo libero, da plasmare. Ma il movimento del film è un altro, perché è un altro il mondo cui occorre dare forma in Route One. È questa dunque l’operazione della ripresa e del montaggio, quella di esplorare e connettere luoghi in un cammino (delle oltre 4 ore del film) dal Canada a Key West, in Florida, lungo la Route One, la strada di grande comunicazione che collega gli Stati Uniti da nord a sud. Il percorso del film, come quello della strada è una possibilità di connessione, di ricostruzione di un legame, di un mondo. Il mondo di Whitma, il mondo healthy and free. C’è un nuovo spazio da costruire: è questo che fa il cinema. PETER METTLER, Gambling, Gods and LSD (2002) È un film ambientato in Canada, negli Stati Uniti, in Svizzera e in India. Un altro viaggio, mondo frammentato da ricomporre o costruire attraverso un montaggio. Le immagini partono da un ricordo d’infanzia, nella lunga Airport Strip di Toronto: immagini soggettive, ricordo di un soggetto che filma. Filmare la ricerca della felicità, una ricerca di un senso nell’esistenza, la perdita del principio di realtà. Da una setta canadese di seguaci di Cristo che raggiungono l’estasi mediante canti collettivi al venditore di sex toys che ha brevettato una perfetta macchina del sesso, passando per l’inventore dell’acido lisergico. Viaggiare cinematograficamente significa ricreare un legame con il mondo che non vuole seguire coordinate, “mappature” già definite. Questo legame è quello che spinge a filmare, a connettere insieme territori e frammenti. Eppure questa costruzione di mondi sembra non essere qualcosa di nuovo, anzi. Sembra essere vicini a DZIGA VERTOV in L’uomo con la macchina da presa (1928) questa volontà di connessione assoluta con il montaggio, in cui si creano mondi o meglio se ne rivelano le strutture profonde. Il suo cine-occhio è la grande macchina della visione oltre-umana, della cine-percezione del mondo. Tra i tanti elementi che caratterizzano l’eredità vertoviana al mondo delle immagini c’è sicuramente l’idea del salto, dell’intervallo. Solo il salto, la connessione vertiginosa, l’intervallo spazio-temporale possono connettere il modo nuovo elementi, corpi distanti del mondo, permettendo di scoprire cosa li lega. L’immagine armonica, totalizzante del mondo è solo un’illusione idealista. Il salto serve a mostrare i legami meno evidenti come nel cinema di Herzog, per mostrarne la fragilità o inconsistenza: il pianeta Terra e la sua insignificanza diventano la lente ironica e cinematografica attraverso cui leggere il mondo come universo fragile, precario, poetico. Infatti, in Encounters at the End of the world (2007) Herzog filma una base scientifica situata nel polo Sud, un lungo limite, come molti altri presenti nel suo cinema. Lo spazio è composto da contrasti, forti opposizioni, tra l’immensità dello spazio estremo e i piccoli divergenti degli scienziati che vivono alla base. A volte il contrasto è nella singola inquadratura: in un momento del film, uno scienziato che studia gli iceberg parla di questi oggetti naturali come qualcosa di enorme, incommensurabile quasi rispetto alle dimensioni misurabili dall’uomo; in quel momento la camera inquadra lo schermo del suo computer dove si vede un piccolo filmato quick time dell’iceberg di cui sta parlando. E l’oggetto è in quel momento lì, minuscolo, quasi invisibile, su una piccola finestra nello schermo di un computer. In Herzog il mondo è sempre una questione di percezione, una percezione che cambia a secondo dei personaggi che la incarnano, così come anche dalla macchina da presa e dallo sguardo dello stesso regista. Ed ecco che allora una ripresa subaquea diventa l’analogo di una immagine colme in L’ignoro spazio profondo (The Wild Blue Yonder, 2005), ibridando insieme percezione e visionarietà, racconto e mito, fantascienza e scienza. Cinema. 3 modelli di ricostruzione del mondo: 1. Romanzesco – Kramer 2. Spiriturale – Mettler 3. Visionario/sensoriale – Herzog Ricostruzione e/o nuova percezione del mondo, è in questa opposizione che si gioca un nuovo significato per la passione del reale 1.3 CINEMA E FORME-DI-VITA ALINA MARAZZI, Un’ora sola ti vorrei (2002) La regista apre il film con delle parole emozionanti, film in cui ricostruisce il rapporto con la madre morta suicida quando lei era piccola, un rapporto impossibile, in cui è la stessa Alina a dare voce, a leggere le lettere, i frammenti di diario della madre Liseli, figlia del famoso editore milanese Ulrico Hoepli. Le immagini della madre, le sue parole, quelle delle istituzioni psichiatriche che l’hanno avuta in cura sono il materiale del film, che crea la possibilità di un rapporto, ridando vita al volto di sua madre, almeno per un’ora. Il cinema ricrea in forma simulacrale la vita attraverso le sue vestigia, le sue tracce. WIM WENDERS, NICHOLAS RAY, Lampi sull’acqua – Nick’s Movie (1979) Il film avrebbe dovuto essere il racconto di un vecchio pittore malato a cui rubano un quadro, ma si trasforma in un incontro, in un film sugli ultimi giorni di vita del grande regista americano. Dopo questo film e in modo sempre più evidente, filmare gli ultimi anni di vita di una persona è un gesto ricorrente nel cinema documentario, quasi un’ossessione costante, così come è ricorrente il gesto di ricostruire, sotto forma di simulacro filmico, l’esistenza di qualcuno che non c’è più, qualcuno di molto vicino o che sarebbe dovuto essere vicino. La forma simulacrale e il filmare la soglia si costituiscono come due casi estremi del cinema del reale. Il cinema documentario problematizza la vita, occorre fare una distinzione con la fotografia. Quest’ultima cerca disperatamente di essere testimonianza e messa in scena del tempo, ma il suo congelamento improvviso si codifica come paradossale rovesciamento e intensificazione della sua potenza. Il cinema in quanto immagine-movimento, non può essere mai testimonianza della via o sua messa in scena, ma solo (soprattutto), la sua problematizzazione, la sua trasformazione in Pasolini lavora costantemente tra cinema di prosa e di poesia, cinema come realtà, sacro e profanazione, l’insignificante e il significante. Tensione che si riversa nel rapporto tra immagine cinematografica e reale. La scrittura, il montaggio determinano una chiusura necessaria a ciò che sarebbe altrimenti puro flusso. Il montaggio trasforma il tempo senza fine della realtà in tempo finito dell’immagine. CAPITOLO 2 SPAZI E MONDI 2.1 LO SPAZIO OSCURO DEL REALE IL PAESAGGIO INAPPROPRIABILE 1 Uno parco pubblico, in una città cinese (Chenddu) è esplorato da una telecamera che lo attraversa. Il film, realizzato con un unico piano sequenza in steady-cam, lo sguardo cattura, per brevi istanti, corpi e sguardi, gesti e pose dei molti frequentatori. Bambini, lavoratori, anziani, ecc. sono uniti dallo sguardo che li frammenta in molteplici istanti di tempo. 2 Un peschereccio nel suo viaggio alla ricerca di prede. Dozzine di camere di formati diversi ne riprendono il viaggio da angolazioni sempre diverse, dentro e fuori la nave, esplorandone gli spazi librandosi in volo. Le immagini si fanno così visioni fantastiche del mondo. uno sguardo multiplo che trasforma l’immagine del viaggio e la connette a molti altri viaggi, immaginari e reali. 3 Un quartiere marginale di New York, all’ombra del nuovo stadio dei Metz, Willets Point. È una zona di autodemolizioni, povera, abitata e frequentata da personaggi ai margini nella nuova New York. L’immagine di un luogo temporaneo, devo però permangono e vivono persone che formano una comunità. Una zona destinata alla demolizione, di cui le immagini tracciano la testimonianza. Tre immagini che corrispondono a tre film – People’s Park (JP Sniadecki, Libbie Dina Cohn, 2012), Leviathan (Vèrèna Paravel, Lucien Castaing-Taylor, 2012), Foreign Parts (Vèrèna Paravel, JP Sniadecki, 2010) – tra i più rappresentativi della produzione del Sensory Ethnography Lab di Harvard. Quest’ultimo non è solo un progetto didattico innovativo, ma anche un progetto teorico legato ad alcune tendenze dell’antropologia contemporanea, in particolare il concetto di sensory ethography, vale a dire di indagine e ricerca fondata sulla dimensione sensoriale dell’esperienza sul campo e sulla possibilità di riprodurla attraverso forme espressive diverse della scrittura. Il concetto di etnografia sensoriale si basa sulla indeterminabilità di ciò che chiamiamo vita-in-sé, propone il recupero della dimensione conoscitiva della sensorialità, della aisthesis, che è in fondo il portato primo dell’estetica classica, vale a dire di quella disciplina filosofica che pone i sensi e le forme al centro di una indagine conoscitiva di sé e del mondo. La ricerca del laboratorio di Harvad si fonda sull’idea del cinema come strumento di indagine del mondo e di se stesso, delle proprie potenzialità di sguardo e di discorso, di forma estetica come di traccia e indagine documentaria. La matrice squisitamente documentaristica di questo cinema permette al discorso di individuare ancora una volta nello sguardo documentario una messa in questione potente della forma cinema e della sua portata teorica. Il Lab da una parte si pone come erede di un’etnografia visuale, dall’altra sviluppa una nuova prospettiva estetica, in cui la forma consiste nella possibilità di percepire e comprendere il mondo. TRE PENSIERI DEL PAESAGGIO Questi 3 film riconfigurano con forza la teoria e le pratiche dello spazio cinematografico, individuando nella dimensione sensoriale che il cinema mette in gioco, la possibilità di elaborare una pratica del paesaggio, dello spazio come luogo abitato e come elemento dinamico. Come lavora un paesaggio nel cinema? I 3 spazi-paesaggio dei 3 film citati condividono infatti una problematica di fondo, quello di pensare lo spazio come elemento “operante” all’interno del dispositivo cinematografico. Si tratta di spazi in cui, riprendendo l’espressione di Deleuze, c’è un “movimento di mondo”, non più un rapporto duale tra personaggio e ambiente, ma un movimento congiunto, fatto di metamorfosi, di passaggi e trasfusioni l’uno nell’altro. In Millepiani, ad esempio, il paesaggio non è solo sfondo, bensì i visi richiamano e formano un paesaggio che si modifica in relazione ai corpi che lo abitano o lo attraversano. Al contempo, è il continuo movimento di territorializzazione e deterritorializzazione a determinare e segnalare il rapporto profondo tra uomo e mondo, gesti e ambiente. Lo scenario è dunque mobile; ogni dettaglio dei corpi e dell’ambiente diviene elemento di un movimento continuo, una forma potenzialmente cinematografica. - Deleuze, poi, in Saggi e discorsi elabora una teoria del rapporto tra uomo e paesaggio, che ruota intorno a 3 termini chiave: abitare, costruire e pensare. Una prospettiva che mostra immediatamente un piano concettuale distinto: se da una parte sta il principio del movimento, della continua trasformazione di terra, territorio e mondo, dall’altra c’è la ricerca senza dine, di un rapporto capace di mostrare l’intima coappartenenza tra i 3 termini. - Heidegger in ...Poeticamente abita l’uomo... si spinge più avanti: parla del poetare come messa in opera, costruzione. È un’apertura attraverso il linguaggio, secondo la lezione di Holderlin. È l’attività in cui si manifesta l’atmosfera (lo stato d’animo), che è l’apertura originaria al mondo dell’esserci. La situazione emotiva già in Essere e tempo delineava le determinazioni dell’esserci, l’esser nel mondo e l’apertura ad esso. Ma solo in questa visione del mondo l’utilizzabile si manifesta. DIFFERENZE: - Deleuze pone l’accento sul movimento di mondo, e dunque su uno spazio che non cessa di modificarsi insieme ai corpi. Qui il mondo/paesaggio è in movimento continuo e non può essere catturato se non in maniera parziale, incompiuta, come dettaglio, montaggio, rapido movimento di macchina. - Heidegger è l’uomo ad abitare poeticamente il mondo. Sottolinea la profonda coappartenenza del pensare e dell’essere situati. In questo caso il mondo può essere sotto forma di immagine, di paesaggio costruito dallo sguardo poetante (e dalla macchina da presa) Il terzo concetto di paesaggio emerge in L’uso dei corpi di Giorgio Agamben. Nell’ultimo tomo dedicato alla ricerca pluridecennale sullo Homo Sacer, egli riflette sul senso della parola uso, distinguendola da proprietà o appropriazione. L’Inappropriabile diventa la figura di ciò che può essere usato pur non potendo essere mai proprietà e come uno degli esempi fatti indica appunto il paesaggio, nel suo rapporto con l’ambiente e con il mondo. Riprendendo la definizione di Heidegger sul rapporto tra uomo e ambiente, Agamben afferma che un vero rapporto con il paesaggio rivela qualcosa che va al di là di qualsiasi rapporto strumentale o determinato con esso. “Poiché il mondo si rivela senza mediazioni (= senza gli elementi che permettono l’orientamento) l’essere è fin dall’inizio attraversato dal nulla e il mondo è costitutivamente segnato da negatività e spaesamento. Egli sembra dunque criticare e riprendere i concetti heideggeriani e deleuziani, per portarli in un’altra direzione -“il mondo per l’uomo è aperto e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, un non-vedere”. Il movimento del concetto può essere riletto come forma del cinema; con una torsione non priva di vertigine, la forma del piano sequenza, del movimento senza soggetto del mondo sembra problemizzare l’inappropriabilità del paesaggio da un punto di vista squisitamente cinematografico. David McDougall afferma che il piano sequenza nel documentario è anche l’attestazione di una mancanza, di una impossibile, quanto necessaria, presa del mondo. L’inappropriabilità del paesaggio diviene allora, cinematograficamente, l’attestazione del confronto impossibile con il reale. L’ETNOGRAFIA SENSORIALE In Foreign Parts, lo sguardo della macchina da presa è ad altezza d’uomo, si muove all’interno degli spazi di un quartiere invisibile, eppure abitato. Il suo movimento instaura continuamente un rapporto di vicinanza e lontananza con e dai suoi personaggi costruendo di volta in volta una serie di relazioni complesse tra lo spazio e i suoi abitanti, come se i gesti e le parole, i desideri e gli affetti, i pensieri e le riflessioni dei personaggi del film non potessero esistere se non all’interno di quelli spazi, che in un certo senso gli riflettono e gli determinano. ->Solo il movimento della macchina da presa e del montaggio può però restituire questa dinamica essenziale, questo rapporto fondante, questo essere nel mondo che necessita di essere visto. La coappartenenza ad un luogo, infatti è tanto più urgente quanto il luogo è marginale, apparentemente anonimo, destinato alla distruzione, come il sobborgo di Willets Points dove ha luogo il film. La vita procede come tentativo continuo di riparazione: i personaggi del film aderiscono allo spazio, ma declinano la loro relazione di coappartenenza al quartiere vivendo al suo interno, costruendo discorsi e pensiero proprio grazie al movimento che la macchina da presa costruisce e al tempo stesso mostrandone il disfacimento. Leviathan, sicuramente il film bandiera del SEL trasforma le immagini di uno spazio-viaggio (quello del peschereccio), in un prolungamento sensoriale che in un gesto filmico in fondo profondamente ejzenstejniano prolunga le immagini in visioni mitiche, archetipiche, letterarie e leggendarie. Le camere utilizzate sono molteplici: GoPro, alta definizione Sony. Il film NON racconta ma riattraversa letteralmente il viaggio del peschereccio moltiplicando indefinitivamente i punti di vista, dentro e fuori la nave, sopra e sotto l’acqua, dal cielo e dalla terra, accompagnando il volo di gabbiani o immergendosi con la catena dell’ancora sin sotto la superficie del mare. Il viaggio diventa percezione pura (anche sonora), una sorta di lotta perenne dello sguardo e dell’udito nel tentativo di riuscire a catturare un’esperienza. Una forma di impegno con il mondo significa anche insieme al mondo, pensare il cinema come qualcosa che appartiene al mondo, che è immerso in esso. L’esperienza cinematografica diviene anche altro, riscopre una potenza che non è solo descrittiva, ma evocativa, e mitica. La potenza del cinema non è altro, forse, che l’analogon della potenza del mondo, l’espressione di una lotta senza fine e senza tempo. Lo sguardo non è unico, né riconducibile all’uomo, ma è rappresentazione molteplice del mondo. Nel lungo piano sequenza che costituisce People’s Park, il movimento cinematografico della steadycam non fa altro che attraversare gli spazi di un parco pubblico, incontrando decine e decine di personaggi che appaiono nel film per pochi secondi. Lo spazio è dunque attraversato per più di Benjamin nel progetto dei Passages, inserisce l’interno come rifugio piccolo borghese, ripiegamento su se stesso dall’individuo che non vede più il mondo, che fa della sua casa il sostituto del mondo intero, descrivendo così un animo nichilista. Al contrario il gesto di Pollet si rivela come un gesto filmico disperatamente e radicalmente vitale. La casa è sì il mondo, ma perché costituisce l’ultimo frammento rimasto ad un corpo e ad uno sguardo. Il cinema distrugge la ragnatela che avviluppa il corpo e lo sguardo proprio proiettando all’esterno le immagini degli interni, degli spazi chiusi. Ogni dettaglio della casa di Pollet, le parole che la attraversano, le fotografie che la animano sono e diventano cinema, non implodono, ma esplodono verso l’esterno. IGNACIO AGUERO con il film El otro dia (2013) indugia, inizialmente, sulle vecchie foto, i libri con un filo di polvere, il pulviscolo che danza illuminato da un raggio di sole. Oggetti personali, ricordi, oggetti d’arredamento. Lo spazio chiuso è il luogo dell’ordinario che diventa straordinario: Aguero filmerà per un anno la sua casa come luogo dell’incontro e della visione. il regista decide di far entrare all’interno del suo appartamento le persone che suonano al suo campanello, che per i più svariati motivi si trovano di fronte alla sua porta. Lo sguardo e i movimenti di queste sono sempre cauti, quasi timorosi, come di fronte all’ingresso di un piccolo tempio privato. Ed è all’interno di questo spazio, non chiuso, ma aperto al mondo, che le persone si fanno intervistare, raccontano la loro vita, abitano, anche solo per il tempo di un incontro. Lo spazio serrato può essere il luogo che descrive la chiusura dello sguardo, l’angusto confine entro il quale il reale sembra non poter aver luogo. Lo spazio dell’attesa, nel cinema del reale un luogo di scoperta e di attraversamento; rovescia la chiusura dell’interno in movimento cinematografico e si contrappone al luogo vuoto, cioè privo di mondo, dove lo sguardo e il movimento non sono più possibili se non come creazione di storie incredibili. IL NON-LUOGO E L’ATTRAVERSAMENTO Il non-luogo (Marc Augè) è una figura profondamente cinematografico e costituisce una particolare declinazione della forma dello spazio nel cinema del reale; “è lo spazio degli altri senza la presenza degli altri, lo spazio reso spettacolo”. Il non-luogo non è più il paesaggio o non lo è in un senso profondamente differente: se ciò che caratterizza, da un punto di vista antropologico il luogo è il suo essere identitario, relazionale e storico, queste tre caratteristiche sono proprio ciò che manca al non-luogo, che si definisce invece per essere un luogo transitorio, di passaggio. Esso permette una serie di nuove relazioni, spesso basate sullo scarto, sulla marginalità, sulla presenza di esistenze che oltre ad attraversare i luoghi ne sperimentano una forma particolare di abitazione. Se il non-luogo è lo spazio determinante della contemporaneità esso diventa, nel cinema documentario contemporaneo, uno spazio di interrogazione. La sua definizione per negazione, per mancanza, permette allo sguardo cinematografico di attraversare lo scarto tra uno spazio senza presenza, o in cui la presenza si è apparentemente sancita da figure transitorie, in movimento. In Sacro GRA (2013) di GIANFRANCO ROSI il regista lavora intorno al Grande Raccordo Anulare romano, pensato come struttura dinamica, in cui muoversi per incontrare storie, piccoli racconti, personaggi che vivono o si muovono ai lati di quello spazio. Il movimento dei corpi è spesso localizzato in punti specifici lungo il percorso del raccordo, le cui immagini costituiscono anche cinematograficamente un “raccordo” tra le microstorie che avvengono e si situano ai suoi margini. Il movimento del film è dunque quello di un viaggio, in tempi e spazi diversi, soffermandosi sulle singole esistenze. Proprio perché il non-luogo è uno spazio dispersivo, i corpi e i soggetti che vi si incontrano sono piccole tracce disseminate lungo un percorso, la loro visibilità non si assomiglia apparentemente a quella del ritratto, né il circuito della strada assomiglia al percorso di un viaggio. Si tratta di un movimento interrotto.. ogni focus su storie e personaggi si alterna ai percorsi lungo la strada, che essendo un anello permette circolarmente di tornare sugli stessi personaggi, vederli in momenti diversi, frammenti spezzati di un circuito vitale e artificiale insieme come il raccordo romano. La presenza umana di Rosi è più di una traccia, è l’affermazione di un esistenza, o meglio di molteplici esistenze in un certo senso incastonate lungo l’anello stradale. Non si può elaborare una immagine di un non luogo senza mostrarne la dimensione umana che lo attraversa. I vari personaggi costituiscono le tracce di una umanità che di fronte alla perdita simbolica del luogo, cerca di costruire nuove simbologie, nuove ritualità, nuove possibilità di esistenza appunto. Ogni singolo momento di una giornata dei vari personaggi del film racconta di questo processo, si sofferma su parole e gesti, sulla visione del mondo di uomini e donne che, non semplicemente transitano, ma abitano, pur in uno spazio del tutto particolare. Un cinema che mostri il non luogo come spazio di movimenti e traiettorie si configura come cinema astratto, come quello di GODFREY REGGIO in Koyaanisqatsi (1982) dove si sofferma su strade, autostrade, centri commerciali, stazioni, disegnando attraverso rallenti e accelerazioni, un’estetica dei movimenti degli attraversamenti umani. La continua rielaborazione delle immagini attraverso il time-lapse, riprese aeree, mediante l’accompagnamento musicale di una partitura scritta appositamente da Philip Glass, elima del tutto la possibilità di fare dei corpi umani dei personaggi. La figura umana è rappresentata come puro movimento, aderente agli spazi che attraversa. Submodernitè: - In Sacro GRA di Rosi si lavora sul recupero delle tracce umane in spazi di fatto invisibili, perché privi di simbologia antropologica. Qui è il montaggio di frammenti di vita a costruire il rovesciamento di senso del non luogo. - In Reggio si configura come visione giudicante, trasfigurazione estetica del mondo, che fa del non-luogo uno spazio simbolico di tipo nuovo, emblema della vita senza freni del mondo moderno. È la tecnica cinematografica del time-lapse, dell’accellerato a disegnare, letteralmente un mondo giudicabile. 2.3 CAMPI, CASTELLI, ISTITUZIONI LO SPAZIO POLITICO È inevitabile che, pensando alla funzione politica dei luoghi lo sguardo si rivolga alla grande riflessione foucaultiana, genesi di un pensiero che ha attraversato il 900 e che negli anni 2000 si fa urgente. Riprendere cinematograficamente una grande direzione di ricerca foucaltiana, quella che ci permette di pensare il cinema come una delle “eterotopie”, cioè di uno di “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma non modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Il cinema è una eterotopia: lo è come totalità, come luogo fisico. Uno spazio eterotopico che sviluppa “eterocronie”, cioè dei tempi altri. Pensare così il cinema, implica mettere in gioco la centralità dello spazio come categoria centrale del suo pensiero. RENÈ FÈRET, Histoire de Paul (1975) è un film che ripensa le categorie di finzione e documentario e che colpisce in modo profondo Foucault. Il registra riscrive un episodio autobiografico, la reclusione in un istituto psichiatrico a vent’anni, dopo la morte del padre. Lo studioso francese riconosce al film il potere o la potenza di ricreare, nel vero senso della parola, l’esperienza della “forza degli effetti plastici del potere ospedaliero”. Ciò che il film lavora è di fatto la possibilità di mostrare i rapporti di coesistenza, di trasformazione e ordinamento die corpi all’interno del sistema; ma, più precisamente, specifica Foucault, dei muri, delle strutture, degli oggetti e dei discorsi che in questi spazi attivano. In Storia della follia egli esamina il periodo della diffusione della lebbra in Europa: i luoghi e gli spazi dei lebbrosati, che diventeranno il modello degli spazi di reclusione e di esclusione che saranno i manicomi dell’età classica, vengono qui descritti in tutta la loro potenza reale di luoghi carichi di memoria e di immagini, che si mantiene anche quando “i lebbrosati saranno vuoti”. Il luogo diviene immagine di una carica politica, come i muri ospedalieri di Histoire de Paul. In quest’ultimo ciò che si coglie è la forza dinamica e trasformativa dello spazio-set, in cui gli attori, seguendo i loro “fili”, ricostruiscono e mostrano le dinamiche del potere ospedaliero. Ecco allora in che modo può emergere con forza il potere dello spazio come luogo d’incontro tra Foucault e il cinema, come riconoscimento del suo potere/potenza. Anche se il film mantiene aperta la questione su come sia possibile pensare all’eterotopia dal punto di vista cinematografico. La prevalenza dello spazio in questo film è attestata dall’assenza della parola: i gesti come i movimenti dei pazienti nella sala ricreativa inquadrata in campo lungo, dall’altro e il “posizionamento” di Paul all’interno della struttura, avvengono in silenzio, senza che la parola orienti un movimento nella sua dimensione spaziale. Ma la parola, come lo spazio, in Foucault assumono una funzione operativa, possono diventare movimento. Per Foucault il montaggio può essere usato per costruire un conflitto. In Io, Pierrè Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… 1976) RENÈ ALLIO realizza un film dai materiali raccolti da Foucault, lavorandoci in modo rigoroso, anche se ciò che emerge è il fatto che il regista scelga in un certo senso un punto di vista che travalica gli altri, che è quello di Riviere: la sua voce avviluppa tutto il film, lo circonda e lo determina. Un operazione diversa dal montaggio di Foucault, immergendo l’evento all’interno di una prospettiva che è quella della vita di un villaggio contadino del 19esimo secolo. Nel film è la parola al centro, ad organizzare tutto: si ha l’apertura a un'altra possibilità, quella di vedere nel cinema non un’operazione di costruzione della storia, ma come forma che entra in relazione con la Storia in un modo del tutto peculiare, attraverso cioè quella che potremmo chiamare una capacità di ingrandimento, di attenzione peculiare ai singoli dettagli, che fanno del film un dispositivo in grado di mostrare. Alio ha restituito ai contadini di quel territorio la loro tragedia, tragedia cioè detta con le proprie parole, nei propri spazi e dai propri corpi. MIGRAZIONI ED ESILI In film come La Forteresse (2008) o Vol spècial (2011), il cineasta FERNAND MELGAR lavora sulla relazione tra corpo e parola in due situazioni sospese, dove il luogo e lo statuto dei soggetti che lo abitano è transitorio. In La forteresse, girato all’interno di una struttura per richiedenti asilo nella piccola città di Vallorbe, in Svizzera, gli spazi e gli orari del centro scandiscono la struttura narrativa del film e al tempo stesso la vita e i discorsi di chi dichiara la sua condizione di profugo. Lo spazio architettonico, l’edificio, le stanze, i luoghi comuni, gli uffici, le cucine costituiscono l’universo del film: la fortezza è un insieme di spazi, ognuno dei quali risponde a funzioni precise. All’interno di essa, dunque, i corpi e le parole sono determinate dalle funzioni degli spazi in cui si trovano transitoriamente a passare. È proprio lo scarto tra la parola ufficiale e la parola libera che emerge - Una concezione del montaggio, creatrice, trasformatrice che riconfigura l’immagine in una continua ricerca di un ritmico pulsare del mondo. una dimensione che si avvicina alla poesia futurista e che ha in Vertov il suo nume tutelare. Gli inizi dei film di FLAHERTY sono dispositivi della visione del rapporto uomo e mondo. In Moana (1926) l’inquadratura iniziale ritrae la cima di un albero lussureggiante che si staglia contro un cielo tropicale. Lentamente, la macchina da presa scende lungo il gusto e scopre una vegetazione fitta, fatta di cespugli dalle foglie enormi. Al contempo, tra il fogliame, intenta a scegliere le foglie più belle per decorare la propria casa, appare Fa’angase, la ragazza più bella del villaggio come recita uno dei cartelli iniziali. La ragazza sembra muoversi tra le foglie enormi come se nuotasse in un mare di piante. La composizione dell’immagine è la concretizzazione di una intuizione estetica, della conciliazione possibile tra uomo e natura sotto forma di immersione, di coappartenenza dei corpi e della vegetazione. Più avanti si spinge il regista in Louisiana Story (1948): le inquadrature si susseguono secondo un ritmo costante; dettagli di vegetazione acquatica e dalla superficie del fiume, piccoli movimenti sul bordo dell’acqua, una lenta carrellata lungo il fiume e gli alberi che emergono dalle acque, il movimento di un alligatore che lentamente attraversa il fiume, la soggettiva di un corpo che naviga sulla superficie, l’inquadratura infine di un ragazzo che, in piedi, naviga con una piccola barca sulle sua acque. Lo sguardo ridente del ragazzo che osserva le piccole meraviglie del mondo naturale costituisce il meccanismo del campo/controcampo del film, tra lo sguardo umano e il mondo naturale. Tra il mondo delle Isole della Polinesia dove vive Fa’angase e il mondo delle paludi della Louisiana dove vive il piccolo cajun protagonista del film. Se nel primo Moana i personaggi sono immersi nella natura, sono immediatamente parte di essa, nel viaggio del bambino la natura è scoperta e attraversata come bellezza che si rivela agli occhi, lentamente, attraverso il gioco di sguardi del ragazzo, il colpo d’occhio che permette ai dettagli di scorrere sulla pellicola attraverso il montaggio. ->Due sono i rapporti qui presentati con la natura: uno ingenuo, immediato, immerso nella dimensione naturale; uno sentimentale, che percepisce la frattura tra uomo e natura e cerca di ricostruirla esteticamente. La posta in gioco è sempre la ricomposizione, o la nostalgia del rapporto uomo/natura, o individuo/paesaggio, o personaggio/ambiente. In VERTOV, invece, il montaggio svela sì, ma svela qualcosa che non è dato a priori, che non può essere già conosciuto, ma che si rivela solo con l’impiego di tutti i mezzi del cinema, cioè la cineverità. Il suo sguardo è teso al conoscimento cinematografico del mondo, del mondo come rapporto, ma introduce una nuova concezione dell’immagine e del montaggio. In Vertov la prima serie di documentari “la vita colta sul fatto” è l’espressione che sintetizza il rapporto tra la forma- cinema e la forma-mondo, è la potenza del cinema a cogliere il movimento dell’essere rivelandone la complessità, non visibile altrimenti se non come caos. Questa sfida del visibile, sposta allora l’accento su un cinema come distruzione di ogni immagine prefissata, di ogni immagine-icona, di ogni simbolo. Non più la natura e l’uomo armonicamente rivelati o rimpianti, ma uomo e natura in un rapporto di mutua coappartenenza, trasformazione. VIAGGI, ERRANZE, SCOPERTE BRUCE CHATWIN, fa un’osservazione durante un soggiorno a Milano nel 1987 e afferma che l’immagine si palesa di fronte ai nostri occhi come montaggio di frammenti, ma questo montaggio è possibile solo grazie ad un soggetto che li coglie e li organizza. È un esercizio di percezione del mondo o di cinepercezione. Nelle Istituzioni provvisorie ai circoli del Kinoglaz, Vertov distingue 6 fasi di montaggio, prima, durante e dopo le riprese: - Le prime 2, in cui l’operatore è ancora senza la macchina da presa, sono una esplicita descrizione di un training, di un esercizio di osservazione in cui il corpo e i sensi dell’operatore sono sollecitati ad operare come strumenti di osservazione e selezione degli elementi del mondo; il montaggio è appunto organizzazione del mondo visibile. Ma ciò per il regista sovietico è possibile solo se l’occhio è allenato e sospende la propria soggettività (a differenza di quanto avviene per Chatwin dove la scelta è poetica e la soggettività viene affermata come principio organizzatore delle riprese e del loro montaggio). Movimento, osservazione, percezione e narrazione sono gli elementi di un cinema in più di un senso originario. Il movimento, viaggiare, camminare non sono legati solo ad un esperienza esistenziale, ma sono legati anche e profondamente ad una forma possibile del cinema. È quello su cui insiste anche Herzog, quando parlando della forma ideale di una scuola di cinema propone una selezione basata sull’analisi deli appunti di viaggio. La dimensione del viaggio e della scoperta ci spingono sempre più prepotentemente a ripensare la dimensione del tempo e di come il cinema del reale debba necessariamente pensare il viaggio, l’erranza, l’attenzione, la scoperta, la caccia non solo dal punto di vista del rapporto con lo spazio, ma dal punto di vista della temporalità. Ecco perché insieme alla cinepercezione vertoviana alla poesia del dettaglio in Chatwin, la soggettività dello sguardo in movimento non può che incontrare la particolare forma dell’osservazione in movimento che è quella rappresentata dal cinema di JAMES BENNING. Il cinema di BENNING si muove su una dimensione di confine, che appartiene all’origine stessa della settima arte, l’osservazione del reale per mezzo di una cinepresa, prima ancora della messa appunto di un’esigenza di narrazione. La sua inquadratura è abitata, ha sempre a che vedere con un paesaggio, naturale o antropico non importa, è in un certo senso lo spazio in cui una percezione del tempo è possibile; ma perché sia possibile come durata e non come azione, né come narrazione che scandisce il tempo, tale percezione deve essere misurata in un altro modo. In Measuring Changes (2016) Benning filma un’opera di Land Art famosissima, lo Spiral Jetty di Robert Smithson, realizzata nel 1970 sulla superficie del Grande Lago Salato nello Utah. La struttura, un enorme spirale di pietra, è un emblematico esempio dell’arte entropica, un’idea di opera come intervento umano su uno spazio naturale, sottoposto alle stesse leggi di degrado e mutazione di ogni altro elemento naturale. La spirale viene ricoperta d’acqua, poi riemerge, il vento ne corrode la pietra, ne cambia l’aspetto. Una temporalità particolare la segna lentamente, una temporalità diversa dal ritmo dell’azione umana. Il film è costituito di due parti, due lunghe inquadrature di 30minuti ciascuna; due campi lunghissimi che inquadrano l’opera. Due piani sequenza: uno filmato dalle 8.55 del mattino, l’altro dalle 1512 lo stesso giorno. Nella prima a metà della durata delle figure umane appaiono in lontananza: ne appare prima una, poi una seconda più lentamente, poi una terza e infine una coppia. Ognuno attraversa lo spazio in modo diverso. Nella seconda inquadratura un gruppo di persone costeggia la grande spirale e cammina allontanandosi da essa, finchè non li vediamo scomparire all’orizzonte. L’ingresso delle figure umane modifica la temporalità dell’immagine, il tempo oltreumano della contemplazione del paesaggio si converte nel tempo umano della narrazione. Tempo, movimento, durata, narrazione. Una doppia direzione; quella della libertà dello sguardo dello spettatore e la ricerca ossessiva di una struttura geometrica che permetta tale liberazione. La divisione in due inquadrature, utilizzata in tutto il cinema di Begging lavora al fine di costruire quella struttura formale capace di liberare una percezione diversa, un’esperienza temporale del mondo e dei suoi frammenti. QUARTO PENSIERO SUL PAESAGGIO Alan Badiou nel suo libro Il secolo analizza la parola anabasi utilizzata da Senofonte, che indica ritorno, mettendo in evidenza tre punti di essa che la rendono contemporanea. Descrive prima di tutto un movimento di smarrimento, di perdita di orientamento. I greci si trovano al di fuori del loro territorio senza ormai alcuna ragione per rimanere lì. In secondo luogo, possono contare solo su loro stessi, sulla loro capacità di organizzazione e disciplina: tutto è ostile, quel paesaggio non è il loro. Infine, i greci devono trovare qualcosa di nuovo, inventare un proprio cammino senza avere garanzia che sia quello giusto. Smarrimento, disciplina, invenzione di un’erranza: 3 punti che tornano alla mente dopo aver visto : The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi, and 27 Years without Images (2011), di ERIC BAUDELAIRE. Nel 2001 May Shigenobu, figlia di Fusako Shingenobu, militante dell’Armata Rossa Giapponese in clandestinità in Libano, ottiene la cittadinanza giapponese dopo l’arresto della madre in Libano e l’estradizione in Giappone. Per la prima volta May conosce le sue origini. Nel 1974, Masao Adachi, registam sceneggiatore e attore militante comunista si unisce all’Armata Rossa Giapponese e milita in clandestinità in Libano. Nel 1997 sarà arrestato e estradato in Giappone nel 200. 3 vite in clandestinità, dunque, invisibili. Il regista compie un cinema che entra in una comunicazione profonda con altri sguardi, interagisce con loro, non li mette in scena ma li interroga, interroga il loro mistero e, di conseguenza, interroga se stesso. Lo smarrimento è allora l’esperienza esistenziale dei 3 protagonisti, come anche quello dell’immagine ancora da ricercare in senso rosselliniano. Qualcosa si è perso nelle vite fuori confine dei tre e deve essere ricostruito attraverso un nuovo percorso. Anabasis è un racconto fatto di voci, le voci dei 3 protagonisti che raccontano storie, le proprie storie dislocate. Il non sapere chi si è, cosa si è diventato, dove si è, perché. Dunque le immagini devono ricostruire un percorso, e allo stesso tempo farsi rigorose non causali. Baudelaire filma con una camera super8 quello che Masao Adachi gli ha indicato: è una macchina da presa che può vedere senza spaventare, riprendere quasi la casualità del mondo. le immagini sono spesso inquadrature di passaggi vuoti, spazi qualsiasi o, meglio spazi che rappresentano il mondo dove i personaggi hanno vissuto, che rappresentano ciò che essi hanno visto, respirato, abitato. Nel film le voci si accompagnano spesso a immagini che costruiscono un paesaggio: è la ripresa pratica del Fukeiron, una teoria del paesaggio che lo stesso Adachi aveva teorizzato e praticato in un film come A.K.A. Serial Killer del 1969, in cui l’indagine su un assassino seriale di 19 anni è condotta non mostrando i corpi, i personaggi, le storie, ma semplicemente i luoghi frequentati dall’uomo. Una teoria estetica e politica: filmare i paesaggi dove il giovane serial killer ha ucciso 4 persone significa per il regista giapponese filmare la traccia visibile di un contesto sociale che determina il crimine. Il rigore politico allora si fa disciplina estetica nella successione dei quadri e dei testi che riprendono la cronaca del processo. L’invenzione di un’erranza, infine, è ciò che costituisce il senso finale dell’operazione di Anabasis. Il senso dell’immagine non è rappresentare qualcosa, né di stare al posto di qualcosa. L’immagine è anzitutto un dono, un qualcosa che viene offerto e in quanto tale l’immagine può essere in grado di inventare un’erranza, un nuovo percorso in grado di dire qualcosa su alcune vite, su alcune esistenze. Ma l’immagine non deve cadere in tentazione di creare un ritratto di queste esistenze, perché verrebbe meno al suo compito di inventare un’erranza. I film di cui abbiamo parlato lavorano il concetto di tempo, di microevento, facendo di Kronos, del tempo regolabile e misurabile la cornice narrativa di ogni immagine. Kronos il dio degli istanti che si susseguono, si contrappone ad Aion l’istante sfuggente, gli attori dell’evento organizzato. -> Filmare l’evento organizzato e previsto e fare in modo che gli attori spezzino kronos, che il presente inavvertibile trasformi ogni previsione futura, è quello che accade in: O futebol di SERGIO OKSMAN (2013): le date dei mondiali di calcio 12/06-13/07/2014 scandiscono temporalmente il film in cui i protagonisti sono il regista e suo padre. Questo flm, dunque, parla dei loro incontri. Ma l’incontro è anche trasformato da qualcosa di non previsto. Il padre muore.  È il reale ad irrompere improvviso, inatteso.  Un reale che può emergere proprio dalle pieghe della forma. Creare una cornice temporale (le partite di calcio) permette che nell’evento che irrompe inaspettato ci possa essere qualcosa che permane nell’immagine. L’OCCASIONE E LA CACCIA In Images (a suivre), MARIE-JOSE MONDZAIN parla di caccia, di inseguimento, di perseguimento, di ricerca delle immagini come altrettante declinazioni del rapporto che ci lega alle immagini. Non si è mai in una relazione di proprietà o di dominio. In un saggio dedicato alla figura allegorica dell’occasione, GEORGES DIDI-HUBERMAN aggiunge altri elementi a questa pratica dell’inseguimento, della fuga e dell’impossibile possesso delle immagini. L’occasione è in perpetuo movimento, è l’apparente casualità dell’incontro, della “caduta” dal suo movimento sospeso a determinare qualcosa, a interrompere il puro percorrere lineare del movimento. Il viaggio, l’erranza, sono appunto il movimento che permette l’occasione, ovvero l’interruzione della sospensione, della suspense, dell’attesa di qualcosa; l’occasione è ciò che interrompe per un istante la sospensione, non si è più sospesi, si cade. Questa interruzione della linearità si configura anche come possibilità insperata per il film stesso. In Cadenza d’inganno (2011) di LEONARDO DI COSTANZO filma Antonio, un ragazzino dei quartieri popolari di Napoli, ne filma l’alterità, la difficoltà di vivere nel quotidiano, il rapporto con il quartiere e la città. Ma il film si interrompe. Antonio non vuole più essere il personaggio, scompare. Solo dopo molti anni ritorna dal regista e dice che vuole portare a termine il percorso, mentre se ne va in auto con la sua sposa. Quel vuoto è fatto di tempo, di una interruzione improvvisa di ogni progetto, di ogni scrittura previa, di ogni struttura preordinata. L’istante della decisione di Antonio di non essere più il personaggio del film e di scomparire alla vista del regista, è appunto la biforcazione del tempo che non può essere visibile nel film ma che è in grado di creare cinema in modo affatto peculiare. È un film sull’occasione che separa i tempi, passato e futuro, senza essere essa stessa visibile. Il tempo che separa. Aion. IL TEMPO DEL FILM Cosa significa il tempo del film? Tra turista, reporter e documentarista, secondo Nichols, c’è il tempo inteso come durata del film, del film inteso come processo. La durata di un film dipende non tanto dalle condizioni esterne della sua realizzazione, quanto dal tempo dell’incontro, della costruzione della relazione tra chi filma e chi è filmato. Il tempo del film non è dunque necessariamente quello delle riprese, del girato, anzi. Il tempo del film ha dunque a che fare con il tempo della vita, con la durata del vissuto. Cesare Zavattini enuncia questo nelle sue sceneggiature e nei suoi scritti dove si interroga spesso sul rapporto tra le due temporalità. E lo fa sotto forma di limite, di limite del filmare. Il suo pedinamento fonde insieme lo sguardo della macchina da presa e il corpo o i corpi dei personaggi: i loro movimenti, gesti determinano il senso stesso del film. Ma l’unione tra immagine e vita deve necessariamente interrompersi, la macchina da presa di ferma, rimane a guardare, finchè può, il movimento dei suoi personaggi. Il film deve finire, la vita continua. Nel 1961 a WINFREID JUNGE viene incaricato di realizzare un documentario sulle nuove generazioni della Germania dell’Est, sulla modernizzazione socialista e sul suo riflesso nella vita dei bambini di un piccolo paese ai confini con la Polonia. Prima filma un cortometraggio poi sempre nuovi film. I bambini di Golzow diventa un film-mostre di 42 ore di durata, 20 episodi tra il 1961 e il 2007: è un tentativo parziale di avvicinarsi all’idea di cinema totale che corrisponde alla durata di una vita. Il film sembra cercare di fondere durata (della vita) e montaggio (del film, o dei film), al contrario di quello che fa Pasolini attraverso il piano sequenza indefinito. Ma per cercare di raggiungere questo obbiettivo, l’immagine non fa altro che mostrare la propria frammentarietà, appunto le parti mancanti, l’impossibilità di una visione totale; è forse solo in questo senso che il lavoro del film può diventare lavoro del tempo. I lavori della regista HELENA TRESTÌKOVÀ in Marcela (2007), Renè (2008), Katka (2010) e Mallory (2015) ricostruiscono la storia di figure ai margini o di coppie comuni che lei stessa ha filmato per 10, 15 o 30 anni, incontrandole a distanza di tempo e realizzando così una serie di film che mostrano, taglio dopo taglio, l’evoluzione di un soggetto, il passaggio della sua vita sul suo volto, corpo e sguardo. In A Marriage Story (1980-2015) filma 35 anni di matrimonio in 102 minuti di film in time-lapse: i corpi profondamente cambiati emergono dalla frattura tra una sequenza e l’atra. Il tempo diventa forma e potenza della narrazione, eccedenza che diventa scrittura. 3.2 LA FORMA PRESENTE DEL RITORNO (IMPOSSIBILE E NECESSARIO) Nel 1843 viene dato alle stampe il libro Gjentagelsen (La ripresa/ripetizione) di Soeren KIERKEGAARD. La ripresa, il ritorno, il tornare là dove si è stati: un movimento impossibile, ammonisce il filosofo danese, eppure che esiste, purchè non lo si confonda con il ricordo, la reminiscenza. Ciò che si ricorda è un riprendere retrocedendo, mentre la vera ripresa è: La vera ripresa è un ricordare procedendo. Un tornare là dove si è già stati e scoprire così che non si ritorna mai, ma che si riprende nel doppio senso delle parole, che è anche, perché no, cinematografia. La particolarità del documentario è quella di lasciare sempre aperta la domanda su cosa resta di quel tempo quando la macchina da presa o la videocamera li abbandona. Si deve pensare più intimamente, però, alla parola “ripresa”: legandola ad un “io” filmante, che ritorna nei luoghi dove una traccia della realtà si è iscritta, dove un frammento di tempo è diventato pellicola. Nel 1995 MARCEL LOZINSKI gira Anything Can Happen, in cui un bambino di 6 anni si aggira tra gli spazi di un parco di una grande città polacca, parlando con degli anziani che passano il loro tempo all’aperto seduti su delle panchine. Le domande sono dirette: il film scorre lungo quelle conversazioni, registrandole, tracciandole, quasi consapevole che il tempo mortale offrirà a quelle due generazioni così lontane solo il tempo di un film per potersi incontrare, per poter veramente parlare insieme. 10 anni dopo gira un altro film If It Happens, dove il ragazzo ora 18enne si aggira tra le panchine, ora vuote, del parco. Solo nelle immagini emergono, dei riflessi: sembrano quelle del primo film, in controcampo. Questo per evidenziare che la ripresa è un ricordare procedendo, andando avanti e che questo è anche il segreto movimento di un cinema (non solo) del reale, in cui anything can happen, if it happens. IL GESTO, FORMA DEL TEMPO In Note sul Gesto Giorgio Agamben ritorna sul problema dell’immagine cinematografica partendo dalle considerazioni di Gilles de la Tourette sui gesti del camminare: il quale da il nome ad una malattia in cui il movimento del camminare appare scomposto, un montaggio di gesti interrotti che danno l’impressione che il corpo sia sempre sul punto di cadere. Molto spesso i personaggi nei film vengono inquadrati di spalle, come se ci guidassero a liberare lo sguardo dal gesto del camminare. Il gesto è dunque legato ad una aperura della visibilità, alla possibilità di vedere attraverso l’altro. Good Luck (2017) di BEN RUSSELL, un percorso attraverso due spazi radicalmente diversi, la Serbia e il Suriname, alla ricerca di forme del lavoro radicali come quelle di una miniera o della ricerca dell’oro. Il film si apre con un lunghissimo piano sequenza del cambio di turno degli operai in una miniera di rame serba. Ancora una volta la macchina da presa segue il lungo percorso fino alla miniera, i corpi che sprofondano per mezzo km sotto la superficie. Il tempo del piano sequenza corrisponde al tempo del percorso dalla superficie all’ingresso della miniera, dove l’immagine pian piano si fa scura. Il tempo è il tempo del gesto, esposto, reso visibile, sottratto alla sua utilità, al suo essere mezzo-per-qualcosa. Ma per questo il gesto diviene etico, mostrandosi come politica, vera testimonianza. Cogliere l’immagine-gesto può significare anche trovare la maniera di pensare il cinema come scrittura, come forma saggistico-poetica. FILMARE L’EVENTO 2: LA COSTRUZIONE DELL’EVENTO Si può filmare anche la morte. “non nel morto, né nell’assassino. La morte era nel volto del barbiere che l’aveva vista”. Il volto, un’impronta del reale, una traccia dell’evento. In Shoah di LANZMANN emerge, nel racconto, il volto di un barbiere, Abraham Bomba, un ebreo polacco che doveva tagliare i capelli ai prigionieri che stavano per entrare nelle camere a gas. Lanzmann lo filma: l’evento impresso sul volto del testimone si duplica nell’evento raccontato e messo in scena attraverso la parola e la ripetizione del gesto. L’immagine, il racconto e il gesto si intersecano in una continua ricerca di senso, in una continua ricerca di un rapporto con l’evento passato. Si tratta della costruzione di un’immagine complessa dell’evento. Pasolini a tal proposito aggiunge un tassello importante alla descrizione dell’operazione che il cinema del reale compie di fronte all’evento passato. Non solo si tratta di un’operazione, di una costruzione, ma il montaggio che trasforma in racconto possibile l’evento del passato è il frutto di uno sguardo che decide l’evento come operazione autoriale, che entra cioè in una dinamica sempre aperta tra soggettività della visione e oggettività del reale, senza mai risolversi definitivamente, ma facendo anzi questa oscillazione la forza stessa del cinema. L’evento, dunque, che non è un semplice fatto, ma una eccedenza, qualcosa che stravolge la situazione data, è filmabile a partire da questa posizione, la posizione che lo decide, appunto. Perché l’evento non si riconosce a partire da elementi ricorrenti, ma lo si interpreta fondandolo come tale. Leggi pag. 188-189-190-191 3.3 IL CONCETTO DI ESPERIENZA FILMARE IL LIMITE E AL LIMITE Nel 1974, Herzog decide di compiere un viaggio a piedi da Monaco a Parigi, per andare a far visita a Lotte Eisner, all’epoca gravemente malata, pensando che così avrebbe tenuto in vita la donna. rigorosa attenzione alla geometria. Se il ritratto della madre è flusso di parole che si fanno immagini, il ritratto del padre si configura come montaggio di immagini che si fanno spazio geometrico, memoria organizzata secondo precise architetture. Ecco la scena di finzione, la nascita di Munio; sua madre incinta vaga in un bosco di campagna, alterna a stacchi continui di brevissime inquadrature di bambini. Il montaggio costruisce uno spazio, non lo rivela: è questo il passaggio fondamentale. La nascita immaginata di Munio si trasforma poi in un collage progressivo di foto, immagini del padre e delle sue opere, ma anche della sua scrittura e dei suoi progetti. Un altro montaggio architettonico. A questa dimensione si aggiunge poi la testimonianza impossibile, della nipote, la figlia di Amos, che non può che parlare del nonno attraverso il proprio padre. Così il film procede alternando forme e stili diversi, dimostrando che ogni ritratto cinematografico è necessariamente legato al corpo e allo sguardo. Non esiste un rapporto unico tra cinema e memoria, ma esiste l’urgenza, la necessità di interrogare lo spazio di questo rapporto con forme cangianti. Poi, nel 2013 con Architettura in Israele i discorsi sull’architettura diventano “pubblici” sulla memoria collettiva, sull’esperienza di un popolo, di un territorio che fa memoria e dell’esperienza di due concetti fondamentali della propria esistenza. 3.4 L’IMMAGINE MANCANTE IL PASSATO COME ASSENZA Raccontare. Prima di farlo bisogna interrogarsi sull’urgenza di ciò che si vuole dir; lo sguardo documentario è interrogante. L’atto di uccidere (2012) e The Look of Silence (2014) di Joshua Oppenheimer e L’immagine mancante (2013) di Rithy Panh costituiscono due modalità, due possibilità di risposta all’interrogazione di partenza. Questo è la mancanza di immagini, di uno sguardo capace di mostrare un orrore. In L’atto di uccidere il regista in Danimarca aveva ricercato l’immagine mancante attraverso un reenacting degli stessi torturatori, che ricreavano di fronte alla camera i loro crimini, in un corto circuito di memoria e messa in scena; in The Look of Silence il regista mette in gioco in modo ancora più evidente l’interrogazione alla base di ogni atto del filmare. Il protagonista è infatti un oculista ambulante, il cui mestiere di far vedere si trasforma gradualmente nella ricerca di un vedere, di un’immagine che manca e che può solo mostrare la sua mancanza. L’uomo gira per l’Indonesia alla ricerca di una memoria, interrogando le persone che si sono rese protagoniste di quegli anni terribili. Dunque, il primo film lavora sull’affabulazione ipertrofica e quasi insostenibile dei due ex torturatori del regime che raccontano davanti la macchina da presa i loro crimini, mimandoli e rimettendoli in scena; nel secondo film è lo sguardo, la memoria e il racconto dei sopravvissuti a costituire l’interrogazione urgente del film. L’immagine manca in entrambe le prospettive. In S21- la macchina di morte degli khmer rossi (2013) di Rithy Panh l’immagine mancante del genocidio del popolo cambogiano ad opera del regime di Pol Pot non può essere ritrovata dunque il regista si affida al racconto a partire da se, dalla sua esperienza diretta di tredicenne proiettato improvvisamente nell’incubo dei campi di lavoro. Tutto il film si affida a 2 ordini di immagini, diorami che rievocano il passato, animati da piccoli pupazzi dipinti a mano e immagini di repertorio, immagini di propaganda sottosposte a un rigoroso montaggio e svuotamento del loro senso originario. Bisogna produrre altre immagini, immagini-ricordo che il montaggio e la voce fuori campo usano in un senso intellegibile, forme attraverso la quale sfuggire al vuoto e al buio della mancanza di ogni immagine. L’ANIMAZIONE DEL TEMPO L’immaginazione è parte dell’umano e compito del documentario, l’aveva capito Rossellini con Fantasia sottomarina (1939) quando immaginava, filmando i pesci di un acquario, una avventurosa storia d’amore tra i due pesciolini solitari. Una fantasia che rivela la potenza delle immagini. Quella dell’Animated Documentary è una tendenza sempre più diffusa nel panorama cinematografico contemporaneo: si definisce per la sua tecnica, quella di mescolare riprese dal vero di animazioni di tipo diverso. Così si esplorano le forme attraverso cui il cinema lavora l’immaginazione sia per trasformare il mondo, sia per evocarne la perdita, sia per dare forma ai sogni, incubi e desideri. Un film come Walzer con Bashir di Ari Folman lavora sull’animazione come unica forma per rendere conto dell’allucinazione della guerra. Il gioco sta nella capacità dello sguardo documentario di rielaborare le forme cinematografiche al fine di interrogare la temporalità storica, i luoghi nascosti e bui della Storia recente o passata, dargli una realtà visibile. Un film come The Dark Side of the sun di CARLO SHALOM HINTERMANN trasforma in saga animata il mondo di favole notturne dei bambini affetti da un’eccessiva sensibilità alla luce e che possono solo vivere di notte. Il film è ambientato a Camp Sundown, un campo estivo che riunisce questi bambini, che se esposti al sole potrebbero avere un tumore alla pelle. La camera racconta questo mondo rovesciato, giovani vite che durante il giorno evitano la luce e che durante la notte vivono come ombre. La regia lavora su due livelli: le riprese del campo, delle interazioni tra ragazzi, i loro gesti e movimenti, parole e le sequenze di animazioni che rendono visibili i loro sogni, trasformandoli in un racconto fantasy i desideri, le paure e la volontà di vivere dei piccoli protagonisti. Le sequenze di animazione raddoppiano il film, creano una doppia lettura del reale. La malattia reale diventa racconto, diventa personaggio. Un duplice livello di realtà, quello visibile e quello invisibile, ma profondamente radicata nelle esistenze di chi sta filmando. L’animazione come tempo di rielaborazione del pensiero. Is the Man who is tall Happy?: An Animated conversation with Noam Chomsky (2013) di Michel Gondry. Prima ancora che la conversazione abbia inizio, lo schermo si mostra come uno spazio bianco dove un tavolo prende corpo attraverso un disegno, sul tavolo dei fogli e dei pennarelli. L’immagine cambia: il tavolo è ora in totale, una camera fissata al tavolo mima il procedimento dell’animazione e un uomo disegna incessantemente su un foglio dopo l’altro. In alto, mentre la voce fuori campo di Gondry parla, vediamo comporsi le parole pronunciate. Filmare una conversazione è un atto di ambiguità, perché il cinema la manipola, allora il regista decide di usare l’animazione per rendere evidente questa manipolazione e allora starà allo spettatore decidere dove si situa la verità dei discorsi. L’animazione è qui come schermo ribelatore, filtro necessario capace di mostrare la dimensione di finzione presente in ogni operazione documentaria. Si apre proprio uno spazio di verità mostrando questa consapevolezza, la verità dell’esposizione del soggetto, della affabulazione di se e del modo in cui questa affabulazione diventa attraverso lo sguardo del regista, immagine. LA SOPRAVVIVENZA DELLE IMMAGINI Filmare un museo non significa filmare solo l’istituzione in quanto tale, i suoi spazi i suoi ritmi e le regole che determinano le posizioni del corpo al suo interno. Si tratta di filmare questo doppio movimento, come una sorta di fenomenologia del ritratto, in fondo mai determinata in anticipo, ma sempre da scoprire in goni inquadratura. L’attraversamento dei suoi spazi è apertissimo. Si parla di ritrarre e ritrarsi: i film nel loro movimento mostrano i quadri come elementi materici, traccia di una mano e di uno sguardo, elemento simbolico e supporto delicato di un’idea pittorica o artistica. Sono immagine soggette a tanti sguardi, distratti o ammirati, curiosi o allibiti, indifferenti o calcolanti. Sono immagini che ricorrono da sole o apparentemente incastonate in inquadrature che mostrano quadri appesi o coperti. L’immagine così non è mai sola, ma attraversata da migliaia di sguardi. Anche passando al campo sono molteplici gli sguardi, anche in un film come Austerlitz (2016) dove Sergej Loznitsa filma uno sguardo annullato da ogni possibilità di esperienza. Lunghe inquadrature in bianco e nero all’interno del campo di concentramento, il film coglie il flusso turistico all’interno di uno spazio particolare. egli filma la dissoluzione delle immagini e al tempo stesso il problema della loro infinita riproduzione. Il film mostra lo scarto crudele di un mondo trasformato in museo in cui non c’è nulla da vedere.
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