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DANTE, ALESSANDRO BARBERO, Appunti di Storia Medievale

Riassunto e appunti sul libro di Barbero "Dante"

Tipologia: Appunti

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Caricato il 02/06/2021

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Scarica DANTE, ALESSANDRO BARBERO e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1.IL GIORNO DI SAN BARNABA Sabato 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba, l’esercito fiorentino che marciava verso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo, arrivò in vista del castello di Poppi. L’esercito era partito da Firenze nove giorni prima. Davanti a Poppi la valle si allarga formando una pianura, chiamata all’epoca Campaldino. L’esercito fiorentino non aveva un comandante, ma un comitato direttivo, perché il mondo dei comuni aveva orrore dei poteri troppo concentrati. Al vertice erano i dodici “capitani della guerra”, scelti tra i cavalieri più esperti in quel genere di faccende, in rappresentanza di ognuno dei sesti (6 rioni in cui era divisa Firenze). Ma le decisioni venivano prese dopo lunghe conferenze a cui partecipavano anche i capi dei contingenti mandati dalle città alleate. Quando fu avvistato il nemico e fu evidente che non si poteva andare avanti senza accettare la battaglia, i capitani per prima cosa fermarono la colonna e organizzarono una linea di difesa, in attesa di riunirsi per decidere il da farsi. All’epoca la forza d’urto di un esercito era formata dalla cavalleria, armata di lancia e spada e coperta di ferro. I soldati fiorentini erano molti (come ci racconta il Villani): con duemila cavalieri nel medioevo si conquistava un regno. Dal racconto del Villani s’intuisce che la scelta di questi feditori, quelli con il compito di urtarsi per primi col nemico, provocò un certo nervosismo: tutti capivano che era la posizione più pericolosa. Il resto dell’esercito era formato dai cittadini di condizione più modesta e dai contingenti contadini, organizzati per parrocchie, che combattevano come fanti a piedi,armati di lancia o di balestra. Individualmente valevano poco e un cavaliere poteva tranquillamente sbaragliarne una dozzina, ma a migliaia, se riuscivano a tenersi tutti insieme e a non scappare, potevano fare la loro parte, almeno in difesa: e secondo il Villani ce ne erano circa 10.000. Dall’altra parte, fra i capi dell’esercito nemico, che avevano visto la colonna sboccare nella pianura e poi fermarsi,c’era il vescovo di Arezzo, Guglielmo Ubertini, che secondo Dino Compagni “sapea meglio gli uffici della guerra che della chiesa”. Fortificata la posizione, i capitani si riunirono per decidere che cosa fare: attacchiamo noi, o aspettiamo che attacchino loro? Nel dubbio decisero di aspettare. Tra quei cavalieri, e anzi tra i feditori schierati in prima linea, c’era Dante. Ma noi come facciamo a saperlo? Il primo a raccontarcelo è l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436 scrisse una Vita di Dante. Il ricordo di Campaldino era ancora vivo, perchè quella giornata aveva contribuito in modo decisivo all’egemonia di Firenze in Toscana. Bruni, nonostante fosse aretino e dunque la sconfitta gli bruciava, riconosce che quella era una pagina importantissima della vita di Dante. La partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante, nonostante l’enorme impegni negli studi, non viveva fuori dal mondo, anzi era un giovane come tutti gli altri-ed essere giovane significava anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva. A sceglierlo per fa parte dei feditori fu molto probabilmente messer Vieri de’ Cerchi, futuro capo della parte bianca, e vicino di casa degli Alighieri nel sesto di Porta San Pietro. I dantisti hanno per lo più immaginato che i feditori fossero una specie di cavalleria leggera, incaricata di aprire il combattimento con schermaglie; ma si tratta di una fantasia del tutto fuorviante. I diversi compiti in campo non implicavano un diverso armamento o una specializzazione qualsiasi: i cavalieri erano armati tutti allo stesso modo. Dante era profondamente interessato e personalmente coinvolto nella cavalleria, intesa come attività militare e sportiva d’èlite, e nelle sue opere abbondano le immagini tratte da quel mondo: Convivio “Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare un augellino; e poi, più oltre, desderare bel vestimento; e poi lo cavallo e poi una donna. Epistola “dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia” Dunque Dante ha combattuto veramente a Campaldino. Inferno XXII “io vidi già il cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra” Firenze mandò “quattrocento cavalieri di cavallate, e duemila pedoni” in appoggio ai lucchesi che invadevano il territorio di Pisa; il castello di Caprona si arrese il 16 agosto del 1289. Dante era certamente tra i 400 titolari di cavallate che parteciparono alla spedizione, e dunque era stato convocato per due volte di seguito, a ulteriore conferma che era ben armato ed equipaggiato, e aveva voglia di battersi. Dante ammette di aver avuto molta paura anche a Campaldino. Dichiarando di aver avuto paura, Dante sta confermando quello che ha appena affermato, e che è la cosa a cui tiene di più in quel momento: quando ha combattuto a Campaldino non era più un ragazzino inesperto. La battaglia si trasformò in una mischia confusa, in cui i fiorentini presero lentamente il sopravvento. Non poteva finire in un altro modo, perché il nemico si era allontanato dalla sua fanteria e dai suoi balestrieri, mentre i tiratori fiorentini erano tutti in azione. Alla fine accadde l’inevitabile: “Furono rotti gli Aretini, non per viltà nè per poca prudenza, ma per lo soperchio de’ nimici.” Nel canto V del Purgatorio uno dei capitani nemici uccisi quell giorno a Campaldino, Buonconte da Montefeltro, gli racconta com’è morto. Il morto ricorda di aver vagato, ferito alla gola, fra le montagne, finché non gli mancarono le forze, e rievoca l’umidità sollevata quel pomeriggio dalla calura estiva tanto che la zona si riempì di nebbia. poi si scatenò il temporale, i torrenti si gonfiarono e travolsero il cadavere di Buonconte trascinandolo fino all’Arno, dove poi si perse. Perchè siamo partiti da quella giornata memorabile? Il fatto è che per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua posizione sociale. Fuori dall’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili, cioè membri di famiglie che si trasmettevano di padre in figlio la terra, i contadini, il potere di comando, e l’ideologia cavalleresca del cameratismo e della fedeltà. Ma in Italia le cose erano più complicate. Certo, anche nei comuni italiani la popolazione si divideva tra quelli che combattevano a cavallo, i milites, e tutti gli altri che combattevano a piedi, i pedites. E anche in Italia l’addobbamento cavalleresco garantiva ammirazione, rispetto e privilegi, tra cui appunto il diritto ad essere chiamato dominus, in volgare messere. Ma in Italia non c’era un re a dettare per legge che la cavalleria fosse riservata ai membri di certe famiglie, creando così una nobiltà giuridicamente chiusa. A Firenze chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento e diventare un cavaliere a pieno titolo, “cavaliere di corredo”. D’altra parte,chi, pur avendo i soldi, non aveva nessuna intenzione di spenderli in quel modo, poteva però vedersi costretto dal comune a fornire un cavallo da guerra, e a quel punto di solito preferiva montarlo personalmente: erano quei “cittadini con cavallate” tra i quali quel giorni vi era anche Dante. E dunque vedere Dante che monta a cavallo e si cala l’elmo sulla testa ci dice s’che apparteneva allo strato superiore della società cittadina, ma non ci dice se fosse nobile. A Firenze non esisteva la nobiltà nel senso di una qualifica giuridica(come sarà sotto l’Antico Regime); non c’erano registri delle famiglie nobili o atti ufficiali di nobilitazione. Anche qui però a chi era ricco piaceva far sapere che lui non era un parvenu, ma aveva degli antenati, una gens, e quindi era gentile, parola che in volgare era molto più usata di nobile. Non si trattava degli eredi di chissà quale nobiltà “feudale” sopravvissuta dai secoli precedenti, ma di famiglie cittadine, che tendevano a ostentare pregiudizi nobiliari via via che, ad ogni generazione, potevano vantare un’accresciuta antichità. Ma non tutti quelli che erano cavalieri di corredo e si facevano chiamare messere erano nobili in questo senso, discendenti da famiglie che magari avevano dato de consoli al comune già al tempo del Barbarossa: tra loro c’era anche gente che aveva fatto i soldi da poco, come quel messer Vieri de’ Cerchi di cui abbiamo parlato, e che era il più ricco banchiere di Firenze, ma tutti si ricordavano che i suoi erano immigrati da poco dalla campagna. Alla fine che cosa impariamo sulla condizione sociale di Dante dal fatto che venne scelto come uno dei 150 feditori? Che era ben armato, e aveva un buon cavallo, e dunque era abbastanza ricco, oltre che giovane, robusto e allenato. Ma continuiamo a non sapere se la sua famiglia era gentile, e dunque ricca e potente da generazioni, o se era venuta su da poco. Quel giorno di Campaldino, sui 150 feditori fiorentini, vennero fatti ben 20 cavalieri novelli. Dante però non fu tra i prescelti. Se fosse stato armato cavaliere quel mattino, il suo destino sarebbe cambiato; e noi, forse, non avremmo la Commedia. 2. DANTE E LA NOBILTA’ Ma insomma, Dante era nobile o no? E’ una domanda a cui non è affatto facile rispondere, proprio perchè il concetto non aveva una definizione precisa: “la parola nobile è equivoca”, dirà senza mezzi termini il più grande giurista del Trecento, Bartolo da Sassoferrato. E’ già qualcosa aver chiarito che essere nobile non significava detenere un qualche titolo giuridico, accertato e verificabile, ma aveva a che fare in modo generico con l’antichità della famiglia, e col rispetto che suscitava in città. artigiane. Nell’affare del 1246 bellincione opere ben insieme a 6 figli maschi: Alighiero, Burnetto, Drudolo, Bello, Gherardo e Donato. Alighiero avrà dunque ben più di 40 anni quando gli nascerà dante nel 1265. Il poeta ebbe un padre anziano, che morì presto, e con cui non deve aver avuto un rapporto troppo intimo: in tutta la sua opera non lo menziona nemmeno una volta. L’affare principale, che descriveremo più in dettaglio per farci un’idea della condizione economica della famiglia di Dante, consiste in questo: il 21 marzo 1246 Bellincione e i figli vendono al cavaliere messer Toringo del fu Pugliese, per 140 lire, circa 25 appezzamenti di terreno nelle adiacenze di Prato, con le rendite in grano pagate dai relativi affittuari. Bellincione e i figli, quindi, hanno casa a Prato, e ogni anno dopo la mietitura, una 15 contadini vengono in città a pagare l’affitto ai padroni. Certo è suggestiva la coincidenza con le lotte di fazione che infuriavano proprio in quegli anni a Firenze: le prime in cui si cominciò ad usa i nomi di guelfi e ghibellini, e che videro a più riprese esodi di famiglie guelfe, costrette con la forza o con le minacce, ad abbandonare la città. Bellincione e la sua famiglia is erano trasferiti a Prato perchè a Firenze, dove momentaneamente prevalevano i ghibellini, erano diventati persone non grate? Non è impossibile, anche se c’è la non piccola difficoltà che anche Prato era governata dai ghibellini. La gente, all’epoca, non vendeva volentieri la terra ereditata dagli antenati, mentre si era molto più disinvolti con i beni di cui si era venuti in possesso di recente. Tutto suggerisce che Bellincione e i figli abbiano venduto per procurarsi del denaro liquido da reinvestire nel credito; la domanda di denaro era sempre forte. Che l’attività di Bellincione fosse quella di prestare denaro è suggerito dal fatto che approfittò dell’occasione per avviare a quel commercio il figlio maggiore Alighiero. Alighiero presta denaro a tre persone diverse a fortissimi tassi di interesse (20-25 percento annuo). E’ chiaro che i figli di Bellincione erano di casa in ambienti in cui si facevano fruttare soldi e si riscuotevano interessi. Ma insomma il padre, il nonno e gli zii erano usurai? In termini tecnici sì, senza il minimo dubbio; e non solo per gli altissimi tassi di interesse che si facevano pagare. Nei contratti stipulati da Bellincione e dai suoi figli si dice molto chiaramente che i denari sono concessi “mutuo” e che è previsto un interesse “nomine lucri” Secondo le posizioni di alcuni canonisti, non senza opinioni contrastanti, Bellincione e i suoi figli non erano dunque usurai ma uomini d’affari, con le mani in pasta in tutte le occasioni in cui c’era da guadagnare qualcosa. E poi non è detto che il prestito fosse il loro principale campo di attività: certo i contratti giunti fino a noi mettono in evidenza un impegno nel traffico del denaro piuttosto che nel commercio. In conclusione i parenti di Dante erano rispettabili esponenti del populus come si intendeva nei comuni italiani, il tipo di persone che si trovò ad emergere anche in politica quando a Firenze, nel 1250, si impose per la prima volta un regime popolare. “Gli Alighieri” Ripsettabili anche se non nobili: ma avevano almeno un cognome? all’epoca e ancora per diversi secoli, in Toscana, un uomo del popolo era conosciuto con il proprio nome e il nome del padre. Poi c’erano le famiglie: quelli che avevano un cognome. Nella Firenze del Duecento (prima di allora il cognome in città non l’aveva nessuno) avere un cognome significava appartenere ad una famiglia: una famiglia conosciuta e influente, a sua volta imparentata con altre famiglie di riguardo. Avere un cognome era come avere uno stemma : non era cosa da tutti, e certificava una condizione sociale elevata. L’identità di chi apparteneva ad una famiglia con un cognome era immediatamente riconoscibile. Si trattava però di un procedimento del tutto informale perchè non esisteva un’anagrafe a cui spettasse attribuire i cognomi: era solo l’uso a crearli. Le famiglie con un cognome erano quelle che la gente si era abituata ad identificare perchè contavano nella società fiorentina e si muovevano collettivamente nella politica cittadina, con i parenti che si appoggiavano a vicenda, o semplicemente perchè ad un certo punto un uomo era diventato famoso e i suoi discendenti prendevano nome da lui. Formavano una nobiltà? No, non formavano una nobiltà. Avere un cognome non comportava nessun privilegio giuridico. Dante è orgoglioso di avere un cognome da 4 generazioni: è questo il significato dell’ccenno che mette in bocca a Cacciaguida “quel da cui si dice/tua cognazione”. Nel 1260 il Libro di Montaperti , il codice in cui sono rilegati i registri dell’esercito fiorentino, registra in una carta “Brunettus Bellincionis Alaghieri” e in un’altra “Brunettus de Alaghierii”. Questa è la prima attestazione da cui risulta che a Firenze si diceva “gli Alighieri”. Non è la nobiltà, ma è l’emergere della massa: mancano 5 anni alla nascita di Dante. 4.IL CLAN DEGLI ALIGHIERI Lo stemma Appurato che erano una famiglia, non è ozioso chiederci se gli Alighieri avessero uno stemma. Lo stemma degli Alighieri, afferma il biografo ottocentesco Pelli, era “diviso per il mezzo in diritto parte d’oro, e parte nero, e tagliato per traverso piano da una fascia bianca”. Sta di fatto che chiunque fosse abbastanza ricco da essere soggetto alle cavallate poteva certamente avere anche uno stemma. Oro a sx e nero a dx, attraversato in orizzontale da una fascia bianca. La famiglia di Alighiero La scarsità di attestazioni di Alighiero contrasta con le informazioni un po’ più abbondanti che ci sono rimaste sui suoi fratelli, in particolare Burnetto. A rigore, non sapremmo neppure se fosse ancora vivo quando sua moglie partorì Dante, senonchè è attestato che dopo Dante ebbe ancora un altro figlio, Francesco, e lo ebbe da un’altra moglie. Noi non sapremmo niente dei due matrimoni di Alighiero, anzi, non conosceremmo neppure i due nomi delle donne, se il matrimonio non avesse costituito, all’epoca, innanzitutto un accordo economico. Al cuore dell’accordo c’era la costituzione della dote. E così noi sappiamo il nome della madre di Dante, monna Bella, solo grazie a un arbitrato del 1332 in cui si regola la divisione tra i figli di Dante, Iacopo e messer Piero giudice, e lo zio Francesco. E sappiamo che dopo di lei Alighiero ebbe una seconda moglie grazie al fatto che per lo stesso motivo l’arbitrato cita anche lo strumento dotale di monna Lapa, madre di Francesco e seconda moglie di Alighiero. A che famiglia apparteneva Lapa? Era figlia di un certo Chiarissimo Cialuffi: un mercante, di condizione sociale piuttosto modesta rispetto a una famiglia magnatizia come gli Abati. Quando sia morto Alighiero non lo sa nessuno; il primo documento in cui risulta già morto è del 1283. In realtà deve esser morto parecchi anni prima: il Bruni dice di Dante che “il padre suo Aldighieri perdè nella sua puerizia”, e la pueritia allora durava dai 7-8 ai 14 anni, il che significa che Alighiero morì entro il 1279. Dante, come dicevamo, non lo menziona in alcuna sua opera; lo cita invece, in mod per noi piuttosto criptico, l’amico e vicino di casa Forese Donati in un vivace scambio di sonetti ingiuriosi con Dante: tenzone a Forese Donati. Il nodo che lega l’anima inquieta di Alighiero, nella tenzone, è un guadagno illecito da restituire, un’ingiuria da vendicare,o addirittura un sospetto di eresia? Ma l’ipotesi che Forese alluda alle fosse comuni destinate agli usurai è la più credibile. alighiero è evocato per un’operazione di cambio , in cui sarebbe rimasto ingannato, senza che Dante abbia saputo vendicarlo. Più probabile che sia un modo per alludere a un affare più importante finito male, dopodichè Dante, morto il padre ed ereditata la lite, avrebbe avuto troppa fretta di mettersi d’accordo con la controparte, neanche avesse ammazzato qualcuno correndo il rischio di una vendetta di sangue. L’unica certezza è che quando deve parlare del padre di Dante, la prima cosa che viene in mente a Forese è che era uno che maneggiava soldi! 5.L’INFANZIA E IL QUARTIERE La nascita e il nome Che Dante sia nato proprio a Firenze, lo conferma lui stesso nel XXIII dell’Inferno (Io fui nato e cresciuto/sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa) e nel Convivio, dove si dichiara “nato e nutrito nel suo dolce seno”. Nel De vulgari eloquentia aveva affermato di essere “oriundus et civis” di Firenze, e di aver bevuto nell’Arno prima di mettere i denti; nel XXV del Paradiso chiama Firenze il “bell’ovile ov’io dormi’ agnello”, e parla del “fonte/del mio battesmo” intendendo che è stato battezzato, come tutti i fiorentini, nel battistero di San Giovanni. Da dove veniva il nome Dante? Non era un nome insolito, almeno a Firenze: il nostro Dante in gioventù scambiò diversi sonetti in tenzone con un omonimo, Dante da Maiano. Il cronista fiorentino Villani (m.1405), nel suo libro sui fiorentini illustri, afferma che il suo vero nome di battesimo era Durante, ma venne chiamato Dante perchè a Firenze si usano i diminutivi; la stessa persona è chiamata ora Dante, ora Durante. Nelle sue opere il poeta si firma sempre Dante, ed è chiamato così sia dagli amici sia dai suoi corrispondenti poetici. Anche nei documenti notarili redatti durante la sua vita, la forma Durante non compare nemmeno una volta. Non si trattava comunque di un nome di famiglia; ed è naturale allora ipotizzare che provenisse dalla famiglia della madre. Era un’usanza consueta. Nasce da queste considerazioni l’ipotesi che Monna Bella fosse degli Abati, famiglia in cui il nome, nella doppia forma di Dante/Durante, era comunissimo. In questo caso è probabile che Dante non sia stato il primo figlio di Alighiero e Bella, ma solo il primo sopravvissuto fino all’età adulta. Nato quando suo padre aveva già più di quarant’anni, Dante molto probabilmente sopravvisse a più di un fratello maggiore, morto non da neonato- perchè in questi casi si usava usare di nuovo il nome con il prossimo nato- ma durante l’infanzia o l’adolescenza. La Tana e ‘l Francesco Altri fratelli e sorelle invece sopravvissero, e noi li conosciamo- anche se non così bene come vorremmo, soprattutto le femmine. Nel sonetto di Forese sono citati “La Tana e ‘l Francesco”. Quest'ultimo, era un fratello minore, nato dalla seconda moglie di Alighiero, Lapa Cialuffi. La Tana aveva sposato il mercante Lapo Riccomanni e compare, già vedova, in parecchi documenti tra il 1317 e il 1321. Dante aveva un’altra sorella ma di cui non abbiamo molte notizie. La casa e i vicini Dov’era la casa in cui Dante era nato? Oggi noi siamo abituati a distinguere quartieri alti e popolari , centrali e periferici, ma i sestieri di Firenze non erano concepiti così: cinque su sei, escluso il sesto d’Oltrarno, si dividevano la città come le fette di una torta, partendo dal centro più antico. I sestieri non avevano, probabilmente, un’identità topografica molto forte, tant’è vero che nel corso del Trecento verranno abbandonati per una nuova suddivisione in quartieri, ma avevano un’importanza enorme nella vita di Firenze: qualunque nomina o elezione, che si trattasse dei feditori da schierare in prima linea alla battaglia di Campaldino o dei sei priori che subentravano ogni due mesi al governo, avveniva sulla base dei sesti, che quindi erano lo spazio naturale delle alleanze politiche e delle competizioni: i Cerchi e i Donati, futuri capi dei Bianchi e dei Neri, avevano entrambi le case e torri nel sesto di Porta San Piero, a pochi passi dagli Alighieri. Finchè rimase a Firenze, Dante continuò a vivere certamente in una di quelle case. 6.L’AMORE E GLI AMICI Beatrice Nello stesso sesto di Porta San Piero abitava un’altra famiglia che ebbe un’importanza decisiva nella vita di Dante: i Portinari. Erano una famiglia di popolo, attiva nella mercatura e nel credito , prob. meno antica degli Alighieri, e inizialmente compromessa con il regime ghibellino. Folco Portinari è l’unico della famiglia a comparire spesso nella vita politica cittadina al tempo di Dante. Sappiamo che è lui il padre della bambina Beatrice, di cui Dante, anche lui bambino, s’innamorò perdutamente. L’incontro tra i due lo racconta Dante stesso nella Vita Nova . Lui sta per compiere i 9 anni, e lei aveva da poco compiuto gli 8: siamo quindi nella primavera 1274. Abbiamo detto racconta, ma non è vero, perchè non aggiunge nessuna circostanza, se non che Beatrice era vestita di un abitino rosso sangue, e che lui da quell’istante fu innamorato. Se poi Dante abbia inventato addirittura il fatto di averla incontrata per la prima volta quando erano bambini, questo non lo sapremo mai. Boccaccio afferma che l’incontro avvenne a Calendimaggio. Era un giorno di festa: il primo maggio si festeggiava l’inizio della bella stagione e si organizzavano banchetti e balli in famiglia e nei quartieri. Alla festa era pieno di bambini, sia maschi sia femmine. E così, conclude boccaccio, Dante incontrò Beatrice, che il padre aveva la strana abitudine di chiamare così, benché tutti a Firenze la chiamassero con il diminutivo Bice, proprio come Durante era per tutti Dante. Scrive Silvia Vegetti Finzi, specialista in psicologia infantile, che il primo amore si profila di solito “verso gli otto, nove, anni”: i conti tornano. E’ un’emozione legata al periodo di latenza, quando comincia già a profilarsi il turbinio di nuove emozioni e nuovi sentimenti legati alla pubertà. Ma la pubertà è ancora lontana, e proprio per questo gli amori infantili sono quasi sempre assolutamente platonici, idealizzati. E sono improvvisi e immotivati, l’attrazione scatta senza un perchè: chissà forse il colore degli occhi, il modo di camminare e di ridere, e forse un abitino color sangue. Tra i 25 e i 30 anni, scrivendo la Vita nova dopo la morte di Beatrice, Dante ricostruirà il proprio rapporto con lei- quasi inesistente sul piano pratico, immensamente importante su quello interiore- insistendo sulla assoluta continuità per tutti gli anni che noi chiameremo dell’infanzia e dell’adolescenza. E’ importante segnalare che rievocando il proprio amore infantile e adolescenziale, Dante ci tiene a chiarire che nel suo caso la contraddizione non c’era. L’amore si era impadronito di lui, e “mi comandava molte volte ch’io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io molte volte nella mia pueritia l’andai cercando”. Ma era innamorato di Beatrice, non di una qualunque: e dunque l’oggetto di quell’amore era così nobile da eliminare ogni irrazionalità, anche nella testa del disperato ragazzino. Mai, garantisce Dante, l’amore si impadronì di lui al punto 1) un maestro, un doctor puerorum, assunto a contratto dalla famiglia, gli insegnò prima a leggere e poi a scrivere, e contemporaneamente lo introdusse ai primi rudimenti della lingua latina, perchè si imparava a leggere direttamente in latino. 2) Successivamente, un altro maestro, un doctor gramatice, gli avrà impartito un insegnamento più avanzato del latino, e gli elementi di base delle altre arti liberali. 3) Durante l’adolescenza, Brunetto Latini gli insegnò l’arte dell’epistolografia, l’ars dictaminis. A lezione da Ser Latini, commentatore del De Inventione, Dante deve aver incontrato per la prima volta Cicerone, maestro di eloquenza, di politica e di morale. 4) Intorno ai 20 anni, orfano di padre, andò a Bologna a perfezionarsi frequentando la facoltà di arti,e approfondendo ulteriormente la retorica. Divenne così, come scriverà Giovanni Villani, “rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare”: padrone, cioè, di tutti i mezzi espressivi dalla poesia al discorso politico. A questo punto doveva essersi impadronito anche dei poeti classici che la sua epoca considerava i più grandi, Ovidio, Stazio, Lucano e Virgilio. Solo in seguito gli venne voglia di leggere i testi filosofici di Boezio e Cicerone. E’ un itinerario che ha una sua coerenza interna e che spiega tra l’altro come mai Dante non dia mai troppa importanza , nell’insieme della sua opera, alle proprie giovanili esperienze bolognesi: anche nella Commedia, di Bologna ricorda soprattutto la sensazione straniante di chi guarda il cielo stando sotto la Garisenda e per il movimento delle nuvole ha l’impressione che la torre stia crollando- in definitiva, un’esperienza da turista. Studiare la filosofia costò caro a Dante, perchè lo convinse che la verità è la cosa più importante di tutte, e lui, di conseguenza, cominciò a “odiare li seguitori dello errore e della falsitade”. La formazione filosofica induceva automaticamente a leggere il mondo in questi termini: e così nella Vita Nuova Dante si sofferma a precisare che “Amore non è sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia”. Ragionando in questo modo, Dante concluse che era possibile recuperare che seguiva l’errore e la menzogna: l’errore era l’accidente che trasformava in peggio una sostanza non cattiva, quindi bisognava cercare di distruggere l’errore, e non chi lo commetteva; e Dante si convinse che avrebbe fatto opera buona criticando aspramente gli errori per correggere gli erranti. credeva cioè, che criticando gli sbagli degli altri, questi si sarebbero accorti dell’errore e l’avrebbero abbandonato, e magari gli sarebbero stati grati. 8.UN MATRIMONIO MISTERIOSO Si diceva che Dante, negli anni delle sue frequentazioni bolognesi e delle avide letture, era orfano, e padrone della propria vita. Non è ben chiaro se fosse anche già sposato: il matrimonio di Dante con Gemma di Manetto Donati è un groviglio di misteri. Come in molti altri casi, per sapere qualcosa di queste nozze dobbiamo andare a ritroso: partire cioè da un atto rogato a Firenze nell’agosto 1329, otto anni dopo la morte di Dante. Il caso di Gemma e Dante rientra in una tipologia molto frequente: il marito era stato condannato come ribelle e il suo patrimonio confiscato, ma la moglie era rimasta a Firenze e su di lei non pesava nessuna condanna. Il mantenimento delle vedove grazie ai frutti della dote era un pilastro talmente importante nella società dell’epoca che nemmeno un governo violentemente fazioso come quello fiorentino poteva permettersi di ignorarlo. Per dimostrare i loro diritti le donne dovevano presentare il contratto dotale, ed è per questo che ne conosciamo l’esistenza. L’instrumentum dotis era stato erogato il 9 febbraio del 1276. L’accordo prevedeva una dote di 200 lire di fiorini piccoli. Il primo vero mistero riguarda la data del contratto dotale. Intanto, il notaio che l’ha trascritta nel registro l’ha di certo sbagliata: nel 1276 correva l'indizione quarta, non sesta. Non sappiamo che età avesse Gemma; di solito la moglie era molto più giovane del marito, in media addirittura di una quindicina di anni, ma in questo caso la differenza deve essere stata molto minore; bastano gli undici anni di Dante, comunque, per concludere che la celebrazione di un matrimonio a quell’età era illegale allora come oggi,oltre che contraria al diritto canonico. L’atto dotale veniva sempre firmato il giorno stesso in cui si celebrava il rito: seguiva lo scambio degli anelli, dopodichè lo sposo conduceva pubblicamente la sposa a casa propria. Allora come se ne esce? I Donati erano una famiglia antica e importante, e per di più vicini di casa degli Alighieri; e che il padre di dante, a quella data, per quanto ne sappiamo poteva anche essere morto, si sono immaginati che la famiglia abbia avuto urgenza di sistemare il ragazzino rimasto orfano, inserendolo in una parentela prestigiosa. Le alternative sono pertanto due: o Dante e Gemma si sono davvero sposati nel 1277, e dunque hanno vissuto un’esperienza sbalorditiva ed estranea all'esperienza di chiunque altro, oppure i notai hanno sbagliato a trascrivere l’anno. L’indizione sesta ritornò nel 1293, quando Dante aveva 27 anni - un’età più normale per un giovane maschio per quell’epoca e quella classe sociale. Nelle opere di Dante di accenni al suo matrimonio non ce ne sono: nemmeno dove sarebbe stato legittimo aspettarseli, ovvero nella tenzone a Forese. La dote così bassa di Gemma significa solo una cosa: erano gli Alighieri e non i Donati, che avevano voglia di concludere quel matrimonio, e hanno accettato di prendere Gemma senza tirare su il prezzo. Che poi ad attirare Dante e i suoi parenti fosse il desiderio di imparentarsi con una delle più nobili famiglie di Firenze è inutile chiederselo, perchè non lo sappiamo. Viceversa, qualunque ragionamento sul fatto che Manetto fosse membro di un ramo povero dei Donati, e socialmente si avvicinasse di più al livello di cambiavalute e notai che non a quello dei cavalieri, è intrinsecamente sbagliato, perchè quando una ragazza si sposava con un uomo di condizione sociale inferiore alla sua, era normale che il marito si accontentasse di una dote mediocre: l’onore che gli veniva fatti doveva bastare a ripagarlo. 9.DANTE E GLI AFFARI •Nel frattempo quali erano le attività di Dante? Oltre allo studio egli dovette allenarsi a combattere a cavallo: a 24 anni era addirittura in prima fila a Campaldino (11 giugno 1289) •Oltre a occuparsi delle proprietà dalle quali ricavava quanto gli serviva per vivere, con il fratello Francesco ereditò l’attività feneratizia (prestito di denaro) del padre •Es. nel 1283-84 (aveva circa 18 anni) vendette a un notaio i suoi diritti su beni nei pressi di Fiesole e del rione di S. Ambrogio, che erano appartenuti a un mercante, il quale li avevi dati in garanzia di un prestito ottenuto da Alighiero di 21 lire. Cosa vuol dire? Probabilmente il debitore non aveva ancora restituito il denaro con gli interessi e i diritti su quei beni, che a suo tempo aveva dato in pegno erano rimasti a Dante e al fratello; ora i due preferivano ricevere il denaro che ancora spettava loro cedendo quei diritti al notaio, che si sarebbe impegnato per riscuoterli, oppure li avrebbe a sua volta ceduti. •Attenzione: Dante non prosegue nell’attività del padre (di prestare denaro a interesse), ma prende piuttosto in prestito denaro, evidentemente per affari di grande portata; come sempre i ricchi fanno grandi debiti, i poveri piccoli debiti •Vediamo un altro importante affare del 1297 (dal codice diplomatico dantesco): 23/12/1297 Dante e Francesco ottengono un prestito di ben 480 fiorini d’oro da un figlio di Lotto Corbizzi e da un loro parente. L’atto del contratto ricorda una numero notevole di fideiussori, tutti di alto livello sociale •Non si trattava di un debito, ma di un espediente giuridico per creare dei falsi creditori (Corbizzi e il parente) ben disposti verso i debitori nel caso costoro avessero avuto problemi giudiziari con i veri creditori •Il denaro liquido era indispensabile e rara e, in questo caso, Dante e Francesco poterono affrontare un impegno importante •In conclusione, i debiti contratti da Dante e da Francesco potrebbero essere stati finalizzati al finanziamento degli affari di Francesco, giacché i due fratelli avevano beni indivisi 10. LA POLITICA: MAGNATI E POPOLANI Verso i trent’anni aveva cominciato a partecipare attivamente alla vita politica della sua città. Il comune di Firenze era governato da un regime di popolo, il che vuol dire che la partecipazione agli organi decisionali era allagata a una vasta fascia della popolazione produttiva. Il governo vero e proprio era costituito dai sei priori delle arti , espressione del mondo imprenditoriale e artigiano, e dal gonfaloniere di giustizia, incaricato di far rispettare gli ordinamenti di giustizia che difendevano i popolani dalla violenza dei magnati; erano chiamati anche i Signori, e restavano in carica appena due mesi, per scongiurare qualunque concentrazione di potere nelle stesse mani. Sotto di loro, la trafila decisionale coinvolgeva non meno di cinque consigli, il consiglio dei Cento, i Consigli speciale e generale del capitano del popolo, i consigli speciale e generale del Comune (o del Podestà); in tutto vi sedevano 676 cittadini, rinnovati ogni sei mesi. Ma facevano politica anche le Capitudini delle Arti, cioè i collegi di consoli che dirigevano ognuna delle 21 corporazioni, e che spesso erano chiamati a partecipare, e votare, nelle riunioni consiliari. Mentre il podestà che deteneva gran parte del potere esecutivo e giudiziario era un professionista, fatto venire da un’altra città e sottoposto a verifica allo scadere del suo contratto annuale, gli incarichi di governo non erano affidati a politici di professione, ma venivano ricoperti a turno da un grandissimo numero di persone, che non per questo abbandonavano le proprie normali attività. Ne consegue che l’espressione “carriera politica” con le implicazioni professionali che riveste nel nostro linguaggio, rischia di essere fuorviante : quello che accadeva a Firenze è che praticamente tutti i contribuenti potevano aspirare ad essere cooptati in uno di quei consigli. La partecipazione di Dante alla vita politica di Firenze è attestata da molti documenti nell’arco di sei anni, dal 1295 al 1301, ma ebbe inizio certamente già prima. Lui stesso lo dichiara nella Vita Nova Il successivo indizio di un coinvolgimento di Dante nella vita politica cittadina ci porta al 1294. Nel marzo di quell’anno Carlo d’Angiò, figlio del re di Napoli e pretendente al trono di Ungheria, soggiornò a Firenze alcune settimane, accolto dal comune guelfo con trionfali festeggiamenti. In quell’occasione conobbe Dante, aveva sei anni più di lui e forse faceva parte di una delle delegazioni nominate dal comune per fargli onore; tra i due nacque un’immediata simpatia, che però non ebbe futuro, perchè l’Angioino morì inaspettatamente l’anno seguente. Tutto questo si deduce dal canto VIII del Paradiso. Abbiamo citato i due casi in cui la testimonianza di Dante allude a precoci contatti con la vita politica cittadina. Ma in realtà tutto quello che possiamo ricostruire della sua formazione intellettuale e della sua attività poetica giovanile trasmette l’immagine di un Dante che già prima dei 30 anni non è affatto estraneo alla riflessione politica. Al contrario, come poeta e intellettuale, si mostra ben consapevole del fitto tessuto di idee relative alla società cittadina, ai suoi conflitti e al suo governo, ed è all’interno di questo dibattito complesso e stratificato che cerca la sua strada tra le posizioni esistenti. Il 15 luglio 1295 Firenze era sull’orlo della guerra civile. I magnati, cioè le famiglie potenti che gli Ordinamenti di giustizia promulgati due anni prima escludevano dai principali organi di governo della città, erano scesi in piazza armati, accompagnati da squadre di contadini delle loro terre e di guardie private, occupando piazza San Giovanni, il mercato nuovo e l’accesso a Ponte Vecchio. Pretendevano che i priori modificassero in loro favore gli Ordinamenti di giustizia, sopprimendo le clausole più restrittive. Il popolo, e cioè i mercanti e gli artigiani, organizzati in compagnie d’armi rionali, era immediatamente sceso in piazza a sua volta. Finalmente i magnati accettarono di ritornare a casa sgomberando le piazze, ma solo dietro la promessa che gli Ordinamenti sarebbero stati modificati nel senso da loro richiesto. Per quanto riguarda l’accesso al priorato, si manteneva il divieto per i cavalieri e restava l’obbligo d’iscrizione ad un’arte, cioè una corporazione professionale, ma non era più necessario l’esercizio effettivo. Bastava insomma essere iscritti e l’immatricolazione non si negava a nessuno. Dunque per primo si riunì il consiglio dei Cento, che rappresentava gli interessi dei contribuenti più ricchi, e uno dei priori. Dante, nel 1295 era uno dei 300 membri del Consiglio generale del comune. e’ possibile che Dante sia stato membro di quel consiglio, o di qualche organismo del comune, già negli anni precedenti. Dante, all’interno del consiglio, era reputato uomo di assoluta fiducia. Che cosa si intende quando si parla di Magnates? / o Grandi del popolo? La società fiorentina era stratificata, complessa e caratterizzata da una forte mobilità. I Grandi erano quelli che appartenevano a famiglie importanti, conosciute, ricche, composte da un gran numero di parenti; abitavano in palazzi con torri e si addestravano regolarmente a cavallo. In una società violenta erano quelli che facevano più paura. In grande maggioranza erano nobili, o meglio gentili, come si diceva in volgare: il che vuol dire che appartenevano a famiglie che avevano ostentato uno stile di vita cavalleresco e partecipato al governo della città già da qualche generazione. Pochi altri erano uomini nuovi, banchieri e uomini d’affari che si erano arricchiti da poco tempo. Il popolo invece era composto dalla gente che lavorava, che stava a bottega, trafficava e vendeva, ed era conosciuta per questo. Al suo interno il popolo era molto diversificato: c’era un abisso di ricchezza e prestigio tra l’imprenditore che importava Ma la nuovo regime non bastava: Il 10 marzo 1302 il podestà pronunciò una nuova sentenza contro i quindici condannati per baratteria nei processi dei mesi precedenti, quasi tutti ex priori degli anni 1299-1301. Tra i 15 c’era Dante insieme ai suoi quattro coimputati. Il colpo di stato dei Neri ebbe diversi esiti: 1) aveva sancito il trionfo d’una fazione di magnati e popolani grassi contro la fazione opposta 2) aveva anche indebolito un regime di popolo Chi non era stato ammazzato o cacciato, insomma, doveva stare ben zitto e cercare di non farsi notare. Dante era troppo compromesso per poter rientrare tra costoro. Il nuovo regime non poteva perdonarlo. 13.LA FAMIGLIA DI UN ESILIATO Che cosa comportò l’esilio per la famiglia di Dante? Che Gemma non l’abbia accompagnato in esilio lo afferma Boccaccio. Dante, afferma Boccaccio, era così poco felice con Gemma che approfittò dell’esilio per non rivederla mai più. Che Gemma sia rimasta a Firenze è confermato da quel che raccontò molti anni dopo a Boccaccio un nipote di Dante, Andrea leone Poggi. Qualche anno dopo fu permesso alle mogli degli esuli di rivendicare i propri beni dotali, e Gemma ebbe bisogno dei documenti contenuti in uno di quei forzieri. Nati per forza di cose prima del 1302, i figli di Dante dovevano essere ancora bambini quando il padre lasciò Firenze per sempre. Il fatto che nelle sentenze di quell’anno non siano menzionati conferma che erano minorenni, e lascia pensare che siano davvero rimasti con la madre in città. E il fratellastro di Dante, Francesca, condivise la sua condanna? Parrebbe piuttosto evidente che anche Francesco aveva dovuto lasciare Firenze. Ma l’assenza di Francesco non durò a lungo, perchè nel 1309 lo troviamo testimone di un atto stipulato alla Pieve di Ripoli, in territorio fiorentino. Non bisogna dimenticare che Dante era stato condannato in seguito a specifiche accuse relative al periodo del suo priorato, con cui suo fratello non c'entrava niente. Insomma la conclusione più verosimile è che suo fratello non venne mai condannato né costretto all’esilio. 14.IL DESTINO DEL PATRIMONIO Ingenuamente potremmo credere che una volta confiscati a Dante, i beni non fossero più suoi, ma le cose non andavano così. Il fatto è che i beni sequestrati erano amministrati dal comune e il bandito non ne aveva più la disponibilità, ma risultavano comunque sempre intestati a lui. La famiglia di un condannato aveva molti modi per rimettere le mani sui beni confiscati, ed evitare che andassero perduti per sempre. La moglie poteva far valere i propri diritti dotali, ed è proprio quel che fece Gemma, come anche ricorda il Boccaccio, riuscendo a mantenere così i figli. Date queste premesse, non stupisce che dopo la morte di Dante, in un modo o nell’altro, il suo patrimonio sia tornato alla disponibilità degli eredi. 15.IN CATTIVA COMPAGNIA Essere improvvisamente scacciato con la violenza dalla propria città non era un avvenimento inatteso per un italiano che faceva politica. Era possibile, non solo ai singoli, ma interi clan familiari, continuare a vivere e prosperare anche in esilio. E’ il caso degli Uberti, i capi del ghibellinismo fiorentino, che a quell’epoca erano esuli da più di trent’anni. Non stupisce che i bianchi cacciati da Firenze abbiano cercato l’appoggio dei ghibellini, esuli da tanto più tempo,e che trovandosi così numerosi abbiano sperato di poter tornare in città con la forza. Dante, racconta il Bruni, dopo aver appreso della condanna subita stava rientrando da Roma ed era già a Siena quando, meglio informato, si rese conto che non era il caso di tornare a Firenze; subito dopo si unì ai ribelli, in occasione di un incontro a Gargonza, castello degli Ubertini tra Siena e Arezzo. Ancora una volta Dante era in guerra, ma stavolta contro Firenze: e si trattava di una guerra vera. Per i giudici fiorentini i colpevoli sono al tempo stesso nemici del popolo e delinquenti comuni; le sentenze si configurano tutte come condanne di criminali, ma badano sempre a sottolineare l’intenzione politica degli accusati, ripetendo che i loro delitti sono compiuti al grido “semper moriantur, moriantur guelfi!” Insomma gli sbanditi di parte Bianca, al potere fino a pochi mesi prima in una città orgogliosamente guelfa, erano prontissimi a far parte comune con i ghibellini, e a fare la guerra al grido “muoiano i guelfi”. Ma davvero erano diventati tutti ghibellini, e così in fretta? Oppure erano cripto-ghibellini già prima? I dantisti hanno tormentato le opere dantesche, la cui datazione è purtroppo soltanto ipotetica, per stabilire se davvero, e da quando, e per quanto tempo, Dante abbia smesso d’essere guelfo e sia diventato ghibellino. Ma forse bisognerebbe accettare l’idea che nella situazione in cui si trovavano gli esuli la fede ideologica c’entrava ben poco. I partiti erano diventati aggregazioni trasversali, al cui interno si potevano ritrovare tutte le posizioni: a tenere insieme gli schieramenti era la convenienza del momento assai più che non l’adesione ad una fede. Nel corso di quell’estate del 1302 le operazioni volsero a sfavore dei fuoriusciti, che persero uno dopo l’altro i castelli da cui avevano condotto la guerriglia nel Valdarno, e a questo punto decisero di affidare il comando delle loro forse a qualcuno che si intendesse di guerra. Fu scelto Scarpetta degli Ordelaffi, esponente della famiglia che da qualche anno dominava Forlì. Un passo dello storico Flavio Biondo suggerisce che proprio Dante fu mandato a Forlì per negoziare con Scarpetta e con altri signori ghibellini del nord, tra cui Cangrande della Scala, signore di Verona. Però la menzione di Cangrande preoccupa perchè il futuro signore di Verona a quella data aveva solo undici anni, e il signore della città era il fratello Bartolomeo. Il Biondo sicuramente ha fatto un po’ di confusione; è comunque verosimile che dante sia stato a Forlì in quel periodo, perché Dino Compagni afferma che i Bianchi, dopo aver cercato rifugio ad Arezzo dove il podestà Uguccione della Faggiola, istigato da Bonifacio VIII, li ricevette male, “buona parte se ne andarono a Furlì”. I risultati della nuova alleanza, tuttavia, furono deludenti. Nel marzo del 1303 l’esercito dei fuoriusciti, disceso nel Mugello con grandi speranze sotto la guida dell’Ordelaffi, venne messo vergognosamente in rotta presso il castello di Pulicciano. Per fortuna dei fuoriusciti, sei mesi dopo il più potente dei loro nemici, papa Bonifacio VIII, venne arrestato ad Anagni dall’inviato del re di Francia Guillaume de Nogaret, spalleggiato dai Colonna, e l’11 ottobre morì, stroncato da quel trauma. I litigi in Firenze, tra magnati e popolani e tra le fazioni nobiliari, continuavano anche dopo l’espulsione dei Bianchi. Risale a questo periodo il documento a cui ci riferivamo parlando delle bianche insegne e delle spade rosse di sangue, e che è la prima lettera di Dante giunta fino a noi. indirizzata al cardinale da Prato, lo informava che i fuoriusciti erano pronti a obbedire ai suoi ordini e accettare le sue condizioni di pace. La lettera non è datata, ma si presenta come la prima scritta, tardivamente, dai Bianchi in risposta a quelle inviate loro dal cardinale. è verosimile che si collochi dopo l’arrivo del paciere a Firenze, nel marzo del 1304. Fra tutti gli scritti di Dante, è forse quello da cui emerge più impressionante il linguaggio dell’uomo di parte: sicuro che i Bianchi, e non i loro nemici, sono quelli che amano veramente Firenze, pronto a rivendicare la responsabilità di aver combattuto una guerra civile in difesa della libertà, Dante assicura al cardinale che la sua opera di pace è tutto quello che i Bianchi desiderano e per cui stanno combattendo: “cos’altro chiedevano le nostre candide insegne, e per cos’altro erano rosse le nostre spade, se non che fossero costretti a sottomettersi alla legge, e obbligati a dare pace alla patria, quelli che s’erano permessi di troncare la convivenza civile?” Entrato in città il cardinale da Prato venne accolto con entusiasmo dal popolo; dopo aver ristabilito e rafforzato il governo popolare, forse illuso dai successi fin lì conseguiti si propose addirittura di far rientrare in città i fuoriusciti, Bianchi e ghibellini, e di pacificarli con i loro nemici. Il 26 aprile 1304, davanti al popolo radunato sulla piazza di Santa Maria Novella, i due sindaci della “parte di fuori” e due rappresentanti della “parte di dentro”, cioè i Neri al potere, “si baciarono in bocca per pace fatta”. anche questa volta però si scoprì che abbracciarsi e baciarsi sulla bocca non era sufficiente per riconciliare davvero le parti; e tutto finì molto male. I magnati guelfi, decisi a sabotare gli sforzi del cardinale, persuasero il popolo che la sua vera intenzione era di rimettere al potere i ghibellini; il clima in città si fece teso, e alla fine i dodici sindaci dei fuoriusciti abbandonarono Firenze e si rifugiarono ad Arezzo; ai primi di giugno 1304 se ne andò anche il cardinale, esasperato, lanciando sulla città l’interdetto e la scomunica. Il fallimento della missione del cardinale da Parato non scoraggiò i fuoriusciti. In città avevano ancora molti partigiani, che alimentavano un clima da guerra civile, contando sul sostegno di gran parte del popolo, spaventato dalla violenza dei magnati di Parte Nera. La corte papale, sentito il resoconto del cardinale, era sempre più sdegnata verso il partito del governo in Firenze; col nuovo papa erano cambiati anche i rapporti tra Roma e le banche fiorentine, e Benedetto XI preferiva appoggiarsi alla banca dei Cerchi anzichè a compagnie legate ai Neri, come gli Spini impiegati dal suo predecessore. Nacque così tra gli esuli la speranza di poter riprendere la città con la forza, approfittando della divisione e dello smarrimento dei cittadini: il 20 luglio del 1304 scesero alla città ormai in allarme. Entrati senza difficoltà nel sobborgo di San Gallo, si schierarono accanto a San Marco. Si impadronirono di una porta della cerchia più antica e entrarono nella città vecchia, spingendosi fino alla piazza di San Giovanni; ma lì, scontrandosi con i difensori, vennero respinti, e subitamente scoraggiati si diedero alla fuga. L’esito disastroso di quella che è passata alla storia come la giornata della Lastra fu così inspiegabile che ogni cronista cercò di razionalizzarlo in qualche modo. Per Dino Compagni, i ribelli scesero in città troppo presto e in pieno giorno, quando i loro nemici non avrebbero avuto il coraggio di mostrarsi, anzichè attendere la notte. Per Giovanni Villani, al contrario, l’errore fu di trattenersi un giorno di troppo alla Lastra, anzichè scendere subito in città. Sia come si vuole, gli esuli si erano giocati l’ultima carta, e la loro causa era perduta, tanto più che nel frattempo era morto, dopo appena otto mesi di pontificato, il papa Benedetto XI, che sembrava favorirli: di lì a poco fu “quella parte bianca e ghibellina scacciata e vinta in tutte parti quasi di Toscana”. Se dobbiamo dar retta al Bruni, Dante era ancora con i Bianchi al momento del disastro, anzi era uno dei dodici “consiglieri” che dirigevano il partito, e solo dopo la giornata della Lastra decise che non c’era più speranza, e se ne andò a cercare ospitalità a Verona. Dante però la racconta diversamente nel XVII del Paradiso, quando Cacciaguida gli descrive il futuro: dovrà lasciare Firenze, dove già s’intriga ai suoi danni. Dante dichiara di aver litigato con gli altri esuli ed essere caduto in disgrazia, tutte cose che Cacciaguida enuncia nel modo più inequivocabile: la compagnia “tutta ingrata, tutta matta ed empia/ si farà contr’a te”. La rottura con i Bianchi dev’essere stata violentissima. Cosa aveva fatto Dante per farli arrabbiare così? Uno dei primi commentatori trecenteschi, l’Ottimo, imbastisce una bizzarra storia, per cui Dante, nei consigli della Parte, avrebbe consigliato di rimandare l’arruolamento di certi alleati, che poi al momento buono non vennero affatto, sicchè sarebbe stato accusato addirittura di tradimento. A proposito di questa rottura va considerata anche la criptica profezia che Dante mette in bocca a Farinata nel X dell’Inferno. “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto all’arte (di tornare in patria) pesa”. Consumata la rottura con i Bianchi il percorso tracciato da Cacciaguida arriva a coincidere con quello ricostruito più tardi dal Bruni. Dante cioè se ne va a Verona, ospite del signore della Scala. 16.I MISTERI DI VERONA Dante visse in esilio gli ultimi vent’anni della sua vita. Sono anni di cui sappiamo poco. Non c’è quasi nessun documento d’archivio che ci parli di lui; gli accenni autobiografici contenuti nelle sue opere diventano sempre più criptici, e possono essere interpretati nei modi più diversi. Tra i dati esteriori della vita di Dante, la cosa più importante sarebbe sapere dove si trovava, il che permetterebbe di capire chi lo manteneva. Quella che per uno studioso è virtualmente una certezza, per un altro è un’assurdità che non mette neppure conto di discutere. A prima vista, quando afferma che dopo la separazione dalla “compagnia malvagia e scempia” sarà quest’ultima a doversi vergognare, Dante sta dicendo di aver abbandonato gli altri esuli prima che costoro dimostrassero tutta la loro pochezza nella sciagurata avventura della Lastra, e che il primo ad accoglierlo, dopo di allora, fu un della Scala che chiama “il gran lombardo”. Sembra ragionevole dar retta a lui piuttosto che al Bruni, secondo cui Dante se ne sarebbe andato a Verona dopo il fallimento di quella “tanta speranza”. Dunque era giunto a Verona prima del luglio 1304, ma quanto prima? Si è visto che la profezia di Farinata autorizza due possibili datazioni per la rottura con i Bianchi, gennaio o maggio; diciamo meglio: entro gennaio o entro maggio. E tra le due la seconda sembra decisamente preferibile, perché fra l’una e l’altra si colloca la famosa lettera al cardinale da Prato, scritta a nome della parte, di cui Dante era ancora uno degli esponenti più in vista. Insomma la rottura con i compagni d’esilio dovrebbe collocarsi tra aprile e maggio. Ne consegue che il “gran Lombardo” era Alboino della Scala, appena subentrato nel dominio di Verona al fratello Bartolomeo. (il terzo fratello, Cangrande, era ancora un ragazzino). C’era però naturalmente un problema; ed è che se il “gran lombardo” era Bartolomeo della Scala, morto nel 1304, poco prima cioè che Dante scrivesse al cardinale da Prato come portavoce ufficiale della parte Bianca, non è possibile l’affermazione messa in bocca a Cacciaguida, che cioè il signore di Verona ospiterà Dante dopo la rottura con la “compagnia malvagia e scempia”. Forse Dante era andato a cercare rifugio a Verona dopo aver litigato una prima volta con gli altri ribelli, quando Bartolomeo era ancora vivo, ad esempio dopo l’insuccesso della spedizione nel Mugello della primavera del 1303. Sarebbe poi ripartito da Verona nella primavera del 1304, per tornare a unirsi ai ribelli radunati ad Arezzo, nel clima di aspettativa creato dalla missione del cardinale da Prato. Oppure è andata in tutt’altro modo? Forse Dante è davvero stato a Verona al tempo di Bartolomeo della Scala, ma non come esule in fuga, bensì come ambasciatore della coalizione. L’ipotesi sarebbe stravagante e non meriterebbe neanche di essere discussa se non ci fosse, come al solito, un brandello di fonte a cui appigliarsi: è la notizia oscuramente data dal Biondo per cui Dante, all’epoca in cui si trovava a Forlì come ambasciatore della parte, si sarebbe spinto a Verona per chiedere aiuto allo Scaligero. Un viaggio del genere, compatibile col breve periodo della signoria di Bartolomeo, è stato ipotizzato già fiorentino e di supplicare il perdono, e tra questi indizi rientra certamente anche la stima e amicizia che ostenta verso Gherardo da Camino. se invece accettiamo che Dante, dopo il primo soggiorno veronese, abbia trascorso un lungo e proficuo periodo a Bologna, allora amica dei Bianchi, scrivendo gran parte del Convivio e tutto il De vulgari, e arrivando a concepire un vero e proprio progetto di vita, bruscamente interrotto dalla drammatica svolta politica del febbraio 1306, quando a bologna andarono al potere gli amici dei Neri, converrà ritardare sia pure di poco il suo cedimento morale, ipotizzato che solo dopo quest’ultima data, che distrusse definitivamente le speranze dei Bianchi, un Dante costretto a fuggire anche da Bologna sia precipitato nella disperazione e quindi nel pentimento. Quello stesso pentimento che, forse non molto tempo dopo, lo porterà a scrivere quel canto X dell’Inferno in cui cerca di accreditare i suoi antenati come guelfi accaniti, nemicissimi di Farinata degli Uberti, e da lui ben conosciuto e cacciati in esilio: come minimo una forzatura, dal momento che Dante era nato a Firenze quando la governavano i ghibellini, ma una ripulitura indispensabile della sua immagine, da parte di un pentito che fino a pochi anni prima compariva proprio insieme agli Uberti nelle riunioni dei ghibellini e dei Bianchi. Nell’incertezza delle datazioni e delle località rimane comunque accertato che Dante dopo i primi anni di esilio attraversò un periodo in cui non si fece scrupolo di rivolgersi ai Neri, padroni di Firenze, e di chiedere perdono. Questo è senza alcun dubbio il senso politico immediato di una delle sue canzoni più famose, Tre donne intorno al cor mi son venute: in cui, pur nel contesto di una riflessione alquanto ermetica sul declino della giustizia, e dietro lo schermo d’una pretesa nostalgia amorosa, dichiara d’essere pentito, già da molti mesi, delle colpe per cui è tenuto lontano da Firenze (onde, s’io ebbi colpa,/ più lune ha volte il sol poi che fu spenta/ se colpa muore perchè l’uom si penta”). In una chiusa il tema è reso ancora più esplicito dall’allusione ai due partiti contrapposti, fra i quali Dante si dichiara ora equidistante: la canzone è invitata ad andare sia a uccellare “con le bianche penne”, sia a caccia “con li neri veltri/che fuggir mi convenne,/ ma far mi poterian di pace dono”. I Neri potrebbero perdonarlo, ma Dante li invita ad essere saggi e non escludere la possibilità di perdonarlo: perchè hanno vinto, e lui si arrende. I dantisti divergono sulla data della canzone, e la verità è che non ne sappiamo nulla, salvo che venne trascritta già nel 1310 da uno dei soliti notai bolognesi: e dunque circolò pubblicamente. Ma non ricevette risposta. 18.”L’ALTRUI SCALE” Al più tardi del febbraio 1306 Dante dovette ricominciare la vita dell’esule, alla ricerca di ospitalità e protezione. Vine voglia di dire che riparò in montagna, fuggendo dal mondo delle città di pianura, dove era sempre più difficile trovare un rifugio sicuro; ed è vero che i possedimenti di quei signori dell’Appennino erano un altro mondo rispetto a quello in cui si era mosso finora. Beninteso, nessuno di loro era estraneo all’ambiente della città; ma alle loro corti non c’erano partiti organizzati capaci di esercitare un controllo ideologico e di redigere liste di proscrizione. Ognuno era libero di tenere con sè chi gli piaceva, quale che fosse il suo colore politico; e Dante, che date le circostanze non costava molto, poteva essere un uomo prezioso da impiegare in cancellerie che dovevano essere sempre a corto di personale qualificato. E infatti le indicazioni di Boccaccio trovano conferma in uno dei pochissimi documenti d'archivio relativi al periodo dell’esilio, da cui apprendiamo che il 6 ottobre 1306 Dante era a Sarzana, presso i marchesi Malaspina; meglio ancora, che si trovava al loro servizio con un incarico diplomatico. Dante dunque era davvero di casa presso i Malaspina, ed era considerato abbastanza utile da poter essere incaricato di rappresentare i marchesi nella stipulazione del trattato di pace con quel loro antico amico. È Degno di nota il fatto che Moroello Malaspina era un fedele alleato del governo fiorentino die neri, e uno dei loro più efficaci capitani, sotto il cui comando, dopo il lungo e tragico assedio del 1305-1306, era stata presa la Pistoia Bianca; La familiarità di Dante presso il marchese Moroello è legata la vicenda del preteso ritrovamento dei primi 7 canti della Commedia. Oggi nessuno crede che quei 7 canti, così come li leggiamo, possano essere stati composti a Firenze prima dell’esilio; non ci credeva, in realtà, nemmeno il Boccaccio. E tuttavia gli studiosi sono affascinati dall'ipotesi che Dante avesse davvero concepito, negli anni in cui faceva politica nella sua città, un progetto poi abbandonato, i cui avanzi confluirono in seguito nell’idea, tutta o in parte diversa, della Commedia. Gli studiosi si sono persuasi che Dante cominciò a scrivere il poema nella forma che conosciamo proprio nel 1306-1307. Ma chi erano i Malaspina nei cui castelli debbono aver preso forma definitiva i primi canti dell’Inferno? Discendenti da una grande famiglia marchionale del regno italico, gli Obertenghi, avevano preso il nome da un antenato vissuto nella prima metà del XII secolo, contemporaneo di Cacciaguida, il marchese Alberto: che era detto Malaspina come altri suoi pari erano detti Guerra, a sottolineare insomma la ferocia. Potenti in un'ampia zona di passaggio tra la Riviera di levante, l’appennino e la pianura padana, i Malaspina appartenevano a quella grande aristocrazia rurale che in vaste zone d’Italia era stata emarginata o addirittura cancellata dall’espansione dei comuni cittadini, ma che era molto forte nell’area appenninica. Era una società, questa dei signori della montagna, che senza ignorare il mondo cittadino, coltivava una propria vita e un proprio sistema di valori, molto lontani dagli ideali e dalla prassi di un comune di popolo come quello che Dante aveva servito fino a pochi anni prima. I valori erano quelli cavallereschi del coraggio, della lealtà, della virilità dimostrata in sella a un cavallo e con la spada in pugno. Significava per Dante abbandonare il linguaggio della cittadinanza per adeguarsi a quello della signoria e della sudditanza; e Dante non ebbe difficoltà a farlo. Impregnato di ideologia nobiliare e cavalleresca è anche l’elogio dei Malaspina che Dante colloca nell’VIII del Purgatorio. L’esponente dei conti Guidi che secondo Boccaccio avrebbe ospitato dante negli anni dell’esilio non è il conte Alessandro da Romena, ma il conte Guido Salvatico: da sempre amico dei guelfi, e fortemente coinvolto nelle tensioni delle città italiane, giacchè era stato più volte podestà di Prato e di Siena, e capitano d’armi al soldo dei comuni di Bologna e Firenze. era dunque un personaggio ben noto a Dante, e non ci sarebbe niente di strano che l’avesse ospitato. In questa fase che è quella del suo pentimento Dante sembra proprio cercare la protezione di quei grandi nobili della montagna, amici della Firenze nera, che potrebbero aiutarlo a ottenere il perdono. Che Dante dopo aver lasciato i Malaspina sia stato ospite per un po’ di conti Guidi sembra dunque certo. (ne parla nella canzone "montanina mia canzon") Boccaccio parla anche di un soggiorno presso i signori della Faggiola, una delle grandi famiglie che dominavano la regione nota nel Medioevo come Massa Trabaria, una vasta area appenninica tra il Tevere e il Metauro. Capofamiglia era al tempo di Dante il celeberrimo Uguccione della Faggiola, altro esponente delle tensioni tra le città e le fazioni per ritagliarsi un importante ruolo politico. Ma in realtà non c’è nessun indizio di un soggiorno di Dante presso di lui, e la notizia ha probabilmente un’altra origine. Sia come sia, non c’è dubbio che in questi anni Dante frequentò le grandi famiglie nobili che dominavano le aree montuose dell’Italia centrale, e potè anche illudersi che lì, anzichè nelle città affogate nella corruzione, sopravvivesse il seme di una virtù capace di risollevare le sorti d’Italia. Anche se rimaneva fedele all’affermazione delle Dolci rime per cui la vera nobiltà è quella dell’animo, Dante stava comunque elaborando una visione del mondo in cui rimaneva poco spazio per la folla di trafficanti, cambiatori, usurai e appaltatori, in gran parte villani inurbati e arricchiti da poco, che formavano il popolo dei comuni. E anche questo, a suo modo, è un pentimento, e più duraturo: se il pentimento che ostenta quando si rivolge ai fiorentini chiedendo la grazia ha tutta l’aria di essere strumentale, e non sopravviverà alle nuove speranze suscitate dalla venuta di Enrico VII, l’allontanamento dell’ideologia popolare e comunale da parte dell’antico membro del Consiglio dei Cento è radicale e definitivo. In una fase successiva, dopo i soggiorni nei castelli della grande nobiltà appenninica, gli autori trecenteschi collocano un viaggio di Dante a Parigi, restandoci fino a quando la discesa di Enrico VII non riaccese le sue speranze e lo convinse a tornare in Italia, dato che non c’erano lì i protettori potenti disposti a mantenerlo. Per qualche ragione, cui non sarà estraneo l’alone romanzesco dell’ultimo episodio, non tutti i dantisti sono persuasi da queste notizie così circostanziate, e molti si dimostrano scettici sul soggiorno parigino, preferendo semmai ipotizzare che Dante, se davvero andò in Francia. Il Boccaccio parla anche di un soggiorno a Padova, di cui tanto per cambiare non abbiamo nessuna conferma, ma che non è implausibile, perchè era sì una città più piccola di Bologna o Parigi ma era anch’essa un’importantissima città universitaria, piena di studenti provenienti da tutta Europa, soprattutto tedeschi, polacchi, ungheresi. In quegli anni Padova era uno dei centri culturali più vivaci d’Italia: nella storia della civiltà letteraria italiana si tende oggi ad attribuirle un ruolo secondo solo a quello di Firenze. Soprattutto era, insieme a Bologna, il massimo centro di studi aristotelici in Italia. Come si vede, Dante si spostò continuamente in quei cinque anni scarsi che trascorsero tra la cacciata dei bianchi da Bologna nel febbraio 1306 e la discesa di Enrico VII in Italia alla fine del 1310: se già nei primi tempi dopo la rottura con il partito gli era sembrato di essere “legno sanza vela e sanza governo”, questi anni debbono essere stati ancora più amari, tanto più pensando che si stava avvicinando alla soglia fatidica dei 45 anni, l’inizio della vecchiaia. C’è da aggiungere una città: Lucca, città su cui abbiamo due indizi. Il primo è l’incontro di Dante, nel XXIV del Purgatorio, col poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, il quale gli parla di una ragazzina di Lucca che in futuro gli piacerà. Di più non sappiamo ma sembra probabile che questa anonima giovane che tanto gli piacque, Dante l’abbia frequentata proprio a Lucca. L’altro indizio è il documento già citato del 21 ottobre 1308, in cui il figlio Giovanni fa da testimone a Lucca a un contratto che coinvolge mercanti lucchesi e fiorentini. 19.ENRICO VII Dovunque si trovasse nel 1308, dante apprese a poca distanza dai fatti che il primo maggio il re di Germania, Alberto d’asburgo, era stato assassinato, e che prima della fine dell’anno il conte Enrico di Lussemburgo era stato eletto dai principi tedeschi re dei Romani. La sua elezione troncò di netto le ambizioni di Carlo di Valois, il fratello del re di Francia Filippo il Bello,che sperava di aggiudicarsi l’elezione col sostegno di papa Clemente V. Dante non poteva che rallegrarsene, perchè Carlo di Valois era l’uomo che pochi anni prima aveva permesso ai Neri di prendere il potere a Firenze ed espellere i Bianchi. Enrico (Dante lo chiamava alla fiorentina “Arrigo”) fu incoronato re di Germania il 6 gennaio del 1309. Da quel momento si cominciò a parlare della prossima venuta del nuovo sovrano in Italia, per l'incoronazione imperiale. Enrico era un principe tedesco, ma imbevuto di quella cultura internazionale delle corti la cui lingua era il francese, e pur essendo principe dell'impero era anche vassallo del re di Francia. Ma ora il conte di Lussemburgo era re di Germania e di fatto imperatore, poichè aveva ottenuto il consenso del papa, e tutti i suoi sogni di grandezza si indirizzarono al tentativo di riportare pace e obbedienza in Italia. Era da molto tempo che gli imperatori avevano smesso di intervenire concretamente nella penisola; in effetti dalla morte di Federico II nel 1250. Rodolfo d’Asburgo che tecnicamente non fu mai imperatore, fece il possibile per ristabilire il potere imperiale almeno in Germania, attirandosi l’antipatia di molti, ma evitò di intervenire nel ginepraio italiano italiano, meritandosi un feroce giudizio di Dante, che lo colloca in Purgatorio tra i principi negligenti. Rodolfo visse fino al 1292; il successore Adolfo conte di Nassau tenne la corona fino al 1298, quando cadde in battaglia contro il rivale Alberto d’Asburgo, figlio di Rodolfo. La preoccupazione di Dante per l’assenteismo imperiale si era molto accentuata, per non dire che doveva esser nata, da quando non era più l’esponente di un arrogante e vittorioso regime guelfo, ma un esule che non sapeva neppure troppo bene se dopo tutto non avevano ragione i ghibellini. Si capisce dunque che la notizia dell’elezione di Enrico VII, e forse ancor più quella dell’approvazione papale abbia emozionato Dante. Nel settembre 1309, appena ricevuta la benedizione papale, Enrico era a Berna, intento a radunare l’esercito che doveva accompagnarlo in Italia. Altre due ambasciate seguirono nella primavera 1310, dirette l’una in Lombardia e l’altra in Toscana, e finalmente, nell’ottobre dello stesso anno, l’imperatore passò il Moncenisio e fece la sua prima sosta in terra italiana a Susa, un’altra a Torino e un’altra ancora ad Asti, diretto al suo obiettivo principale: Milano. A Firenze avevano già deciso da un pezzo che il nuovo re d’Italia era un nemico Il governo, preoccupato, decise di mandare una sontuosa ambasciata da Enrico, che si trovava allora a Losanna, per garantirgli le proprie buone intenzioni, ma i magnati guelfi sobillarono il popolo, seminando il sospetto che se si dava retta all'imperatore, i ghibellini sarebbero tornati in città. Come sempre, l’odio ideologico accecava: l’ambasciata fu revocata, e Firenze fu l’unica città d’Italia che non mandò nessuno a Losanna per salutare e onorare l’imperatore alla vigilia della sua venuta. Ma c’erano, in compenso, gli esuli, i quali non persero l’occasione per convincere il sovrano che i fiorentini non si fidavano di lui. Non sappiamo se Dante fosse tra loro già in quell’occasione. Tra l’estate e l’autunno del 1310 pubblicò il manifesto noto come Epistola V, che annuncia all’Italia la venuta dell’imperatore e invitava tutti a sottomettersi alla sua giustizia. La lettera, in latino, è indirizzata “a tutti i re d’Italia” (re angioino a Napoli e re aragonese a Palermo) e “ai sentori dell’Urbe” (il comune di Roma), “nonchè ai duchi, marchesi, conti e ai popoli”. Li esortava a rallegrarsi per il sorgere di un nuovo giorno e l’arrivo di un nuovo mosè; ed esortava i discendenti dei Longobardi a ricordarsi di essere innanzitutto troiani e romani. Nel 1311 Dante indirizzò un’altra lettera. Questa esortava gli scelleratissimi Neri ad arrendersi all'imperatore, che altrimenti avrebbe inflitto alla città una spaventosa punizione; carica di insulti com’era, non mirava a convincerli, ma era un manifesto che si inseriva nel duello delle opposte propagande. L’epoca del pentimento e delle implorazioni ai neri per ottenere la grazie era evidentemente tramontata, e Dante era di nuovo sul piede di guerra. Nel propugnare la sottomissione all’imperatore Dante introduce gli stessi temi sviluppati nella Monarchia, scritta forse proprio in quegli anni: la sola vera libertà è l’obbedienza spontanea alla legge di Cesarem che per volontà divina deve governare tutta l’umanità e che rappresenta l’unico potere veramente pubblico, garanzia di convenienza civile; tutti gli altri poteri che attualmente governano l’Italia, siano principi o comuni, non rappresentano altro che interessi privati. Un indizio che forse Dante temeva di essersi giocato, con quei versi, la protezione degli Scaligeri, è nella strana risposta che dà a Cacciaguida, dopo che questi gli ha profetizzato l’esilio, la cortesia del “gran Lombardo” e i benefici di Cangrande. Dante insomma ha paura che i suoi versi, troppo sinceri, gli sbarrino l’accesso a qualche porto sicuro. L’esaltazione di Cangrande nella profezia di Cacciaguida è chiaramente destinata a rimediare a questi errori, e non è un caso che poco dopo, senza alcun motivo apparente, Dante introduca la violentissima invettiva contro Giovanni XXII: un papa che a Dante non aveva fatto niente personalmente, ma che il 6 aprile 1318 aveva scomunicato Cangrande. Resta il fatto che non siamo in grado di fissare con certezza né un momento di inizio, né un momento finale del soggiorno veronese. L’importanza del soggiorno veronese è testimoniato anche dallo strettissimo rapporto che i figli di Dante mantennero con la città scaligera dopo la sua morte. Ma allora perchè Dante alla fine se ne andò da Verona? Può darsi che a un certo punto si sia accorto che la sua posizione alla corte degli Scaligeri stava diventando ambigua. Gli uomini del suo tempo erano abituati a quelle figure, chiamate uomini di corte o (ironicamente) cavalieri di corte, mezzo intrattenitori e mezzo scrocconi, non troppo lontani dai giullari, bene accolti per la loro piacevolezza in compagnia, sempre pronti alla battuta o al pettegolezzo. Nella Commedia ne compaiono parecchi (Ciacco, canto VI inferno; Guglielmo Borsiere nel XVI dell’Inferno; Marco Lombardo nel XVI purgatorio). Dante si accorge con spavento di essere diventato lui stesso una figura non troppo lontana da un cavaliere di corte, e si consola facendo di Marco lombardo e Guglielmo Borsiere due campioni di valore e cortesia, e garantendo che la loro vita era onorata, anche se mangiavano alla tavola d’altri. Almeno nella percezione addolcita che sempre circonda il passato, pareva al Petrarca che un tempo non fosse stato così; e forse era vero, perchè i signori del tempo di Dante dovevano avere meno illusioni sulla legittimità e sacralità del proprio potere, e più consapevolezza di doverlo al consenso della società comunale. 21.RAVENNA A proposito del disagio che a un certo punto spinse dante a lasciare Verona, varrebbe forse anche la pena di riprendere l'osservazione formulata 100 anni fa da uno studioso, e poco o per nulla menzionata oggi, per cui tra il 1318 e il 1319 il papa Giovanni XXII aveva gettato l’interdetto su tutti i possedimenti degli Scaligeri, finchè Cangrande non avesse rinunciato al titolo di vicario imperiale. A Dante che si considerava già vecchio e canuto, potrebbe comunque esser venuta meno la voglia di vivere in una città dove non era ovvio poter accedere ai sacramenti, tanto da decidere,presentandosi l’occasione, di trasferirsi altrove. Quel che è sicuro è che a un certo punto abbandonò la corte scaligera, accettò l’invito di Guido Novello da polenta, signore di Ravenna e fedelissimo della Chiesa, e si trasferì presso di lui. Poco più giovane di Dante, Guido apparteneva a quella grande aristocrazia militare dell’Appennino che da tempo stava imponendo il suo dominio sui comuni di Romagna. Aveva fatto il suo apprendistato politico sia come consigliere e savio del comune di Ravenna, sia come Capitano del Popolo e podestà a Reggio e Cesena. Oggi gli storici tendono a sottolineare che a quell’epoca il potere signorile era ancora concepito come un’emanazione del comune, dipendeva dal consenso del popolo e prevedeva una sistematica interazione con gli organismi comunali:i contemporanei, però, lo percepivano egualmente come una preoccupante novità. (aggiungi parte su Inferno pag 258). Chissà se avrà ripensato con imbarazzo a quei versi quando giunse l’invito di guido? Ma il signore di Ravenna era anche lui poeta, e può darsi che abbia giudicato da poeta quei canti in cui comparivano la sua città e la sua famiglia, a partire dal V canto dell’Inferno, di cui era protagonista sua zia francesca, assassinata dal marito quando lui era ancora bambino. Che cos’era Ravenna a quell’epoca? Innanzitutto era una grande capitale ecclesiastica, sede di un arcivescovo tra i più ricchi d’Italia e di ricchissime abbazie come sant’Apollinare in Classe o San Vitale. Ma Ravenna era anche un prospero centro commerciale, capoluogo di un entroterra ricco di pascoli e vigneti, vicino al mare e circondato di saline e peschiere, che garantivano al comune cospicue entrate daziarie. E come in tutti gli altri luoghi dove giravano soldi, la città sospesa tra acqua e terra ospitava imprenditori fiorentini, attivi nel commercio, nella gestione delle proprietà ecclesiastiche, nel prestito di denaro. Guai, quindi a lasciarsi suggestionare da un’immagine dannunziana di città morta: la Ravenna in cui visse Dante era un centro urbano vivacissimo, e formicolante di forestieri. Si capisce così come a Ravenna Dante non abbia tardato ad allacciare fitte relazioni sociali. Nel caso ravennate ne sappiamo qualcosa di più grazie alle Egloghe, e cioè la corrispondenza in versi latini che intrattenne in quegli anni con l’umanista bolognese Maestro Giovanni. E’ l’unico caso, dopo l’esilio da Firenze, in cui sappiamo precisamente dove e quando venne scritta un’opera di Dante: epistolare ma letteraria a tutti gli effetti. La corrispondenza parte dal tentativo di Giovanni di convincere Dante a non scrivere più in volgare ma in latino. Dante risponde che sta troppo bene a Ravenna e che comunque non intende mettersi nelle mani di Polifemo: in cui si riconosce di solito il forlivese Fulcieri da Calboli, già podestà di Firenze al tempo del bando di Dante. Nella risposta Dante insiste: è sulla riva dell’Arno che vuole essere incoronato; e nel descrivere la scena che sogna, ci informa che i suoi capelli ormai sono bianchi (in realtà Dante non realizzerà mai quel sogno, a differenza del più mondano Petrarca). Nell’insieme disponiamo comunque di testimonianze eccezionali che permettono per la prima volta dopo la giovinezza di ricostruire concretamente l’ambiente in cui si muoveva dante nella nuova città: medici e soprattutto notai, tutti membri di famiglie solide ben radicate, personalmente influenti e non privi di relazioni con il governo cittadino quanto col ricchissimo clero locale. Ma da Ravenna Dante intratteneva corrispondenza anche con gli amici lontani. se ne deduce che in questi ultimi suoi anni, continuava a riflettere sul problema della nobiltà, che lo aveva appassionato per tutta la vita. E che da Ravenna ogni tanto si allontanava, anche se adesso prometteva di non farlo più, almeno finchè non gli fosse arrivata la risposta. E’ un fatto invece che a Ravenna dante riuscì a mettere a posto due dei suoi figli: Piero, a cui vennero assegnati due redditizi benefici ecclesiastici, e Beatrice, che divenne monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi. E’ un chiaro segno che Dante era stato bene accolto, perché queste sistemazioni non si ottenevano senza concreti appoggi e raccomandazioni. Quanto alla data dell’arrivo a Ravenna, il termine ultimo è il 4 gennaio 1321, quando Piero compare in un elenco di ecclesiastici ravennati, scomunicati dal legato pontificio in Lombardia. Nessun documento dimostra che anche Iacopo abbia vissuto a Ravenna insieme al padre, ma parrebbe che fosse lì al momento della sua morte. Dante era ormai un personaggio pubblico, e Piero e Iacopo sapevano di essere figli di un genio, autore di un capolavoro di cui si parlava in tutta italia. Mentre Dante si trovava a Ravenna il suo nome venne fatto, ad Avignone, in circostanze piuttosto terrificanti. Erano gli anni in cui la paranoia della stregoneria stava cominciando a impadronirsi della cristianità occidentale, dove avrebbe continuato a far danni per tutta la fine del Medioevo e gran parte dell’età moderna. In quel clima erano diventati frequenti i processi per stregoneria montati a fini palesemente politici, Ora papa Giovanni XXII stava montando un processo per stregoneria contro il suo arcinemico Matteo Visconti, signore di Milano: l’accusa era quella di aver tentato di ucciderlo per mezzo di un maleficio. Il nome di Dante venne fatto da un testimone- chiave, e un pentito e infiltrato. Questo coinvolgimento in una congiura ordita da signori ghibellini è in palese contraddizione col fatto che Dante a quell’epoca era certamente già a Ravenna, ospite del guelfo Guido da Polenta, sicché tutto suggerisce che si trattò di una montatura concepita ad Avignone: può darsi che laggiù non fossero così ben informati dei suoi più recenti spostamenti, e da anni si erano invece abituati a saperlo a Verona, e protetto da Cangrande. Nell’estate del 1321 Guido Novello lo incaricò di una missione diplomatica a Venezia. Lo sappiamo da Giovanni Villani, secondo il quale la morte dle poeta si verificò “essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta, con cui dimorava”. Ravenna era da sempre in rapporti piuttosto testi con Venezia, per inevitabili ragioni geopolitiche: i lagunari pretendevano il monopolio di tutte le merci che uscivano dal porto di Ravenna, in particolare una merce strategica come il sale di Comacchio, e i conflitti tra i due comuni, le accuse di contrabbando, gli accordi poi rinnegati o non mantenuti erano frequentissimi. Quell’estate Cecco Ordelaffi, subentrato da qualche anno al fratello Scarpetta nella signoria di Forlì, minacciava di far guerra a Ravenna e Venezia era disposta a finanziarlo. Non sappiamo quale fosse il mandato di Dante a prob. il suo viaggio a Venezia doveva servire a perdere tempo e avvisare la Signoria dell'arrivo, di una proposta concreta di accordo, che in effetti venne presentata da una nuova delegazione ravennate il 20 ottobre 1321. Ma Dante era già morto da più di un mese, e di solito si conclude, tirando a indovinare, che ad ucciderlo sia stato una malaria fulminante contratta proprio durante quel viaggio tra le paludi. Come per tutto quel poco che sappiamo della sua vita, anche la data di morte di Dante è riferita da fonti contradditorie. Secondo il Boccaccio morì il giorno dell’Esaltazione della santa Croce, che corrisponde al 14 settembre,, ma gli epitaffi che i letterati fecero a gara a scrivere per l’occasione datano la morte del poeta alle idi di settembre, cioè il 13. Dante deve essere morto nelle prime ore della notte tra il 13 e 14. Quella notte, il profeta andò a scoprire se quanto aveva immaginato in tuti quegli anni era vero.
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