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De Mauro riassunto per l'esame, Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunto del De Mauro per svolgere l'esame di istituzioni di storia della lingua italiana alla Sapienza.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 11/12/2020

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4.6

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Scarica De Mauro riassunto per l'esame e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Storia della lingua italiana – De Mauro Nel proemio all’ “Archivio glottologico” il linguista italiano Ascoli mise in evidenza il fatto che in Italia, dalla conquista romana del IV e III secolo a.C. e l’unificazione politica del 1861, non avevano agito forze capaci di salvaguardare l’omogeneità linguistica delle diverse regioni. Erano mancate quelle forze centripete, riducibili all’accentramento demografico, economico, politico ed intellettuale che avevano invece operato in Francia, Spagna, Inghilterra inducendo la provincia ad orientarsi linguisticamente. Ad esempio, in Germania c’era stato un moto come la Riforma, che diffuse l’istruzione elementare e la lettura dei testi sacri, ponendo l’attenzione dei ceti su identici temi di polemica religiosa, creando sul piano della cultura e del costume una circolazione di idee ed esperienze capaci di sopperire la mancanza di un’unità politica con l’unità linguistica. In Italia anche moti del genere sono venuti a mancare. Sullo sfondo di tutte le vicende storiche italiane come dato condizionante c’è una realtà geografica discontinua. Dinanzi a questa discontinuità, si sono sviluppati dei particolarismi regionali. Grazie ad essa, nell’età preromana poté sorgere una frammentazione etnico-linguistica che non ha paragone non solo in Europa, ma nell’intero dominio arioeuropeo. Tra il IV e III secolo a.C., liguri, celti, veneti, etruschi, piceni, umbri, oschi e sanniti, greci, messapi, sicani e siculi furono unificati sotto la direzione politica della repubblica romana. Nonostante ciò, queste etnie erano libere di poter conservare i loro costumi, istituti ed idiomi tradizionali, pur rinunciando ad un’autonomia politica. Per quanto riguarda gli idiomi, si sa che come la completa assimilazione politica realizzata attraverso l’inclusione di popoli soggetti nella civitas romana era una concessione onorifica, così l’uso del latino, lungi dall’essere imposto, era e restò a lungo invocato e concesso come un ambito diritto. In tal modo la romanizzazione fu il maggiore, se non l’unico, processo di rendere omogeneo il volto della penisola italiana, raggiunse solo in parte questo risultato. La riorganizzazione dioclezianea dell’Impero comportò la separazione dell’Italia in due diverse circoscrizioni: la settentrionale (Milano al centro), centro-meridionale con Roma al cento. Le partizioni amministrative romane riuscirono a sopravvivere in quanto assunte a base delle divisioni tra le varie circoscrizioni ecclesiastiche. E non fu solo questo il modo con il quale l’organizzazione della Chiesa di Roma intervenne e irrobustire particolarismi e divisioni. In particolare, la civiltà comunale e signorile creò una rete di citt che è stata definita la sola eredità positiva trasmessa dalle età anteriori all’Italia unificata, non poté espandersi più a sud di Roma. La divisione della penisola italiana in unità politiche diverse e profondamente differenziate dal punto di vista della struttura demografica e sociale durò, appena intaccata nel periodo napoleonico, fino all’Ottocento. Anzi, il primo cinquantennio del secolo ad accrescere le differenziazioni esistenti sopraggiunse la rivoluzione industriale. Negli altri stati europei questa agì sempre come forma di accentuata unificazione; in Italia invece, essa operò differenziandola ancora di più. LA SELVA DEI DIALETTI Sul piano linguistico è ravvisabile il prosperare secolare di una selva di idiomi fortemente diversi gli uni dagli altri. Si possono dividere in tre gruppi: il settentrionale, o galloitalico, limitato a sud dalla cosiddetta linea La Spezia- Rimini; il gruppo toscano, e infine, il gruppo meridionale, limitato a nod da una fascia costituita dai punti linguistici. Fortemente isolati rispetto ai tre gruppi sono il sardo ed il ladino, considerati formazioni autonome rispetto al complesso dei dialetti italoromanzi. Le varietà dei dialetti sono il risultato della diversità delle correnti innovative che hanno investito il latino nelle diverse regioni, attraverso vicende storiche differenti. Nell’area settentrionale ad esempio hanno contribuito le stesse correnti innovatrici che hanno determinato gli idiomi galloromanzi oltre le Alpi. I dialetti meridionali sono restati immuni a molte innovazioni, per questo sono vicini al latino, soprattutto nel lessico. Essi presentano diverse concordanze con il neogreco. Un forte conservatorismo fonetico è la caratteristica dei dialetti toscani, che, nella fase arcaica sono la varietà romanza fonologicamente più vicina al latino. In tutte le regioni viene usato il latino nell’uso giuridico fino al 400 o 500, nell’ambito ecclesiastico ancora più a lungo. Tra 300 e 400 i ceti colti usavano un idioma panitaliano, il fiorentino, nelle forme fissate da Dante, Petrarca e Boccaccio, arricchite poi da elementi lessicali e strutture sintattiche di derivazione latina. Verso il fiorentino elevato a italiano comune si polarizzano alcuni dialetti come il veneziano nel Nord, il siciliano o il napoletano nel sud. I dialetti settentrionali sono orientati verso una più economica utilizzazione dei fonemi ed un più esteso sfruttamento dei caratteri distribuzionali, mentre i dialetti centromeridionali sono rimasti fedeli ad una distribuzione meno economica dei fonemi e ad una morfologia vicina al tipo “europeo arcaico” proprio del latino. Fra 500 e 600 in Italia si ebbe una lingua nazionale: il toscano, o il fiorentino. Ma l’origine della fortuna del toscano si deve al prestigio letterario. Anche se non va trascurata l’influenza che le necessità del commercio ebbero nel tenere in vita forme interregionali di italiano. L’esistenza dell’italiano comune fu garantita grazie all’uso che di generazione in generazione continuarono a farne i letterati ed i dotti. Roma nella storia linguistica ita occupa un posto d’eccezione già in fase preunitaria. Dal “Non dicere ille secrita abboce” in volgare delle catacombe di Comodilla al 500, la città ebbe un suo dialetto di tipo meridionale. Dal 500 in poi cominciarono ad agire molteplici fattori che diffusero l’italiano ed a livello popolare smeridionalizzarono il dialetto. Iniziò un processo che nelle altre città italiane si ebbe solo nel 900. La decadenza delle caratteristiche dialettali del romanesco antico fu dovuta allo sviluppo demografico delle città durante il 500. La popolazione crebbe dal 1513 al 1523, e questo incremento è dovuta ad una immigrazione. Nel 1527 con il sacco si ebbero delle perdite e settant’anni più tardi la pop si era triplicata, sempre grazie a flussi migratori. Lo Stato della Chiesa fu l’unico stato preunitario che convogliava verso un centro urbano maggiore una popolazione parlante dialetti fortemente differenziati. Il processo non ebbe tregua per tre secoli. Nella Roma preunitaria il continuo indebolimento del dialetto si è combinato con la diffusione della conoscenza dell’italiano. Lo Stato della Chiesa era l’unico centro politico in Italia che per la sua struttura era composta da individui di tutte le regioni, e che quindi venendo a contatto, dovevano necessariamente mettere da parte i dialetti ed adottare un idioma corrente e quotidiano. L’italofonia della classe dirigente trovò appoggio in quella del clero: religiosi di ogni regione emigravano a Roma. Dal clero e curia quini l’italofonia irraggiava sulla popolazione sia per diretto effetto di imitazione, sia attraverso il più qualificato canale dell’istruzione scolastica. In conseguenza di ciò, Roma a metà 800 era il più grande centro non toscano in cui l’italofonia era un obbligo sociale. Gli effetti di tale tendenza si colgono nel dialetto romanesco sotto il profilo della linguistica sia interna sia esterna. Dal punto di vista interno si andò conformando alle strutture fonomorfologiche e sintattiche dell’italiano comune. Infatti, il romanesco dopo l’unificazione risultò largamente comprensibile in tutta la penisola. A Roma il dialetto era l’idioma delle classi subalterne. Fuori Roma e della Toscana, al sistema linguistico dell’italiano si faceva ricorso solo negli scritti e solo nelle occasioni una lingua comune. Si dal Settecento in Europa si ebbe un forte aumento demografico, e nel giro di un secolo la popolazione giunse a raddoppiarsi, anche se in Italia il ritmo fu più lento per le condizioni del paese, meno progredito rispetto agli altri stati, e anche per le peggiori condizioni sanitarie. Dal 1871 al 1951 circa 7 milioni di italiani si sono trasferiti definitivamente all’estero. Per valutare gli effetti linguistici dell’emigrazione, vanno aggiunti gli espatriati che dopo un soggiorno più o meno lungo sono tornati in Italia. Gli emigranti rimpatriati sono stati poco meno di 14.000.000. L’efficacia linguistica dell’emigrazione italiana verso l’estero è stata valutata andando in traccia degli italianismi lessicali diffusi in altri paesi dagli emigranti e dagli esotismi lessicali introdotti in Italia dai medesimi. Tra il 1891 ed il 1911 l’emigrazione incise soprattutto sulle classi più giovani, dai 10 ai 30 anni, e soprattutto sui maschi, ossia sulle classi in cui la percentuale di analfabetismo era minore. L’emigrazione ha rallentato a diffusione della lingua italiana, anche perché poi ha colpito le regioni e le classi in cui era più esteso l’uso del dialetto: il 64% è partito dal meridione, mentre il 36% dal centro-settentrione. Le regioni meridionali poi hanno presentato sempre le più alte percentuali di analfabetismo: complessivamente 84,1% al Sud, al Nord 54.2 e al Centro 74,7. L’emigrazione interessò molto i ceti rurali, poi buona parte di condizione ignota e casalinghe. Almeno l’80% costituiva quindi manodopera non qualificata che abbandonava le campagne. Solo lo 0.4 costituiva classi più abbienti. La percentuale di analfabeti non si distribuiva in modo proporzionale nelle singole professioni: nell’agricoltura la percentuale di analfabeti era sempre maggiore. Che gli emigrati italiani fossero per la maggior parte analfabeti si può vedere anche negli Stati Uniti con la promulgazione del Literacy Act, che prevedeva la condizione di alfabeta per gli immigrati, che fece diminuire l’emigrazione italiana. L’emigrazione sfoltì quella parte di popolazione che ignoravano la lingua e avrebbero continuato ad ignorare. Inoltre, la riduzione della popolazione in zone rurali agevolò le deboli strutture della scuola e portò ad un aumento dei salari, al miglioramento dei patti agrari, e ad una vita economica e sociale meno misera, e questo produceva analoghe espressioni linguistiche e culturali. Gli emigranti nel frattempo scoprirono quanto era importante il “saper lettera” (Pavese). Chi da giovanotto ha appreso, tornava a frequentare la scuola da adulto nelle scuole private, in cui il contadino pagava mensilmente il maestro. Ed egli è venuto a questa convinzione grazie all’emigrazione, causa principale dell’aumentata frequenza della scuola. Coletti osserva che il calo dell’analfabetismo fra i coscritti alle leve 1872 1907 nelle regioni di massime punte assolute di emigrazione. Nel 1871 l’analfabetismo era del 68.8%, mentre nel decennio della grande emigrazione scese al 37.9%. Questo balzo dell’alfabetismo portò indubbiamente ad un miglioramento dello stato, all’indebolimento dei dialetti ed al diffondersi di una lingua comune. CONSEGUENZE DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE L’Italia a metà 800 era un paese agricolo: tutte le regioni non avevano meno del 50% di popolazione agricola, nel complesso il 59,6%; nel 1911 il 55%; 1951 42,6%; nel 1970 il 19,4%. Mentre gli addetti all’industria erano del 43% nel 1971, e il settore terziario dal 16,8% del 1861 al 32,7% del 1971. Nel 1951 la popolazione attiva del 41 per cento, possibile grazie allo sviluppo industriale e delle attività terziarie, che ha permesso alla popolazione più anziana di non lavorare e alla popolazione in età scolastica di dedicarsi allo studio. La gente ora lavora 4048 ore settimanali (rispetto alle 72 del 1861). Nel secondo dopoguerra l’aumento del reddito e del tempo libero hanno modificato le capacità di consumo e la qualità dei consumi, creando migliori condizioni come la scuola, la radio, la televisione per la diffusione della lingua comune. Nel corso degli anni il reddito degli addetti all’industria e delle attività terziarie crebbe, mentre l’agricoltura ha continuato ad offrire redditi inferiori della metà. Questa disparità si ingigantisce quando si mettono a confronto i salari dei contadini del sud con quello dei lavoratori in industria del nord. Questo portò alla fuga nei campi verso i paesi stranieri più progrediti e verso le città italiane più moderne. L’industrializzazione se ha creato una possibilità per la diffusione della lingua comune, rinnovando il vocabolario con nuovi termini, ha portato al fenomeno dell’urbanesimo. L’italianizzazione del lessico e dei dialetti non esaurisce il contributo dell’industrializzazione. Gli elementi lessicali introdotti sono in gran parte costituiti da basi lessicali di lingue diverse dall’italiano e con composizione nominale e di suffissazione e prefissazione diversi dalla tradizione linguistica del paese. Il vocabolario industriale ha portato all’avvicinamento dell’italiano ad altre lingue europee. URBANESIMO E MIGRAZIONI INTERNE Per valutare le competenze linguistiche dell’urbanesimo occorre distinguere diversi tipi di centri urbani secondo la loro dimensione. Nel 1861 esistevano 52 centri di oltre 20.000 abitanti. Nel 1951 il numero dei centri con oltre 20.000 abitanti erano 287, mentre nel 1961 315. Il fenomeno ha interessato la situazione linguistica sia per l’osmosi di popolazione che ha provocato, con l’indebolimento dei dialetti locali, e poi il sorgere di centri in cui l’azione delle forze (scuole, spettacoli, uffici etc) propagano l’italiano. Nel 1861 esistevano soltanto 20 grandi città: Torino, Alessandria, Venezia, Verona, Trieste, Bologna, Ferrara, Ravenna, Modena, Livorno, Lucca, Firenze, Roma, Messina, Palermo, Catania, Napoli. Mezzo secolo dopo le grandi città sono diventate 96, in cui vi risiedono oltre un terzo della popolazione italiana. Sul piano linguistico l’effetto è stato alto, poiché oltre la metà dei residenti di queste città proviene da altre località. Non solo si indeboliva il dialetto degli emigrati, ma anche il dialetto locale originario di queste città. Un secondo dato legato all’urbanesimo è il fatto che gli immigrati pareggino almeno i nativi. Le 96 città possono distinguersi in tre gruppi: al primo gruppo corrispondo città come Livorno, Lucca, Pisa, in cui l’indebolimento del dialetto è quasi nullo. Al secondo gruppo appartengono 58 città, in cui gli immigrati sono sempre stati in minoranza rispetto ai nativi. Al terzo gruppo 52 città, in cui le correnti dell’urbanesimo hanno svolto tutta la loro azione. In circa due terzi delle città quindi l’urbanesimo non ha creato quell’osmosi che induceva alla forza dissolutrice dei dialetti locali. Inoltre, bisogna sempre tener conto delle politiche locali adottate o dell’efficienza delle istituzioni scolastiche in una determinata regione. L’urbanesimo è linguisticamente significativo non solo per l’osmosi di popolazione, ma anche per la concentrazione di tutti quegli organi quali le scuole, gli istituti pubblici o privati di cultura, le associazioni politiche, i centri di informazione, di spettacolo, etc, che hanno propalato in Italia la lingua nazionale. L’industrializzazione non ha colpito solo le grandi città, ma anche vasti territori industriali come le valli bergamasche. C’era un fenomeno di urbanizzazione senza città, ma non solo in Italia: altri esempi possono essere la Ruhr o la Tennessee Valley. Erano zone agricole che si urbanizzavano a maglie larghe in via spontanea. Accanto ad esse erano creati e affidati ad enti statali vasti comprensori di riforma agraria in zone più diseredate. La staticità demografica di una parte delle grandi città è stata compensata nel secondo dopoguerra dal rinnovamento delle zone agricole. Ognuna delle maggiori città italiane ha certo una sua storia, suoi caratteri peculiari dei quali occorre tener conto nell’analisi delle varietà regionali dell’italiano; e possiamo intravedere una situazione linguistica che resta ancora policentrica. Le ultime leggi contro l’urbanesimo, dal 1931 al 1961, non sono riuscite a limitare l’intensità di movimento si popolazione, anche se in buona parte gli spostamenti furono clandestini o sono stati registrati tardivamente. I quozienti di incremento nelle grandi città sono inferiori alla media nazionale, ed essi sono dunque anche fonte di una cospicua emigrazione. La polemica contro l’urbanesimo è legata con il persistere di vivaci pregiudizi etnici, soprattutto verso i meridionali. Mimetismo dialettale: fenomeno del proletariato e del sottoproletariato in cui si uniscono siciliani, pugliesi, napoletani etc, che mettono da parte il dialetto ed adottano una lingua comune. La vecchia lingua morta, viva solo nella poesia e prosa d’arte, sta diventando la lingua viva della nuova società italiana. LINGUA E DIALETTI NELLA SCUOLA I manzoniani speravano di poter condurre la lotta contro la malerba dialettale e di poter imporre il fiorentino come tipo linguistico unitario; altri come Ascoli invece pensavano che i dialetti dovessero essere studiati e confrontati con la lingua. Il programma dei manzoniani avrebbe richiesto il completo o quasi adempimento dell’obbligo dell’istruzione elementare previsto dalla legge Casati del 1859: sarebbe stato necessario un corpo docenti in grado di usare perfettamente il fiorentino e un’azione che investisse la totalità delle nuove generazioni. Ma nel 1906, ancora 47 fanciulli su 100 dai sei agli undici anni non si iscrivevano alla scuola elementare. Durante la dittatura fascista non ci fu nessuna diminuzione dell’evasione dall’obbligo scolastico. Solamente nel secondo dopoguerra gli evasori erano il 15%. All’inizio del secolo gli analfabeti erano quasi la metta della popolazione, ed oltre il 69% nel Mezzogiorno, nel 1931 erano il 20,9% della popolazione, nel 1961 l’8.4% della popolazione. Per mezzo secolo le scuole sono state affidate ai comuni e su 64000 aule, solo 21.000 erano buone. I maestri usavano un misto di dialetto e lingua letteraria, che a quanto dice Corradini, è peggio dell’uso del puro dialetto. L’insegnamento della lingua era un insegnamento meramente formalistico, si insegnava nel tempo dato alla lettura, alla dettatura, alla grammatica e alla composizione. Era una lingua che si insegnava e non si praticava. Guardare percentuale di analfabeti da pagina 95 in poi. La conoscenza della lingua non comportava l’uso effettivo, ma solo la capacità potenziale dell’uso, ed il crescere delle potenzialità d’uso dell’italiano è stato certo un fattore che poi ne ha determinato l’uso effettivo. Al processo di diffusione della lingua italiana le regioni del settentrione hanno preso parte prima e più delle regioni del Sud. Nel 1951 5 milioni e mezzo di analfabeti vivevano al Sud, mentre 842.000 erano al Nord. Nel 1961 tre milioni e mezzo di analfabeti vivevano al sud mentre 548.000 al nord. Oltre che ad una più intensa urbanizzazione al Nord, è da indicare l’origine della fortuna di elementi linguistici settentrionali nell’italiano standard. Dopo l’unità nel Settentrione parlare italiano era un carattere tipico, mentre il carattere tipico del Sud era proprio il dialetto. Diversamente dagli iscritti delle scuole elementari, gli iscritti alle scuole medie sono sempre stati distribuiti in modo molto omogeneo tra le regioni. Vedi percentuali p.101. Per circa due terzi del periodo postunitario, l’istruzione postelementare è stata riservata ad una minoranza, mentre dal 1950 in poi l’istruzione postelementare si è avviata a diventare un fenomeno di massa. Date le condizioni inizialmente comuni a tutte le regioni italiane, per vincere la battaglia contro il dialetto bisognava imporre agli allievi di rifuggire sistematicamente da ogni elemento lessicale e da ogni modulo sintattico usato nel linguaggio parlato, sia in quello orientato verso il dialetto sia, in quello orientato verso queste. Il parlare come un libro stampato è stato l’ideale linguistico più diffuso nella scuola media: esempio l’uso esteso del gerundio, contro il
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