Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

DANTE E PETRARCA: Vita e Opere, Sbobinature di Letteratura Italiana

DANTE: date importanti nella vita di Dante; la formazione dantesca; la Vita Nova; il Convivio; il De Vulgari Eloquentia, la Commedia. Analisi di passi: Dante e la lezione degli antichi; passo tratto dal convivio. PETRARCA il canzoniere: titolo; codici; epoca di composizione; redazioni; composizione; tipologie metriche. breve analisi di tutte le opere latine. analisi sonetto proemiale (1); sonetto 34; sestina 142. concetto di sestina lirica.

Tipologia: Sbobinature

2020/2021

In vendita dal 05/04/2022

Annaaa02
Annaaa02 🇮🇹

4.3

(11)

41 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica DANTE E PETRARCA: Vita e Opere e più Sbobinature in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Letteratura italiana dalle origini al ‘500 (spiegazione Paolino) • Bilinguismo italiano-latino Nella produzione letteraria italiana dei primi secoli troviamo il volgare, che designa la nostra lingua delle origini, in particolar modo si fa riferimento ad una denominazione che Dante usa nel suo trattato dedicato alla lingua italiana che è il ‘De vulgari eloquentia’. Con il termine volgare, si indicano tutte le lingue parlate dal volgo (da tutti) e si applica a tutte le lingue neolatine o romanze. Per questo, Dante per distinguere il volgare parla di tre volgari: la lingua d’Oil, la lingua d’Oc e la lingua del sì. Volgare: denominazione corretta per designare l’italiano antico almeno fino a tutto il secolo 16º. Inizialmente era una lingua solo parlata, solo in un secondo momento diede vita ad una produzione scritta che ha ambizione letteraria. È parlata da tutti, anche dei cosiddetti litterati homines, cioè gli intellettuali che avevano un’istruzione basata sulle litterae. Quando si parla di bilinguismo latino-volgare nella letteratura dei primi secoli si intende dire che il volgare rappresenta solo una minima parte della produzione di questi intellettuali. Questa convivenza di questi due registri linguistici è particolarmente evidente nei primi autori della nostra storia letteraria, cioè presso quegli autori che usano per primi il volgare ovvero la lingua degli indotti, degli hominis sine litteris, quindi senza un’istruzione adeguata, senza conoscenza del latino, essendo i primi sentono di percorrere un terreno inesplorato, nel quale mancano modelli di riferimento a cui rifarsi. Usano il latino solo quando vogliono scrivere opere di maggiore rilevanza. Nel XIII secolo assistiamo ad un progressivo tentativo del volgare di affermarsi sul latino. Nel 400, con l’umanesimo si ha quella che potremmo chiamare una regressione e di conseguenza il latino ritorna in auge rispetto al volgare (il caso di Poliziano). Poliziano, pur avendo la produzione letteraria in volgare alle spalle, ritorna al latino nei suoi scritti, rimettendo in ombra il volgare. • Primato della produzione in versi rispetto a quella in prosa Il volgare fin dall’inizio viene utilizzato sia nella produzione poetica sia nella produzione in prosa. Tra questi due, la produzione in prosa godrà per molto tempo di una considerazione minore rispetto alla produzione in versi. Quest’ultima è considerata, infatti, maggiormente prestigiosa. Nella quarta giornata del Decameron, Boccaccio si stupisce che queste sue novelle avessero potuto attirare tanto l’attenzione dei censori (intellettuali, dotti) in quanto scritte in prosa soprattutto, e in volgare. Questa affermazione di Boccaccio fa ben capire come la prosa rappresentasse un livello inferiore rispetto alla produzione in versi. Petrarca, invece, non si cimenterà mai nella prosa.  Rapporto privilegiato con le letterature romanze d’oltralpe Le letterature romanze d’oltralpe, ovvero quelle del territorio francese, sono due: quella in lingua d’Oil e quella in lingua d’Oc. Queste letterature nascono e si sviluppano prima della nostra e quindi forniscono una serie di modelli tematici, formali, metrici e anche linguistici. Infatti, queste due lingue influenzano massicciamente la lingua delle nostre poesie d’origine: la poesia siciliana e quella siculo-Toscana ricchissime di provenzalismi e francesismi. • Progressiva affermazione dell’esemplarità dei classici greco-latini (temi, generi, stili) La letteratura italiana, nel suo esordio, è strettamente congiunta con le letterature romanze, e soprattutto con la letteratura provenzale. I classici greco-latini cominciano presto ad ergersi a nuovi modelli da imitare anche per gli autori in volgare. La nuova letteratura, in volgare, comincia ad ispirarsi sotto vari profili (dei temi, di generi letterari, degli stili) agli autori classici. Nella commedia, Dante appena incontra Virgilio dice: “tu sei lo mio maestro e lo mio autore”. Da questa frase, che apparentemente può sembrare un semplice saluto, in realtà è contenuto il seme di quella che è la civiltà umanistica. Dante, nella commedia, dice a Virgilio quindi che è lui il suo maestro e di aver appreso da lui il “bello stilo”. • Precoce affermazione del valore esemplare (canonizzazione) delle tre corone trecentesche (Dante, Petrarca, Boccaccio) La canonizzazione delle tre corone avviene nel XVI secolo, però prima di arrivare a Bembo, questi autori hanno cominciato ad esercitare un valore modellizzante anche per moltissimi altri scrittori che tendevano ad ispirarsi alle loro opere. Prima di arrivare al 500, quando questa canonizzazione diventa esplicita, questi tre autori avevano cominciato ad essere imitati dagli scrittori, proprio perché le loro opere più importanti erano state copiate, trascritte in maniera massiccia. Dante e la Vita Nova Dante nasce a Firenze nel 1265; la Vita Nova è considerata un’opera dei trent’anni di Dante perché la data di composizione più accreditata si aggira nel biennio 1294-1295 (qualche critico si spinge ad ipotizzare fino al 1296). La Vita Nova è l’unica opera duecentesca ed è l’unica opera che Dante compone interamente a Firenze. Dal punto di vista formale viene definita un prosimetro, cioè testi che alternano parti in prosa con parti in versi. La caratteristica del prosimetro dantesco è quella di essere scritto in due tempi diversi per la parte in prosa rispetto alla parte in versi. Il prosimetro in cui le parti in prosa sono databili ad un’epoca diversa rispetto alle parti in versi è detto diacronico. La data 1294-1295 di composizione della Vita Nova si riferisce alla stesura delle parti in prosa; le parti in versi già esistevano e presumibilmente cominciarono ad essere scritte intorno al 1283 (data che corrisponde ai 18 anni di Dante). È una datazione convenzionale non sicura, perché i testi più antichi della Vita Nova si mostrano come scritti per Beatrice e, dal racconto che Dante fa nella Vita Nova, si evince che iniziò a comporre i testi in versi dopo l’incontro con Beatrice a 18 anni. La narrazione della Vita Nova è il secondo incontro che Dante ha con Beatrice; il primo lo colloca all’età di 9 anni. In quell’occasione la donna avrebbe rivolto al poeta il primo di tanti saluti che avrebbe prodotto in Dante un tale sconvolgimento che lo avrebbe indotto ad appartarsi e a scrivere il suo primo componimento. Si tratta di una data convenzionale perché il componimento lirico a cui si fa riferimento come il primo componimento che Dante avrebbe scritto per Beatrice in realtà non cita esplicitamente Beatrice, ma parla di una donna. È Dante che nelle prose che accompagnano questo componimento dice che questa donna era Beatrice e induce il lettore a questa identificazione. Non si può escludere che questo componimento, scritto prima che Dante concepisse l’idea della Vita Nova, potesse essere un testo scritto per altre donne o per nessuna donna. Il sonetto ‘’a ciascun alma presa e il gentil core’’ è il primo componimento della Vita Nova, ma è anche il primo dedicato a Beatrice. È evidente che Dante vuole connettere l’apparizione onirica di questa donna al saluto che aveva ricevuto da Beatrice. Dante ci racconta nelle prose della Vita Nova di aver mandato un Dante e la lezione degli antichi Vita Nova (1294-95) Da questo primo passo emerge la riflessione dantesca sulla poesia degli antichi, sulla letteratura antica. Nella Vita Nova sono presenti diverse digressioni, questo passo è una digressione che Dante fa sull'origine della poesia volgare. Il poeta chiama direttamente in causa un possibile rapporto esistente tra la poesia volgare e la poesia classica degli antichi, affermando che nella poesia volgare si possono usare le figure retoriche, in particolar modo la prosopopea, che consiste nel personificare concetti astratti oppure esseri o enti che non possono parlare. Dante affronta questo argomento perché gli viene il sospetto che l’uso frequente che ha fatto della personificazione di amore, possa portare chi lo sta ascoltando (il suo pubblico) a cadere nell'equivoco che Dante pensi che amore sia una sostanza, l'essere vivente impersonificato e non un concetto astratto. In realtà Dante è convinto che Amore non sia un Dio, non esista come sostanza, ma sia un’accidenti della sostanza, cioè una caratteristica transitoria dell'essere, non una caratteristica permanente. Dante usa queste figure retoriche nella poesia in volgare. 16 .... anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi, dico [...] non volgari, ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati che apparirono prima questi poete volgari;ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di si, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per .cl. anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di si. E lo primo che comincio a dire si come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con cio sia cosa che colale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Dante dice: anticamente non esistevano dicitori d'amore in lingua volgare (= chi componeva sull'amore in lingua volgare), ma al contrario esistevano poeti che trattavano d'amore in lingua latina. Tra noi, si riferisce alla civiltà occidentale, queste cose (=la materia amorosa) non erano trattate dai volgari, ma dai “litterati poete”, ovvero i poeti letterati (con litteres, che scrivevano in latino). E non sono trascorsi un gran numero d'anni dalla comparsa di questi poeti volgari (=poesia giovanile). <<poete volgari>>= “poete” al posto di “poeti” è un latinismo morfologico, utilizza per il plurale la forma latina. L’accostamento di questo termine con l’aggettivo volgari è inedito, fino a quel momento il termine “poete” era stato utilizzato per i poeti in lingua latina. Per Dante la poesia in volgare e quella in latino hanno la stessa dignità, per cui conia questa definizione. Per spiegare perché associa questi due termini, utilizza il chè. Perché dice: comporre in volgare con le rime è quasi equivalente a comporre in latino con i versi. La metrica dell’italiano volgare (endecasillabi rimati) e la metrica del latino (esametro) sono diverse. La prima è una metrica qualitativa o sillabica, basata sul numero di sillabe. La seconda è una metrica quantitativa cioè basata sulla lunghezza e la durata delle sillabe. Dante che conosce sia il latino che il volgare era consapevole di questa differenza ed è per questo che aggiunge “secondo alcuna proporzione”. La parola 'dire' è utilizzata nel senso tecnico “di comporre testi poetici”, come dicitori d'amore= chi scrive componimenti poetici sull'amore. Quindi 'dire per rima' = comporre con rima e 'dire per versi' = comporre con i versi classici. La rima è ciò che compete al campo del volgare, il verso è ciò che compete al campo del latino. Il suo discorso procede e aggiunge alcune considerazioni della poesia volgare “E segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di si, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per .cl. anni” = è la prova che sia trascorso poco tempo da quando è nata questa poesia d'amore in volgare. Se cercassimo nell’ambito della poesia volgare in lingua d’Oc (produzione poetica in provenzale) e in lingua del sì non troviamo componimenti poetici d’amore che risalgono a più di 150 anni fa. Dante si confronta con quella che è la tradizione della poesia in volgare a lui precedente per dire che è una poesia che ha conosciuto, nel corso di questo secolo e mezzo, una certa evoluzione. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di si. Dante afferma che la fama di questi poeti non è dovuta alla loro bravura, perché la loro era una lirica ancora rozza e meno raffinata, ma dipende dal fatto che sono stati i primi a comporre in volgare. E lo primo che comincio a dire si come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d'intendere li versi latini. Il motivo che spinse i poeti a scegliere questa nuova lingua per la poesia d’amore è individuato da Dante nel fatto che il pubblico era prevalentemente formato dalle donne a cui i poeti rivolgevano queste poesie. La poesia era una forma di corteggiamento, conteneva la richiesta di compensi amorosi, doveva essere capita dalle donne che inspiravano questi versi. Le donne erano illitterate, cioè erano escluse dalla formazione letteraria e dalla conoscenza del latino, quindi la poesia d’amore in latino non poteva essere compresa dal pubblico femminile. Per questo motivo, dice Dante, i primi poeti iniziarono a scrivere versi in volgare. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con cio sia cosa che colale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Il fatto che la poesia in volgare sia nata per essere capita dalle donne va contro coloro che scrivono in volgare su altre materie diverse da quella amorosa, dal momento che questo modo di comporre versi in volgare fu inventato per la prima volta soltanto per parlare d’amore. Dante considera il volgare come lingua poetica, ma esclusivamente per parlare di materia amorosa. Sembra che Dante, pur mettendo sullo stesso piano la poesia d’amore in lingua latina e la poesia d’amore in lingua volgare, consideri la letteratura in volgare ancora di rango inferiore perché, nella Vita Nova, riconosce come legittimo l’impiego del volgare in letteratura soltanto nell’ambito della poesia d’amore. I poeti che usano il volgare per altri argomenti non si comportano giustamente. De vulgari eloquentia (1304-1306) Tra la composizione della ‘’Vita Nova’’ e quella del ‘’De Vulgari eloquentia’’ si verifica nella vita di Dante l’esilio, ovvero l’allontanamento da Firenze. Dante nei primi anni del nuovo secolo, lontano da Firenze, trova ospitalità presso vari signori toscani e in questo ambito riprende la sua attività di scrittore. I primi anni dell’esilio, Dante li trascorre a Bologna che era governata dai guelfi bianchi, la stessa fazione politica a cui Dante stesso apparteneva. Secondo alcuni studiosi, il “de vulgari eloquentia”, sarebbe stato composto in questo periodo. Probabilmente è stato composto avendo in testa un pubblico molto particolare, quello degli intellettuali, dei docenti, degli accademici dell’università bolognese. Fino a quel momento, a Firenze e fuori, Dante era conosciuto solo come poeta in volgare, con il de vulgari eloquentia, un trattato in latino, il poeta sembra voler riscattare il suo ruolo modesto di poeta in volgare. Scrivere in latino significava scegliere un pubblico culturalmente più elevato, accademico. Il de vulgari eloquetia, come abbiamo detto, è un trattato linguistico e retorico che affronta da una parte il problema dell’origine del linguaggio, della moltiplicazione degli idiomi e esamina in modo dettagliato i tre volgari che all’epoca di Dante godevano del maggior prestigio letterario: due francesi e il terzo dell’area italiana, cioè il volgare d’oc e il volgare d’oil per quanto riguarda la Francia, e il volgare del sì per l’area italiana. Il titolo DE VULGARI ELOQUENTIA significa sull’eloquenza del volgo. È un trattato sia di filosofia della lingua e in parte anche di storia della letteratura italiana, perché Dante cita tanti poeti italiani che hanno usato il volgare ed è anche un trattato di retorica del volgare, cioè dell’uso più elegante ed artistico che si possa fare di questa lingua. Lo scopo del trattato è quello di trovare il volgare illustre che definisce con aggettivi precisi: aulico, curiale e cardinale. Dante si chiede se esiste un volgare che possa essere superiore a tutti gli altri, che possa essere scelto come volgare illustre. Dante, servendosi di testi poetici, fa una disamina per arrivare alla conclusione che nessuno dei volgari parlati e scritti in Italia può essere identificato nel volgare illustre. Dante dice: <<il volgare illustre è come una pantera che lascia qualche segno della sua presenza nel luogo in cui è passata, ma non è mai catturabile>>. Nei bestiari medievali si diceva la pantera emanava un profumo piuttosto penetrante e persistente nei luoghi in cui si era soffermata. Per cui i cacciatori, sulle sue tracce, potevano facilmente rendersi conto da dove era passata perché percepivano il suo profumo. Dante, servendosi di questa caratteristica che era attribuita alla pantera, afferma che il volgare illustre è come questo animale esotico, nel senso che un’idea del volgare illustre si coglie in tutte quelle varietà dialettali del volgare che erano state usate fino a quell’epoca per scrivere poesia, nella misura in cui diversi poeti avevano cercato di allontanarsi dalle forme più colloquiali della lingua parlata per depurare la loro lingua dalle forme più rozze e cercare di abbellirla e purificarla. Questa tendenza a scremare i volgari dalle espressioni più proprie della lingua parlata, a selezionare i vocaboli, Dante la riscontra nella maggior parte dei poeti migliori della tradizione italiana. Li distingue sempre in due gruppi: poeti eccellenti e poeti municipali. Quando Dante arriva a parlare del volgare toscano cita una serie di poeti che, secondo lui, hanno attinto all’eccellenza del volgare, cioè si sono avvicinati più di tutti al volgare illustre. Questi poeti sono quelli che noi chiamiamo stilnovisti tra cui Dante stesso. Da una parte è vero che Dante non dà al fiorentino la palma del volgare illustre, ma riconosce alla tradizione poetica dello Stilnovo e ad alcuni poeti tra cui sé stesso, Cino da Pistoia, Lapo Gianni e Guido Cavalcanti, di essersi avvicinati all’eccellenza del volgare. dell’esilio e ha interesse nel farsi conoscere presso la più ampia società civile e politica della penisola italiana. Dante fuori da Firenze era poco conosciuto, e se qualcuno lo conosceva era perché aveva scambiato testi poetici con poeti non fiorentini come Cino da Pistoia. Dante cita Cino da Pistoia, insieme a Lapo Gianni, Guido Cavalcanti, nel De Vulgari Eloquentia quando elenca i poeti che in ambito toscano hanno attinto alla volgare eccellenza. Dante non rende mai esplicito il suo nome, ma si definisce “l’amico di Cino”. Le ricerche degli studiosi Gli studiosi si sono interrogati su questa formula; una risposta è stata data da uno studioso del De vulgari eloquentia, Mirko Tavoni, il quale è tra coloro che hanno sostenuto che il de vulgari eloquentia sia stato scritto da Dante nella città di Bologna. Degli spostamenti di Dante, sia prima dell'esilio che dopo, non sappiamo quasi niente e non sappiamo neanche se sia vero ciò che ha scritto Boccaccio nella sua biografia: ovvero che Dante sia stato a Bologna prima dell'esilio per completare la sua formazione negli studi di Bologna. (trattatello in laude di Dante = prima biografia di Dante). Mirko Tavoni In particolare, Mirko Tavoni ha ritenuto di poter ritrovare proprio nel De vulgari eloquentia le prove a favore di un soggiorno di Dante in questi stessi anni a Bologna. E a Bologna sarebbero maturati i progetti del de vulgari eloquentia e del Convivio, due trattati in prosa latina. Scrivere in latino significa cambiare il pubblico a cui ci si intende rivolgere. Tavoni sostiene che il motivo per il quale Dante si mette a scrivere un trattato sulla lingua volgare in latino è strettamente collegato all'esigenza che aveva di dimostrare al pubblico a cui si rivolgeva di essere capace di trattare di argomenti non amorosi in latino, che era la lingua dei dotti. Ciò che può sorprendere è che Dante scelga proprio questo argomento ovvero il volgare che non godeva la stima dei dotti. Dante affermava anche che questo volgare non era esclusivamente riservato solo alla materia amorosa, ma poteva essere usato anche in un campo in cui mai nessuno l'aveva usato come il campo dell'epica. E qui veniamo a Cino da Pistoia: perché a Dante faceva comodo mettere nel trattato sempre Cino? Perché Cino Da Pistoia non era solo un poeta stilnovista, ma praticava la poesia d'amore. Quando Dante si rivolgeva al pubblico intellettuale bolognese, parlava di Cino da Pistoia e presentava sé stesso come < amico di Cino > per ottenere due risultati: farsi conoscere dal pubblico bolognese su quello che aveva scritto finora, cioè la poesia d’amore; indicare al pubblico degli accademici bolognesi che il volgare si potesse usare anche per la materia epica e morale. Scrivendo il trattato in latino dimostrava di essere un intellettuale al pari, per esempio, di Cino da Pistoia. Nel trattato Dante dice che i dialetti siciliani e bolognesi siano migliori rispetto al toscano, ed è una forma di captatio benevolentiae, volta a conquistare la benevolenza degli ascoltatori. Dante dimostra di conoscere molto bene tutte le sfumature dei dialetti parlati nelle varie zone di Bologna, a dimostrazione del suo soggiorno nella città. Per il dialetto siciliano, toscano e bolognese, Dante elenca i migliori poeti e i poeti municipali. Dunque, se volessimo indicare una progressione nella vita di Dante riguardo ai ruoli che ricoprì, potremmo accostargli diverse etichette: la prima è quella del poeta d'amore (primo sonetto della Vita Nova, che Dante scrive per Beatrice è una poesia d'amore che risale all'incirca ai suoi 18 anni). Dopo la stagione della poesia d'amore, viene quella dell'impegno civile, morale: Dante poeta che si occupa di questioni come la definizione della nobiltà, il conflitto tra le classi sociali. Con l'esilio Dante cerca di allargare di più i suoi orizzonti e cerca di accreditarsi come intellettuale a tutto tondo, capace di affrontare qualunque tipo di questione. Nel Convivio Dante si presenta come un intellettuale che non ripudia il volgare, ma lo difende presso i dotti con un trattato di scienza varia, il Convivio. Il Convivio è un trattato scientifico in cui Dante si occupa di vari argomenti: di carattere filosofico, teologico, naturalistico, scientifico, grammaticale e linguistico, sociale per esempio si occupa ancora della nobiltà. Dante nelle sue opere, come nella Commedia, descrive alcuni avvenimenti della sua vita personale. Ad esempio, nel XXIV canto del Purgatorio Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Questo poeta è citato da Dante anche nel de vulgari eloquentia tra i poeti municipali del dialetto toscano. Bonagiunta gli parla della sua città natale, Lucca e gli dice che gli sarà cara per via di una donna di cui si innamorerà quando sarà in esilio. Non esiste nessun documento che attesta che Dante abbia trascorso un periodo a Lucca, anche se viene reso credibile dal dialogo nella Commedia col poeta Bonagiunta Orbicciani. DATE IMPORTANTI DELLA VITA DI DANTE Dante nasce a Firenze nel 1265. 1283 secondo incontro con Beatrice, inizio dichiarato della sua attività poetica Nel 1283, anno del secondo incontro con Beatrice, si colloca l’inizio della sua attività poetica. Nella Vita nova racconta l’effetto sconvolgente che il saluto della donna produce in lui. Prosegue raccontando nel sonetto, “A ciascun alma prese e gentil core”, un sogno fatto dopo essersi addormentato. Questo sonetto, non è collegabile a Beatrice, ma Dante inserendolo nella Vita Nova vuole che sia strettamente percepito dai suoi lettori come un testo scritto per la donna. Con questo componimento, che Dante rivolge ad un pubblico di innamorati, di cuori gentili intende presentarsi alla comunità poetica fiorentina come un giovane fiorentino che si diletta di far poesia e vuole distinguersi tra i suoi concittadini. 1290 morte di Beatrice L’anno della morte della donna lo si evince dalla Vita Nova, dove Dante attraverso una complessa perifrasi che coinvolge diversi calendari, di diverse tradizioni geografiche, indica il 1290 come l’anno della morte di Beatrice. Dante ci riporta di essere caduto in una profonda depressione dopo la morte di Beatrice. Questa depressione, secondo il racconto della Vita Nova, era sfociata nel nuovo innamoramento per la donna gentile, un innamoramento seguito da un pentimento e poi dal proposito di raccogliere le rime per Beatrice in un libro. 1294-95/96 Vita nova In questi anni scrive le parti in prosa della Vita Nova, costruisce questo prosimetro inserendoci i componimenti lirici già composti prima per Beatrice o anche per altre donne. La Vita Nova rappresenta la prima opera giovanile di Dante, un’opera nella quale Dante fa un bilancio dello svolgimento della sua poesia d’amore. Per quest’opera sceglie 31 componimenti: 25 sonetti, 4 canzoni, una ballata e una stanza isolata di canzone. Dopo aver terminato la Vita nova, nel 1295, Dante può accedere alla vita politica, quando le restrizioni degli Ordinamenti della giustizia, che impedivano ai nobili l’accesso alle pubbliche magistrature, furono attenuate. Questo creò delle tensioni tra gli aristocratici, che pretendevano di essere gli unici detentori del potere politico, e i popolani (“popolo crasso= popolo ricco) che, essendosi arricchiti, potevano mettere in circolazione di prestiti. Questi scontri portarono ad una conciliazione poiché fu stabilito che anche i magnati di esponenti delle famiglie magnatizie aristocratiche fiorentine avrebbero potuto partecipare alla vita pubblica se si fossero iscritti alle arti e ai mestieri. Dante si iscrisse alla corporazione dei “medici speziali”, che si avvicinava alla sua vena filosofica. La Firenze in cui Dante vive è una città lacerata da contrasti tra la famiglia guelfa dei Cerchi e la famiglia dei Donati. Successivamente i Cerchi prenderanno il nome di GUELFI BIANCHI e i Donati, GUELFI NERI. Dante, da una posizione di neutralità, passerà ad aderire alla parte dei Bianchi. 1300 bimestre giugno-agosto: uno dei Priori Nel 1300 Dante viene nominato priore per il bimestre 15 giugno-15 agosto. Una settimana dopo l’insediamento del nuovo incarico, il 23 giugno, una violenta rissa, scoppiata tra alcuni componenti delle fazioni la sera della vigilia di San Giovanni, provoca una risoluzione drastica: viene deliberato il confino a Perugia per sette capi di parte nera, e il confino a Sarzana, in Lunigiana per sette capi di parte bianca. Tra questi ultimi c’era anche Guido Cavalcanti che, dopo essere tornato dal confino, morì. Questo provvedimento, che Dante prese insieme ai suoi colleghi priori, lo porterà ad avere sensi di colpa che riverserà nel canto X dell’inferno, quando incontra, tra gli eretici, il padre di Guido Cavalcanti. 1301 ambasceria a Roma presso Bonifacio 1302 Carlo di Valois entra a Firenze come paciere del papa. La fazione dei Neri prende il sopravvento. Nell’ ottobre del 1301 Dante non è più priore, ma diventa uno dei tre ambasciatori fiorentini inviati a Roma presso il papa Bonifacio VIII, per dissuaderlo dal far giungere a Firenze Carlo di Valois come paciere tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri. Ma il papa trattiene il poeta, che viene a trovarsi lontano da Firenze quando si verifica l’evento che aveva tentato di impedire: Carlo di Valois fa il suo ingresso a Firenze, favorendo l’ascesa al potere dei Neri. Si aprono processi sommari nei confronti dei Bianchi e Dante viene accusato di baratteria e viene condannato in contumacia all’interdizione dai pubblici uffici, a una multa e al confino per due anni. Dante, che non era ancora rientrato a Firenze, non poté pagare l’ammenda e viene condannato a morte. Per evitare di essere catturato e messo al rogo, Dante sceglie la strada dell’esilio. Nel 1305 la pena venne ulteriormente aggravata perché si estese l’esilio da Firenze anche ai figli maschi che raggiungevano l’età dei 14 anni. ESILIO: è un provvedimento che, di solito, non può essere combinato da qualche autorità. Si dice ‘’andare in esilio ’’ e non ‘’essere condannati all’esilio’’. È l’effetto di una scelta personale, una persona può considerarsi non ben accetta in patria. CONFINO: è un provvedimento di carattere giudiziario-politico che può essere preso nei confronti di qualcuno. Dante viene condannato al confino nella prima sentenza del gennaio 1302, insieme all’interdizione dai pubblici uffici e una multa pecuniaria, che consisteva nel divieto di entrare nel territorio toscano. Il provvedimento di pena di morte, che subentra successivamente, annulla quello del confino. Il condannato può anche far rientro a Firenze neri è caratteristica di un’età in cui il potere dell’impero in Italia, dopo Federico II inizia a svanire, poiché gli imperatori trascuravano l’Italia. Questi territori percepivano l’autorità imperiale abbastanza lontana tanto che avevano guadagnato nel tempo dei margini di autonomia giuridica. Alcune città, come Firenze, erano arrivate a battere la propria moneta che non era quella dell’impero (Firenze= fiorino). I guelfi neri sono le forze più conservatrici, quelle che interpretano in maniera più fedele la dipendenza alla posizione filopapale; i guelfi bianchi rappresentano la parte più progressista, quella che incarna il bisogno di queste città di ritagliarsi degli spazi di autonomia giuridica, finanziaria. La Battaglia di Campaldino, ricordata da Dante nella Commedia, ha a che fare con questa contrapposizione tra guelfi e ghibellini. L’11 giugno 1289 Campaldino fu il teatro di uno scontro molto sanguinoso tra guelfi e ghibellini. I guelfi erano fiorentini, capeggiati dagli esponenti politici più importanti delle due fazioni: bianca (Cerchi) e nera (Corso Donati). I guelfi fiorentini si contrapposero ai ghibellini di Arezzo, che furono sconfitti e la città perse la sua indipendenza perché finì sotto l'egemonia della città di Firenze. La battaglia di Campaldino fu l’unica battaglia a cui Dante partecipò tra i cavalieri feditori, ovvero d'assalto. Di quest'esperienza Dante racconta nel V Canto del Purgatorio, dove si trovano le anime che sono morte di morte violenta, come i morti di questa battaglia che hanno potuto pentirsi sono in extremis. In questa cornice Dante incontra due combattenti: Iacopo Del Cassero e il ghibellino Bonconte da Montefeltro. Quest'ultimo era stato uno dei capi dei ghibellini a Campaldino ma era morto in quella battaglia e il suo corpo non era stato ritrovato. Quindi Dante si fa raccontare, ovviamente inventandosi tutto, dal personaggio cosa fosse successo al suo corpo dopo la sua morte. 1304 (20 luglio) Battaglia della Lastra 20 luglio 1304: Battaglia della Lastra. Dante seppure cercò subito una collocazione, non si allontanò a lungo dalla Toscana. Nei primi tempi del suo esilio si coalizzò con i guelfi bianchi fuoriusciti e i ghibellini fiorentini che erano fuoriusciti ormai da tempo. Questa coalizione politicamente variegata e accomunata dallo scopo di rientrare a Firenze dette vita alla battaglia della Lastra, tra l'esercito fiorentino regolare, quello della città della parte nera che era rimasta al potere a Firenze, e la parte dei fuoriusciti. Alla battaglia della Lastra però Dante non prese parte, aveva già deciso di far definitivamente <<parte per sé stesso>>. 1304-6 Bologna? Treviso (Gherardo da Camino) 1306-1307 Lunigiana (marchese Moroello Malaspina) Probabilmente il poeta trovò breve ospitalità a Treviso, presso Gherardo da Camino, ed è in Lunigiana, alla corte di Moroello Malaspina tra il 1306-1307. Quest’ultimo, guelfo nero, aveva un tale potere da poter proteggere anche esponenti del partito bianco. I biografi pongono intorno a questi anni l’inizio del lavoro alla Commedia. In questo periodo, quindi, si colloca la composizione dell’Inferno, che viene definito “inferno guelfo” poiché Dante si presenta ai suoi interlocutori come un guelfo, fedele alla sua parte. Nelle cantiche successive, soprattutto nel Paradiso, Dante appare smarcato dalle posizioni guelfe. Dante diventa (senza mai definirsi tale), come lo definirà Foscolo, un ghibellino, un fautore della causa politica imperiale perché comincerà a capire che il potere papale ha sempre agito con un fattore di ingerenza e di disturbo della vita dei comuni italiani. Il potere temporale che la chiesa esercita per secoli è un'indebita usurpazione che Dante comincia a propagandare come tale. E quest'ideologia è inimmaginabile da parte dei guelfi, che al contrario sostenevano il papa. Da guelfo effettivo Dante passa alla storia con l'etichetta di ghibellino. Gli anni in cui lui cerca di convertirsi a queste nuove posizioni politiche anticlericali e filoimperiali di conseguenza, sono gli anni successivi al 1308. Nel 1308 muore Corso Donati che era un avversario politico di Dante, ma anche un suo conoscente e apparteneva alla stessa famiglia della moglie di Dante, Gemma Donati, colui che poteva far rientrare il poeta a Firenze. Morto Corso Donati, Dante comincia a perdere le sue speranze di poter ritornare a Firenze e quindi si smarca anche dalle posizioni politiche guelfe che fino a quel momento aveva condiviso. 1307-11 Lucca? Casentino (castello di Pioppi dei conti Guidi) Dal 1307 si sposta a Lucca dove risiede, fino al 1311, nel castello di Poppi, nel Casentino, ospite del conte Guido di Battifolle. 1310-13 Arrigo VII Nel 1310, l’imperatore Arrigo VII decide di scendere in Italia per essere ufficialmente incoronato a Roma. Questa occasione è appoggiata da Dante, che vedeva in tale evento l’opportunità di una possibile divisione tra potere papale e potere imperiale. Dante segue da vicino le mosse di Arrigo VII. I suoi interventi non portano nessun risultato positivo, solo scontri con la fazione dei Neri. Dante resta deluso dal comportamento dell’imperatore che muore nel 1313. Già ai primi del 1312 Dante aveva lasciato il Casentino. 1315-20 Verona (Cangrande della Scala) È probabile che si sia fermato in Toscana fino al 1315, quando, di fronte alla possibilità di ottenere la grazia purché si riconoscesse colpevole, respinge con sdegno l’offerta. Inevitabile è la conferma della condanna a morte per lui e per i suoi figli. Trova di nuovo ospitalità a Verona, alla corte di Cangrande della Scala, ove si ferma fino al 1220. 1320-21 Ravenna (Guido Novello da Polenta) Nel 1320 si trasferisce a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta. Inviato dal signore in ambasceria a Venezia, si ammala nell’attraversare le paludi di Comacchio. Rientrato a Ravenna, muore tra il 13 e il 14 settembre 1321. IL CONVIVIO È un trattato in volgare, composto tra il 1304-1307, in cui Dante propone l’immagine di sé, come un intellettuale capace di misurarsi su molti argomenti scientifici. Dante con questo trattato intende rivolgersi a un pubblico più ampio che, nonostante non aveva una grande istruzione, aveva l’esigenza di colmare le lacune delle proprie conoscenze. Dante si propone di fornire un’istruzione a coloro che devono ricoprire ruoli di governo, di amministrazione delle città. Questi aristocratici non avevano a disposizione gli strumenti culturali e la conoscenza della lingua latina. Da qui la necessità che Dante avverte di farsi divulgatore di questi contenuti appartenenti a scienze diverse: la filosofia, la lingua, l’economia, questioni morali, etiche. Nel caso del Convivio, Dante attinge a diverse fonti come San Tommaso, Aristotele, scrittori classici. Il termine “convivio” deriva dal latino che significa ‘banchetto’. Il titolo allude al fatto che Dante voglia esporre, in questo trattato, un ‘banchetto’ del sapere, dove le pietanze sono le conoscenze, le nozioni, le informazioni. Convivio (1304-1306) “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti…” “Lo filosofo” cioè “il filosofo” = Aristotele. Ne Medioevo la filosofia aristotelica era ampiamente diffusa perché aveva fornito la sostanza alla filosofia della Chiesa, alla filosofia medievale della Chiesa la cosiddetta scolastica di San Tommaso d'Aquino. Quindi Aristotele era ampiamente noto sia attraverso la rielaborazione della scolastica ma anche in forma diretta. Aristotele era stato ampiamente tradotto in arabo e dall'arabo poi in Occidente era stato tradotto in latino. Quindi i contenuti della filosofia aristotelica erano conosciuti anche in questo modo cioè direttamente, anche se in una versione appunto tradotta in un altro codice linguistico, quindi come dice Aristotele qui abbiamo le citazioni di un'auctoritas=un'autorità scientifica filosofica come dice Aristotele nel principio della prima filosofia e lo si può capire dalle maiuscole usate dall'editore del Convivio che la prima filosofia è una definizione perifrastica di una parte della filosofia di Aristotele, la prima perché Aristotele si occupa di varie cose nella filosofia. La prima filosofia è la Metafisica. La prima parte, la scienza principe della filosofia antica a cui Aristotele aveva riservato una speciale trattazione, quindi così come dice il filosofo Aristotele all'inizio della sua metafisica “tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere” “tutti gli uomini desiderano per natura di sapere” cioè la conoscenza è un desiderio insito naturalmente nella natura umana. “La ragione di chi puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione” qui spiega perché il desiderio di sapere è innato nella natura umana. La ragione della qual cosa (cioè il motivo che spiega perché tutti gli uomini desiderano istintivamente di sapere, desiderano la conoscenza in maniera istintiva). Quindi la ragione della qual cosa puote (forma consueta nell’età di Dante, della terza persona singolare dell'indicativo presente del verbo potere) quindi “puote” può essere ed è che ogni natura è propensa a raggiungere la propria perfezione, poi c’è un’incidentale da providenza di prima natura impinta (la prima natura è Dio) (impinta sta per dire spinta, stipulata) quindi ciascuna cosa spinta dalla provvidenza divina è propensa a raggiungere la sua stessa perfezione. Quindi gli uomini, come tutte le cose cerate da Dio La formazione dantesca Dante e il supposto soggiorno bolognese pre-esilio (secondo la testimonianza di Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, capitolo III Studi di Dante). La frequentazione dantesca delle “scuole de’ religiosi e de le dispute de’ filosofanti” (Convivio). Gli studi conventuali dei domenicani di Santa Maria Novella e dei francescani di Santa Croce. Possibili contatti di Dante con il domenicano Remigio de’ Girolami, allievo a Parigi di Tommaso d’Aquino e docente negli anni Novanta del Duecento a Santa Maria Novella e con i francescani Pietro di Giovanni Olivi, provenzale, e Ubertino da Casale, esponente degli Spirituali, entrambi docenti a S. Croce (già Studium generale dei Francescani, quarto per importanza dopo i tre Studia principalia di Parigi, Oxford e Cambridge) La maggior parte delle notizie sul percorso di studi di Dante lo ricaviamo dal 'Trattatello in laude di Dante' di Boccaccio. L'opera di Boccaccio, composta attorno agli anni ’50 del Trecento, è la prima importante biografia su Dante. Boccaccio attribuisce a Dante una formazione finalizzata all'acquisizione di un sapere per sé stesso e per amore di sapere. Nella terza parte del trattatello cita i < sacri studi > di Dante, le cosiddette arti liberali (liberali= prerogativa degli uomini liberi, i quali non avevano una condizione servile). Le arti liberali erano:  trivio: grammatica (studio delle regole della lingua latina), retorica (insegnava a ben dire e ben scrivere in latino), dialettica (arte del ragionamento e della discussione);  quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia, musica Secondo una testimonianza, Boccaccio colloca nel periodo precedente all'esilio (prima del 1302) un soggiorno di Dante a Bologna per completare la sua istruzione, ma senza conseguire nessun titolo. Boccaccio attinge dal Convivio dantesco il periodo successivo alla morte di Beatrice, avvenuta nel 1290; spiega che la donna che lo aveva consolato dopo la morte di Beatrice andava intesa come una metafora della filosofia. In quel periodo iniziò a frequentare le ''scuole dei religiosi e le dispute dei filosofanti'' (dei filosofi), un’istruzione scolastica di carattere universitario e religiosa. Queste istituzioni erano rappresentate dalle università conventuali di Santa Maria Novella (convento appartenente all’ordine dei domenicani) e di Santa Croce (convento e chiesa dei francescani). L'ascolto delle lezioni che venivano impartite in questi conventi era aperto anche ai laici. Si è ipotizzato che in queste occasioni Dante possa aver conosciuto alcuni intellettuali del tempo, come il frate domenicano Remigio de' Girolami e i docenti francescani Pietro di Giovanni Olivi, provenzale ma predicava il latino e Ubertino da Casale. Per “dispute de' filosofanti”, Dante intendeva quegli esercizi di retorica che prevedevano un esame finale, durante il quale gli studenti dovevano dar prova di aver compiuto con profitto un percorso di studi creando una sorta di disputa con i loro colleghi in cui ognuno di loro doveva sostenere una tesi opposta all'altra, facendo ricorso alle risorse della retorica, della dialettica, dell'arte del ragionamento, alle conoscenze scientifiche, teologiche, filosofiche e etiche che avevano acquisito nel corso della loro formazione. Queste dispute tra allievi di queste scuole costituivano un momento di spettacolo pubblico, un momento interessante che richiamava i laici che ascoltavano queste contrapposizioni. Dante presenta le cause che impediscono l’accesso al sapere, tra cui quelle contemplate sono gli impedimenti fisiologici e le cure familiari. Sono da censurare i maliziosi, gli oziosi e i pigri. Dante individua il gruppo di persone che per motivi economici o per impegni politici non hanno potuto accedere al sapere come il gruppo privilegiato a cui rivolgersi con il convivio, per questo è definita un’opera pedagogica. Dante, nel primo libro, si presenta come divulgatore del sapere, ma non può essere considerato un intellettuale al pari di quei doctores che non si degnerebbero di considerare gli indotti, gli uomini sine litteris. Da un lato scrive in volgare per farsi divulgatore presso coloro che non conoscono il latino, ma non è neppure un uomo sine litteris, altrimenti non avrebbe potuto svolgere questo ruolo di mediazione tra la cultura alta e la società civile e dice questo di sé: E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me ne dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i'ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, senza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo : la mensa (universo metaforico della sfera del cibarsi), cioè il cibo, è la conoscenza. Dante dice che lui non siede alla beata mensa (= la mensa dei beati cioè degli intellettuali), non si riconosce come un appartenente ai dotti, ma non è nemmeno un ‘animale' del volgo che si nutre di ignoranza. (c'è una contrapposizione tra la vivanda che è il cibo nobile e la pastura che è il cibo degli animali). Dante non si nutre di questa pastura, ha cercato di sottrarsi da questo tipo di cibo e quindi ha cercato di formarsi da solo. A' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade: stando ai piedi di coloro che siedono alla mensa beata del sapere raccoglie quelle briciole che cadono dalla mensa, e quindi cerca di raccogliere quanto più possibile dell'alta scienza. e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo: e conosce perfettamente la misera vita di quelli che ha lasciato dietro di sé (a differenza degli altri, Dante si è emancipato da questa condizione di ignoranza grazie al desiderio di apprendere). Si accorge di questo suo avanzamento nel sapere, raccoglie a poco a poco quanto cade dalla mensa dei sapienti e trova la dolcezza di questo cibo, seppur sia l'avanzo. Misericordievolmente mosso, cioè mosso da misericordia, da compassione per quel volgo che si è lasciato indietro, non dimentica che anche lui ha condiviso questa condizione di ignoranza. per li miseri alcuna cosa ho riservata: ho conservato delle briciole, cioè una parte delle cose apprese, a beneficio dei miseri. la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata: questa cosa l’ho dimostrata ai loro occhi già da molto tempo (si riferisce al fatto che le canzoni erano state pubblicate singolarmente, prima che avesse deciso di includerle nel Convivio). Dante ci sta dicendo che è già da tempo che lui ha scritto dei testi nei quali intendeva istruire il volgo, infatti sono canzoni in volgare. e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi: a causa di questo, cioè grazie alla diffusione del sapere tramite le canzoni, il pubblico aveva maturato il desiderio di approfondire certi concetti. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i'ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, senza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata: per cui ora, volendo costruire una mensa ricca di cibi (=ricca di sapere) rispetto alle piccole anticipazioni date con quelle canzoni, intendo fare un banchetto ampio di ciò che ho mostrato, in modo particolare intendo fare un banchetto con quel pane che è mestiere: che è necessario per una vivanda così fatta. Dante dice la pietanza (la vivanda) c'è già, poiché l'ha già diffusa con le tre canzoni, ma ora aggiunge il companatico (il pane) che è necessario per comprenderle. Dante, nel Convivio, inserisce queste canzoni allegoriche per rendere tutto più comprensibile. Ad esempio, per parlare della nobiltà inizia con una canzone sulla nobiltà e comincia ad interpretarla secondo i quattro sensi dell'esegesi testuale che prevedeva il Medioevo: il senso letterale; la spiegazione morale (un insegnamento); il senso allegorico (parlare di una cosa, ma intenderne un’altra); il senso anagogico (tutto ciò che nel testo può far riferimento a una verità superiore, altissima che riguarda il destino dell'uomo in una prospettiva atemporale e divina). La <<commedia>> La stesura della prima cantica, l'Inferno, si colloca tra il 1306 e il 1307, quando Dante si trovava ospite del marchese Moroello Malaspina in Lunigiana. Dal punto di vista ideologico il nome di terzina dantesca. Il meccanismo dell'incatenamento consiste nel legare una terzina all'altra attraverso la rima del verso centrale della terzina. Quindi l'incatenamento consiste in questo collegamento, attraverso la rima, del verso centrale di ogni terzina con il primo e il terzo verso della terzina successiva. Cosa si intende per rima? Due parole rimano tra di loro quando sono identiche a partire dalla vocale su cui cade l'accento tonico della parola. Le prime due rime della prima terzina di ogni canto sono da sole - testa e desta rimano tra di loro e basta - mentre tutte le rime successive hanno almeno 3 rappresentanti nella sequenza. Quindi il meccanismo dell'incatenamento delle terzine consiste nel far rimare il secondo verso di ogni terzina con il primo e il terzo della terzina successiva. VOLGARE LATINO DANTE Vita nova Convivio Commedia Rime Il Fiore Detto d’amore De vulgari eloquentia Monarchia Epistole Egloghe Questio de aqua et terra PETRARCA Canzoniere (rerum vulgarium fragmenta) Trionfi (Triumphi) Africa Familiares, Seniles, Sine nomine, Variae, Epystole, Bucolicum carmen, Secretum (De secreto conflictu curarum mearum), De remediis utriusque fortune, Rerum memorandarum libri, De viris illustribus, De gestis Cesaris, de vita solitaria, De otio religioso, Invective (contra medicum; contra quendam magni status…; contra eum qui maledixit Italiam), De sui ipsius et multorum ignorantia, Itinerarium breve, Psalmi penitentiales BOCCACCIO Caccia di Diana, Filocolo, Filostrato,Teseida, De causibus virorum illustrium, De mulieribus Decameron, Ninfale fiesolano, Amorosa visione, Comedia delle ninfe fiorentine (Ninfale d’Ameto), Elegia di Madonna Fiammetta, Corbaccio, Esposizione sopra la Commedia, Trattatello in laude di Dante. claris, Buccolicum carmen, Genealogiae, De montibus, ecc… Francesco Petrarca Una delle caratteristiche che troviamo in Petrarca è che il complesso della sua produzione letteraria vede una preponderanza assoluta di scritti in lingua latina, mentre la produzione delle altre due corone (Dante e Boccaccio) è più equilibrata tra la parte in volgare e la parte in latino. Petrarca scrive in volgare solo il Canzoniere (rerum volgarium fragmenta) e i Trionfi (Triumphi), a cui però il poeta diede un titolo latino. Come ad un autore evidentemente umanista viene l’idea di cimentarsi nel volgare e con quali intenzioni? In molti casi delle raccolte epistolari, Petrarca lascia trapelare informazioni utili alla ricostruzione del suo pensiero e della sua personalità. L’intellettuale Petrarca, pensò per tutta la sua vita, di doversi cimentare in un confronto con il mondo antico e che la vera letteratura fosse solo quella in lingua latina. Il Canzoniere è una raccolta di liriche in volgare scritte con forme metriche tipiche del volgare, se le avesse scritte in latino, avrebbe fatto delle raccolte di elegie come quelle di Tibullo e Properzio, non avrebbe scritto sonetti. Se il Canzoniere fosse stato scritto con quell’attitudine dell’intellettuale che si concede per ozio, per svago ad un tipo di letteratura da lui considerata inferiore, probabilmente non avrebbe mai raccolto i suoi componimenti in un libro. Nel momento in cui uno scrittore, che scrive componimenti sciolti, decide di metterli insieme, fa un’operazione che ha una valenza forte sul piano semantico. Questi componimenti non sono più ‘’rime sparse’’, cioè componimenti lirici scritti per le occasioni più disparate, ma diventano delle tessere di un mosaico che il poeta si ripropone di raccogliere e di inserire in un quadro, in modo da creare qualcosa di più ampio. Questa operazione era già stata fatta da Dante nella Vita nova; il primo sonetto ‘’a ciascun alma presa e ‘l gentil core’’ è presentato come il primo sonetto che scrisse per Beatrice, subito dopo il secondo incontro, dopo aver ricevuto il saluto. La prosa con la quale Dante introduce questo sonetto induce il lettore del sonetto a credere che la donna, che Dante rappresenta addormentata tra le braccia di Amore, sia Beatrice. Dante vuole orientare in questo senso il significato del sonetto; questo sonetto, come altri componimenti della Vita nova, era stato diffuso da Dante prima che nascesse il libro e non necessariamente i lettori avevano visto nella figura della donna l’immagine di Beatrice, anche perché il testo non nomina questa donna. Questo tipo di operazione, l’inserimento in un contesto di un pezzo lirico, nato originariamente per scopi diversi, denuncia sempre una volontà di conferire a questa testo un ruolo che prima non aveva. Tra le rime di Dante, cioè quel gruppo di testi lirici che gli editori hanno raccolto sotto questo titolo neutro, ci sono dei sonetti e delle canzoni che sicuramente parlano di Beatrice, o perché la nomina o perché ci sono degli elementi che ci consentono di dire che questa donna è Beatrice. Questi componimenti che non troviamo nel canzoniere si chiamano ‘’rime estravaganti’’, cioè che vagano fuori dall’opera. Petrarca assegnò alla produzione in volgare la stessa importanza della produzione in latino; dal punto di vista delle sue dichiarazioni manifestò una scarsa considerazione per il volgare. Nelle sue raccolte di lettere, molte di esse sono rivolte a Boccaccio, nelle quali Petrarca racconta di essersi dedicato alla poesia in volgare solo da giovane, perché per lui poesia in volgare è solo poesia d’amore, e poi l’aveva rigettata in quanto espressione di interessi che erano stati superati. Petrarca più adulto professa la sua completa dedizione soprattutto alla poesia di materia storica e per la poesia di materia etica in latino. Petrarca nasce nel 1304 e muore nel 1374. Se l’epoca di composizione del Canzoniere, ricostruita dai filologi, è dalla metà degli anni ’30 fino al 1374, vuol dire che la testimonianza di Petrarca stesso, cioè che si era dedicato alla produzione in volgare soltanto nei suoi anni giovanili, è una finzione del poeta. Le opere che Petrarca scrive in latino sono quasi tutte di argomento classico. Africa: è un poema epico di argomento storico in esametri. Il modello di riferimento è l’Eneide, perché il poema ha per argomento la seconda guerra punica dal momento in cui Scipione l’Africano sbarca a Cartagine. L’Africa resta un’opera incompiuta e i nove libri che ci sono rimasti saranno resi pubblici nel 1396. Familiares: è una raccolta epistolare di 350 lettere in latino scritte dal 1325 al 1366. Il titolo riguarda i destinatari, cioè i parenti e gli amici. La raccolta si interrompe verso la fine degli anni ’60 e le altre lettere verranno raccolte in ‘’seniles’’, una raccolta di 120 epistole distribuite in 17 libri. I modelli a cui si rifà Petrarca sono quelli degli epistolari latini di Cicerone e di Seneca. Sine nomine: è una raccolta di diciannove lettere, scritte tra il 1342 e il 1358. Fu intitolata così perché vengono omessi i nomi dei destinatari, poiché si trattava di lettere di contenuto politico e polemico nei confronti del papato e della corrotta corte avignonese. Variae: non è un titolo di Petrarca, ma è un titolo che gli studiosi hanno dato alle lettere di Petrarca in prosa latina che circolano al di fuori delle altre raccolte. Epystole: sono 66 lettere in esametri, composte tra il 1333 e il 1354. Sono indirizzate a dei destinatari reali. Il modello è Orazio. Bucolicum carmen: è una raccolta di dodici egloghe d’impronta virgiliana, scritte tra il 1346 e il 1348, ma accresciute fino al 1364. Secretum (De secreto conflictu curarum mearum = sul conflitto nascosto delle mie preoccupazioni): è un’opera di carattere morale, è un dialogo in tre libri in prosa latina che Petrarca immagina di tenere con Sant’Agostino alla presenza della Verità, che è raffigurata come una donna silenziosa che assiste a questo dialogo tra il poeta e il santo. Ci sono degli elementi di carattere religioso nella misura in cui questa specie di analisi che Sant’Agostino conduce sul disagio esistenziale di Francesco viene condotto secondo la griglia dei peccati capitali. Agostino esamina, come in una confessione, Petrarca. Il santo lo riconosce affetto dal peccato dell’accidia, cioè l’incapacità del peccatore, che si accorge di dover cambiare vita, di arrivare alla conversione. lirici in un libro, operando una selezione della sua produzione poetica e decidendo l’ordine in cui questi testi devono susseguirsi. I grandi canzonieri della poesia provenzale raccoglievano testi che erano ordinati in ordine cronologico. È fondamentale distinguere quei canzonieri che si presentano come sillogi, come compilazione di testi poetici di vari autori; abbiamo poi il canzoniere d’autore, tipologia a cui appartengono i ‘’Rerum vulgarium fragmenta’’ di Petrarca, è una raccolta di testi lirici di un solo autore messa insieme dall’autore stesso dei testi. Questo spiega perché il termine canzoniere nasca come termine che definisce un genere letterario; mentre il canzoniere d’autore ha quasi sempre un titolo preciso che lo definisce come opera singola (Rerum vulgarium fragmenta individuo appartenente alla specie del Canzoniere). Epoca di composizione: dalla metà degli anni ’30 fino al 1374. Questo fa capire che Petrarca seguì e si dedicò alla preparazione del suo libro di rime volgari per tutta la sua vita (1374=anno di morte). Se ricordiamo la cronologia della Vita Nova (prosimetro diacronico= Dante scrisse prima quasi tutti i componimenti in versi e successivamente aggiunse le parti in prosa), abbiamo delle date precise e circoscritte (1293-1296). Nel caso di Petrarca, un’opera come il Canzoniere occupa per il poeta quasi tutto il corso della sua vita. Mentre Petrarca scriveva tutte le sue opere in latino, non trascurava la sua produzione in volgare. Petrarca scrive di aver composto le rime in volgare in gioventù, quando si era fatto catturare dalla moda imperante della poesia in volgare, ma che poi aveva abbandonato. Gli studiosi e i documenti hanno smentito queste affermazioni perché hanno dimostrato come Petrarca non trascurò mai la sua produzione lirica in volgare. Codici: il termine codice è il termine tecnico delle scienze librarie con le quali si indicano i manoscritti antichi. Possiamo dire che del Canzoniere di Petrarca ci rimangono due codici o due manoscritti. Il manoscritto è tutto ciò che è scritto a mano; il codice può essere manoscritto dall’autore o da uno scriba. Quando parliamo di un manoscritto d’autore, si usa la parola autografo, cioè scritto dallo stesso autore del testo. Vaticano latino 3195 è un manoscritto autografo del Canzoniere. Possiamo anche chiamarlo l’originale; il termine originale indica il testo da cui dovrebbero discendere tutte le copie di quell’opera. L’originale è il manoscritto che è all’origine di tutta la trasmissione del testo, deve coincidere con qualcosa che ha scritto l’autore o che ha controllato in prima persona, in modo da conservare tutte le caratteristiche scelte dall’autore. Questo codice è in parte idiografo, cioè scritto sotto la sorveglianza dell’autore. È sia autografo che idiografo perché Petrarca cominciò a trascrivere i componimenti del Canzoniere servendosi di uno scriba professionista e alla fine di ogni trascrizione l’autore controllava la correttezza e poteva intervenire apportando delle modifiche. Il copista di cui Petrarca si era servito per trascrivere questi testi a un certo punto lasciò il suo lavoro (idiografo), e Petrarca decise di continuare da solo la trascrizione di questi testi (autografo). Il codice Vaticano latino 3195 (segnatura) prende questo nome perché è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma dall’anno 1600; Vaticano indica il fondo originario della Biblioteca; latino riguarda l’alfabeto in cui sono scritti i testi (possono essere sia scritti in alfabeto latino che greco). Un’altra grande biblioteca in cui si conservano i manoscritti di Petrarca è la Biblioteca nazionale di Francia che classifica i suoi manoscritti in base alle lingue. Quindi i manoscritti scritti in latino fanno parte del fondo parigino-latino; mentre i manoscritti in volgare avranno una segnatura parigino-italiano. Vaticano latino 3196 appartiene alla stessa biblioteca, è attaccato fisicamente all’originale del Canzoniere. Il nome con cui lo chiamano gli studiosi è codice degli abbozzi; è un manoscritto interamente autografo di Petrarca. I due testi sono congiunti tra di loro perché entrambi contengono testi della poesia volgare di Petrarca. Non è un manoscritto di belle copie dei componimenti poetici, ma contiene gli abbozzi, cioè le prime stesure o delle stesure corrette e riviste dall’autore (testi in stato di elaborazione). Ma perché Petrarca fa un libro delle brutte copie del Canzoniere? Non è stato Petrarca a farne un libro, ma i posteri hanno raccolto questi materiali usciti superstiti dallo scrittoio di Petrarca; originariamente erano fogli sciolti su cui Petrarca abbozzava alcuni componimenti lirici, li correggeva, li trascriveva in pulito prima di trascriverli nella raccolta. Il Canzoniere si compone si compone 366 componimento lirici, nel Vaticano latino 3196 abbiamo 54 componimenti, casualmente sopravvissuti. Questi due codici nel corso della loro storia secolare, che va da quando Petrarca vi lavorava fino ai nostri giorni, sono passati per mani illustri; sono stati posseduti dalla biblioteca di Pietro Bembo, di colui che è stato l’artefice della promozione della lingua del Canzoniere a lingua della poesia italiana. Questo codice è importante per due motivi: • nel Vaticano latino 3196 ci sono dei componimenti che Petrarca non trascrisse nel Canzoniere e prendono il nome di Rime estravaganti perché escluse dal libro. Nel momento in cui un autore decide di raccogliere la sua produzione lirica in un libro, non solo decide l’ordine di esposizione dei testi, ma decide anche quali testi inserire e quali escludere. • Accanto a questi componimenti, in vari stati di elaborazione, questo manoscritto contiene delle annotazioni latine che vengono chiamate ‘’postille’’ perché scritte in un momento successivo rispetto alla composizione di questi testi. In queste postille Petrarca inserisce, ad esempio, le date in cui aveva composto un determinato testo, oppure inserisce informazioni sul destinatario. Mettendo dei testi composti prima in un libro, Petrarca, come qualsiasi autore che decide di passare da un singolo testo a una raccolta, compie un’azione di risemantizzazione, cioè di assegnazione di un nuovo significato ai singoli componimenti. Un testo che da solo aveva un determinato significato, inserito in una serie di componimenti, poteva assumere un nuovo significato. Di questo fenomeno ne abbiamo già parlato per quanto riguarda il primo sonetto della Vita Nova, ‘’a ciascun alma presa e ‘l gentil core’’. In questo Dante non fa il nome di Beatrice riguardo alla donna addormentata sulle braccia d’amore che lui aveva sognato; probabilmente perché il sonetto non era stato composto per Beatrice; poteva essere stato composto per un’altra donna o per nessuna donna. Il fatto che Dante lo inserisce nel libro della Vita Nova, raccontando prima di aver composto questo sonetto dopo un sogno che aveva fatto in seguito al primo saluto ricevuto da Beatrice, induceva nel lettore a credere all’identificazione di questa donna con Beatrice. Dal manoscritto Vaticano latino 3195 noi apprendiamo che inizialmente l’ordine degli ultimi 31 componimenti del libro era diverso da quello che leggiamo oggi. Petrarca decise in extremis di intervenire su questi 31 componimenti per indicare la nuova successione che intendeva dare a questi componimenti mettendo un piccolo numero accanto a ciascuno di essi. Mettendo insieme tutte queste informazioni, gli studiosi sono riusciti a ricostruire diverse fasi redazionali del Canzoniere. Redazioni: la prima redazione del Canzoniere viene datata tra il 1356-1358; in questo biennio la raccolta avrebbe raggiunto una forma simile a quella definitiva. Questa forma non contemplava ancora la bipartizione del Canzoniere tra una prima e una seconda parte, che è una delle caratteristiche di questa raccolta. Questa redazione è chiamata redazione Correggio, perché da una postilla del codice degli abbozzi, apprendiamo che in questo giro di anni Petrarca aveva approntato una copia della sua raccolta di rime per mandarla in dono all’amico Azzo da Correggio. È una redazione che si colloca in un periodo di tempo in cui Petrarca comincia a fare ordine nella sua produzione letteraria, non solo volgare ma anche latina. Molte opere, come il Canzoniere, sono composte da micro testi. Intorno agli anni 1356-1358 Petrarca decide, come afferma nel Secretum, ‘’di raccogliere i suoi sparsi frammenti’’, cioè di fare ordine morale nella sua vita, di cambiare vita. Ma questa espressione può essere applicata anche alla sua attività di scrittore, per indicare l’azione di raccogliere la sua produzione che fino a quel momento era stata sparsa, frammentata e farne delle opere. Questa prima redazione arrivava, rispetto all’ultima che prende il nome di redazione vaticana, a comprendere i testi che vanno dall’1 al 142 e dalla canzone 264 al sonetto 292. Dal 142 al 264 c’è un salto che dipende dal fatto che, quando Petrarca decise di ampliare la redazione Correggio, che fino a quel momento era indivisa cioè i testi si succedevano l’uno all’altro, decise di separare il Canzoniere in due parti: Rime in vita e Rime in morte di Madonna Laura (denominazione non dell’autore, ma della tradizione critica). Quando Petrarca riprese il lavoro sulla redazione Correggio, decise di bipartire la raccolta; dal quel momento l’accrescimento del libro avvenne simultaneamente per aggiunta di testi alla prima e alla seconda parte. L’ultima redazione, detta redazione vaticana, è testimoniata dal documento Vaticano latino 3195. Composizione: il Canzoniere si compone di 366 testi che vanno considerati come 365+1; il primo testo, che fa da proemio all’opera ‘’sonetto proemiale’’, si può considerare sovranumerario, cioè fuori dal numero dei componimenti perché fa da introduzione al libro. Il numero 365 è simbolico, corrispondente ai giorni di un anno. Tipologie metriche: 317 sonetti canonici cioè composti di 14 versi endecasillabi; 29 canzoni (secondo Dante la canzone era il metro principe della poesia italiana, era un metro di derivazione provenzale), 9 sestine, 7 ballate (metro molto amato dai poeti stilnovisti), 4 madrigali (forma metrica di origine popolare che Petrarca nobilita inserendoli nella sua raccolta). Titolo: il titolo proprio è Rerum vulgarium fragmenta (=frammenti di cose volgari), ma, nella tradizione, troviamo anche altri titoli come Rime, Rime sparse. Questo perché l’originale del Canzoniere, essendo una copia in pulito, cioè senza correzioni, senza interventi, è privo di sottoscrizioni inerenti alla data e all’autore, il nome di Petrarca figura solo nel titolo. Quando questo manoscritto finì nella Biblioteca vaticana, si perse la notizia della sua autografia e fu scambiato per un codice antico come tanti altri, una copia qualsiasi del Canzoniere. Alcuni componimenti del Canzoniere, essendo sprovvisti di titolo, presero il nome di Rime o Rime sparse perché nel primo sonetto, Petrarca definisce i suoi componimenti Rime sparse. versi ha una coda, che può essere un endecasillabo in più, un distico di endecasillabi, (cioè due versi oppure tre versi). Una volta superati i 14 versi endecasillabi si possono aggiungere versi all'infinito, a gruppi di tre altrimenti si può fare una coda minima di un verso un pochino più ampia di due versi. Quindi in questo caso, si parla di SONETTO CAUDATO, un espediente che i poeti del ‘200 trovano per ampliare un pochino di più il loro discorso. Tra le rime stravaganti del codice degli abbozzi, ci sono anche dei sonetti caudati, Petrarca, uomo appunto del proprio tempo, non disdegnò di scrivere, di praticare altre forme metriche per il proprio sonetto che decisamente più arcaiche, più irregolari, perché le code potevano essere di vari numeri diversi.  Alcune notizie per quel che riguarda l'epoca di composizione dei testi le abbiamo grazie alle postille latine che questo manoscritto contiene. Le correzioni che Petrarca applicava venivano documentate da queste postille, illustrava anche le circostanze in cui, rileggendo un certo testo, aveva apportato delle correzioni. Quindi in molti casi le postille del codice degli abbozzi forniscono un ancoraggio cronologico preciso.  Il sonetto proemiale è uno di questi testi per il quale noi non abbiamo annotazioni petrarchesche che ci forniscano indicazioni su quando fu composto. Verosimilmente, quindi questo sonetto risale al periodo in cui Petrarca stava lavorando alla prima redazione, forse più importante del Canzoniere petrarchesco, la cosiddetta redazione Correggio che risulta completata tra il 56 e il 58.  Quindi l’idea di raccogliere gli sparsi frammenti della mia anima, che è il proposito con cui Petrarca si congeda da Sant'Agostino nel Secretum, diventa un proposito dello scrittore di mettere ordine non solo nella propria vita, ma anche tra le proprie carte, tra i propri lavori, cioè dare un senso a quel lavoro che aveva preceduto fino a quel momento. E così nei primi anni 50 noi vediamo Petrarca che è impegnato in quest'opera di raccolta e di riordino della sua produzione scritta sia per quanto riguarda il volgare, sia per quanto riguarda il latino.  Per questo motivo, gli studiosi ritengono verosimile che questo sonetto, che annuncia il libro, perché fa da proemio un libro, possa essere stato composto nei primi anni ‘50. Spesso in un testo proemiale, l'autore si rivolge al suo pubblico, al pubblico dei lettori e anche in questo caso, Petrarca non fa eccezione. Voi ch’ascoltate in rime sparse il s uono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core allitterazione della s in sul mio primo giovenile errore anastrofe quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono, 4 del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ‘l van dolore , chiasmo ove sia chi per prova intenda amore, (io) spero trovar pietà, nonché perdono. 8 Con una grande eleganza Petrarca costruisce un intero periodo svolgendolo attraverso due quartine. Alle due parti del sonetto, fronte e sirma, corrispondono due soli periodi. Nel caso della sirma c'è una piccola pausa, più intensa rispetto alla pausa che c'è tra la prima e la seconda quartina. Il primo interlocutore è il pubblico del testo. O voi che ascoltate in componimenti lirici sparsi il suono di quei sospiri dei quali io nutrivo il mio cuore all’epoca del mio primo errore giovanile quando ero in parte un uomo diverso da quello che io sono oggi, io spero di trovare la pietà e anche il perdono di quel vario stile di cui io piango e parlo nutrendo speranze vane e provando un dolore vano/ inutile dove sia (presso chi) per caso chi capisce che cos’è amore per averlo provato. In queste prime quartine noi vediamo un autore di testi di rime sparse che si rivolge al suo lettore, per dire che queste rime sparse contengono le espressioni di un amore giovanile, definito ‘un errore di gioventù’, compiuto quando il poeta innamorato era un uomo diverso, almeno in parte, dall'uomo che è adesso. Se c'è stata una convertio vitae cioè una conversione di vite, non è un cambiamento completo. Infatti Petrarca nel Secretum a Sant’Agostino, che l’aveva esaminato, confessava di essersi macchiato del peccato dell’accidia. L’accidia è una irresolutezza della volontà ad abbracciare con convinzione la strada del cambiamento, del ripudio della vecchia vita di peccatore, per avviarsi alla salvezza. Il poeta di oggi, che è consapevole di aver cantato nella sua poesia un amore sbagliato, si dice cambiato ma non completamente e questa mancanza, di completa mutatio vite cioè di completo rivolgimento della propria vita dipende proprio da questa incapacità di abbracciare definitivamente le giuste risoluzioni che la volontà non riesce a perseguire con determinazione. Un’altra caratteristica interessante è la denominazione dell'amore come errore giovanile. Dante non condannò mai l'amore giovanile per Beatrice come un errore, perché aveva sublimato nella dimensione religiosa e salvifica la figura di Beatrice. Per Petrarca, invece, la figura della donna amata rimane una creatura terrena che potrà essere moralmente retta, casta e per questo capace in qualche modo di guidarlo sulla via della virtù. Nel Secretum afferma che il suo errore è stato di amare una creatura di Dio come Laura, un essere umano, con lo stesso amore che in realtà si deve al creatore. Questo induce il poeta a definire l'amore come ‘un errore di gioventù’. Quindi Petrarca si rivolge a questo suo pubblico definisce la sua produzione poetica a rime sparse, cioè componimenti ancora non raccolti in un libro. L'operazione di raccolta in un libro ha il valore di sottrarre le singole rime alle interpretazioni arbitrarie che i vari lettori ne possono dare, mettendo queste rime in un libro e facendole leggere a un lettore secondo un determinato ordine/ percorso, il poeta raccoglitore delle sue rime, si prefigge anche di indicare un senso alla storia che sta raccontando, un senso a queste rime. Altra cosa da notare, è l’utilizzo del verbo ‘ascoltate’ e non ‘leggete’. Secondo molti critici, la scelta di questo verbo sarebbe un omaggio all'antica tradizione della poesia delle origini che implicava una fruizione del testo poetico da parte del pubblico, non tramite lettura ma tramite ascolto. La poesia in volgare si trasmetteva oralmente, il poeta recitava i suoi versi a un pubblico. I trovatori, cioè i poeti provenzali, recitavano le proprie composizioni o le affidavano ad alcuni attori, i giullari, i quali, recitavano questi versi e il pubblico li ascoltava. La poesia provenzale era accompagnata dalla musica, quindi i versi venivano cantati. Questo aspetto si perde abbastanza rapidamente, i poeti della scuola siciliana, per esempio, non recitavano la loro poesia a corte, ma si scambiavano tra di loro in forma scritta. I primi poeti italiani, tra cui Dante, ma lo stesso Petrarca, composero occasionalmente dei testi in volgare, dei sonetti, delle canzoni, delle stanze di canzoni per darli a dei musicisti che poi scrivevano la musica per accompagnare questi testi. Petrarca era perfettamente consapevole che il libro di rime che stava scrivendo sarebbe stato letto dai suoi lettori, ma la scelta di questo ‘ascoltare’ è un omaggio alla tradizione provenzale. La varietà stilistica è quindi considerata un difetto dell'opera. Per varietà stilistica si intende la varietà dei contenuti e la varietà metrica (ballata, sestina, madrigale, canzoni). Interessanti sono gli aggettivi che accompagnano la speranza e il dolore, due stati psicologici opposti tipici dell’amante, che ondeggia tra il dolore di un amore non corrisposto e la speranza che questo amore possa essere corrisposto e ricambiato. Entrambi vengono definiti dal poeta di oggi, vani, cioè vuoti, inconsistenti, inutili. L'amore è una delle tante vanitas vanitatum cioè vanità delle vanità di cui parla il testo sacro, l'amore terreno è un valore destinato a perdersi, non è un vero valore dello spirito. E il poeta di oggi è consapevole di questo e quindi bolla, come vano, come inutile questa oscillazione sentimentale che lo ha visto da giovane ondeggiare in amore tra la speranza e il dolore. Di questi suoi sentimenti peccaminosi, errati, di questa sua poesia che esprime queste oscillazioni degli stati psicologici del poeta amante attraverso il vario stile, il poeta chiede perdono a chi sa che cos'è l’amore per averlo provato. Ma ben veggio or sì come al popol tutto f avola f ui gran tempo , onde sovente allitterazione della f di m e m edes m o m eco m i vergogno ; 11 allitterazione della m poliptoto et del mio v aneggiar v ergogna è ‘l frutto , allitterazione della v e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente polisindeto che quanto piace al mondo è breve sogno. 14 La seconda parte produce una svolta segnata dall’avversativa MA. Mentre nella fronte del sonetto Petrarca poeta-raccoglitore, condanna Petrarca autori di questi testi, perché preso da questo ‘giovanile errore’ ha nutrito dei sentimenti vani, inconsistenti, peccaminosi dal punto di vista spirituale e religioso, nelle terzine subentra un altro tipo di valutazione, cioè questo amore è un amore di cui vergognarsi, anche in un ordine di valori laici e terreni e non solo da un punto di vista spirituale e religioso, ma anche da un punto di vista umano, terreno, laico o per meglio dire filosofico. Il saggio, il filosofo, rifugge dall'essere fabula vulgi, cioè la favola del vulgo di tutti, cerca di non essere oggetto di pettegolezzi con il proprio comportamento. Il poeta in quanto amante è stato per molto tempo sulla bocca di tutti, proprio per la sua fragilità rispetto all'amore. (Dante nella Vita nova viene schernito dalle amiche di Beatrice, poiché alla sola vista della donna, il poeta rischiavo lo svenimento. Sono i cosiddetti sonetti del gabbo, cioè i sonetti della presa in giro). Ecco, il poeta innamorato diventa oggetto di scherno e di riso. Ora vedo bene, mi rendo conto benissimo così come per molto tempo fui per tutto il popolo oggetto di pettegolezzo per cui spesso mi vergogno di me stesso; e del mio vaneggiare (amore infondato, caduco, amore per una creatura terrena destinata a morire) il frutto sono la vergogna e il pentirsi e il capire con chiarezza che tutto quello che piace al mondo è soltanto un sogno di breve durata e che quindi è destinato a dissolversi con il risveglio. L’amore che era censurabile nelle quartine, dal punto di vista dei valori spirituali, religiosi diventa censurabile nelle terzine anche da un punto di vista filosofico-laico. Il filosofo si questa interpretatio nominis; in Laura diventa appunto l'espressione di colei che è in grado di ispirare una poesia che permette al poeta di attingere alla gloria. Nel sonetto 34, la tradizione esegetica, cioè dei commenti al canzoniere, ha visto un sonetto scritto da Petrarca in occasione di una malattia della donna amata perché c'è un riferimento ad alcune perturbazioni, interpretate nel senso della salute e per le quali il poeta chiede ad Apollo, dio del sole, di intervenire a dissipare queste nubi che si addensano su Laura, quindi a proteggerla e a farla guarire. Qui vediamo Petrarca che svolge un esercizio ardito, perché tutto il sonetto svolge un unico periodo. Il poeta si rivolge ad Apollo: Apollo, se è ancora presente in te il bel desiderio (d'amore) che ti infuocava presso le onde essaliche = onda è una sineddoche (una parte del tutto) onda fa parte dell'acqua e l'acqua è un corso di un fiume, le onde della Tessaglia quindi presso il fiume della Tessaglia quindi le onde del fiume Peneo che scorre in Tessaglia, e se non hai (petrarca non usa la h nel verbo avere e per distinguerlo da 'ai' si usa l'accento diacritico) poste in oblio = se non hai già dimenticato a causa del passare del tempo gli amati capelli biondi (che dafne sia bionda non lo dice nessuna fonte antica, mentre che Laura sia bionda Petrarca lo dice spesso e soprattutto nel sonetto 90) difendi adesso la fronda (il ramo) onorata e sacra(sacri perché il lauro è una pianta sacra ad apollo ed è espressione dell'onore del IV canto di dante che ha riconosciuto ai poeti) quindi difendi il lauro, fronda sacra e onorata dove prima Apollo e poi Petrarca stesso erano rimasti invischiati (trovarsi in trappola) nel ramo dell'alloro. Quindi qui abbiamo una fusione completa tra Laura e Dafne. Quindi sta dicendo difendi il lauro del quale siamo stati tutti e due innamorati dal gelo pigro, quindi intorpidito, e dal tempo metereologico avverso che rimane avverso (che dura) per tutto il tempo in cui il tuo viso è nascosto perché il tempo è avverso quando il sole non c'è quindi qui Apollo è invocato come dio del sole. Se tu fai tutto questo, sottinteso, disgombra l'aere = libera l'aria da queste impressioni = perturbazioni atmosferiche in virtù, quindi recandoti a memoria quella speranza amorosa (amorosa speme) che tu nutrivi quando eri innamorato di dafne (sottinteso) che ti sostenne (la speranza di essere corrisposto da dafne) durante la tua dura vita. Vita acerba si può rendere=vita resa acerba dall'amore che non è corrisposto o anche vita acerba come vita triste da esule. Se Apollo fa tutto questo che Petrarca gli sta chiedendo, l'effetto non potrà essere che quello indicato nella conclusione del sonetto = sì sta per così -> allora vedremo poi meravigliosamente la nostra donna (identificazione è completa) Dafne per Apollo e Laura per Petrarca, sedersi sull'erba e farsi ombra con le sue braccia. Quindi la donna qui è rappresentata proprio come la pianta dell'alloro che in qualche modo fa ombra a sé stessa. Se Petrarca gioca con questo mito di Apollo e Dafne per rappresentare l'intima fusione che esiste tra la poesia d'amore e la sua aspirazione alla gloria letteraria ne consegue un'altra cosa interessante: se la donna è la stessa, Apollo e Petrarca come amanti si equivalgono (Petrarca stabilisce così una sorta di equivalenza tra sé stesso e il dio protettore della poesia). 09/11/21 Componimento 142 o sestina 142 Terzine = insieme di 3 versi (terzine dantesche del poema) - ma si chiama terzina anche una delle unità metriche del sonetto, come la quartina. Quindi il sonetto è un componimento di 14 versi endecasillabi suddiviso in fronte (2 quartine - 2 gruppi di quattro versi) e sirma (2 terzine - gruppi di tre versi). Sestina: gruppo di sei versi che può essere usato anche per composizioni molto lunghe (sestina narrativa o sesta rima poiché avviene la replicazione dei gruppi di sei versi). In questo caso parliamo di sestina lirica perché viene utilizzata solo nei componimenti lirici, cioè nelle poesie che sono componimenti piuttosto brevi. Nel canzoniere abbiamo 9 sestine. L’introduzione di questo metro lirico nella poesia italiana spetta a Dante (l'inventore è un poeta provenzale Arnault Daniel, ammirato da Dante) che scrive solamente una sestina. La sestina tecnicamente è una variante della canzone. Nella nostra tradizione lirica la sestina sarà usata anche da Pietro Bembo, imitando l'esempio di Petrarca. La Sestina lirica è un componimento metrico di endecasillabi formato da 6 strofe di sei versi ciascuna, concluse da una strofa finale che si chiama congedo che è formata da tre versi ugualmente endecasillabi. A differenza delle canzoni in cui le strofe possono variare, da 5 a 7 o di più, la sestina lirica è formata sempre da 6 strofe di sei versi. Quando un componimento non presenta rime i versi sono sciolti. Nel caso del sonetto, ha uno schema di rime incrociate. Nel caso della poesia provenzale strofa si dice ‘cobla’ e le strofe composte in versi sciolti (senza rima) si chiamavano coblas estrampas. I versi della prima strofa non rimano tra di loro, ma ciascuno di loro rima con versi della strofa successiva. Non ci sono solo le rime, ma una ripetizione di parole. Tutte le sei strofe sono costruite su queste stesse sei parole-rima (rami, frondi, tempo, lume, poggi, cielo). Il poeta è costretto a scrivere 39 versi usando le stesse parole, dà prova del suo virtuosismo tecnico e retorico (saper far dire qualcosa al testo che abbia un senso). Ma c'è un'ulteriore complicazione: l'ordine in cui ricorrono le parole non è casuale. Lo schema delle rime viene definito di ‘retrogradatio cruciata’, uno schema che segue un andare all'indietro, regredendo in un modo incrociato (la croce consiste che il primo rima col quarto verso e il terzo col secondo). L'incrocio consiste in questo: nella prima strofa il poeta è libero perché sceglie 6 parole e le dispone nell'ordine che vuole, a partire dalla seconda in poi finisce la sua libertà perché il primo verso della seconda strofa deve riprendere la parola-rima dell'ultimo verso della parola precedente (rami al verso 6 che prende rami al verso 5). Secondo verso della seconda strofa: frondi rima con il primo verso della prima strofa (rima precedente). Terzo verso: tempo rima con la quinta della strofa precedente, quarto verso lume rima con il secondo verso della prima strofa. Quindi il movimento che fa il poeta è dall'ultimo al primo, dal penultimo al secondo, dal terzultimo al terzo ed è per questo che si chiama incrociata. Nella seconda strofa quindi ha questa successione: rami, frondi, tempo, lume, poggi, cielo; per la strofa successiva fa la stessa cosa rispetto alla strofa precedente, e non rispetto alla prima strofa. Componendo ogni strofa, il poeta segue questo schema di retrogradazione incrociata rispetto alla strofa precedente. Nel congedo, visto che i versi sono tre, il poeta prende tre parole rima (lume-poggi-rami) e le altre tre le usa all'interno del verso (frondi- ciel- tempo) non a caso: la successione di parole è frondi lume - ciel poggi - tempo rami. Frondi che non è rima, ma è all'interno ma è comunque ripresa all'interno dell'ultimo verso della strofa precedente, lume al primo verso della strofa precedente, cielo si torna al verso 35, poggi si ritorna al secondo verso della strofa precedente tempo terzultimo della strofa precedente e infine rami si va al terzo verso della strofa precedente. Quindi la successione si ha anche nel congedo. Nelle rime petrose, Dante canta l’amore per Petra, un amore sensuale, si lamenta che la donna non contraccambi il suo amore e ha anche delle fantasie di vendetta nei suoi confronti. Questo tipo di contenuto erotico e sensuale condiziona questo metro. La prima sestina che si incontra nel canzoniere è la numero 22, dove Petrarca celebra un amore erotico e sensuale. La sestina 142 ha un contenuto ‘penitenziale’, nel senso che il poeta esprime e canta il suo pentimento per aver nutrito nei confronti della donna amata una passione tanto accesa e tanto irruenta e si dice disposto a convertire il suo animo a pensieri più alti che sono di natura religiosa. Questo testo, il 142 del canzoniere ha un ruolo molto importante: nella cosiddetta redazione Correggio erano presenti i componimenti dall'1 al 142 e dal 264 al 292; quindi gli studiosi ritengono che non fosse ancora divisa in due parti: rime in vita e morte di Laura. La sestina 142 era a stretto contatto della canzone 264, canzone che attualmente apre la seconda parte del canzoniere. Infatti secondo Marco Santagata (studioso di Petrarca) Petrarca avrebbe deciso la visione in due parti del Canzoniere in un'epoca successiva alla redazione Correggio. Ciò significa che nella redazione Correggio questa sestina precedeva la canzone 264, che è una canzone nella quale Petrarca esprime il suo proposito di pentirsi e di cambiare vita ed esprime questo suo proposito in base ad una riflessione del tutto personale, che non è condizionata da avvenimenti esterni. Il primo testo della seconda parte, 'in morte', in cui si dà notizia al lettore della morte di Laura è il sonetto 267. Ciò significa che se Petrarca vuole far iniziare la seconda parte del suo canzoniere con una grande canzone di pentimento (264) quando Laura nel racconto non è ancora morta è evidente che Petrarca non voleva ancorare il suo proposito di conversione e mutamento della sua vita ad un evento esterno come la morte di Laura, per non accreditare la facile impressione che il suo pentimento nascesse dal fatto che non poteva portare più a compimento il suo amore. Far iniziare il suo proposito di pentirsi prima che Laura morisse, voleva dire riportare questo proposito ad una maturazione del tutto interiore che non sarebbe condizionato da eventi esterni. La sestina 142 svolge una sorta di palinodia dei contenuti amorosi tipici delle sestine petrarchesche, in questo caso questo metro risulta completamente dissonante rispetto al contenuto che per tradizione si associava a questo schema metrico. La palinodia è un testo di ritrattazione, nuova versione dello stesso argomento. La sestina 142 quindi è palinodica rispetto al contenuto tradizionale delle sestine, cioè del contenuto erotico e sensuale. Le ipotesi di datazione di questo testo si collocano nella seconda metà degli anni quaranta. Marco Santagata ne propone però una datazione più precisa: per lui sarebbe stato rivisto in maniera radicale nei primi anni 50, anni in cui Petrarca decide di raccogliere la sua scarsa produzione poetica in volgare e in latino e tutte quelle opere che aveva composto. Quindi questo testo era stato già composto per entrare a far parte del canzoniere con questo messaggio penitenziale, legato anche a una circostanza biografica precisa: nel 1350 si celebrò un Giubileo, al quale Petrarca partecipò attivamente perché fece un pellegrinaggio a Roma da Avignone. Secondo Santagata il verso 34 sarebbe un'indicazione del fatto che il componimento sarebbe stato scritto o rivisto a Roma nel 1350 quindi questi versi direbbero: la riflessione che io faccio sulla brevità della vita umana, ma anche il luogo in cui mi trovo (Roma) e il tempo (quello giubilare) avrebbero indicato a lui un'altra strada per andare al cielo, cioè il percorso del pentimento in chiave religiosa. Perché un altro sentiero, qual era il primo? L'andare al cielo di cui Petrarca aveva parlato fino a quel momento era il cielo pagano, della gloria terrena, fino a quel momento l'amore per Laura aveva ispirato al poeta una poesia con la quale Petrarca si riprometteva di raggiungere la gloria, fino a quel momento fino a quando non era subentrato nel poeta, ispirato dalle circostanze del giubileo, questa riflessione sulla brevità della vita umana e quindi sul carattere transitorio di tutti i caratteri terreni e quindi gloria letteraria compresa, fino a quel momento il Petrarca laico aveva pensato di andare al cielo
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved