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Dante, Alessandro Barbero, Riassunto, Appunti di Storia Medievale

Riassunto completo e dettagliato del libro Dante di Alessandro Barbero.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 07/03/2024

Gazza.lettere
Gazza.lettere 🇮🇹

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(1)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Dante, Alessandro Barbero, Riassunto e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! DANTE ALESSANDRO BARBERO § 1. Il giorno di San Barnaba Sabato 11 giugno 1289 l’esercito fiorentino che marciava attraverso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo arrivò in vista del castello di Poppi, a metà strada fra Firenze e Arezzo. Davanti a Poppi la valle si allarga formando una pianura, chiamata all’epoca Campaldino; era la prima località che gli invasori incontravano adatta per schierare e manovrare la cavalleria, e lì, puntualmente, li aspettava il nemico. L’esercito fiorentino non aveva un comandante, ma un comitato direttivo, perché il mondo dei comuni aveva orrore dei poteri troppo concentrati. Al vertice c’erano i dodici “capitani della guerra”, scelti fra i cavalieri più esperti in quel genere di faccende, in rappresentanza di ognuno dei sesti, cioè i sei rioni in cui era divisa Firenze. All’epoca la forza d’urto di un esercito era formata dalla cavalleria, armata di lancia e spada e coperta di ferro; l’esercito dei fiorentini e dei loro alleati guelfi aveva 1300 cavalieri secondo Dino Compagni (1600, secondo Giovanni Villani). Fra loro, i fiorentini erano 600, tutti “cittadini con cavallate”, ovvero cittadini agiati a cui era stato imposto di mettere a disposizione un cavallo da guerra. Ma non tutti erano giovani o volenterosi, e i capitani ne scelsero un quarto, 150 in tutto, che schierarono davanti agli altri: sarebbero stati i primi ad attaccare oppure i primi a subire l’attacco. La scelta di questi feditori provocò un certo nervosismo: tutti capivano che era la posizione più pericolosa. Siccome i volontari scarseggiavano, un capitano per ogni sesto fu incaricato di designare i feditori. Messer Vieri de’ Cerchi, capitano per il sesto di Porta San Piero, fece scalpore designando se stesso, suo figlio e i nipoti. Alle spalle dell’avanguardia prese posizione il grosso della cavalleria, “la schiera grossa”, e ancora più indietro i carri dei bagagli, per formare una barriera che avrebbe impedito alla cavalleria di scappare. Il resto dell’esercito era formato dai cittadini di condizione più modesta e dai contingenti contadini, organizzati per parrocchie, che combattevano come fanti a piedi, armati di lancia, o come tiratori armati di arco o balestra. Tra loro c’erano degli specialisti che reggevano ingombranti scudi di legno, i pavesi; piantati per terra, servivano a formare una barricata dietro cui poteva ripararsi il grosso della fanteria. Perciò i capitani schierarono fanti e balestrieri sulle ali, per coprire i fianchi della cavalleria, e ordinarono ai pavesieri di piantare i loro scudi davanti a tutti. Erano dipinti di bianco col giglio rosso, l’insegna del governo guelfo di Firenze. Fra i feditori schierati in prima fila, c’era Dante. Il primo a raccontarlo è l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436, già anziano, scrisse una Vita di Dante. La partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante, nonostante l’enorme impegno negli studi, non viveva fuori dal mondo, anzi era un giovane come tutti gli altri – ed essere giovane significava anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva. A sceglierlo per far parte dei feditori fu molto probabilmente messer Vieri de’ Cerchi, futuro capo della Parte Bianca, e vicino di casa degli Alighieri nel sesto di Porta San Piero. Bruni riferisce di aver letto la notizia in una lettera di Dante, nella quale l’autore “disegna la forma della battaglia” (probabilmente si 1 tratta di uno schizzo). L’epistola noi non l’abbiamo più, ma possiamo certamente credere al Bruni, il quale conosceva diverse lettere autografe di Dante, e ne descrive perfino la calligrafia (lettera lunga, magra e corretta). Dante era profondamente interessato e personalmente coinvolto nella cavalleria, intesa come attività militare e sportiva d’élite, e nelle sue opere abbondano le immagini tratte da quel mondo. Di sicuro Dante aveva dei buoni cavalli. Per quanto riguarda lo svolgimento della battaglia, in un primo momento gli aretini attaccarono energicamente i fiorentini e i feditori guelfi si trovarono bloccati e in difficoltà, probabilmente alcuni inizialmente fuggirono, fra cui Dante (non era cosa rara o sbagliata all’epoca). Poi le forze degli aretini scemarono, si giunse ad una mischia confusa e pian piano i fiorentini prevalsero. Perché siamo partiti da questa giornata memorabile? Perché per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua posizione sociale. Fuori d’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili, cioè membri di famiglie che si trasmettevano di padre in figlio la terra, i contadini, il potere di comando, e l’ideologia cavalleresca del coraggio, del cameratismo e della fedeltà. Ma in Italia le cose erano più complicate. Certo, anche nei comuni italiani la popolazione si divideva fra quelli che combattevano a cavallo, i milites, e tutti gli altri, che combattevano a piedi, i pedites. E anche in Italia l’addobbamento cavalleresco garantiva ammirazione, rispetto e privilegi. A Firenze chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi il cavallo e le armi, diventando un cavaliere a pieno titolo: un “cavaliere di corredo”. D’altra parte, chi, pur avendo i soldi, non aveva nessuna intenzione di spenderli in quel modo, poteva però vedersi costretto dal comune a fornire un cavallo da guerra, e a quel punto di solito preferiva montarlo personalmente: erano quei “cittadini con cavallate” fra i quali quel giorno c’era anche Dante. Erano armati e montati allo stesso modo degli altri, e collettivamente anche loro, nelle fonti, erano chiamati cavalieri o milites. E dunque vedere Dante a cavallo e armato ci dice, sì, che apparteneva allo strato superiore della società cittadina, ma non ci dice se fosse nobile. A Firenze non esisteva la nobiltà nel senso di una qualifica giuridica, come sarà invece sotto l’Antico Regime. Alla fine, cosa impariamo sulla condizione sociale di Dante dal fatto che venne scelto come uno dei 150 feditori? Che era bene armato, e aveva un buon cavallo, e dunque era abbastanza ricco, oltre che giovane, robusto e allenato; ma continuiamo a non sapere se la sua famiglia era gentile-nobile, e dunque ricca e potente da generazioni, o se era venuta su da poco. Consideriamo un particolare importante. Fra i preparativi della battaglia ci fu anche l’addobbamento di un certo numero di giovani (i più abbienti) che vennero armati cavalieri sul campo (“cavalieri novelli”). In questo modo si rimandavano le spese connesse all’addobbamento e si conferiva maggiore aggressività all’esercito cittadino, perché i cavalieri novelli avrebbero fatto di tutto per non sfigurare e fare qualcosa di eccezionale. Sui 150 feditori fiorentini vennero fatti ben 20 “cavalieri novelli”, ma Dante non fu tra i prescelti. § 2. Dante e la nobiltà Ma quindi Dante era nobile? La parola nobile è equivoca. Essere nobile non significava detenere un qualche titolo giuridico, accertato e verificabile, ma aveva a che fare in modo generico con l’antichità della famiglia, e col rispetto che suscitava in città. 2 Bellincione figlio di Alaghieri è citato in più di 40 atti dal 1232 al 1270: sono molti, per un fiorentino della sua generazione, e confermano che si trattava d’un personaggio d’un qualche rilievo. Due documenti (1240 e 1251) lo mostrano attivo nella vita politica del comune. Nel 1251 partecipò a un consiglio allargato, forse in qualità di dirigente delle Arti, per ratificare un’alleanza con Genova e Lucca contro Pisa. Parteciparono molti consiglieri, infatti ci troviamo in un governo di popolo. Gli altri documenti di cui disponiamo riguardano appunto gli affari, ma benché siano così numerosi, ci offrono solo un’angolatura parziale dell’attività di Bellincione, perché provengono quasi tutti dal protocollo di un singolo notaio di Prato, Iacopo di Pandolfino, che registrò tutti gli atti relativi a un unico, seppur complicatissimo, affare del 1246. In questo affare Bellincione opera insieme a ben sei figli maschi: Alighiero, Burnetto, Drudolo, Bello o Belluzzo, Gherardo e Donato. All’epoca i figli rimanevano soggetti alla patria potestà per tutta la vita del padre, a meno che questi non accettasse di emanciparli, con un formale atto pubblico. Alighiero, che compare qui per la prima volta e sarà poi il padre di Dante, dichiara appunto d’essere stato emancipato e di poter agire in proprio benché il padre sia ancora vivo. Benché possediamo le registrazioni del notaio pratese, gli affari di Bellincione e dei suoi sei figli sono tutt’altro che trasparenti, perché la documentazione scritta era spesso fatta per mascherare la realtà piuttosto che per rappresentarla fedelmente. L’affare principale consiste in questo: Bellincione e i suoi figli vendono a un cavaliere 25 appezzamenti di terreno nelle adiacenze di Prato. Bellincione e i figli quindi hanno casa a prato e ogni anno dopo la mietitura i contadini vengono in città per pagare l’affitto ai padroni. Non siamo in grado di dire come mai la famiglia aveva questi interessi a Prato, ma certo è suggestiva la coincidenza con le lotte di fazione che infuriavano proprio in quegli anni a Firenze: le prime in cui si cominciò a usare i nomi di guelfi e ghibellini, e che videro a più riprese esodi di famiglie guelfe costrette ad abbandonare la città. Quanto alle terre che Bellincione e i suoi figli vendono al cavaliere, è probabile che fossero il frutto della loro attività di prestatori e che fossero state sequestrate a debitori insolventi. Tutto suggerisce che Bellincione e i figli abbiano venduto per procurarsi del liquido da reinvestire nel credito. Che l’attività principale di Bellincione fosse quella di prestare denaro è suggerito anche dal fatto che in questa occasione avviò anche il figlio maggiore Alighiero: delegato a ricevere il pagamento e nello stesso giorno presta denaro a tre persone diverse a tassi annui di interesse elevati (20-25%). Quindi, il padre, il nonno e gli zii di Dante erano usurai? In termini tecnici, sì, senza il minimo dubbio; e non solo per gli altissimi tassi d’interesse che si facevano pagare.  Teologi e giuristi erano concordi nel dichiarare che qualunque prestito qualificato come mutuo e concesso dietro pagamento di un interesse era da considerare usura. Nei contratti stipulati da Bellincione e dai suoi figli si dice molto chiaramente che i denari sono concessi mutuo e che è previsto un interesse nomine lucri. Ma questa posizione teorica aveva poche ricadute sul piano sociale, poiché in quegli anni di poderosa crescita economica i canonisti stavano cominciando a distinguere e a classificare come usurai soltanto coloro che vivevano prestando su piccola scala, in pratica strozzando i poveri. Ma il maneggio del denaro era un’attività richiestissima e redditizia e poteva attirare anche persone di condizione sociale molto elevata. Bellincione e i suoi figli non erano dunque usurai ma uomini d’affari, con le mani in pasta in tutte le occasioni in cui c’era da guadagnare qualcosa. Erano dei cansores, prestatori di denaro che incrociavano questa attività con i redditi che provenivano dai loro fondi. I parenti di Dante erano rispettabili esponenti del populus come s’intendeva nei comuni italiani, il tipo di 5 persone che si trovò a emergere anche in politica quando a Firenze, nel 1250, s’impose per la prima volta un regime popolare. Altri indizi della ricchezza della famiglia: 1. Dante va a studiare a Bologna e nel 1300 si reca a Roma per il giubileo, facendovi ritorno l’anno successivo per un’ambasciata. 2. Bruni ricorda che aveva denaro per vivere discretamente e onestamente e nelle Epistole e nel Convivio Dante si lamenta della sua povertà durante l’esilio. 3. Dante era stato nominato nel Consiglio dei Cento due volte, nel 1296 e nel 1301  per accedere era necessario avere un estimo di almeno 100 lire. “Gli Alighieri” Per collocare Dante nella società fiorentina del suo tempo è importante chiarire se apparteneva a una famiglia identificata con un cognome, e da quando. All’epoca, e ancora per diversi secoli, in Toscana un uomo del popolo era conosciuto col proprio nome e il nome del padre. Nella Firenze del Duecento avere un cognome significava appartenere a una famiglia conosciuta e influente. All’epoca avere un congome era come avere uno stemma: una cosa non da tutti e indice di una condizione sociale elevata. Si trattava però di un procedimento del tutto informale, perché non esisteva un’anagrafe a cui spettasse attribuire i cognomi: era solo l’uso a crearli e di per sé non comportavano alcun privilegio giuridico. Le famiglie con un cognome erano quelle che la gente si era abituata a identificare perché contavano nella società fiorentina e si muovevano collettivamente nella politica cittadina. Dante è orgoglioso di avere un cognome da quattro generazioni: “Alighieri” è attestato come cognome nel documento del 1240 in cui il nonno Bellincione è menzionato come testimone del podestà. Nel documento compare Bellincione Alachieri, che non però non indicare semplicemente la paternità (di Alighieri), in quanto a quell’epoca Alaghiero era già morto e macherebbe il “fu”. Quindi per il notaio gli Alighieri sono una famiglia, anche se probabilmente non era così conosciuta. Interessante è la menzione di Burnetto Bellincionis Alaghieri nel Libro di Montaperti del 1260: prima certa testimonianza del fatto che a Firenze si dicesse “gli Alaghieri”. Non è la nobiltà ma l’emergere dalla massa: mancano cinque anni alla nascita di Dante. § 4. Il clan degli Alighieri Lo stemma Appurato che erano una famiglia, non è ozioso chiederci se gli Alighieri avessero uno stemma. In parte questo dipenderà anche da una sana diffidenza verso la tradizione posteriore che attribuisce alla famiglia uno stemma parlante, con un’ala d’oro in campo azzurro, fondato su un’improbabile interpretazione dotta del cognome: Aligerii, i portatori d’ali. Un biografo d’inizio Ottocento, il Pelli, affermava d’aver visto un libro d’armi del 1302, in cui era raffigurato lo stemma degli Alighieri. I libri d’armi erano manoscritti sontuosamente illustrati in cui si raccoglievano gli stemmi delle famiglie più in vista. Lo stemma degli Alighieri, afferma il Pelli, era “diviso per il mezzo in diritto parte d’oro, e parte nero, e tagliato 6 per traverso piano da una fascia bianca”. In effetti chiunque era abbastanza ricco da avere un cavallo per combattere poteva avere anche uno stemma, che poteva essere dipinto sullo scudo. La famiglia di Alighiero Come si è visto, il padre di Dante comincia a occuparsi di affari, emancipato dal padre, nel 1246. Le poche altre carte in cui è menzionato rimandano anch’esse al mondo degli affari. La scarsità di attestazioni di Alighiero contrasta con le informazioni un po’ più abbondanti che ci sono rimaste sui suoi fratelli, in particolare Burnetto. Di Alighiero, a rigore, non sapremmo neppure se fosse ancora vivo quando sua moglie partorì Dante, nel maggio 1265 – senonché è attestato che dopo Dante ebbe ancora un altro figlio, Francesco, e lo ebbe da un’altra moglie. Noi non sapremmo niente dei due matrimoni di Alighiero, anzi, non conosceremmo neppure i nomi delle due donne, se il matrimonio non avesse costituito, all’epoca, innanzitutto un accordo economico. Le notizie giunte fino a noi infatti sono tratte da documenti che parlano di affari o di politica (ambiti di competenza esclusivamente maschile). Al cuore dell’accordo matrimoniale c’era la costituzione della dote, e così noi sappiamo il nome della madre di Dante, monna Bella, solo grazie a un arbitrato del 1332, in cui si regola la divisione tra i figli di Dante, Iacopo e messer Piero giudice, e lo zio Francesco. Sappiamo che dopo di lei Alighiero ebbe una seconda moglie grazie al fatto che per lo stesso motivo l’arbitrato cita anche lo strumento dotale di monna Lapa, madre di Francesco. A che famiglia apparteneva Bella? Il nome Dante era una contrazione di Durante, nome abbastanza comune a Firenze, ma ignoto nella famiglia degli Alighieri, quindi si è sempre pensato che provenisse dalla famiglia materna. Un’ipotesi spesso ripetuta, anche se priva di qualunque conferma, la identifica con gli Abati, fra i quali il nome è in effetti ricorrente. Sappiamo invece che monna Lapa era figlia di un mercante, di una famiglia tutto sommato modesta. Quando sia morto Alighiero non lo sa nessuno. Il primo documento in cui risulta già morto è del 1283 e doveva essere morto parecchi anni prima, infatti Bruni dice che Dante che perdé suo padre nella puerizia. La pueritia allora durava dai 7-8 ai 14 anni, il che significa che Alighiero morì entro il 1279. Dante non lo menziona in nessuna sua opera. Vite avventurose: i cugini del ramo di Bello Le vite dei cugini offrono un meraviglioso spaccato di quel mondo, diviso fra la realtà concreta degli affari e le tentazioni aristocratiche. Il nonno Bellincione aveva un fratello, Bello, il cui figlio Gualfredduccio aveva partecipato al giuramento dell’arte di Calimala promettendo obbedienza per 10 anni ai consoli della corporazione. Calimala riuniva i più importanti mercanti cittadini. In questo caso abbiamo dunque l’immagine di una famiglia impegnata negli affari a livello onorevole. Un altro figlio di Bello, Geri, era a Bologna nel 1266 dopo la presa del potere dei ghibellini a Firenze in seguito a Montaperti. Sappiamo che la casa di Geri fu danneggiata, ma non la casa confinante di Bellincione, dove forse nacque Dante. Si deduce che non tutti gli Alighieri vennero cacciati da Firenze durante i sei anni di governo ghibellino. Geri muore assassinato da uno dei Sacchetti, magnati ghibellini. Essere un cittadino rispettabile non escludeva il rischio di essere ammazzato. Dante trova Geri nelle Malebolge, fra i morti di morte violenta, e spiega che il parente ha ragione ad avercela con 7 Bice di Folco Portinari morì a venticinque anni, il 19 giugno 1290. Nel corso della sua breve vita, era stata soprattutto una pedina nelle strategie delle ascese familiari. Messer Simone de’ Bardi apparteneva a una famiglia di grandi banchieri, magnati anche loro, e amicissimi dei Donati; e quindi, va da sé, nemici dei Cerchi e degli amici loro, come i Cavalcanti, gli Alighieri e gli stessi Portinari. Dopo la morte di Beatrice, suo marito messer Simone si risposerà con una sorella di Musciatto Franzesi, grande finanziatore della corona francese e in particolare di Carlo di Valois, il distruttore della fazione cerchiesca. Il matrimonio di Beatrice aveva avuto un significato esclusivamente politico, di provvisoria riconciliazione tra due famiglie appartenenti a partiti diversi. Gli amici erano importanti per Dante. Nella Vita nuova menziona innanzitutto Guido Cavalcanti. Quindi, molti amici di Dante erano poeti, ma non solo, infatti nel Purgatorio il poeta incontra anche il musico Casella (che intona un suo sonetto) e il liutaio Belaqua. Un altro amico, sempre incontrato nel Purgatorio, era Forese Donati, fratello di Corso, il futuro capo dei Neri e feroce nemico di Dante e di Guido (ma Forese a quel punto era già morto). Queste amicizie introdussero Dante in un ambiente sociale più alto di quello in cui era nato, anzi il più alto di Firenze. Gli Alighieri non erano magnati, e neppure i Portinari, che però erano molto più ricchi e influenti di loro, mentre i Donati e i Cavalcanti erano tra le famiglie più prestigiose e potenti della città. La Vita nuova è una fonte preziosa per ricostruire le occasioni d’incontro fra i giovani nella Firenze dell’epoca. Gli uomini stavano con gli uomini e le femmine con le femmine, per cui le occasioni di incontro non erano frequentissime, le principali erano: in chiesa (durante le celebrazioni), a casa della sposa (in occasione delle nozze), ai funerali. § 7. Gli studi Il probabile percorso degli studi di Dante si presenta dunque più o meno così: 1. Un primo maestro, un doctor puerorum, assunto a contratto dalla famiglia, gli insegnò a leggere, scrivere, far di conto e contemporaneamente lo introdusse ai primi rudimenti della lingua latina. S’imparava a leggere direttamente in latino, sul Salterio e sul manuale di grammatica dello pseudo- Donato. Lo studio del latino bastava a collocarlo in un’élite rispetto alla maggioranza dei suoi coetanei, per i quali l’apprendimento della scrittura era finalizzato esclusivamente a tenere i libri di bottega. Il latino era l’unica lingua che si poteva imparare a scuola, perché era l’unica a possedere una grammatica scritta. Il latino era indispensabile fra l'altro per la lettura dei classici e della Bibbia, di cui tutta la sua opera testimonia una conoscenza approfonditissima. Non dobbiamo però immaginare che la vasta cultura di cui dà prova nelle sue opere sia da ricondurre alla formazione scolastica e del resto non pare che la Firenze della sua epoca fosse un centro culturale così fervido. 2. Successivamente un altro maestro, un doctor gramatice, gli avrà impartito un insegnamento più avanzato del latino, e gli elementi di base delle altre arti liberali. Dante aveva già passato i 25 anni quando, come racconta lui stesso, scioccato della morte di Beatrice, per consolarsi cominciò a leggere Boezio e Cicerone; ma faticava un po' a capirli, perché sapeva il latino a livello scolastico. Ma quei libri gli piacquero, e volle capirne di più. Cominciò dunque a studiare presso le scuole dei religiosi e a sentire le disputazioni dei filosofanti. 3. Durante l’adolescenza, Brunetto Latini gli insegnò l’arte dell’epistolografia, l’ars dictaminis. L’ars dictaminis non era soltanto un sapere tecnico, ma attraverso l’insegnamento dello stile e della retorica proponeva una pedagogia morale e civile alle classi dirigenti dei comuni: l’istruzione tecnica non era 10 separata dalla dimensione etica. Non si trattava di un divertimento dei letterati, ma aveva un’importanza decisiva in politica, dove c’era continuamente bisogno di redigere lettere e discorsi, e non solo in latino, ma anche in volgare. A lezione da ser Brunetto Dante deve aver incontrato per la prima volta Cicerone, maestro di eloquenza, di politica e di morale. Brunetto infatti nella Rettorica volgarizzava e commentava il De inventione di Cicerone. Brunetto avrà certamente introdotto Dante all’idea di filosofia e all’ars dictaminis, ma l’insegnamento che più rimase impresso nell’anima dell’allievo fu la fiducia nella possibilità di raggiungere l’immortalità scrivendo (come l’uom s’etterna; Brunetto raccomanda il Tesoro a Dante, in cui vive ancora). 4. Poi, intorno ai vent’anni (anni Ottanta), Dante andò a Bologna a perfezionarsi frequentando la facoltà di arti, e approfondendo ulteriormente la retorica. 5. A questo punto doveva essersi impadronito anche dei poeti classici che la sua epoca considerava i più grandi, Ovidio, Stazio, Lucano e Virgilio. Solo in seguito (certo dopo la morte di Beatrice) gli venne voglia di leggere i testi filosofici di Boezio e Cicerone, scoprì che faceva fatica e decise di impratichirsi nei fondamenti della filosofia, iniziando nelle scuole dei conventi fiorentini un percorso che lo avrebbe condotto alla scoperta di Aristotele e della sua Etica. Due erano le scuole dei religiosi a Firenze: quella dei domenicani presso Santa Maria Novella dove c’era Tolomeo da Lucca e quella dei francescani presso Santa Croce. Non si può escludere che, oltre ad ascoltare i maestri francescani e domenicani, Dante sia tornato per uno o più semestri a Bologna ad ascoltare le disputazioni de filosofanti. Nb: Un maestro proponeva una questione e le discuteva affrontando le obiezioni dei presenti. § 8. Un matrimonio misterioso Dante, negli anni delle sue frequentazioni bolognesi e delle avide letture, era orfano, e padrone della propria vita: suo padre era morto, viveva grazie alle rendite e poteva dedicarsi agli studi. Non è ben chiaro se fosse anche già sposato: il matrimonio di Dante con Gemma di Manetto Donati è un groviglio di misteri. Dante nelle sue opere non parla mai della moglie e neppure lo fa Forese Donati in risposta a Dante che aveva fatto esplicito riferimento alla moglie. Il primo vero mistero riguarda la data del contratto dotale. Il notaio che l’ha trascritta nel registro l’ha certamente sbagliata: nel 1276 correva l’indizione quarta, non sesta. Dopodiché, il problema veramente insolubile è che a quella data Dante non aveva ancora compiuto i dodici anni. Non sappiamo che età avesse Gemma; di solito la moglie era molto più giovane del marito, in media addirittura di una quindicina d’anni, ma in questo caso la differenza dev’essere stata molto minore. Bastano gli undici anni di Dante, comunque, per concludere che la celebrazione di un matrimonio a quell’età era illegale. La vaga idea che a quei tempi poteva succedere di tutto, e la generale ignoranza delle modalità di celebrazione dei matrimoni, hanno sempre spinto i biografi di Dante a minimizzare il problema, interpretando l’atto del 1277 come un accordo preliminare tra le famiglie. In realtà non è affatto così. L’atto dotale veniva sempre firmato il giorno stesso in cui si celebrava il rito: seguiva lo scambio degli anelli, dopodiché lo sposo conduceva pubblicamente la sposa a casa propria. Le alternative, perciò, sono soltanto due: o Dante e Gemma si sono davvero sposati nel 1277, e dunque hanno vissuto un’esperienza assolutamente sbalorditiva ed estranea all’esperienza di 11 chiunque altro (serviva una dispensa per celebrare matrimoni fra bambini, di solito concessa ai principi) oppure i notai hanno sbagliato a trascrivere l’anno: l’indizione sesta ritornò nel 1293, quando Dante aveva 27 anni – un’età più normale per il matrimonio di un giovane maschio. In confronto a questo mistero, meno grave è lo sconcerto provocato da un altro dato curioso, e cioè la dote molto bassa che Manetto assegnò a Gemma: 200 lire di fiorini piccoli erano poche rispetto alle cifre che si riscontravano più spesso a quel livello sociale. Gli studiosi tendono a dedurne che Manetto non era ricco. In effetti Villani ci dice che i Donati erano meno ricchi dei Cerchi. Ma l’entità della dote non era sempre correlata alla ricchezza della famiglia che doveva pagarla. Anche i ricchi potevano avere le loro ragioni per risparmiare e non sappiamo quante sorelle avesse Gemma. Inoltre, i Donati erano notoriamente nobili e non avevano bisogno di dimostrare niente a nessuno. Del resto Manetto Donati a un certo punto venne armato cavaliere; e un uomo che si è fatto addobbare in età già matura, dopo il matrimonio della figlia, non era certo in difficoltà economiche.  Dunque la dote così bassa di Gemma significa una cosa sola: erano gli Alighieri, e non i Donati, che avevano voglia di concludere quel matrimonio, e hanno accettato di prendere Gemma senza tirare sul prezzo. § 9. Dante e gli affari Dante era il figlio maggiore di un uomo d’affari, morto quando lui era ancora un ragazzo se non un bambino, quindi non è strano che raggiunta l’età legale si sia dovuto occupare degli affari da lui ereditati. - Il primo documento che riguarda i suoi interessi economici è il regesto seicentesco d’un atto notarile oggi perduto, datato al 1283. Dante, che proprio quell’anno aveva compiuto i diciott’anni (età in cui un orfano usciva di tutela e poteva disporre del proprio patrimonio), vendette i suoi diritti su certi beni. - Le successive attestazioni di affari maneggiati da Dante riguardano tutte del denaro preso in prestito, ma non si spiegano mai i motivi per cui il denaro passava di mano in mano. Dante e il fratello Francesco non divisero mai le loro quote di eredità, ed operarono insieme in affari: 1. Nel 1283-84 vendono a un notaio i suoi diritti sui beni nei pressi di Fiesole e del rione sant’Ambrogio che erano appartenuti a un mercante. Lo sappiamo da un regesto secentesco oggi perduto 2. 11 aprile 1297 prendono in prestito 227 fiorini d’oro da Andrea di Guido de’ Ricci. 3. Qualche mese dopo abbiamo un debito ancora più consistente: il 23 dicembre 1297 prendono 480 fiorini da un figlio di Lotto Corbizzi in cui ci sono anche i fideiussori delle maggiori famiglie magnatizie fiorentine. Una tale somma non serviva per necessità quotidiane, probabilmente i due stavano facendo fronte a qualche impegno considerevole. Ciò che dimostrano queste transazioni è che nella Firenze di Dante il denaro liquido era una merce non solo indispensabile, ma rara. Il denaro liquido era una merce scarsa in un’economia in crescita. Anche i ricchi a volte dovevano farsi prestare il denaro. Capitava continuamente, quando si aveva bisogno anche di piccole somme, d’essere costretti a contrarre un mutuo, senza che questo dica molto sulla floridezza o, all’opposto, le difficoltà di chi s’indebitava. Quindi, sulla base di questi movimenti non dobbiamo trarre alcuna indicazione sulle finanze dei fratelli Alighieri. Il criterio dell’agiatezza, per un cittadino dell’epoca, era il possesso di proprietà terriere nel contado, in cui si investiva ancor più che nelle case in città. Nel caso degli Alighieri il denaro guadagnato dalle generazioni precedenti, speculando e prestando a usura, era stato investito in proprietà terriere che 12 Donati, era di famiglia magnatizia, al pari dei suoi migliori amici, come Guido Cavalcanti e Forese Donati; il prozio Bello era stato cavaliere.  Politicamente, Dante era un popolano, sia pure di orientamento moderato, incline al compromesso con i Grandi e inorridito dalla dittatura della gente dappoco. E del popolo doveva condividere quella che all’epoca era divenuta l’ideologia ufficiale: la supremazia della legge e delle procedure pacifiche rispetto al ricorso alla violenza da cui erano continuamente tentati i magnati. Per moderato che fosse il partito a cui aderì, la scelta di Dante di appoggiare il governo di popolo irritò il suo amico Guido Cavalcanti. Guido era un magnate, regolarmente coinvolto negli scontri anche fisici tra le fazioni nobiliari. E ora Dante aveva deciso di schierarsi con un partito che a quelle fazioni voleva imporre la pacificazione a tutti i costi, e che era arrivato a vietare a gente come lui, Guido, di occupare gli incarichi più delicati. Nb: Guido non riconosceva più il Dante che detestava la folla e desiderava starfe con una nobile compagnia e non sapeva ancora che di lì a pochi anni proprio Dante sarebbe stato fra i responsabili del suo confino in Maremma, in quanto magnate pericoloso. 1° novembre 1295 – 30 aprile 1296. A conferma della sua chiarissima collocazione politica, Dante venne nominato fra i trentasei membri del Consiglio speciale del Capitano del Popolo. I consiglieri sono tutti esponenti del ceto popolare: solo due portano il titolo di dominus, e sono entrambi giuristi, non cavalieri. In base alle regole vigenti, per essere cooptato in quel consiglio Dante doveva essere immatricolato in una corporazione. E infatti si era iscritto a un’Arte: quella dei Medici, speziali e merciai. L’Arte comprendeva appunto i merciai, cioè i commercianti di un’infinità di merci svariatissime. 14 dicembre 1295. Il secondo intervento di Dante in una discussione ebbe luogo nel Consiglio delle Capitudini delle dodici Arti maggiori, espressione dei più importanti gruppi finanziari e mercantili. Quel giorno il Consiglio (allargato a un gruppo di sapientes, cioè di consiglieri aggiunti, indicati dai priori uscenti) discusse le modalità di elezione dei prossimi priori, che dovevano essere votati l’indomani dal medesimo consiglio. Il comune di Firenze funzionava con procedure straordinariamente elastiche, e continuamente modificate: i priori erano rinnovati ogni due mesi, e non esisteva una modalità fissa per eleggerli, ma le modalità venivano ridiscusse ogni volta, il giorno prima della scadenza del mandato. Quel giorno ben undici dei presenti si alzarono a proporre ciascuno una procedura diversa per la designazione delle candidature, uno di loro era “Dante Alagherii”. Secondo la sua proposta, le Capitudini e i sapientes dovevano indicare i candidati di comune accordo; invece prevalse la proposta di Lando Albizi per cui gli uni e gli altri avrebbero presentato separatamente le loro candidature. Non si tratta di qualcosa di inutilmente complicato. Si trattava di decidere tra una modalità che avrebbe prodotto una lista unica di candidati, obbligando la dirigenza delle Arti ad accordarsi con i priori uscenti, e garantendo un’elezione pilotata senza rischi di spaccature; e una che avrebbe invece reso possibile un confronto fra liste diverse, attribuendo alle corporazioni piena autonomia nella scelta dei propri candidati. La procedura che venne adottata era quella solitamente usata negli anni rivoluzionari di Giano della Bella. [Probabilmente qui Dante fu uno dei sapientes aggiunti per l’occasione su indicazione dei priori uscenti e questo voleva dire che godeva di moltissima fiducia] 5 giugno 1296. È la terza occasione in cui Dante si alzò per intervenire in una seduta. Da poco più di un mese era scaduta la sua appartenenza al Consiglio speciale del Capitano del Popolo, ed ora lo ritroviamo nel Consiglio dei Cento. Nominato direttamente dai priori, e rinnovato ogni sei mesi, questo consiglio era nato innanzitutto per approvare le spese straordinarie. Ad esso potevano accedere 15 soltanto i cittadini più ricchi – e che dunque pagavano più tasse: si voleva che il controllo della spesa pubblica fosse demandato ai cittadini più direttamente interessati. L’ordine del giorno di quella seduta è indicativo della vastità delle attribuzioni assegnate ai Cento: votare il trasferimento di un ospedale dalla piazza di san Giovanni, il diveto agli esiliati di Pistoia di entrare a Firenze, l’allargamento delle facoltà di rappresaglia dei priori, risposte a petizioni e modifiche a procedure di legge. Dante era a favore di tutte le proposte. § 11. La politica: i Bianchi e i Neri 1296-1300. Dopo questi undici mesi in cui abbiamo così tante notizie sull’attività politica di Dante, non ne troviamo nessun’altra fino all’anno 1300. Ovviamente non basta per supporre che in quel lungo intermezzo Dante non abbia più fatto parte di nessun consiglio, infatti è molto più probabile il contrario, ma proprio in quegli anni c’è una vasta lacuna nei verbali delle riunioni. Il comune continuava a essere governato dal regime moderato di popolo a cui Dante aderiva, ma nella vita politica della città stava emergendo prepotentemente un’altra frattura. I Grandi guelfi si erano divisi in due fazioni, i Bianchi e i Neri, capeggiate da due famiglie che vivevano entrambe in Porta San Piero e le cui case confinavano con quelle degli Alighieri: i Cerchi (Bianchi) e i Donati (Neri). Le due famiglie parevano incarnare perfettamente le profonde differenze esistenti all’interno del ceto magnatizio. I Cerchi – con a capo messer Vieri de’ Cerchi – erano una famiglia di mercanti emersa da poco tempo, mentre i Donati – capeggiati da Corso Donati – erano una famiglia di guerrieri da generazioni. Dante si schierò dalla parte dei Cerchi, come pure fecero le famiglie magnatizie degli Abati e dei Cavalcanti. I Cerchi si avvicinarono al popolo e ciò fece sì che a partire dalla fine del 1299 i priorati fossero composti in maggioranza da persone gradite ai Bianchi. Per i Donati la tentazione di ricorrere alla violenza era sempre più forte e infatti la tensione tra le due fazioni conobbe una brusca accelerazione con la zuffa di Calendimaggio del 1300: una compagnia di giovani amici e parenti dei Donati attaccò briga con una compagnia dei Cerchi. Il governo di popolo si trovava a dover gestire una situazione pericolosissima. Finché i magnati si azzuffavano fra loro, era impossibile invocare gli Ordinamenti di giustizia e mettere fine alle violenze. Ma l’odio tra i Cerchi e i Donati non era già più una faccenda interna alle famiglie magnatizie, perché anche molti “popolani grassi”, ricchi e potenti quasi al pari dei magnati, si erano lasciati coinvolgere. Lo scontro tra le due fazioni catalizzava e faceva venire al pettine tutti i nodi irrisolti della politica cittadina: Uno era il rancore dei ghibellini, che erano esclusi da qualsiasi partecipazione al governo, e odiavano soprattutto i magnati guelfi più bellicosi e arroganti, dunque i Donati. Un altro nodo era l’insoddisfazione di chi aveva appoggiato Giano della Bella e non approvava la svolta moderata del regime di popolo; e anche tutti costoro si schierarono coi Cerchi. A rendere ancora più difficile la posizione del governo, c’era il fatto che una spaccatura della Parte Guelfa fiorentina non poteva essere gestita come una questione puramente interna. Firenze era alla testa di un’alleanza regionale, la Taglia di Tuscia, che riuniva tutte le città governate dai guelfi; e il partito dei guelfi aveva un punto di riferimento internazionale, il papato. Il desiderio del papa, che era allora il formidabile Bonifacio VIII, era innanzitutto che il partito non si spaccasse; ma se doveva succedere, tutti sapevano che il papa si sarebbe schierato piuttosto con i Donati, perché i suoi 16 banchieri, gli Spini, erano della loro fazione. Il governo fiorentino temeva addirittura che la libertà della città fosse a rischio, e pochi giorni prima della rissa del calendimaggio aveva condannato a una multa tre fiorentini residenti a Roma, compreso l’agente degli Spini, accusati di cospirare per consegnare Firenze a Bonifacio VIII (il papa reagì minacciando la scomunica). In questa situazione così pericolosa, il governo decise di convocare una riunione della Taglia di Tuscia, per eleggere il nuovo capitano delle forze guelfe di Toscana. Subito dopo Calendimaggio vennero mandati ambasciatori a tutte le città, per invitarle alla riunione e a San Gimignano fu mandato Dante. 15 giugno – 14 agosto. Il papa mandò a Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta con l’incarico di mettere pace. Il cardinale doveva essere arrivato da poco in città quando entrarono in ufficio i nuovi priori, chiamati a governare dal 15 giugno al 14 agosto. Tra loro fu eletto anche Dante (per il sesto di Porta San Piero), insieme ad un altro bianco, due neri e due di ignota fazione: dopo anni in cui prevalevano i bianchi con questo collegio si aveva un riequilibrio fra le fazioni. Dante ebbe l’incarico più importante della sua vita politica in un momento straordinariamente difficile. L’arrivo del cardinale d’Acquasparta, che rimase a Firenze tutta l’estate, non aveva calmato le acque. Non era in gioco soltanto la vittoria di una delle due fazioni, ma la sopravvivenza stessa del governo di popolo, perché certi magnati intravedevano la possibilità di una guerra civile che gli spalancasse l’opportunità per un colpo di stato. 23 giugno. Alla vigilia di San Giovanni, festa del santo patrono di Firenze, i consoli delle Arti che andavano in processione al Battistero per offrire doni al santo vennero aggrediti e bastonati da alcuni Grandi. Gli aggressori dichiararono apertamente che non avrebbero più tollerato un governo che li escludeva. I priori, fra i quali Dante, dopo essersi consigliati con molti cittadini condannarono al confino decine di magnati di entrambe le fazioni (fra questi vi fu anche Guido Cavalcanti, condannato al confino in Maremma). Subito dopo i priori consentirono ai Bianchi confinati di tornare a Firenze, mentre i Neri restavano fuori. Intanto il cardinale continuava a negoziare, in pubblico e in privato. Sosteneva di voler ricomporre i contrasti, nell’interesse della città guelfa, ma i fiorentini presto si accorsero che il suo vero mandato era di appoggiare i Donati e rovinare i Cerchi. Fallita la missione del cardinale d’Acquasparta, che lasciò Firenze alla fine di settembre gettandovi l’interdetto, tutti i nodi erano rimasti irrisolti. Corso Donati era a Roma, e lavorava a convincere il papa che se i Cerchi e i loro amici avessero continuato a governare Firenze, c’era addirittura il rischio d’un ritorno dei ghibellini. Le fazioni si riunivano in segreto e affilavano le spade, mentre il governo di popolo continuava a navigare a vista. 14 aprile 1301. Dante intervenne nel Consiglio delle Capitudini delle dodici Arti maggiori e dei savi, in occasione della solita riunione bimestrale per decidere le modalità di elezione dei nuovi priori, parlando a favore della mozione che poi prevalse. La posizione di Dante, e che poi prevalse, tendeva a limitare l’autonomia delle Arti obbligando i consoli a proporre i candidati insieme ai savi nominati dai priori uscenti. Lo stesso giorno, in un consiglio più ristretto, in cui oltre alle Capitudini erano presenti solo due savi per sesto, per decidere le modalità di elezione del gonfaloniere, Dante parlò presentando la mozione unica, poi votata all’unanimità. Prima della fine di quel mese d’aprile Dante ebbe un nuovo incarico, apparentemente più banale. Fra le tante commissioni che amministravano il comune di Firenze c’era anche quella dei sei ufficiali incaricati di reperire i diritti del comune e di aprire o rettificare le strade. Si stava costruendo una strada importante lungo la città, per cui si doveva procedere con espropri e con l’imposizione di una 17 L’esilio che cosa comportò per la famiglia di Dante? Se non era ancora rientrato da Roma al momento in cui fu pronunciato il bando, questa circostanza può aver facilitato la decisione di affrontare il futuro da solo, senza farsi raggiungere dalla moglie. Secondo la testimonianza di Boccaccio, Dante andò in esilio da solo, lasciando a Firenze la moglie e i bambini che erano ancora piccoli. Rifacendosi a un topos tipico dell’epoca, Boccaccio afferma che Dante era così poco felice con Gemma che approfitta per non vederla più. Sta di fatto che Gemma era rimasta a Firenze e che a un certo punto contattò le autorità per chiedere la restituzione dei suoi beni dotali. Nati, per forza di cose, prima del 1302, i figli di Dante dovevano essere ancora bambini quando il padre lasciò Firenze per sempre. Il fatto che nelle sentenze di quell’anno non siano menzionati conferma che erano minorenni e lascia pensare che siano davvero rimasti con la madre in città. Il primo a comparire, in seguito, nei documenti è anche il meno conosciuto: Giovanni figlio di Dante Alighieri figura tra i testimoni di una transazione d’affari tra alcuni mercanti lucchesi e la compagnia dei Macci di Firenze del 1308. Si è pensato che abbia seguito il padre in esilio a Lucca per poi rientrare a Firenze: risulta testimone dell’elezione del sindaco nel 1314. Gli altri figli di Dante sono menzionati per la prima volta in una nuova condanna pronunciata contro di lui nel 1315 dal vicario del re Roberto d’Angiò, a cui il comune di Firenze già da due anni aveva concesso la signoria sulla città. Insieme a molti altri ribelli, Dante aveva rifiutato di approfittare di un’amnistia concessa a chi avesse accettato di sottomettersi, pagare una fideiussione e passare un periodo al confino. Il 15 ottobre 1315 venne annunciato che i termini per accettare l’amnistia erano scaduti, e che tutti gli sbanditi che non si fossero presentati entro l’indomani sarebbero stati condannati alla decapitazione. I tre nomi dei figli maschi di Dante, Giovanni, Piero e Iacopo, sono quelli di tre apostoli, gli stessi che il poeta incontrerà in Paradiso. Certo non sono nomi di famiglia: Dante non ha rifatto, come si diceva allora, né suo padre Alighiero, né suo nonno Bellincione, e questo è insolito. Non facilmente spiegabile è anche il nome della figlia Antonia. Molto significativo è invece il nome scelto per un’altra figlia: Beatrice. La donna era menzionata in un documento del 1350 visto da alcuni eruditi sette- ottocenteschi e poi misteriosamente scomparso. Beatrice divenne monaca a Ravenna. E il fratellastro di Dante, Francesco, condivise la sua condanna? Nel 1304 si trovava ad Arezzo, dove risiedeva in quel momento la maggior parte degli esuli, e lì prese in prestito 12 fiorini. Ma l’assenza di Francesco non durò a lungo, perché nel 1309 lo ritroviamo testimone di un atto stipulato in territorio fiorentino. La conclusione più verosimile è che Francesco non venne mai condannato né costretto all’esilio. La condanna di Dante era strettamente legata al suo priorato, con cui Francesco non c’entrava niente. Molte sono le liste di esiliati in cui compare il nome di Dante ma manca quello di Francesco. Dovevano essere stati sottratti i beni solo della parte di Dante e non di Francesco. Chiaramente però la confisca di metà di un patrimonio indiviso doveva aver comportato complicazioni ed abusi. Francesco continuò ad essere un uomo di affari di una certa importanza. § 14. Il destino del patrimonio Che cos’era successo esattamente al patrimonio di Dante? Ingenuamente potremmo credere che una volta confiscati a Dante, i beni non fossero più suoi, ma le cose non andavano così. Negli anni successivi diversi atti di compravendita a Pagnolle menzionano Dante fra i proprietari dei terreni 20 confinanti, senza affatto accennare alla confisca. I beni sequestrati erano amministrati dal comune e il bandito non ne aveva più la disponibilità, ma risultavano comunque sempre intestati a lui: la proprietà, al pari dei diritti delle mogli e degli eredi, era una cosa seria e non si poteva cancellare facilmente. La famiglia di un condannato aveva molti modi per rimettere le mani sui beni confiscati, ed evitare che andassero perduti per sempre.  La moglie poteva far valere i propri diritti dotali, ed è proprio quel che fece Gemma, come ricorda anche il Boccaccio, riuscendo così a mantenere se stessa e i figli. Altri indizi suggeriscono che il fratello di Gemma e suo figlio siano riusciti a recuperare alcune delle proprietà confiscate, aquistandole quando il comune le mise in vendita. Non bisogna poi dimenticare che i banditi potevano sempre essere perdonati, e uno dei motivi per cui i beni confiscati continuavano ad essere intestati al proprietario è proprio che quest’ultimo se otteneva il perdono aveva diritto alla restituzione. Nel caso di Dante, poi, la questione era complicata dal fatto che la parte di Francesco non era stata affatto sequestrata.  Date queste premesse, non stupisce che dopo la morte di Dante, in un modo o nell’altro, il suo patrimonio sia tornato nella disponibilità degli eredi. Nel maggio 1332 un arbitrato spartì le proprietà tra lo zio Francesco, da un lato, e dall’altro i due figli maschi superstiti di Dante, Piero e Iacopo. La rete delle solidarietà familiari interferiva con le procedure di confisca e affitto dei beni dei ribelli, permettendo di evitare la perdita completa del controllo sulle proprietà sequestrate. La proprietà terriera, per questa gente, era carica di valenze affettive e identitarie, per cui si faceva di tutto pur di conservare le case e le terre ereditate dagli avi, a dispetto di condanne e confische: un podere, come quello da loro posseduto a Sant’Ambrogio, non era intercambiabile con un altro. § 15. In cattiva compagnia Non era così raro per un italiano che faceva politica essere cacciato dalla propria città, in quanto le diverse fazioni non erano viste come semplici avversari politici, ma come nemici pubblici da eliminare. Per questo i grandi partiti, i guelfi e i ghibellini, avevano dato origine ad una sorta di comunità trasversale che poteva offrire asilo ai banditi, che in questo modo potevano continuare a vivere, anche in buone condizioni. Non stupisce che i bianchi esuli abbiano sperato di trovare un aiuto nei ghibellini che erano esuli da più tempo, per tornare in città con la forza. Nella primavera-estate del 1302 Bianchi e ghibellini coalizzati (con l’appoggio degli Ubaldini del Mugello) fecero ribellare contro il comune di Firenze parecchi castelli. Le fonti ci dicono che in quei mesi ci furono tremende scorrerie, saccheggi, aggressioni e prese di castelli da parte di Bianchi- ghibellini. Dante, racconta il Bruni, dopo aver appreso della condanna subita stava rientrando da Roma ed era già a Siena quando, meglio informato, si rese conto che non era il caso di tornare a Firenze. Subito dopo si unì ai ribelli. Che in quei mesi Dante sia stato non solo un membro, ma uno degli esponenti più in vista della coalizione ribelle, lo suggerisce un documento del giugno 1302. Gli sbanditi di Parte Bianca, al potere fino a pochi mesi prima in una città orgogliosamente guelfa, erano prontissimi a far parte comune con i ghibellini. Dobbiamo tener presente che nella situazione in cui si trovavano gli esuli la fede ideologica c’entrava ben poco. I partiti erano diventati aggregazioni trasversali, al cui interno si potevano ritrovare tutte le posizioni. Nel corso di quell’estate del 1302 le operazioni volsero a sfavore dei fuorusciti, che persero uno dopo l’altro i castelli da cui avevano condotto la guerriglia nel Valdarno, e a questo punto decisero di affidare il comando delle loro forze a qualcuno che s’intendesse di guerra. Fu scelto Scarpetta degli Ordelaffi, 21 esponente della famiglia che da qualche anno dominava Forlì. Biondo Flavio, umanista del Quattrocento, dice che proprio Dante fu mandato a Forlì per negoziare con Scarpetta.  I risultati della nuova alleanza, tuttavia, furono deludenti. Nel marzo 1303 l’esercito dei fuorusciti venne messo vergognosamente in rotta. Per fortuna dei fuorusciti, sei mesi dopo il più potente dei loro nemici, papa Bonifacio VIII, venne arrestato ad Anagni dall’inviato del re di Francia Guglielmo di Nogaret, spalleggiato dai Colonna, e l’11 ottobre morì, stroncato da quel trauma. I litigi in Firenze, tra magnati e popolani e tra le fazioni nobiliari, continuavano anche dopo l’espulsione dei Bianchi. Viste le violenze, all’inizio del 1304 il nuovo papa Benedetto XI, per nulla edificato dal comportamento del governo dei Neri, decise di mandare, ancora una volta, un legato papale a Firenze, per imporre la pace. Per questa missione scelse uno dei suoi più stretti collaboratori, il cardinale Niccolò da Prato. Epistola I. Risale a questo periodo la prima lettera di Dante giunta fino a noi. La lettera è stata scritta da Dante a nome del consiglio e dell’università della Parte Bianca di Firenze e del suo capitano A., quasi certamente il conte Aghinolfo dei Guidi da Romena. La lettera era indirizzata al cardinale Niccolò da Prato e lo informava che i fuorusciti erano pronti a obbedire ai suoi ordini e accettare le sue condizioni di pace. La lettera non è datata, ma si presenta come la prima scritta, tardivamente, dai Bianchi in risposta a quelle inviate loro dal cardinale; è verosimile che si collochi dopo l’arrivo del paciere a Firenze, nel marzo 1304. Fra tutti gli scritti di Dante, è forse quello da cui più emerge il linguaggio dell’uomo di parte. Entrato in città, il cardinale da Prato venne accolto con entusiasmo dal popolo, che non ne poteva più degli scontri fra i magnati. Dopo aver ristabilito e rafforzato il governo popolare, forse illuso dai successi fin lì conseguiti, il cardinale si propose addirittura di far rientrare in città i fuorusciti, Bianchi e ghibellini, e di pacificarli coi loro nemici. I ribelli, va da sé, accettarono, e mandarono in città due rappresentanti (“sindachi”), uno dei quali era ser Petracco, il padre di Francesco Petrarca. I rappresentanti delle due parti si abbracciarono e baciarono in piazza per sancire la convivenza, ma ciò non fu efficace.  I magnati guelfi, decisi a sabotare gli sforzi del cardinale, persuasero il popolo che la sua vera intenzione era di rimettere al potere i ghibellini. Il clima in città si fece teso e alla fine i sindaci dei fuorusciti abbandonarono Firenze e si rifugiarono ad Arezzo. Ai primi di giugno 1304 se ne andò anche il cardinale, esasperato, lanciando sulla città l’interdetto e la scomunica. Il fallimento della missione del cardinale da Prato non scoraggiò i fuorusciti. In città avevano ancora molti partigiani, che alimentavano un clima da guerra civile. Pochi giorni dopo la partenza del cardinale, la situazione si fece così drammatica che per impedire ai Bianchi di riconquistare la città a mano armata i Neri decisero di appiccare il fuoco alle loro case. La corte papale, sentito il resoconto del cardinale, era sempre più sdegnata verso il partito al governo in Firenze. Il nuovo papa aveva cambiato anche i rapporti tra Roma e le banche fiorentine, infatti Benedetto XI preferiva appoggiarsi alla banca dei Cerchi anziché a compagnie legate ai Neri, come gli Spini impiegati dal suo predecessore. Nacque così tra gli esuli la speranza di poter riprendere la città con la forza, approfittando della divisione e dello smarrimento dei cittadini: chiamarono segretamente i loro amici da tutta la Toscana e la Romagna, e calarono dall’Appennino su Firenze. Arrivati alla Lastra sopra Montughi, vi rimasero uno o due giorni, aspettando altri alleati che dovevano arrivare da Pistoia. I ribelli rimasero per ore ad attendere gli aiuti, ma non vedendo arrivare nessuno decisero di attaccare entrando nella città vecchia: il 20 luglio 1304 scesero alla città ormai in allarme. Giunsero fino a piazza di San Giovanni, dove si scontrarono con i difensori, vennero respinti e subitamente scoraggiati si diedero alla fuga. 22 Non c’è dubbio che almeno in qualche occasione fu impiegato nelle cancellerie dei signori presso cui risiedeva. Verona per certi aspetti non era un mondo così diverso da Firenze: ricca città, mercanti stranieri, commercio legname e cavalli, organizzazioni mercantili e popolari influivano sulla politica cittadina. C’erano anche importanti differenze: Verona era ghibellina (del resto la sua prosperità dipendeva dai commerci con l’impero); il popolo non governava direttamente ma aveva ceduto il potere a un signore capace di garantire la pace esterna ponendo fine alle lotte di fazione (come in molte città del settentrione). A Verona si era affermata la famiglia degli Scaligeri con Mastino > Alberto > Alboino, Bartolomeo, Cangrande. Gli Scaligeri erano una famiglia di origine cittadina, con alcuni giudici o consoli, molto ricca e forte; negli ultimi anni cominciò a mostrare sfarzo nobiliare, ostentazione cavalleresca, addobbare sempre i figli, celebrazioni (a Firenze non lo si avrebbe osato). § 17. Il pentimento Se il periodo veronese è circondato da tante incertezze, gli anni che seguono sono addirittura immersi nell’oscurità. L’unica cosa certa è che Dante non si fermò mai a lungo in nessun luogo. Ma quale fu il suo itinerario? Boccaccio afferma che “tornato da Verona” Dante visse parecchi anni ospite di diversi nobili dell’Appennino (i conti Guidi, i marchesi Malaspina), poi andò a Bologna, quindi a Padova, e tornò a Verona; finalmente andò a studiare a Parigi, per tornare in Italia con la discesa di Enrico VII, nel 1310. Per il periodo fra la metà del 1304 e l’autunno del 1306 i riscontri documentari mancano completamente. Fra le ipotesi possibili, due sono le più accreditate e sono presentate da molti studiosi come certezze, anche se non è scontato che possano coesistere. La prima ipotesi è che Dante abbia trascorso a Bologna il soggiorno più lungo e importante di quei primi anni d’esilio: forse addirittura un anno e mezzo, fino al febbraio 1306. Bologna era ancor sempre la grande città universitaria che Dante aveva conosciuto da giovane e fra tutte le città italiane Bologna era la più simile a Firenze anche per il regime politico con il popolo al governo, le grandi famiglie nobili in parte all’opposizione o in esilio, e una ferrea fedeltà all’ortodossia guelfa. Inoltre, Bologna aveva appoggiato i Bianchi contro i Neri e non erano pochi i Bianchi esuli lì presenti, e appunto fra di essi forse c’era anche Dante. A un soggiorno bolognese di una certa durata allude anche la sorprendente testimonianza del figlio di Dante, Piero, il quale dopo la morte del padre si era laureato in diritto proprio a Bologna. Messer Piero, dunque, in una canzone mette in scena una delle arti liberali, l’Astronomia, la quale definisce Dante “il mio Maestro che lesse a Bologna”. Il termine è tecnico, e indica un insegnamento universitario. Anche Giovanni Villani afferma che Dante, bandito da Firenze, “andossene a lo Studio a Bologna”: e si è tentati di interpretare questa testimonianza non nel senso che andò a studiare ma piuttosto a cercare lavoro, ottenendo il titolo di magister. L’astronomia era considerata parte della filosofia e Dante nella Monarchia non esita a usare in prima persona il verbo philosophari quando, partendo proprio dall’astronomia, ragiona sul parallelo fra l’ordine divino dei cieli e quello dell’impero. Il Dante matura si considerava filosofo ed è probabile che dietro a ciò vi sia un’esperienza accademica. Se lo studio della filosofia fu una fondamentale passione per Dante, l’insegnare per denaro probabilmente poteva essere stata una forzatura data dalle circostanze. 25 Se il soggiorno bolognese ci fu, non può essere durato troppo, perché nel febbraio 1306 i Neri presero il potere anche a Bologna, e cacciarono gli esuli Bianchi e ghibellini dalla città. L’altra ipotesi cui si accennava, e che costringerebbe, se accettata, a ridimensionare la durata del soggiorno bolognese, è quella di una permanenza a Treviso, dove fino al marzo 1306 dominava Gherardo da Camino. L’argomento principale è che di questo signore Dante parla benissimo e più volte. L’ipotesi di un soggiorno trevigiano pone però un problema. Gherardo era guelfo, e ottimo amico dei Neri di Firenze, in particolare di Corso Donati. Eppure, per strano che possa sembrare, l’ipotesi non è così implausibile, perché proprio in questa fase in cui i disastri si susseguivano e i nemici incalzavano da ogni parte va collocato il momento più imbarazzante della vita di Dante in esilio: quando cioè l’esule cercò di prendere contatti con il regime fiorentino, chiedendo scusa per le proprie colpe e implorando il perdono. Tra l’estate 1304 e l’inizio del 1306 si colloca il tentativo di Dante di riavvicinarsi al regime fiorentino e di supplicare il perdono, e fra questi indizi rientra certamente anche la stima e amicizia che ostenta verso Gherardo da Camino. Nell’incertezza delle datazioni e delle località rimane comunque accertato che Dante dopo i primi anni di esilio attraversò un periodo in cui non si fece scrupolo di rivolgersi ai Neri, padroni di Firenze, e di chiedere perdono. Giuliano Milani ha notato il cambiamento del suo linguaggio fra gli anni immediatamente successivi alla condanna, quando la lettera al cardinale da Prato lo colloca fra gli esuli che si dichiarano spavaldamente in guerra contro Firenze, e il periodo seguente, in cui Dante comincia a parlare di sé come exul immeritus, a lamentare, cioè, l’ingiustizia che gli è stata fatta, e poi addirittura ad ammettere di aver sbagliato. Questo è senza alcun dubbio il senso politico immediato di una delle sue canzoni più famose, Tre donne intorno al cor mi son venute, in cui, pur nel contesto d’una riflessione alquanto ermetica sul declino della giustizia, e dietro lo schermo d’una pretesa nostalgia amorosa, dichiara d’essere pentito, già da molti mesi, delle colpe per cui è tenuto lontano da Firenze (“onde, s’io ebbi colpa, / più lune ha volte il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l’uom si penta”). In una chiusa, che secondo qualche studioso sarebbe stata aggiunta successivamente, il tema è reso ancora più esplicito dall’allusione ai due partiti contrapposti, fra i quali Dante si dichiara ora equidistante: la canzone è invitata ad andare sia a uccellare “con le bianche penne”, sia a caccia “con li neri veltri / che fuggir mi convenne, / ma far mi poterian di pace dono”. I Neri potrebbero perdonarlo, “però nol fan, ché non san quel ch’io sono”, ma Dante li invita ad essere saggi e non escludere la possibilità di perdonarlo: perché hanno vinto, e lui si arrende (“ché perdonare è bel vincer di guerra”). I dantisti divergono sulla data della canzone, e la verità è che non ne sappiamo nulla, salvo che venne trascritta già nel 1310 da uno dei soliti notai bolognesi: e dunque circolò pubblicamente. Ma non ricevette risposta. § 18. “L’altrui scale” Al più tardi dal febbraio 1306 Dante dovette ricominciare la vita dell’esule, alla ricerca di ospitalità e protezione. I Malaspina. Da uno dei pochissimi documenti d’archivio relativi al periodo dell’esilio apprendiamo che nel 1306 Dante era a Sarzana, presso i marchesi Malaspina in Lunigiana, con un incarico diplomatico. I cugini Franceschino, Moroello e Corradino Malaspina, da molto tempo in guerra con il vescovo di Luni, avevano deciso che era venuto il momento di mettere fine a quelle ostilità che devastavano la 26 Lunigiana. Il documento testimonia che nel 6 ottobre 1306 il marchese Franceschino nominò suo procuratore Dante per stipulare la pace col vescovo, a nome di tutta la famiglia, presenziando al posto dei marchesi. Anche se in questa occasione Dante venne inviato da Franceschino, a ospitarlo fu soprattutto il cugino Moroello. Lo testimonia Boccaccio, il figlio di Dante messer Piero nel suo commento alla Commedia, e anche un sonetto che Dante scrisse a nome di Moroello, per rispondere a un sonetto che il suo amico Cino da Pistoia aveva indirizzato al marchese: nei castelli si cercavano passatempi, come giochi letterari. Degno di nota è anche il fatto che Moroello era un fedele alleato del governo fiorentino dei Neri, e uno dei loro più efficaci capitani. La familiarità di Dante con il marchese è un altro robusto indizio che in questo momento Dante cercava davvero un ravvicinamento. Al soggiorno di Dante presso il marchese Moroello è legata la vicenda del preteso ritrovamento dei primi sette canti della Commedia.  Boccaccio racconta che il manoscritto con questi canti trovato fra le cose di Dante messe in salvo da Gemma in un convento e venne mostrato al poeta Dino Frescobaldi; il quale, indovinando che si trattava di un’opera incompiuta di Dante, decise di rimandarla all’autore per completarla. Oggi nessuno crede che quei primi canti, così come li leggiamo, possano essere stati composti a Firenze prima dell’esilio e non ci credeva, in realtà, nemmeno il Boccaccio. Affascina comunque l’ipotesi che ci sia un fondo di verità per cui Dante avesse già concepito a Firenze il progetto della sua grande opera, anche se interamente o parzialmente in modo diverso. A forza di scrutare gli indizi cronologici disseminati nella Commedia, gli studiosi si sono persuasi che Dante cominciò a scrivere il poema nella forma che conosciamo proprio nel 1306 o 1307. Quindi il fatto che nel racconto di Boccaccio il marchese Moroello abbia un ruolo così significativo è un altro indizio che forse non si tratta di una storia interamente inventata, e che tra la famiglia di Dante e i letterati suoi amici era rimasta memoria d’un collegamento fra la concezione della Commedia e il soggiorno presso il marchese. Ma chi erano questi Malaspina nei cui castelli debbono aver preso forma definitiva i primi canti dell’Inferno? Discendenti da una grande famiglia marchionale del regno italico, gli Obertenghi, che presero il nome da un antenato vissuto nella prima metà del XII secolo (contemporaneo di Cacciaguida), il marchese Alberto detto Malaspina per sottolinearne la ferocia e il poco vantaggio che si aveva a essere suoi vicini. I Malaspina appartenevano a quella grande aristocrazia rurale che in vaste zone d’Italia era stata emarginata o addirittura cancellata dall’espansione dei comuni cittadini, ma che era ancora molto forte nell’area appenninica. Era una società, questa dei signori della montagna, che coltivava una propria idea della vita e un proprio sistema di valori (coraggio, fedeltà, virilità, comunque ben presenti anche a Dante e affrescati un po' in ogni città), lontana dalla prassi di un comune di popolo come quello che Dante aveva servito fino a pochi anni prima. Dante così decide di allontanarsi dalla vita cittadina, di partito, dei consigli con i voti da contare. Epistola IV. Scegliere l’ospitalità di quelle famiglie e di quei castelli significava abbandonare il linguaggio della cittadinanza per adeguarsi a quello della signoria e della sudditanza; e Dante non ebbe difficoltà a farlo. Poco dopo aver lasciato la corte dei Malaspina indirizzava infatti al marchese Moroello un’epistola in cui lo chiamava dominus, e se stesso servus, ricordava con rimpianto la sua corte che aveva dovuto lasciare e in cui aveva avuto la buona sorte di sequi libertatis officia: alla lettera, “praticare gli uffici della libertà” – che qualcuno interpreta nel senso di adempiere a incarichi onorevoli assegnati dal signore, e altri invece nel senso che lì Dante si dedicò agli studi e alla scrittura 27 sua elezione; da quel momento si cominciò a parlare della prossima venuta del nuovo sovrano in Italia, per l’incoronazione imperiale. Per molto tempo questo tentativo è stato considerato velleitario e anacronistico. Oggi, una conoscenza più approfondita del mondo di allora suggerisce che non fosse affatto così; e che Enrico fosse un politico di talento, duttile e pragmatico, il cui progetto non era per nulla destinato a priori al fallimento. Certo, era da molto tempo che gli imperatori avevano smesso d’intervenire concretamente nella Penisola; in effetti, dalla morte di Federico II nel 1250. La preoccupazione di Dante per l’assenteismo imperiale si era molto accentuata da quando non era più l’esponente di un arrogante e vittorioso regime guelfo, ma un esule che non sapeva neppur troppo bene se dopo tutto non avevano ragione i ghibellini. Si capisce dunque che la notizia dell’elezione di Enrico VII, e forse ancor più quella dell’approvazione papale abbiano emozionato Dante. Il re dei Romani non lo deluse. Nel settembre 1309, appena ricevuta la benedizione papale, Enrico era a Berna, intento a radunare l’esercito che doveva accompagnarlo in Italia; aveva già mandato ambasciatori per avvertire i principi e i comuni italiani della sua intenzione di scendere nella Penisola per farsi incoronare re d’Italia a Milano e imperatore a Roma. Nell’ottobre del 1310 l’imperatore passò il Moncenisio e fece la sua prima sosta in terra italiana a Susa, poi un’altra a Torino e un’altra ancora ad Asti, diretto al suo obiettivo principale, Milano. Qui venne incoronato con la corona ferrea il 6 gennaio 1311. A Firenze avevano già deciso da un pezzo che il nuovo re d’Italia era un nemico. I suoi ambasciatori avevano ordine di far cessare tutte le guerre, e in particolare di far levare l’assedio che i fiorentini stavano dando ad Arezzo, procedettero per quella città, convinti che al loro arrivo l’assedio sarebbe stato tolto. L’esercito fiorentino non si sognò neppure di ubbidire. Il governo, preoccupato, decise di mandare una sontuosa ambasciata da Enrico, che si trovava allora a Losanna, per garantirgli le proprie buone intenzioni, ma i magnati guelfi sobillarono il popolo; l’ambasciata fu revocata, e Firenze fu l’unica città d’Italia che non mandò nessuno per salutare e onorare l’imperatore. Ma c’erano, in compenso, gli esuli, i quali non persero l’occasione per convincere il sovrano che i fiorentini non si fidavano di lui. Epistola V. Lo scontro politico si nutriva di dichiarazioni, lettere aperte e manifesti, ed è questo l’ambito in cui Dante, maestro riconosciuto dell’ars dictaminis, poteva contribuire al successo di Enrico VII. Fra l’estate e l’autunno del 1310 pubblicò il manifesto noto come Epistola V, che annuncia all’Italia la venuta dell’imperatore e invita tutti a sottomettersi alla sua giustizia. La lettera, in latino, è indirizzata “a tutti i re d’Italia” (ce n’erano due, nemici mortali ed entrambi col titolo di re di Sicilia, l’angioino a Napoli e l’aragonese a Palermo), “ai senatori dell’alma Urbe”, “nonché ai duchi, marchesi, conti e ai popoli”, cioè ai comuni. A tutti Dante – florentinus et exul inmeritus, come ormai da tempo amava definirsi – augurava la pace; li invitava a rallegrarsi per il sorgere di un nuovo giorno e l’arrivo di un nuovo Mosè; ed esortava i discendenti dei Longobardi a ricordarsi di essere innanzitutto Troiani e Romani. Smettessero di ripetere, come sonnambuli, Dominum non habemus, noi non abbiamo un signore, vantandosi di un’assurda libertà; cercassero di essere degni del Lazio anziché della Scandinavia (da cui i dotti pensavano fossero venuti i Longobardi), e implorassero la misericordia di Cesare Augusto, che giungeva con la benedizione del papa. Epistola VI. Il 31 marzo del 1311, Dante indirizzò un’altra lettera aperta scelestissimis Florentinis. La lettera esortava gli “scelleratissimi” Neri ad arrendersi all’imperatore, che altrimenti avrebbe inflitto alla città una spaventosa punizione; carica d’insulti com’era, non mirava ovviamente a convincerli, ma 30 era, appunto, un manifesto che s’inseriva nel duello delle opposte propagande. L’epoca del pentimento e delle implorazioni ai Neri per ottenere la grazia era evidentemente tramontata, e Dante era di nuovo sul piede di guerra – senza che questo autorizzi a concludere che era diventato ghibellino, perché anche il papa in quel momento appoggiava Enrico VII. Nel propugnare la sottomissione all’imperatore, “re del mondo e ministro di Dio”, Dante introduce gli stessi temi sviluppati nella Monarchia, scritta forse proprio in quegli anni: la sola vera libertà è l’obbedienza spontanea alla legge di Cesare, che per volontà divina deve governare tutta l’umanità e che rappresenta l’unico potere veramente pubblico, garanzia di convivenza civile; tutti gli altri poteri che attualmente governano l’Italia non rappresentano altro che interessi privati. Una svolta ideologica sbalorditiva per un uomo di comune! La lettera è data “in Toscana, sotto le sorgenti dell’Arno”, e dunque in Casentino, dove Dante era di nuovo ospite dei conti Guidi. Epistola VII. Due settimane dopo, il 17 aprile, scrisse dagli stessi luoghi una nuova lettera aperta, indirizzata stavolta a Enrico VII, che stava assediando Cremona, per spiegare al sovrano che sbagliava a restarsene nella pianura padana, dove piegata Cremona si sarebbe certo ribellata Brescia, o Pavia, o Bergamo, o Vercelli: che smettesse dunque di perdere tempo con queste sciocchezze e venisse a distruggere nella sua tana il vero nemico, la vipera pronta a rivoltarsi contro le viscere materne, la pecora appestata che contagia tutto il gregge, e cioè Firenze. Al pari delle precedenti, l’epistola è densa di reminiscenze bibliche e ostenta un tono profetico che ha da sempre suscitato l’attenzione dei dantisti, sicché è normale parlare di un “Dante profeta” per questi anni; che sono anche quelli in cui il poeta, interrotta la stesura di dotti trattati come il Convivio e il De vulgari eloquentia, è immerso nella creazione della Commedia. L’avventura di Enrico VII durò ancora quasi due anni, durante i quali non sappiamo dove fosse Dante. Aprendosi la strada con la forza, a maggio 1312 Enrico entrò a Roma, ma non poté impadronirsi della città, che in gran parte era tenuta da soldati del re Roberto d’Angiò e dei guelfi toscani; dopo mesi di scontri, Enrico si rassegnò a non farsi incoronare in San Pietro, occupata dal nemico, ma in Laterano, e lì i cardinali inviati da papa Clemente, fra cui l’inevitabile Niccolò da Prato, lo incoronarono imperatore il 1° agosto 1312. Poi risalì verso nord e il 19 settembre si accampò sotto le mura di Firenze. L’imperatore restò sotto Firenze fino a Ognissanti, ma senza concludere nulla: sicché tolse l’assedio e passò i mesi seguenti a devastare il contado e prendere castelli, ma con prospettive via via meno favorevoli. Ma era un uomo pieno di risorse: quando sembrava finito, un’alleanza col re di Sicilia, Federico III, per conquistare il regno di Napoli abbattendo l’arcinemico Roberto d’Angiò, grande protettore dei guelfi, ridiede fiato ed entusiasmo ai suoi sostenitori. I siciliani portarono denaro che gli permise di pagare i debiti, i pisani riaprirono i cordoni della borsa, e quando si seppe che l’imperatore pagava, gli uomini d’arme accorsero al suo servizio, dalla Germania e dall’Italia. Il 5 agosto 1313 partì da Pisa con l’enorme forza di 4000 cavalieri, mentre Federico sbarcava in Calabria. L’entusiasmo era al massimo, ma l’imperatore era malato (o era stato avvelenato). Volle mettersi in marcia nonostante il malessere, per non sconcertare i suoi seguaci; ma in viaggio si aggravò, e morì a Buonconvento, presso Siena, il 24 agosto 1313. § 20. Il pane altrui Racconta Boccaccio che dopo la morte di Enrico VII Dante, disperato come tutti i seguaci dell’imperatore, perse ogni illusione di poter tornare a Firenze, e fuggì in Romagna; sapendo che era lì, Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, gli offrì ospitalità e Dante accettò con gratitudine. 31 Boccaccio si sbaglia, perché dichiara che Dante rimase lì fino alla morte. Boccaccio, insomma, sapendo che Dante era morto a Ravenna, e non avendo, stranamente, informazioni su dove fosse stato in precedenza, riempie la lacuna immaginando che sia andato in Romagna fin dall’inizio; la notizia non ha nessun fondamento. Che Dante, a questo punto, avesse rinunciato a rientrare a Firenze sull’onda di una sconfitta del regime, come afferma il Boccaccio, è tutto da vedere. Perché nonostante la morte di Enrico VII, la città governata dai Neri continuava a trovarsi in una situazione piuttosto precaria. I pisani erano decisi a continuare la guerra, e riuscirono a trattenere al loro soldo un migliaio di cavalieri tedeschi; un altro orfano della grande impresa, Uguccione della Faggiola, che era stato vicario per Enrico VII a Genova, accettò la signoria di Pisa. Firenze rispose attribuendo per cinque anni la signoria della città al re Roberto: era una misura che i comuni consideravano sempre possibile in momenti di emergenza. Ma lo scampo fu a lungo termine: a breve, i pisani e i tedeschi al comando di Uguccione fecero vedere ai fiorentini i sorci verdi. Nel giugno 1314 presero e saccheggiarono Lucca, impadronendosi, fra l’altro, del tesoro della Chiesa romana che papa Clemente aveva cercato di far trasferire in Francia. Uguccione dilagò con i suoi tedeschi per tutta la Toscana. Avvicinandosi la campagna dell’anno successivo, nel maggio 1315 la Signoria fiorentina approvò l’ennesima amnistia, concessa a tutti gli esiliati che si fossero presentati entro il 24 giugno. Epistola XII. Gli amici scrissero da Firenze a Dante per informarlo e illustrargli le condizioni; Dante rispose a uno di loro, affettuosamente, ma chiarendo che non intendeva accettarle. Avrebbe dovuto pagare una multa e affrontare una procedura umiliante, entrando sia pur simbolicamente nelle carceri del comune e uscendone per essere offerto come penitente al santo protettore nel Battistero: tutte cose incompatibili, dice Dante, con il suo onore e con la fama di cui ormai gode. Chi fossero gli amici non lo sappiamo, ma nell’epistola Dante si rivolge a qualcuno che chiama pater mi, dunque una persona autorevole e probabilmente un ecclesiastico, e accenna al fatto che oltre all’ignoto corrispondente molti altri amici gli hanno scritto, e fra loro un nipote. Quanto alla sicurezza con cui Dante parla della propria fama, bisogna dire che anche se non conosciamo con certezza le date di composizione e di pubblicazione della Commedia, a quell’epoca ormai c’era chi sapeva del work in progress, e ne aveva letto i primi canti. Nell’estate 1315 Uguccione della Faggiola mise l’assedio a Montecatini; i fiorentini radunarono un poderoso esercito e marciarono sulla città, ma furono pesantemente sconfitti alla fine di agosto del 1315. Ma dov’era e come viveva, in quel periodo, Dante? Gli anni successivi alla morte di Enrico VII sono quelli su cui regna l’oscurità più profonda. Quando nel Paradiso Cacciaguida profetizza a Dante che godrà i benefici della generosità di Cangrande, si riferisce evidentemente a un soggiorno veronese di una certa importanza, che dev’essere successivo al novembre 1311, quando Cangrande, morto il fratello Alboino, divenne unico signore di Verona. Filippo Villani chiarisce che dopo i soggiorni in Lunigiana e in Casentino Dante si trasferì a Verona, dove restò per ben quattro anni, lavorando molto, prima di accettare l’ospitalità di Guido Novello a Ravenna. Fra gli studiosi che si sono interessati a questo periodo oscuro della vita di Dante è emersa negli ultimi anni un’altra ipotesi, che non trova nessun riscontro diretto nelle fonti, ma non manca d’una certa plausibilità: che cioè Dante, giunto a Pisa al seguito di Enrico VII, possa esservi rimasto anche in seguito, sotto la protezione di Uguccione della Faggiola. L’idea di un prolungato periodo pisano si 32
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