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Daniele Dottorini - La passione del reale (riassunto), Sintesi del corso di Teoria Del Cinema

Tutto il volume riassunto per esame di Laboratorio di Regia

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 09/07/2020

alessia-montanaro
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4.4

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Scarica Daniele Dottorini - La passione del reale (riassunto) e più Sintesi del corso in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! DANIELE DOTTORINI – LA PASSIONE DEL REALE, IL DOCUMENTARIO O LA CREAZIONE DEL MONDO 1 LA PASSIONE DEL REALE 1.1 DISCORSO SUL METODO L’obbiettivo del libro è di mostrare la fecondità del documentario contemporaneo, si tratta pensare dei concetti chiave della contemporaneità attraverso le immagini del cinema del reale; cioè di riflettere sullo sguardo documentario del cinema inteso come laboratorio aperto, come luogo di sperimentazione di forme che si interrogano sul nostro rapporto con la realtà. 1) Interrogare la necessità di un cinema inattuale e centrato nella propria epoca; 2) È proprio in questo momento che interrogare la forma risulta necessario. Si parla di “cinema del reale” perché si cerca di uscire dai limiti storici dell’enunciato “cinema documentario”. La preposizione “del” rivela l’esistenza di un legame tra cinema e reale, legame che è alla base di un cinema che ha sempre esplorato il problema del reale, senza mai pretendere di coglierlo in una immagine; un cinema che non produce rappresentazioni chiare, ma si impegna “per” il reale, attraverso la creazione continua di immagini, tutte le legate ad un movimento verso o a causa di qualcosa che non è mai già dato. Un luogo di sperimentazione. Benjamin nella ricerca di un nuovo metodo di lavoro afferma “Montaggio letterario. Non ho nulla da dire, solo da mostrare”. La sfida era quella di accostare tra loro materiali eterogenei, costruire un percorso come se fosse appunto un montaggio, facendo nascere una nuova discorsività. Però non deve essere solo l’accostamento a parlare: il montaggio è il piano dal quale un nuovo discorso può aver luogo. Nel Passengewrk, poi, aggiunge che il montaggio permette l’accostamento di minuscoli elementi, la cui analisi (il “piccolo momento singolo), permette la grande costruzione, l’elaborazione di un discorso generale, o perlomeno la sua individuazione, sia pure come “cristallo dell’accadere totale”. Ecco che il cinema documentario si appropria di questi concetti, perché tenta di scoprire, attraverso un particolare “montaggio”, il reale. Poi, subentrano le immagini: il passaggio della vita in esse è quello che costituisce le Idee (Deleuze). Ovviamente, per esso, ci sono standardizzazioni, ripetizioni, “generi” e luoghi comuni”, ma soprattutto quello che emerge è una molteplicità di stili e approcci, che non cerca un sistema, ma che produce un pensiero. È questa, allora, l’analogia tra cinema e vita.  DUE RACCONTI, PER INIZIARE MIGUEL GOMES, ep. 1 del trittico Le mille e una notte (2015) L’immagine di apertura è quella di un porto visto da una nave che si avvicina lentamente, mostrando, in questo lento avvicinarsi, degli uomini fermi lungo la banchina; sono gli operai dei cantieri navali di Viano do Castelo, in Portogallo. La camera è posizionata su una barca, ondeggi seguendo il movimento della nave. La banchina appare sempre più vicina. In voce off ascoltiamo le parole degli operai dei cantieri, ma anche la voce di un regista che parla di un film da fare, un film necessario, su un evento simbolico e politicamente centrale come la protesta degli operai portuali in Portogallo, che scioperano di fronte al fallimento dei cantieri. Lo stesso regista nel suo diario di bordo tenuto mentre girava Le mille e una notte si chiede come sia possibile fare un film di intervento sociale e filmare, allo stesso tempo, storie meravigliose. Frase messa in scena nel film: infatti vediamo Gomes, seduto davanti la macchina da presa, che si alza e se ne va correndo. E afferma sempre nel diario che fugge per le strade di Viano, inseguito dalla troupe del film. Si parla di finzione o di realtà? Forse, di entrambi, cioè di verità della finzione. Il diario di Gomes, dunque, diventa un ulteriore prolungamento del gioco complesso di finzioni che costituisce la sua personale strada per costruire un’immagine del reale. Poi il regista torna e inizia a raccontare. Si parte dall’introduzione del personaggio di Sheradzade, che entra nel film (sul suo primo piano sorridente compaiono i titoli di testa): da qui parte la dimensione fantastica del film. I personaggi prendono vita nel Portogallo, mescolandosi a visioni surreali o mostrandosi come il racconto di se stessi. Il suo cinema, Gomes, lo costruisce creando un approccio reale che nega le divisioni, le partizioni, le classificazioni in generi. ALBERT MAYSLES. Con i film come Salesman (1968) o Gimme Shelter! (1969) ha colto le tracce di vite note e sconosciute attraverso un’idea e una pratica di cinema che ripensa l’esperienza sempre sotto forma di narrazione. L’approccio al reale, afferma lo stesso regista, si va concretizzandosi mediante un processo di empatia tra individui, corpi e soggetti. Bisogna creare una connessione tra sé e l’altro che si filma, registrare ciò che l’altro è, pensare al film come autobiografia. Dunque, in lui, l’idea di verità è legata alla distanza, non solo fisica, tra chi filma e chi è filmato. È il metodo che importa, perché questo tipo di connessione permette la creazione di ogni possibile storia, come Nonfiction Feature Film, Salesman o come poesia del reale, frammento che cattura lo sguardo senza che in esso ci sia un senso descrivibile, traducibile, leggibile. Mayles fa questo esempio: chiede di immaginari trovarsi su un autobus, quello che si prende quotidianamente per andare a lavoro. In questo una persona cattura l’attenzione: è una donna di colore, enorme, gigantesca, oltre ogni immaginazione: ella non bada a noi, mentre noi non riusciamo a distogliere l’attenzione da lei, come se aspettassimo qualcosa che sta per accadere. Facciamo notare la stessa cosa alla persona accanto a noi e anch’essa è travolta dalla curiosità. C’è una fiducia, un credere che un gesto avrà luogo. Poi, qualcosa accade: una seconda figura, anch’essa di colore, seduta accanto (probabilmente la figlia), si alza dal suo posto e si accoccola sul corpo morbido, appoggiandosi sui seni e addormentandosi. Questa è poesia afferma il regista, perché egli pensa al cinema come costruzione e svelamento di connessioni, legami tra esseri viventi. Il raccordo tra questi due racconti è anche un racconto che narra un percorso, quello del cinema, che inizia intorno alla metà del 20esimo secolo, con la nascita del nuovo documentario in Europa, Canada e USA. Un’esplorazione non tesa a ricostruire la storia, ma a scoprire quali forme di pensiero il cinema del reale può mettere in gioco e in che modo. Quelle sopra narrate sono solo alcuni dei racconti possibili, delle idee di cinema, delle forme del mondo, immagini che si scontrano all’interno del cinema documentario contemporaneo, capaci di rimettere in gioco tutta la storia del cinema come occhio del ‘900, cioè del dispositivo capace di elaborare continue pratiche di negoziazione tra i soggetti e il mondo, le sue trasformazioni, la sua indeterminazione (F. Casetti). L’immagine contemporanea lavora in uno spazio e un tempo che sempre meno danno importanza alla referenzialità dell’immagine, c’è sempre una sorta di indifferenza referenziale (P. Montani), cioè che sempre meno le nuove tecnologie si preoccupano di garantire il riferimento ad un modo esterno, sempre meno si preoccupano di attestare una validità. Eppure, proprio in questo scenario le pratiche più attente e consapevoli dell’immagine sperimentano nuove strategie di autenticazione, soprattutto attraverso una ricerca costante di nuove forme di intreccio tra aspetto finzionale e documentale delle stesse. Si pensi a film come Belluscone (2014) di Franco Maresco, o Louisiana (The Other Side) (2015) di Roberto Minervini, Le quattro volte (2010) di M. Frammartino o Bella e Perduta (2015) di P. Marcello, in cui è molto forte la fiducia nella possibilità di ricostruire quei processi di autenticazione allegramente dati per inutili negli anni del trionfo dell’immagine senza referente. Questo tipo di concetti che intrecciano reale e finzione testimoniano di un pensiero che coglie le mutazioni sostanziali dello scenario audiovisivo contemporaneo; e, dall’altra, rischiano di trasformarsi in formule astratte, buone per facili etichette critiche. Bisogna tenere presente che il rapporto finzione/reale da un punto di vista cinematografico è un rapporto paradossale, perché sfida la sua stessa comprensione. Alain Badiou afferma che il cinema è un’arte ontologica perché si muove attorno alle questioni dell’“essere” e dell’“apparire”.  DELLA PASSIONE (O DEL REALE) CINEMA DEL REALE: si intende l’idea di uno sguardo documentario. Soprattutto, il panorama attuale, anche ad uno sguardo superficiale, rivela immediatamente l’impossibilità di dare un’immagine unitaria, coesa e compatta al documentario contemporaneo. CONTEMPORANEO: inattuale, intempestivo (Nietzche). Il cinema del reale appartiene pienamente al suo tempo, non perchè produce continuamente uno scarto, uno sfasamento rispetto ai personaggi che ritrae, agli eventi che affronta, alle situazioni che racconta. Poi, per costruire un legame tra i soggetti e il mondo, deve creare una distanza. Allora, se “la contemporaneità è questa “singolare relazione con il proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze”, 1.2 IL CREDITO DELLA VERITÀ Come dice Alessandro Comodin (L’estate di Giacomo, 2011) credere alle immagini, ai sentimenti che ti suscitano è la realtà, cioè significa pensare al documentario come cinema. Nel testo Images (a suivre) Modzadin afferma che p proprio nel gioco continuo delle finzioni costitutive del documentario che si costruisce la dinamica della credenza del mondo. Il cinema documentario “filma i soggetti nel tessuto congiunto del loro reale e delle loro finzioni. Sono i corpi filmati che occupano la quasi totalità del campo finzionale. Sta al documentarista di trovare il luogo più giusto per accogliere ciò che costituisce il regime della credenza dei soggetti filmati, nel cuore delle esperienze reali che essi attraversano”. Ma tutto ciò può avvenire solo in virtù della credenza. Si colloca qui la critica di Ivelise Perniola nel suo L’era postdocumentaria, dove afferma che ogni teoria le appare fuori tempo massimo, perché il cinema del reale di oggi riflette soltanto l’immagine di se stesso. Non c’è verità, solo infinita rappresentazione, di codici, norme, modelli culturali… Il cinema del reale è scomparso. Quello che sostiene Perniola è che bisogna evitare ogni culto dell’immagine in sé e pensare l’immagine sono nel suo rapporto con una verità e si colloca dalla parte di Claude Lanzmann, il regista di Shoah (1985), cioè dalla parte di un cinema “dove la realtà viene descritta con i termini crudi della materia e la sua rappresentazione passa attraverso l’opacità del quotidiano”. Un cinema che rifiuta le immagini che impediscono allo spettatore di pensare, sommergendolo con l’oscenità dell’emozione, mentre tutto il suo lavoro è teso alla produzione di un’esperienza spettatoriale filtrata dalla ragione e dalla comprensione degli avvenimenti. Quella di Perniola è una linea forte, che nega al cinema del reale una capacità di rapporto con il reale stesso. Un cinema divenuto ormai performativo, cioè fondato sull’esperienza della scrittura più che dell’osservazione. Come se questo carattere performativo allontanasse il documentario dal suo possibile ruolo di “sguardo” sul reale. Una perdita di fiducia, come afferma Simone Moraldi. Il cinema del reale, forse, trova un suo senso se si intende l’evento come destabilizzazione di ogni situazione, come vuole Badiou, l’evento come “le vif”, come dice Sean Cubitt, l’evento come eccedere che trova a volte una forma. Dario Cecchi afferma che “il documentario pare essere la forma di cinema che più e meglio si candida ad affrontare il laboratorio di verifica, persino di avanguardia, sperimentale di tali pratiche”. Allora, riprendendo Mondzain, è proprio a partire dalla consapevolezza di trovare all’interno dell’ Impero della visibilità che si può continuare a lavorare per dare alle immagini un nuovo credito, per pensarne la potenza di connessione. Se si pensa alla credenza come “fede” significa sganciarla dall’opposizione Opinione/Scienza e interpretarla come costruzione di un legame possibile con il mondo. Infatti in Hume la credenza è un legame che permette la costruzione di una conoscenza del mondo: essa ha la stessa struttura della simpatia, del sentimento immediato del nostro io nei confronti del mondo. Nella Critica della ragion pura Kant affronta il legame tra credenza e conoscenza e afferma che deve esserci un accordo tra i soggetti in relazione all’oggetto che si gioca il ruolo della credenza, di passaggio non ancora oggettivo ma che si fonda sulla convinzione del soggetto. Solo così il mio credere può diventare qualcosa che posso comunicare come valido per tutti. Anche Deleuze in alcune pagini di Immagine-tempo sottolinea la necessità del rapporto tra immagine e credenza, legandolo però a una forma particolare, quella di un cinema che crede al mondo anche quando il legame tra uomo e mondo si è interrotto. È il cinema di Dreyer, di Rossellini, di Rohmer o di Kurosawa. Il credito dato all’immagine, sta nella possibilità di credere a quello sguardo, a quel modo di guardare il mondo. Ed è proprio nel “cinema per il reale” che si è assistito e si assiste tutt’oggi ad un percorso che intercetta profondamente quelle domande che riguardano il credito dato, offerto alle immagini che scorrono di fronte ai nostri occhi. Con Grierson, Flaherty, Vertov, con le correnti come il Direct Cinema, le cinèma-veritè, le cinèma-direct si ha l’idea il cinema possa diventare di nuovo un dispositivo scardinante, proprio perché in grado di mettere in gioco la parola “verità”. Bisogna “rifamigliarizzare” (Commoli) il cinema. Dunque, il cinema del reale è contemporaneo proprio perché inattuale, perché fortemente legato alla sua storia e al tempo stesso radicato nel presente, ostinatamente legato alle idee di immagine, mondo, verità e reale. Ecco che queste modalità consentono di creare un nuovo sguardo sul proprio tempo, trasformarlo e metterlo in relazione con gli altri tempi. Sta al documentarista trovare il “luogo più giusto” (Mozadin).  IL TESTIMONE E L’ARCHIVIO GIOVANNI CIONI, Dal ritorno (2015) Silvano Lippi, ormai anziano e malato racconta. È toscano, ha una famiglia, una vita e durante l’ultima guerra è stato rinchiuso in diversi campi di prigionia concentramento nazista. La macchina da presa è con lui, lo accompagna, o meglio, lo avvicina, con rispetto ma anche con urgenza, con la consapevolezza che quel volto e quelle parole non possono essere abbandonate. Come spesso nel cinema di Cioni, la voce del regista è presente, partecipe, si avvicina con la macchina da presa a Silvano senza essere prevaricante, osserva e partecipa: lo sguardo è percepibile. Dunque, siamo testimoni di un incontro tra regista e un uomo e la macchina da presa testimonia l’incontro con una testimonianza. Quello che racconta è qualcosa che non è più una storia umana, è una “zona grigia” che non appartiene né all’umano né all’inumano, né alla vita né alla morte. Silvano non racconta ciò che gli è accaduto in prima persona, ma racconta la storia di chi non può più parlare, la storia di chi è morto senza una ragione. Il suo racconto è tremante, doloroso: ogni parola sembra causarli una stessa fitta, ma allo stesso tempo è urgente, preme per essere detta. Per di più il suo racconto rischia di non essere creduto, come ogni volta che ci si trova di fronte al paradosso della testimonianza di un evento radicale come lo sterminio nazista dei campi. Il film è allora la costruzione di uno spazio di ascolto: il movimento della macchina da presa è quello di un soggetto che apre alla parola inaudita di Silvano, alla sua volontà di parlare e allo stesso tempo al dolore nel raccontare, nel raccontare ciò che è impossibile raccontare, impossibile testimoniare fino in fondo. Nella parte finale del film Cioni si reca a Mauthausen per filmare i luoghi dove Silvano ha vissuto quegli anni terribili; sotto le indicazioni dettate da Silvano, troppo debole per andare sul luogo, il regista filma in una sorta di percorso in soggettiva, lunghi piani sequenza che tracciano l’esperienza del suo muoversi in ciò che rimane del campo di concentramento e sterminio di Mauthausen. Credere a tale testimoniato è il compito etico prima ancora che estetico del cinema del reale. Il gesto del filmare il luogo senza il corpo si riflette in tanti gesti filmici che lavorano sul paradosso della memoria, della memoria dell’orrore, l’irrappresentabilità dell’irrappresentabile. CLAUDE LANZMANN, Shoah (1985) È il film a cui ogni discorso sulla situazione-limite della testimonianza deve necessariamente guardare, con cui ogni teologia dell’immagine deve fare i conti. Nessun minuto del film lascia spazio all’improvvisazione: ogni struttura, ogni elemento, ogni inquadratura, ogni testimonianza è studiata come parte di una gigantesca riflessione sull’impotenza e la potenza della parola, dei corpi, della distanza, della memoria e, in ultima istanza del cinema. Soprattutto, il film è l’estrema riflessione sulla necessità della credenza e sulla sua fragilità. La sfida di quest’opera è nel fare cinema proprio dove ogni credenza è appunto impossibile, inaccettabile, incredibile. Dunque, il film elabora i dispositivi della distanza, e fa della parola e dei corpi l’unico spazio cinematograficamente possibile. Nel gennaio 2001 viene inaugurata a Parigi la mostra Mémoires des camps dove sono esposte molte fotografie provenienti da fonti disparate, come appunto testimonianze possibili dell’orrore dei campi. Didi- Huberman nel suo Immagini, malgrado tutto difende le ragioni della mostra, la necessità di confrontarsi con quel tipo di immagini e controbatte Gérard Wajcman e Elizabeth Pagnoux che affermano che Auschwitz non è pensabile né immaginabile. Huberman allora afferma che l’immagine resta come possibilità di mostrare che c’è di immaginabile in ogni immagine, resta per mostrare la potenza e l’impotenza del visibile. Resta come traccia, memoria; resta come possibilità di lavorare la passione del reale come scarto continuo e, quindi, di costruire e rafforzare una credenza nel mondo e nel mio rapporto con esso.  EMPIRISMO ERETICO Lo sguardo documentario deve recuperare e ricostruire un rapporto tra soggetto e mondo. Una delle tendenze più forti del cinema del reale contemporaneo mette in gioco proprio questa dinamica: la possibilità di pensare l’incontro di un soggetto con le proprie esperienze come costruzione poetica di un mondo, di associazione tra mondi, interni ed esterni, pensieri e racconti, corpi simbolici e materiali. Forse è questa la vera forma dell’empirismo eretico (Pasolini), inteso come continua creazione di forme, associazioni, idee e immagini che non rispecchiano o rappresentano né un reale stabile né una struttura mentale preesistente, ma che proprio per la loro continua attività “eretica” creano la credenza nel mondo e nell’Io. Nel cinema lo sguardo empirico è allora il libero gioco aperto tra invenzione e ricostruzione del mondo, di fatto è un cinema inteso come trasformazione perenne. Deleuze analizzando il Trattato della natura umana di Hume mette in evidenza come la credenza sia parte integrante dell’approccio empirista, affermando che la soggettività si forma mediante il rapporto con il mondo esterno, mediante le associazioni che l’immaginazione non cessa di creare a partire dalle impressioni del mondo. Lo sforzo di Hume sta nel cercare le regole che permettono il discorso sul mondo, conoscitivo, etico e politico. Allo stesso modo l’immaginazione è il movimento che percorre l’universo, che siano deliranti o fantasiose, o associazioni di idee complesse, le immagini sono strutture dell’universo. Ecco perché la ricostruzione di una credenza nel mondo è un gesto empirico. Quando PATRICIO GUZMÀN in Nostalgia de la luz (2010) associa il deserto di Atacama, la ricerca astrofisica e il dramma politico dei desaparecidos in Cile in un percorso di immagini “non previste” (eretiche), compie un gesto filmico empirico, mostrando come in uno spazio unico, per clima e atmosfera, come il deserto cileno, corpi di antichi abitanti e di vittime della dittatura militare si conservano insieme, in una sorta di sospensione del tempo e della materia che necessita di essere pensata. L’associazione di idee, come quella di immagini apre ad un nuovo legame con il mondo e dunque a un nuovo pensiero del mondo stesso. Non è la libera associazione delle immagini freudiana, è un metodo empirico di montaggio di immagini e parole. Quello di Chris Marker: i suoi personaggi sono perlopiù voci, commenti, parole operative che riattraversano le immagini e le raddoppiano, partecipano in certo senso alla loro trasformazione, al loro evocare la vita e la morte. La credenza è dunque anche la fiducia che questi legami possano essere mantenuti, riconosciuti. Il testo (Empirismo eretico) di Pasolini non definisce in modo chiaro il significato del suo titolo, ma esso irrompe a partire dalla forza dei suoi concetti. Empirico è un atteggiamento, un metodo che consente di lavorare/vivere “fisicamente sempre al livello della realtà” pensando il cinema come tecnica che ha “punti di contatto con l’empirismo dei primitivi”, cioè che pensa e pratica la scrittura come sperimentazione continua, che necessariamente fa i conti con la realtà che interroga, filma, vive. L’eresia dell’empirismo così inteso sta allora nel non porre l’accento sulla regolativa della credenza, ma nell’accentuare quell’attività libera e fantasiosa che permette di vivere la realtà come punto di partenza per la creazione poetica di forme, associazioni, nuovi sguardi e prospettive sul mondo. Da questo punto di vista il cinema del reale è allora necessariamente empirista ed eretico. Un cinema “per” il reale significa che sperimenta empiricamente le sue forme, collocandosi al livello di una realtà che non smette di chiedere di essere esplorata, ripensata, messa in forma, interrogata e immaginata. Forse, allora, il termine empirico può essere sostituito con performativo. L’empirismo è creazione, eretica magari, ma proprio per questo quella creazione può porsi, a ragione o a torto, come creazione di verità.  RICOSTRUIRE IL MONDO Ne Il Secolo Badiou afferma come la passione del reale novecentesca sia affermazione di un nuovo reale e dunque per affermare il vero reale occorre far piazza pulita, epurare il mondo, mondarlo. Anche se, ricorda Marie-Josè Mondzain che l’immagine documentaria si pone come gesto. Non si tratta di distruggere il mondo, astrarlo, purificarlo o sottrarlo, ma ricrearlo, costruirlo, infine, tornare a vederlo. ROBERT KRAMER, Route One: Usa (1989) Il personaggio concettuale di Doc (Paul McIsaacs) ritorna in America insieme a Robert, il regista sempre fuori campo del film. Entrambi sono stati fuori dal paese per molto tempo, non stanno ritornando a casa, ma stanno ritornando indietro. Non c’è più nostos, un Paese da riconoscere, ma un territorio da ricostruire visivamente e abitare. Nell’acclamazione dei versi da Song of the Open Road di Walt Whitman da parte di Doc dà la sensazione di una promessa di un mondo libero, da plasmare. Ma il movimento del film è un altro, perché è un altro il mondo cui occorre dare forma in Route One. È questa dunque l’operazione della Se il cinema è un mondo aperto di incontri, allora un film può diventare un ritratto e un autoritratto al tempo stesso, come in Andrés Di Tella, dove il regista è anche personaggio-intercessore, guida e punto di ascolto al tempo stesso. Come il cinema di Jay Rosenblatt, dove in una serie di film gira con la figlia, seguendone in un certo senso l’evoluzione, ma testimoniando di fatto il proprio sguardo su un soggetto amato, che lo mette in questione e non ha timore di sfuggire. Deleuze parla di filmare il legame con il mondo, “il nostro unico legame”. Raymond Departon mette questo in evidenza attraverso una serie di film sulla vita contadina negli anni 2000, dove l’obbiettivo di chi riprende è quello di descrivere un “ritorno a casa”, ai luoghi che lo hanno visto nascere, la costruzione di legami di affetto e fiducia tra chi filma e chi è filmato attraverso un linguaggio comune. Molteplici forme dell’incontro: - Personali e intime (DI Tella o Kawase) - Legate alla riscoperta di sé e del mondo (Departon, Herzog) - Tentativi di scrittura di sé e dell’altro (Perlov, Kossakovsky) - Ricerca del proprio limite nel mettersi in gioco filmando (Gitai, Mogravi)  RILEGEGRE PASOLINI: LO SCANDALO DEL REALE La fine degli anni 50 del Novecento scandisce una frattura netta nel rapporto tra le immagini e il reale, prepara infondo da momenti chiave della storia delle immagini, come la rivoluzione neorealista che, seguendo la linea di Godard e di Serge Daneu, si apre con Rossellini e si chiude con Pasolini. Badiou prende spunto da Pasolini e afferma che il reale delle immagini cinematografiche è ciò che è fuori campo. Un rapporto complesso tra maschera, finzione e formalizzazione ed emergenza del reale. Concentrandosi sull’analisi delle Cenere di Gramsci del 1957 si nota una mediazione di Pasolini di fronte alla tomba di Gramsci, al cimitero del Verano a Roma. Medita sulla fine di un’utopia (comunista) che Gramsci rappresenta, sulle sue ceneri che permangono. Per Badiou la poesia rappresenta il desiderio disperato di trovare la passione del reale anche quando l’ipotesi politica sembra davvero tramontata. Ma Pasolini medita anche su altro, su una lacerazione interiore, sulla visione dell’irruzione di un reale inteso come rivoluzione politica e sul sentire un rapporto con il mondo che va al di là della lettura marxista. Si tratta per Pasolini di credere allo scandalo del reale, nella sua profonda contraddizione, nel voler desiderare passato e presente insieme. Lo scandalo è un movimento, un gesto che mostra l0impasse della formalizzazione, qualcosa che lacera il tessuto della rappresentazione e quindi mostra il mondo, il rapporto tra me e il mondo non come naturale. E qui che interviene il cinema, come possibilità in più laddove la lingua e la letteratura non sono più in grado di far rivivere la passione del reale. Ecco perché il cinema ha in sé caratteri del sogno. Pasolini lavora costantemente tra cinema di prosa e di poesia, cinema come realtà, sacro e profanazione, l’insignificante e il significante. Tensione che si riversa nel rapporto tra immagine cinematografica e reale 2 SPAZI E MONDI 2.1 LO SPAZIO OSCURO DEL REALE  IL PAESAGGIO INAPPROPRIABILE Uno parco pubblico, in una città cinese (Chenddu) è esplorato da una telecamera che lo attraversa. Il film, realizzato con un unico piano sequenza in steady-cam, lo sguardo cattura, per brevi istanti, corpi e sguardi, gesti e pose dei molti frequentatori. Bambini, lavoratori, anziani, ecc. sono uniti dallo sguardo che li frammenta in molteplici istanti di tempo. Un peschereccio nel suo viaggio alla ricerca di prede. Dozzine di camere di formati diversi ne riprendono il viaggio da angolazioni sempre diverse, dentro e fuori la nave, esplorandone gli spazi librandosi in volo. Le immagini si fanno così visioni fantastiche del mondo. uno sguardo multiplo che trasforma l’immagine del viaggio e la connette a molti altri viaggi, immaginari e reali. Un quartiere marginale di New York, all’ombra del nuovo stadio dei Metz, Willets Point. È una zona di autodemolizioni, povera, abitata e frequentata da personaggi ai margini nella nuova New York. L’immagine di un luogo temporaneo, devo però permangono e vivono persone che formano una comunità. Una zona destinata alla demolizione, di cui le immagini tracciano la testimonianza. Tre immagini che corrispondono a tre film – People’s Park (JP Sniadecki, Libbie Dina Cohn, 2012), Leviathan (Vèrèna Paravel, Lucien Castaing-Taylor, 2012), Foreign Parts (Vèrèna Paravel, JP Sniadecki, 2010) – tra i più rappresentativi della produzione del Sensory Ethnography Lad di Harvard. Quest’ultimo non è solo un progetto didattico innovativo, ma anche un progetto teorico legato ad alcune tendenze dell’antropologia contemporanea, in particolare il concetto di sensory ethography, vale a dire di indagine e ricerca fondata sulla dimensione sensoriale dell’esperienza sul campo e sulla possibilità di riprodurla attraverso forme espressive diverse della scrittura. Il concetto di etnografia sensoriale si basa sulla indeterminabilità di ciò che chiamiamo vita-in-sé, propone il recupero della dimensione conoscitiva della sensorialità, della aisthesis, che è in fondo il portato primo dell’estetica classica, vale a dire di quella disciplina filosofica che pone i sensi e le forme al centro di una indagine conoscitiva di sé e del mondo. La ricerca del laboratorio di Harvad si fonda sull’idea del cinema come strumento di indagine del mondo e di se stesso, delle proprie potenzialità di sguardo e di discorso, di forma estetica come di traccia e indagine documentaria. La matrice squisitamente documentaristica di questo cinema permette al discorso di individuare ancora una volta nello sguardo documentario una messa in questione potente della forma cinema e della sua portata teorica.  TRE PENSIERI DEL PAESAGGIO Questi 3 film riconfigurano con forza la teoria e le pratiche dello spazio cinematografico, individuando nella dimensione sensoriale che il cinema mette in gioco, la possibilità di elaborare una pratica del paesaggio, dello spazio come luogo abitato e come elemento dinamico. I 3 spazi-paesaggio dei 3 film citati condividono infatti una problematica di fondo, quello di pensare lo spazio come elemento “operante” all’interno del dispositivo cinematografico. Si tratta di spazi in cui, riprendendo l’espressione di Deleuze, c’è un “movimento di mondo”, non più un rapporto duale tra personaggio e ambiente, ma un movimento congiunto, fatto di metamorfosi, di passaggi e trasfusioni l’uno nell’altro. In Millepiani, ad esempio, i visi richiamano e formano un paesaggio che si modifica in relazione ai corpi che lo abitano o lo attraversano. Al contempo, è il continuo movimento di territorializzazione e deterritorializzazione a determinare e segnalare il rapporto profondo tra uomo e mondo, gesti e ambiente. Lo scenario è dunque mobile; ogni dettaglio dei corpi e dell’ambiente diviene elemento di un movimento continuo, una forma potenzialmente cinematografica. Deleuze, poi, in Saggi e discorsi elabora una teoria del rapporto tra uomo e paesaggio, che ruota intorno a 3 termini chiave: abitare, costruire e pensare. Una prospettiva che mostra immediatamente un piano concettuale distinto: se da una parte sta il principio del movimento, della continua trasformazione di terra, territorio e mondo, dall’altra c’è la ricerca senza dine, di un rapporto capace di mostrare l’intima coappartenenza tra i 3 termini. Heidegger in …Poeticamente abita l’uomo… si spinge più avanti: parla del poetare come messa in opera, costruzione. È un’aperta attraverso il linguaggio, secondo la lezione di Holderlin. È l’attività in cui si manifesta l’atmosfera (lo stato d’animo), che è l’apertura originaria al mondo dell’esserci. La situazione emotiva già in Essere e tempo delineava le determinazioni dell’esserci, l’esser nel mondo e l’apertura ad esso. Ma solo in questa visione del mondo l’utilizzabile si manifesta. - Deleuze pone l’accento sul movimento di mondo, e dunque su uno spazio che non cessa di modificarsi insieme ai corpi. In questo caso il mondo può essere sotto forma di immagine, di paesaggio costruito attraverso lo sguardo. - Heidegger sottolinea la profonda coappartenenza del pensare e dell’essere situati. Qui il mondo/paesaggio è in movimento continuo e non può essere catturato se non in maniera parziale, incompiuta, come dettaglio, montaggio, rapido movimento di macchina. Il terzo concetto di paesaggio emerge in L’uso dei corpi di Giorgio Agamben. Nell’ultimo tomo dedicato alla ricerca pluridecennale sullo Homo Sacer, egli riflette sul senso della parola uso, distinguendola da proprietà o appropriazione. L’Inappropriabile diventa la figura di ciò che può essere usato pur non potendo essere mai proprietà e come uno degli esempi fatti indica appunto il paesaggio, nel suo rapporto con l’ambiente e con il mondo. Riprendendo la definizione di Heidegger sul rapporto tra uomo e ambiente, Agamben afferma che un vero rapporto con il paesaggio rivela qualcosa che va al di là di qualsiasi rapporto strumentale o determinato con esso. Poiché il mondo si rivela senza mediazioni “l’essere è fin dall’inizio attraversato dal nulla e il mondo è costitutivamente segnato da negatività e spaesamento. Egli sembra dunque criticare e riprendere i concetti heideggeriani e deleuziani, per portarli in un’altra direzione. Il movimento del concetto può essere riletto come forma del cinema; con una torsione non priva di vertigine, la forma del piano sequenza, del movimento senza soggetto del mondo sembra problemizzare l’inappropriabilità del paesaggio da un punto di vista squisitamente cinematografico. David McDougall afferma che il piano sequenza nel documentario è anche l’attestazione di una mancanza, di una impossibile, quanto necessaria, presa del mondo. L’inappropriabilità del paesaggio diviene allora, cinematograficamente, l’attestazione del confronto impossibile con il reale.  L’ETNOGRAFIA SENSORIALE In Foreign Parts, lo sguardo della macchina da presa è costantemente calato ad altezza d’uomo, si muove all’interno degli spazi di un quartiere invisibile, eppure abitato. Il suo movimento instaura continuamente un rapporto di vicinanza e lontananza con e dai suoi personaggi costruendo di volta in volta una serie di relazioni complesse tra lo spazio e i suoi abitanti, come se i gesti e le parole, i desideri e gli affetti, i pensieri e le riflessioni dei personaggi del film non potessero esistere se non all’interno di quelli spazi, che in un certo senso gli riflettono e gli determinano. Solo il movimento della macchina da presa e del montaggio può però restituire questa dinamica essenziale, questo rapporto fondante, questo essere nel mondo che necessita di essere visto. La coappartenenza ad un luogo infatti è tanto più urgente quanto il luogo è marginale, apparentemente anonimo, destinato alla distruzione, come il sobborgo di Willets Points dove ha luogo il film. La vita procede come tentativo continuo di riparazione: i personaggi del film aderiscono allo spazio, ma declinano la loro relazione di coappartenenza al quartiere vivendo al suo interno, costruendo discorsi e pensiero proprio grazie al movimento che la macchina da presa costruisce e al tempo stesso mostrandone il disfacimento. Leviathan, sicuramente il film bandiera del SEL trasforma le immagini di uno spazio-viaggio (quello del peschereccio), in un prolungamento sensoriale che in un gesto filmico in fondo profondamente ejzenstejniano prolunga le immagini in visioni mitiche, archetipiche, letterarie e leggendarie. Le camere utilizzate sono molteplici: GoPro, alta definizione Sony o come le EX3 o EX1. Il film NON racconta ma riattraversa letteralmente il viaggio del peschereccio moltiplicando indefinitivamente i punti di vista, dentro e fuori la nave, sopra e sotto l’acqua, dal cielo e dalla terra, accompagnando il volo di gabbiani o immergendosi con la catena dell’ancora sin sotto la superficie del mare. Il viaggio diventa percezione pura (anche sonora), una sorta di lotta perenne dello sguardo e dell’udito nel tentativo di riuscire a catturare un’esperienza. Una forma di impegno con il mondo significa anche insieme al mondo, pensare il cinema come qualcosa che appartiene al mondo, che è immerso in esso. L’esperienza cinematografica diviene anche altro, riscopre una potenza che non è solo descrittiva, ma evocativa, e mitica. La potenza del cinema non è altro, forse, che l’anaalogon della potenza del mondo, l’espressione di una lotta senza fine e senza tempo. Nel lungo piano sequenza che costituisce People’s Park, il movimento cinematografico della steadycam non fa altro che attraversare gli spazi di un parco pubblico, incontrando decine e decine di personaggi che appaiono nel film per pochi secondi. Lo spazio è dunque attraversato per più di un senso: dalla macchina da presa e dai corpi che essa incontra, destinati a non appropriarsi del luogo pur essendone parte. Il piano sequenza diviene l’unica forma teorica in grado di capire quest’apertura, diventa, nelle intenzioni degli autori, anche un modo per lavorare sull’immaginario di una cultura come quella cinese, in cui la forma del racconto per immagini s’incarna spesso nella linea orizzontale, nei lunghi dipinti rettangolari in cui l’occhio scorre da una parte all’altra. Il piano sequenza diviene la traduzione tecnologica di un modo di rappresentare, che p anche un modo di vivere uno spazio e di immergersi in un paesaggio. La dimensione spaziale si apre a quella temporale, alle pratiche di vita dei luoghi che costituiscono uno ei rapporti possibili del paesaggio, pensato come operatore filmico, come elemento che determina la forma e le scelte registiche. 2.2 IL FANTASTICO E L’ASTRATTO Se il non-luogo è lo spazio determinante della contemporaneità esso diventa, nel cinema documentario contemporaneo, uno spazio di interrogazione. La sua definizione per negazione, per mancanza, permette allo sguardo cinematografico di attraversare lo scarto tra uno spazio senza presenza, o in cui la presenza si è apparentemente sancita da figure transitorie, in movimento. In Sacro GRA (2013) di Gianfranco Rosi il regista lavora intorno al racconto anulare romano, pensato come struttura dinamica, in cui muoversi per incontrare storie, piccoli racconti, personaggi che vivono o si muovono ai lati di quello spazio. Il movimento dei corpi è spesso localizzato in punti specifici lungo il percorso del raccordo, le cui immagini costituiscono anche cinematograficamente un “raccordo” tra le microstorie che avvengono e si situano ai suoi margini. Il movimento del film è dunque quello di un viaggio, in tempi e spazi diversi, soffermandosi sulle singole esistenze. Proprio perché il non-luogo è uno spazio dispersivo, i corpi e i soggetti che vi si incontrano sono piccole tracce disseminate lungo un percorso, la loro visibilità non si assomiglia apparentemente a quella del ritratto, né il circuito della strada assomiglia al percorso di un viaggio. Si tratta di un movimento interrotto.. ogni focus su storie e personaggi si alterna ai percorsi lungo la strada, che essendo un anello permette circolarmente di tornare sugli stessi personaggi, vederli in momenti diversi, frammenti spezzati di un circuito vitale e artificiale insieme come il raccordo romano. La presenza umana di Rosi è più di una traccia, è l’affermazione di un esistenza, o meglio di molteplici esistenze in un certo senso incastonate lungo l’anello stradale. Non si può elaborare una immagine di un non luogo senza mostrarne la dimensione umana che lo attraversa. I vari personaggi costituiscono le tracce di una umanità che di fronte alla perdita simbolica del luogo, cerca di costruire nuove simbologie, nuove ritualità, nuove possibilità di esistenza appunto. Ogni singolo momento di una giornata dei vari personaggi del film racconta di questo processo, si sofferma su parole e gesti, sulla visione del mondo di uomini e donne che, non semplicemente transitano, ma abitano, pur in uno spazio del tutto particolare. Un cinema che mostri il non luogo come spazio di movimenti e traiettorie si configura come cinema astratto, come quello di Godfrey Reggio in Koyaanisqatsi (1982) dove si sofferma su strade, autostrade, centri commerciali, stazioni, disegnando attraverso rallenti e accelerazioni, un’estetica dei movimenti degli attraversamenti umani. La continua rielaborazione delle immagini attraverso il time-lapse, riprese aeree, mediante l’accompagnamento musicale di una partitura scritta appositamente da Philip Glass, elima del tutto la possibilità di fare dei corpi umani dei personaggi. La figura umana è rappresentata come puro movimento, aderente agli spazi che attraversa. Submodernitè: - In Sacro GRA di Rosi si lavora sul recupero delle tracce umane in spazi di fatto invisibili, perché privi di simbologia antropologica. Qui è il montaggio di frammenti di vita a costruire il rovesciamento di senso del non luogo. - In Reggio si configura come visione giudicante, trasfigurazione estetica del mondo, che fa del non-luogo uno spazio simbolico di tipo nuovo, emblema della vita senza freni del mondo moderno. È la tecnica cinematografica del time-lapse, dell’accellerato a disegnare, letteralmente un mondo giudicabile. 2.3 CAMPI, CASTELLI, ISTITUZIONI  LO SPAZIO POLITICO È inevitabile che, pensando alla funzione politica dei luoghi lo sguardo si rivolga alla grande riflessione foucaultiana, genesi di un pensiero che ha attraversato il 900 e che negli anni 2000 si fa urgente. Riprendere cinematograficamente una grande direzione di ricerca foucaltiana, quella che ci permette di pensare il cinema come una delle “eterotopie”, cioè di uno di “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma non modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Il cinema è una eterotopia: lo è come totalità, come luogo fisico. Pensare così il cinema, implica mettere in gioco la centralità dello spazio come categoria centrale del suo pensiero, sia come categoria funzionale alla definizione del rapporto sapere/potere, sia come “luogo” da sottoporre a disamina volta per volta, in ogni contingenza storica. RENÈ FÈRET, Histoire de Paul (1975) è un film che ripensa le categorie di finzione e documentario e che colpisce in modo profondo Foucault. Il registra riscrive un episodio autobiografico, la reclusione in un istituto psichiatrico a vent’anni, dopo la morte del padre. Lo studioso francese riconosce al film il potere o la potenza di ricreare, nel vero senso della parola, l’esperienza della “forza degli effetti plastici del potere ospedaliero”. Ciò che il film lavora è di fatto la possibilità di mostrare i rapporti di coesistenza, di trasformazione e ordinamento die corpi all’interno del sistema; ma, più precisamente, specifica Foucault, dei muri, delle strutture, degli oggetti e dei discorsi che in questi spazi attivano. In Storia della follia egli esamina il perido della diffusione della lebbra in Europa: i luoghi e gli spazi dei lebbrosati, che diventeranno il modello degli spazi di reclusione e di esclusione che saranno i manicomi dell’età classica, vengono qui descritti in tutta la loro potenza reale di luoghi carichi di memoria e di immagini, che si mantiene anche quando “i lebbrosati saranno vuoti”. Il luogo diviene immagine di una carica politica, come i muri ospedalieri di Histoire de Paul. In quest’ultimo ciò che si coglie è la forza dinamica e trasformativa dello spazio-set, in cui gli attori, seguendo i loro “fili”, ricostruiscono e mostrano le dinamiche del potere ospedaliero. Ecco allora in che modo può emergere con forza il potere dello spazio come luogo d’incontro tra Foucault e il cinema, come riconoscimento del suo potere/potenza. Anche se il film mantiene aperta la questione su come sia possibile pensare all’eterotopia dal punto di vista cinematografico. La prevalenza dello spazio in questo film è attestata dall’assenza della parola: i gesti come i movimenti dei pazienti nella sala ricreativa inquadrata in campo lungo, dall’altro e il “posizionamento” di Paul all’interno della struttura, avvengono in silenzio, senza che la parola orienti un movimento nella sua dimensione spaziale. Ma la parola, come lo spazio, in Foucault assumono una funzione operativa, possono diventare movimento. Per Foucault il montaggio può essere usato per costruire un conflitto. In Moi, Piere Riviere, ayany egorge ma mere, ma soeur et mon fere…(1976) Renè Allio realizza un film dai materiali raccolti da Foucault, lavorandoci in modo rigoroso, anche se ciò che emerge è il fatto che il regista scelga in un certo senso un punto di vista che travalica gli altri, che è quello di Riviere: la sua voce avviluppa tutto il film, lo circonda e lo determina. Un operazione diversa dal montaggio di Foucault, immergendo l’evento all’interno di una prospettiva che è quella della vita di un villaggio contadino del 19esimo secolo. Nel film è la parola al centro, ad organizzare tutto: si ha l’apertura a un'altra possibilità, quella di vedere nel cinema non un’operazione di costruzione della storia, ma come forma che entra in relazione con la Storia in un modo del tutto peculiare, attraverso cioè quella che potremmo chiamare una capacità di ingrandimento, di attenzione peculiare ai singoli dettagli, che fanno del film un dispositivo in grado di mostrare. Alio ha restituito ai contadini di quel territorio la loro tragedia, tragedia cioè detta con le proprie parole, nei propri spazi e dai propri corpi.  MIGRAZIONI ED ESILI In film come La Fortese (2008) o Vol spècial (2011), il cineasta Fernand Melgar lavora sulla relazione tra corpo e parola in due situazioni sospese, dove il luogo e lo statuto dei soggetti che lo abitano è transitorio. In La fortesse, girato all’interno di una struttura per richiedenti asilo nella piccola città di Vallorbe, in Svizzera, gli spazi e gli orari del centro scandiscono la struttura narrativa del film e al tempo stesso la vita e i discorsi di chi dichiara la sua condizione di profugo. Lo spazio architettonico, l’edificio, le stanze, i luoghi comuni, gli uffici, le cucine costituiscono l’universo del film: la fortezza è un insieme di spazi, ognuno dei quali risponde a funzioni precise. All’interno di essa, dunque, i corpi e le parole sono determinate dalle funzioni degli spazi in cui si trovano transitoriamente a passare. È proprio lo scarto tra la parola ufficiale e la parola libera che emerge tra le crepe della struttura a determinare il sottile movimento all’interno del film. Lo spazio determina gesti e comportamenti, ma al tempo stesso non li prevede totalmente, non li contiene definitivamente. Proprio per questo il corpo soggetto al potere politico degli spazi e delle parole presenta sempre un resto, un inassimilabile che ne rivela poi la complessità. Più radicale lo sguardo di Vol spècial, dove si filma, con uno sguardo attento a non travalicare la distanza necessaria per osservare e mostrare il rapporto tra i corpi, spazi e parole la detenzione di un gruppo di persone dichiarate clandestine e rinchiuse nel centro di Frambois a Ginevra, in attesa del rimpatrio forzato. Gli operatori che scorteranno i clandestini fino al rimpatrio vengono addestrati e preparati ad interagire con i prigionieri; la forma dei loro discorsi, la distanza necessaria, il limite imposto ad ogni empatia diventano i criteri con cui vengono determinati i loro rapporti. Ma spesso queste parole e questi festi, tesi ad anestetizzare ogni ribellione alla sentenza, si scontrano con la disperazione e la determinazione di individui che rifiutano ogni spiegazione, che affermano, ognuno a suo modo, la propria libertà di scelta, di movimento, di esistenza. Il rifugiato mette in crisi il nesso tra uomo e cittadino su cui si fonda la moderna teoria della nazione, perché si colloca in una zona intermedia, in uno spazio che cerca di contenere l’elemento perturbante. Non si tratta di recuperare llo sguardo umanitario nei confronti di persone che vivono un disagio umano in uno stato di sospensione. Nei film di Melgar il procedere della macchina da presa non cerca di impietosire, o di annullare il potere biopolitico concentrandosi sull’umanità dei personaggi. Non c’è apparente violenza in coloro che sorvegliano e giudicano i richiedenti asilo; non c’è volontà di vendetta o disprezzo in coloro che si preparano ad espellere degli uomini dal loro paese. Lo scarto è squisitamente politico: la ribellione, ora muta, ora gridata, non riguarda il calpestamento della propria dignità umana, ma è politica; riguarda l’affermazione della propria esistenza come anomalia che non si può semplicemente nascondere o espellere. La forza del cinema che vuole esplorare il problema del reale sta allora nel non cedere alla tentazione di adottare uno sguardo parziale, di concentrarsi solo sull’aspetto umanitario, che di fatto cancella la radicale messa in crisi delle categorie fondati lo Stato-nazione. Uno degli spazi emblematici della condizione contemporanea è il campo: uno spazio aperto, temporaneo, un accampamento dove gruppi di persone senza diritto di cittadinanza si ritrovano a vivere una situazione di sospensione. In Qu’ils reposent en revolte (Des figures de guerre) (2010) Sylvain George filma uno dei campi più famosi del nuovo millennio: “The Jungle”, l’enorme baraccopoli di Calais in cui per molto tempo migranti, esuli e profughi da vari paesi, soprattutto africani, si sono accampati nella speranza di poter arrivare in Inghilterra. Il campo è una non-zona, uno spazio temporaneo, poi sgombrato nel 2016 dai francesi. Girato in 3 anni il film non cerca storie o eventi, non descrive una situazione, ma si situa negli interstizi del campo, mostrando, in forma spesso trasfigurata, quasi astratta, uomini in uno stato di eccezione, gesti quotidiani o eccezionali, compiuti all’interno di una zona grigia di indeterminazione tra regola ed eccezione. Il film dunque procede attraverso un montaggio che evita ogni sguardo patetico, facendo del bianco e nero il risultato cromatico della zona grigia che affetta i corpi di chi è costretto ad abitarci. Le inquadrature non hanno l’obbiettivo di descrivere, mostrare quasi oscenamente l’abbruttimento o lo stato “nudo” dei corpi. Al contrario l’immagine trascende la pura materialità senza abbandonarla, ne ricerca il senso profondo. Montaggio di volti e di gesti, canti e discorsi, sguardi e parole, il film mostra uno stato dell’essere di chi nonostante tutto resiste, resiste al suo annullamento come soggetto di diritto, resiste attraverso la propria quotidianità, la formazione di piccole comunità,, la non accettazione dello sguardo che gli altri hanno determinato. Il film non lavora dunque sulla separazione di queste figure dal mondo, al contrario: le immagini costruiscono il proprio mondo. Le figure del film sono dunque figure di guerra, come recita il sottotitolo, figure che mettono in gioco un’altra idea e pratica del conflitto, a volte statico, in riposo, ma comunque attivo. Ciò che lo scatena è appunto il rifiuto di essere collocati in un limbo, la volontà invece di esistere e resistere, anche se condannati alla sconfitta.  GEOGRAFIE DEI CORPI Between Fences (2016) di Avi Mograbi: siamo a Holot, centro di detenzione per richiedenti asilo in Israele, all’interno del quale un gruppo di uomini sta partecipando ad un laboratorio teatrale molto particolare, il Teatro dell’Oppresso. Una forma teatrale che nasce come forma di consapevolezza da parte dei soggetti che vi partecipano, delle forme attraverso le quali la società ne determina il ruolo, la funzione, la sottomissione alle regole sociali e politiche di un territorio o una forma politica. Alcuni detenuti di origine eritrea insieme ad alcuni militanti israeliani, insieme al regista e alla sua trouppe, si muovono all’interno dello spazio interno all’edificio semi abbandonato, tra scritte sui muri e poche suppellettili. Improvvisando mettono in scena le situazioni della loro esistenza quotidiana, incarnando se stessi e rovesciando i loro ruoli. La macchina da presa avvolge il lavoro cinematografico-teatrale in un movimento continuo, senza sosta. Lo spazio svuotato dell’edificio diventa spazio dove il gesto si libera, la parola si incarna e si riflette in se stessa. Uno spazio dell’eterotopia: la distinzione tra chi filma e chi è filmato entra in uno stato di indeterminazione. La dimensione teatrale è solo il gesto di partenza di un atto cinematografico molto preciso: trasformare uno spazio apparentemente qualsiasi in spazio politico, in eterotopia. Per farlo il dispositivo cinematografico si presenta come spazio in cui i ruoli sociali sono aperti, rovesciati e dove lo sguardo si pone come gesto attivo. 2.4 LA TOTALITÀ DEL MONDO Smarrimento, disciplina, invenzione di un’erranza: 3 punti che tornano alla mente dopo aver visto The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi, and 27 Years without Images (2011), di Eric Baudelaire. Nel 2001 May Shigenobu, figlia di Fusako Shingenobu, militante dell’Armata Rossa Giapponese in clandestinità in Libano, ottiene la cittadinanza giapponese dopo l’arresto della madre in Libano e l’estradizione in Giappone. Per la prima volta May conosce le sue origini. Nel 1974, Masao Adachi, registam sceneggiatore e attore militante comunista si unisce all’Armata Rossa Giapponese e milita in clandestinità in Libano. Nel 1997 sarà arrestato e estradato in Giappone nel 200. 3 vite in clandestinità dunque, invisibili. Il regista compie un cinema che entra in una comunicazione profonda con altri sguardi, interagisce con loro, non li mette in scena ma li interroga, interroga il loro mistero e, di conseguenza, interroga se stesso. Lo smarrimento è allora l’esperienza esistenziale dei 3 protagonisti, come anche quello dell’immagine ancora da ricercare in senso rosselliniano. Qualcosa si è perso nelle vite fuori confine dei tre e deve essere ricostruito attraverso un nuovo percorso. Anabasis è un racconto fatto di voci, le voci dei 3 protagonisti che raccontano storie, le proprie storie dislocate. Il non sapere chi si è, cosa si è diventato, dove si è, perché. Dunque le immagini devono ricostruire un percorso, e allo stesso tempo farsi rigorose non causali. Baudelaire filma con una camera super8 quello che Masao Adachi gli ha indicato: è una macchina da presa che può vedere senza spaventare, riprendere quasi la casualità del mondo. le immagini sono spesso inquadrature di passaggi vuoti, spazi qualsiasi o, meglio spazi che rappresentano il mondo dove i personaggi hanno vissuto, che rappresentano ciò che essi hanno visto, respirato, abitato. Nel film le voci si accompagnano spesso a immagini che costruiscono un paesaggio: è la ripresa pratica del Fukeiron, una teoria del paesaggio che lo stesso Adachi aveva teorizzato e praticato in un film come A.K.A. Serial Killer del 1969, in cui l’indagine su un assassino seriale di 19 anni è condotta non mostrando i corpi, i personaggi, le storie, ma semplicemente i luoghi frequentati dall’uomo. Una teoria estetica e politica: filmare i paesaggi dove il giovane serial killer ha ucciso 4 persone significa per il regista giapponese filmare la traccia visibile di un contesto sociale che determina il crimine. Il rigore politico allora si fa disciplina estetica nella successione dei quadri e dei testi che riprendono la cronaca del processo. L’invenzione di un’erranza, infine, è ciò che costituisce il senso finale dell’operazione di Anabasis. Il senso dell’immagine non è rappresentare qualcosa, né di stare al posto di qualcosa. L’immagine è anzitutto un dono, un qualcosa che viene offerto e in quanto tale l’immagine può essere in grado di inventare un’erranza, un nuovo percorso in grado di dire qualcosa su alcune vite, su alcune esistenze. Ma l’immagine non deve cadere in tentazione di creare un ritratto di queste esistenze, perché verrebbe meno al suo compito di inventare un’erranza. Ciò che caratterizza l’anabasi, dice Badiou, è la creazione di una comunità, il passaggio da un “io” a un “noi”. Nelle immagini solo in apparenza impersonali di Baudelaire, nelle immagini che sono frutto di un “dono”, tale passaggio diventa una forma di cinema, un pensiero del cinema. 3. TEMPO E EVENTO 3.1 TEMPO E DURATA La dimensione del tempo nel cinema del reale è stata spesso associata all’atto stesso del filmare, al tempo del set, delle riprese, della ricerca. Il tempo dell’attesa, della caccia, dell’inseguimento, il tempo che dà forma a quelle modalità del documentario che Bill Nichols chiama Osservativa e Partecipativa, in cui la temporalità di ciò che si filma e si monta è percepita e organizzata come continua, o perché lo scopo è quello di riportare ciò che passa davanti alla macchina da presa (osservativa), o perchè l’incontro tra chi filma e chi è filmato determina il senso stesso del film, il suo movimento più proprio (partecipativa). Si può certo parlare di temporalità in relazione al tempo stesso del film, inteso come tempo di ripresa, e in relazione alla sua forma (o modalità), ma il cinema del reale ci può portare a pensare il tempo, il problema del tempo in modi anche diversi. Ciò che caratterizza la modalità osservativa e partecipativa è un’idea di continuità del tempo: il tempo della ripresa e del montaggio. Un tempo che prima di tutto è durata, quasi mistica, aderenza temporale al reale. L’attesta, l’istante in cui il senso si rivela, la pazienza dell’ascolto, del comprendere. La temporalità specifica dello sguardo (e dell’orecchio) documentario è certamente nota a chi si occupa di cinema del reale. Il puro accadere, la folgorazione dell’istante: il cinema del reale si fonda spesso sull’idea che l’immagine sia capace di legarsi all’evento, non solo ricostruirlo, descriverlo, immaginarlo, ma prenderlo con sé: proprio da questa peculiare idea e pratica della temporalità che può emergere un ulteriore pensiero dell’immagine temporale. La modalità osservativa e quella partecipativa costituiscono infatti per Nichols il cuore della potenza del cinema documentario dal punto di vista dell’esperienza stessa del tempo. Le altre modalità, Poetica (trattamento creativo del reale), Espositiva (descrittivo, didattico, educativo), Riflessiva (saggio, riflessione sul mondo), Performativa (spazio dove la soggettività dell’autore reinterpreta creativamente il mondo), si collocano necessariamente su altre prospettive temporali. In esse domina la discontinuità, la possibilità dell’amalgama di elementi diversi, il distacco oggettivo o la volontà creativa e visionaria. Filmare l’evento e la durata, l’istante e il presente significa allora interrogarsi su cosa significhi filmare il e nel tempo, rispondere attraverso le immagini al loro interrogativo. Si tratta di riflettere sulla struttura stessa delle immagini, sulla forma che interroga l’evento. Sulla cornice temporale che l’inquadratura e il montaggio costruiscono intorno all’evento filmato.  FILMARE L’EVENTO 1: CORNICI DI TEMPO Keiserslautern, Germania, 26 giugno 2006, ore 17:00: nello stadio della città tedesca ha inizio la gara valida per l’ottavo di finale dei campionati del mondo di calcio che vede impegnate le nazionali italiana e australiana. La regia si sofferma allora sui particolari, sui dettagli di un tempo sospeso: dal gesto di posizionamento del pallone sul dischetto del calcio di rigore, all’inquadratura del portiere che segnala all’arbitro la posizione non consona della palla, dai primi piani dei volti dei tifosi in apprensione, all’inquadratura del portiere della nazionale italiana, Gianluigi Buffon, che in silenzio sta osservando la scena. Infine una delle telecamere posizionate sul campo cattura lo sguardo di Francesco Totti prima del calcio di rigore. L’inquadratura è un primissimo piano, in campo ci sono solo gli occhi dell’attaccante della nazionale. Le pupille scartano da sinistra verso destra per poi soffermarsi su qualcosa (qualcuno) che si staglia di fronte all’attaccante. Lo sguardo si fa fermo, deciso: Totti guarda il portiere avversario. Varie inquadrature si sovrappongono. Le immagini, la loro sequenza, il loro concatenamento sono stati visti in contemporanea in tutto il mondo, commentati in decine e decine di lingue in diretta, a prescindere dall’orario in cui sono trasmesse. Una regia internazionale, una moltiplicazione delle immagini stesse. Il suo essere in diretta, poi, ne certifica l’attualità e, al tempo stesso, la sua condizione effimera. Su internet si moltiplicano i montaggi fan made dell0evento, ridoppiaggi, clip ed estratti che lo consegnano a una nuova archiviazione mobile. Ciò che colpisce è che essa si struttura secondo una logica narrativa ben conosciuta, ma con degli elementi che destano attenzione, che la rendono ancora più esplicitamente “interna” ad una forma narrativa che molto deve al cinema e ai suoi linguaggi. Così come viene raccontato l’episodio della partita assume dei toni epico-drammatici: si noti l’inquadratura degli occhi di Totti, un dettaglio raro ma efficace. Perché evoca un’inquadratura western, meglio ancora, un’inquadratura che appartiene ad una fase precisa del western, quella della modernità eccedente, successiva alla fase del “surwestern” descritta da Bazin. Il dettaglio dello sguardo mostra la dinamica del duello o meglio la rappresentazione del duello che diventa principio organizzatore delle immagini e del loro concatenarsi nella ripresa in diretta dell’evento sportivo. Questo esempio del montaggio ci porta in un territorio dell’ibridazione, della sovrapposizione delle forme, in cui da una parte le immagini moltiplicano le proprie occorrenze e, dall’altra non cessano di richiamarsi a vicenda, di associarsi in un continuo rimontaggio. Attenzione, perché il montaggio non è casuale, non è ludico spostamento di tutte le forme, ma è chiaro e costante. In altre parole il flusso visivo della contemporaneità si pone come esperienza visuale nel momento in cui entra in relazione con un soggetto che organizza il flusso secondo un principio di strutturazione, che lo interpreta, per riprendere i canoni stessi degli studi visuali, a partire dalle relazioni che si instaurano nei processi di produzione e di circolazione delle immagini stesse. Il film Zidane, un ritratto del 21esimo secolo (2006) di Douglas Gordon o Philippe Parreno rievoca la partita avvenuta a Madrid il 23 aprile 2005 tra il Real Madrid e il Villareal. Il film monta in sequenza lineare le immagini di Zizou in campo dal primo all’ultimo minuto, catturandone le espressioni, i gesti, gli sguardi, il sudore, i movimenti, i lunghi momenti senza palla, gli spostamenti. Cattura dunque un frammento della partita stessa vista non più come evento collettivo. Il dispositivo cinematografico si appropria dell’evento per costruire un’altra forma di narrazione, che è quella del ritratto. Il dispositivo narrativo che caratterizza la produzione delle immagini calcistiche passa in secondo piano, a favore di un ritratto di un soggetto che di quella messa in scena fa parte, ma che emerge dall’interno dello spettacolo della partita. Il ritratto non mostra Zidane al di fuori dell’evento ma riconfigura l’evento intero, proprio a partire dal soggetto che emerge dal ritratto. Yves Hinant in Kill the Refree (2009) parla dell’Austria e della Svizzera, dove si è celebrato il campionato europeo del 2008. L’obbiettivo è quello di mostrare i corpi e i gesti di alcuni partecipanti all’evento sportivo, spesso nascosti o visibili solo in quanto detentori del potere di gestione disciplinare della gara: gli arbitri. Qui non è l’idea di ritratto a organizzare i materiali, quanto l’idea di racconto, di messa in scena; si tratta di costruire altri personaggi, altre storie a partire da eventi che sono strutturati in modo tale da costruire storie narrabili mediaticamente. Ricerca, dunque, di un’altra narrazione possibile. ….  L’OCCASIONE E LA CACCIA In Images (a suivre), Marie-Jose Mondzain parla di caccia, di inseguimento, di perseguimento, di ricerca delle immagini come altrettante declinazioni del rapporto che ci lega alle immagini. Non si è mai in una relazione di proprietà o di dominio. In un saggio dedicato alla figura allegorica dell’occasione, Georges Didi-Huberman aggiunge altri elementi a questa pratica dell’inseguimento, della fuga e dell’impossibile possesso delle immagini. L’occasione è in perpetuo movimento, è l’apparente casualità dell’incontro, della “caduta” dal suo movimento sospeso a determinare qualcosa, a interrompere il puro percorrere lineare del movimento. Il viaggio, l’erranza, sono appunto il movimento che permette l’occasione, ovvero l’interruzione della sospensione, della suspense, dell’attesa di qualcosa; l’occasione è ciò che interrompe per un istante la sospensione, non si è più sospesi, si cade. Questa interruzione della linearità si configura anche come possibilità insperata per il film stesso. In Cadenza d’inganno (2011) di Leonardo Di Costanzo filma Antonio, un ragazzino dei quartieri popolari di Napoli, ne filma l’alterità, la difficoltà di vivere nel quotidiano, il rapporto con il quartiere e la città. Ma il film si interrompe. Antonio non vuole più essere il personaggio, scompare. Solo dopo molti anni ritorna dal regista e dice che vuole portare a termine il percorso, mentre se ne va in auto con la sua sposa. Quel vuoto è fatto di tempo, di una interruzione improvvisa di ogni progetto, di ogni scrittura previa, di ogni struttura preordinata. L’istante della decisione di Antonio di non essere più il personaggio del film e di scomparire alla vista del regista, è appunto la biforcazione del tempo che non può essere visibile nel film ma che è in grado di creare cinema in modo affatto peculiare.  IL TEMPO DEL FILM Tra turista, reporter e documentarista, secondo Nichols, c’è il tempo inteso come durata del film, del film inteso come processo. La durata di un film dipende non tanto dalle condizioni esterne della sua realizzazione, quanto dal tempo dell’incontro, della costruzione della relazione tra chi filma e chi è filmato. Il tempo del film non è dunque necessariamente quello delle riprese, del girato, anzi. Il tempo del film ha dunque a che fare con il tempo della vita, con la durata del vissuto. Cesare Zavattini enuncia questo nelle sue sceneggiature e nei suoi scritti dove si interroga spesso sul rapporto tra le due temporalità. E lo fa sotto forma di limite, di limite del filmare. Il suo pedinamento fonde insieme lo sguardo della macchina da presa e il corpo o i corpi dei personaggi: i loro movimenti, gesti determinano il senso stesso del film. Ma l’unione tra immagine e vita deve necessariamente interrompersi, la macchina da presa di ferma, rimane a guardare, finchè può, il movimento dei suoi personaggi. Il film deve finire, la vita continua. Nel 1961 a Winfreid Junge viene incaricato di realizzare un documentario sulle nuove generazioni della Germania dell’Est, sulla modernizzazione socialista e sul suo riflesso nella vita dei bambini di un piccolo paese ai confini con la Polonia. Prima filma un cortometraggio poi sempre nuovi film. I bambini di Golzow diventa un film-mostre di 42 ore di durata, 20 episodi tra il 1961 e il 2007: è un tentativo parziale di avvicinarsi all’idea di cinema totale che corrisponde alla durata di una vita. Il film sembra cercare di fondere  STORIE (IL TEMPO DEL MITO E DEL RACCONTO) Contrapponendosi a Bazin, da cui però prendeva le mosse, Deleuze apriva la sua riflessione sul Neorealismo in Immagine-tempo affermando che il neorealismo produceva un “di più di realtà”, formale o materiale, sgombrando il campo dai clichè e dai luoghi comuni che da sempre hanno reso problematico il riconoscimento del neorealismo come grande apertura dello sguardo. Bazin stesso riconosceva il neorealismo come arte del presente, come grande amalgama delle forme cinematografiche. Una prima forma dell’oltrepassamento, del “di più di realtà” è ciò che accompagna, da tempo, le forme del cinema del reale, che raccolgono con una consapevolezza specifica la sfida. Soprattutto quando lavorano sul confine finzione/realtà. Nel corto Alberi (2013) Frammartino analizza un antico rituale della Lucania (vedi Villa). Minnervini in Low Tide (2012) lavora sulle tracce disperse di una sacralità del mondo perduta, confusa, nascosta. Si tratta di finzione, di raccontare storie, ma i corpi del bambino e della madre sono lì che negano al momento stesso in cui lo affermano il loro ruolo autoriale. Sono a testimoniare un gesto di cura che va al di là di ogni spiegazione. Non si tratta di riscoprire il mondo di bellezza, ma di cercarla là dove non sembra annidarsi: ecco forse un primo significato del più di realtà di cui si parla. In Stop the Pounding Hearth il movimento si intensifica. Una storia d’amore, mai espressa, compiuta, in un luogo sospeso dal tempo, nella profonda campagna texana, dove domina una religiosità arcaica, dove il mondo sembra allontanarsi. Minvervini filma i corpi e i luoghi li mette in scena trasformandoli. Sara, appartenente a una famiglia di allevatore di capre che non crede nell’educazione pubblica diviene corpo misterioso protagonista di un evento senza per questo allontanarsi dal mondo arcaico e reale in cui abita. Lo sguardo del regista coglie con precisione momenti e scarti e costruisce momenti di dialogo tra genitori e figli o tra ragazzi, in cui una visione del mondo in cui un dio giudice domina ogni gesto e ogni respiro prende forma. Invece lo sguardo della macchina da presa non giudica, se mai riguarda. Non si tratta di interpretare il mondo attraverso una credenza religiosa, ma di riconoscere la sacralità di un desiderio, di un sentimento o gesto.  LA DISTRUZIONE DELL’ESPERIENZA Benjamin parla di esperienza come processo, sedimentazione nel soggetto di un vissuto che diventa uno strumento per leggere il presente. Altro è l’esperire immediato, la vivida percezione di qualcosa. Si parla di atrofia dell’esperienza di un doppio fenomeno: da un lato l’eccesso di esperienza come blocco, cancellazione della parola in grado di raccontarla; dall’altra la sua conseguenza, il torpore dello spirito, la “stanchezza” che porta le nuove generazioni ad adagiarsi al ritmo e al mondo della tecnica. Liberarsi del fardello dell’esperienza significa allora vivere in un presente eternamente rinnovantesi, in un mondo della tecnica che non richiede “esperienza”, impegno, proiezione del proprio bagaglio esperienziale. In Benjamin allora la perdita dell’esperienza si configura come l’origine di un’esistenza lieve, senza complicazioni, ma senza temporalità, senza rapporto tra presente e passato. In Su alcuni motivi di Baudelaire, individua, poi il passaggio dall’esperienza singola a quella collettiva, che solo lo sguardo poetico può attraversare. Anche se si tratta di una poesia che trasferisce la percezione, o meglio la memoria involontaria proustiana “al piano del collettivo, rimettendola a un tipo di memoria automatica che appartiene ai molti e che si plasma, per esempio nei cerimoniali del culto e nelle feste popolari”. Una memoria in grado di cogliere lo choc della modernità, trasformarlo in culto, festa o spettacolo. La memoria è una questione di frammenti, o meglio, del loro montaggio: è la visione che emerge in Lullaby to My Father (2009), che lavora su molteplici registri visivi e sonori, dalla finzione al montaggio di testi e fotografie, fino all’esplorazione di spazi architettonici particolari. Qui il montaggio di materiali, la personale visione di una memoria filmica sono organizzati attraverso una precisa visione architettonica. Munio Weinraub, padre di Amos famoso architetto, proviene dalla scuola del Bauhaus, ha studiato con Kandinskij e Gropius, porta con sé l’eredità di un Europa che crede nella modernità architettonica come possibilità per costruire spazi di libertà. Per lui l’architettura è politica, utopia concreta, come lo spazio stesso della scuola esplorato dal film con rigorosa attenzione alla geometria. Se il ritratto della madre è flusso di parole che si fanno immagini, il ritratto del padre si configura come montaggio di immagini che si fanno spazio geometrico, memoria organizzata secondo precise architetture. Ecco la scena di finzione, la nascita di Munio; sua madre incinta vaga in un bosco di campagna, alterna a stacchi continui di brevissime inquadrature di bambini. Il montaggio costruisce uno spazio, non lo rivela: è questo il passaggio fondamentale. La nascita immaginata di Munio si trasforma poi in un collage progressivo di foto, immagini del padre e delle sue opere, ma anche della sua scrittura e dei suoi progetti. Un altro montaggio architettonico. A questa dimensione si aggiunge poi la testimonianza impossibile, della nipote, la figlia di Amos, che non può che parlare del nonno attraverso il proprio padre. Così il film procede alternando forme e stili diversi, dimostrando che ogni ritratto cinematografico è necessariamente legato al corpo e allo sguardo. Non esiste un rapporto unico tra cinema e memoria, ma esiste l’urgenza, la necessità di interrogare lo spazio di questo rapporto con forme cangianti. Poi, nel 2013 con Architettura in Isdraele i discorsi sull’architettura diventano “pubblici” sulla memoria collettiva, sull’esperienza di un popolo, di un territorio che fa memoria e dell’esperienza di due concetti fondamentali della propria esistena. 3.4 L’IMMAGINE MANCANTE  IL PASSATO COME ASSENZA Raccontare. Prima di farlo bisogna interrogarsi sull’urgenza di ciò che si vuole dir; lo sguardo documentario è interrogante. L’atto di uccidere (2012) e The Look of Silence (2014) di Joshua Oppenheimer e L’immagine mancante (2013) di Rithy Panh costituiscono due modalità, due possibilità di risposta all’interrogazione di partenza. Questo è la mancanza di immagini, di uno sguardo capace di mostrare un orrore. In L’atto di uccidere il regista in Danimarca aveva ricercato l’immagine mancante attraverso un reenacting degli stessi torturatori, che ricreavano di fronte alla camera i loro crimini, in un corto circuito di memoria e messa in scena; in The Look of Silence il regista mette in gioco in modo ancora più evidente l’interrogazione alla base di ogni atto del filmare. Il protagonista è infatti un oculista ambulante, il cui mestiere di far vedere si trasforma gradualmente nella ricerca di un vedere, di un’immagine che manca e che può solo mostrare la sua mancanza. L’uomo gira per l’Indonesia alla ricerca di una memoria, interrogando le persone che si sono rese protagoniste di quegli anni terribili. Dunque, il primo film lavora sull’affabulazione ipertrofica e quasi insostenibile dei due ex torturatori del regime che raccontano davanti la macchina da presa i loro crimini, mimandoli e rimettendoli in scena; nel secondo film è lo sguardo, la memoria e il racconto dei sopravvissuti a costituire l’interrogazione urgente del film. L’immagine manca in entrambe le prospettive. In S21- la macchina di morte degli khmer rossi (2013) di Rithy Panh l’immagine mancante del genocidio del popolo cambogiano ad opera del regime di Pol Pot non può essere ritrovata dunque il regista si affida al racconto a partire da se, dalla sua esperienza diretta di tredicenne proiettato improvvisamente nell’incubo dei campi di lavoro. Tutto il film si affida a 2 ordini di immagini, diorami che rievocano il passato, animati da piccoli pupazzi dipinti a mano e immagini di repertorio, immagini di propaganda sottosposte a un rigoroso montaggio e svuotamento del loro senso originario. Bisogna produrre altre immagini, immagini-ricordo che il montaggio e la voce fuori campo usano in un senso intellegibile, forme attraverso la quale sfuggire al vuoto e al buio della mancanza di ogni immagine.  L’ANIMAZIONE DEL TEMPO L’immaginazione è parte dell’umano e compito del documentario, l’aveva capito Rossellini con Fantasia sottomarina (1939) quando immaginava, filmando i pesci di un acquario, una avventurosa storia d’amore tra i due pesciolini solitari. Una fantasia che rivela la potenza delle immagini. Quella dell’Animated Documentary è una tendenza sempre più diffusa nel panorama cinematografico contemporaneo: si definisce per la sua tecnica, quella di mescolare riprese dal vero di animazioni di tipo diverso. Così si esplorano le forme attraverso cui il cinema lavora l’immaginazione sia per trasformare il mondo, sia per evocarne la perdita, sia per dare forma ai sogni, incubi e desideri. Un film come Walzer con Bashir di Ari Folman lavora sull’animazione come unica forma per rendere conto dell’allucinazione della guerra. Il gioco sta nella capacità dello sguardo documentario di rielaborare le forme cinematografiche al fine di interrogare la temporalità storica, i luoghi nascosti e bui della Storia recente o passata, dargli una realtà visibile. Un film come The Dark Side of the sun di Carlo Shalom Hintermann trasforma in saga animata il mondo di favole notturne dei bambini affetti da un’eccessiva sensibilità alla luce e che possono solo vivere di notte. Il film è ambientato a Camp Sundown, un campo estivo che riunisce questi bambini, che se esposti al sole potrebbero avere un tumore alla pelle. La camera racconta questo mondo rovesciato, giovani vite che durante il giorno evitano la luce e che durante la notte vivono come ombre. La regia lavora su due livelli: le riprese del campo, delle interazioni tra ragazzi, i loro gesti e movimenti, parole e le sequenze di animazioni che rendono visibili i loro sogni, trasformandoli in un racconto fantasy i desideri, le paure e la volontà di vivere dei piccoli protagonisti. Le sequenze di animazione raddoppiano il film, creano una doppia lettura del reale. La malattia reale diventa racconto, diventa personaggio. Un duplice livello di realtà, quello visibile e quello invisibile, ma profondamente radicata nelle esistenze di chi sta filmando. L’animazione come tempo di rielaborazione del pensiero. Is the Man who is tall Happy?: An Animated conversation with Noam Chomsky (2013) di Michel Gondry. Prima ancora che la conversazione abbia inizio, lo schermo si mostra come uno spazio bianco dove un tavolo prende corpo attraverso un disegno, sul tavolo dei fogli e dei pennarelli. L’immagine cambia: il tavolo è ora in totale, una camera fissata al tavolo mima il procedimento dell’animazione e un uomo disegna incessantemente su un foglio dopo l’altro. In alto, mentre la voce fuori campo di Gondry parla, vediamo comporsi le parole pronunciate. Filmare una conversazione è un atto di ambiguità, perché il cinema la manipola, allora il regista decide di usare l’animazione per rendere evidente questa manipolazione e allora starà allo spettatore decidere dove si situa la verità dei discorsi. L’animazione è qui come schermo ribelatore, filtro necessario capace di mostrare la dimensione di finzione presente in ogni operazione documentaria. Si apre proprio uno spazio di verità mostrando questa consapevolezza, la verità dell’esposizione del soggetto, della affabulazione di se e del modo in cui questa affabulazione diventa attraverso lo sguardo del regista, immagine.  LA SOPRAVVIVENZA DELLE IMMAGINI Filmare un museo non significa filmare solo l’istituzione in quanto tale, i suoi spazi i suoi ritmi e le regole che determinano le posizioni del corpo al suo interno. Si tratta di filmare questo doppio movimento, come una sorta di fenomenologia del ritratto, in fondo mai determinata in anticipo, ma sempre da scoprire in goni inquadratura. L’attraversamento dei suoi spazi è apertissimo. Si parla di ritrarre e ritrarsi: i film nel loro movimento mostrano i quadri come elementi materici, traccia di una mano e di uno sguardo, elemento simbolico e supporto delicato di un’idea pittorica o artistica. Sono immagine soggette a tanti sguardi, distratti o ammirati, curiosi o allibiti, indifferenti o calcolanti. Sono immagini che ricorrono da sole o apparentemente incastonate in inquadrature che mostrano quadri appesi o coperti. L’immagine così non è mai sola, ma attraversata da migliaia di sguardi. Anche passando al campo sono molteplici gli sguardi, anche in un film come Austerlitz (2016) dove Sergej Loznitsa filma uno sguardo annullato da ogni possibilità di esperienza. Lunghe inquadrature in bianco e nero all’interno del campo di concentramento, il film coglie il flusso turistico all’interno di uno spazio particolare. egli filma la dissoluzione delle immagini e al tempo stesso il problema della loro infinita riproduzione. Il film mostra lo scarto crudele di un mondo trasformato in museo in cui non c’è nulla da vedere.
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