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DECAMERON: II GIORNATA, novelle 1 e 5 DELLA IV GIORNATA, X GIORNATA, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Parafrasi e riassunto: -delle 10 novelle della II giornata, - della 1 e della 5 novella della IV giornata (Tancredi e Ghismunda, Lisabetta da Messina) - delle 10 novelle della X giornata

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 27/02/2020

valentina-zapperi
valentina-zapperi 🇮🇹

4.5

(17)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica DECAMERON: II GIORNATA, novelle 1 e 5 DELLA IV GIORNATA, X GIORNATA e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! II GIORNATA In questa giornata si narrano le avventure di chi, colpito da molte avversità, sia riuscito a raggiungere un lieto fine. INTRODUZIONE Dopo essersi svegliata, la compagnia si diletta sul prato. Dopo il pranzo e qualche ballo, si siedono, e Filomena, regina della giornata, ordina a Neifile di incominciare. PRIMA NOVELLA (NEIFILE) Era da poco morto a Trivigi, sant’Arrigo dichiarato santo perché oltre che essere stato un pio uomo, alla sua morte tutte le campane suonarono contemporaneamente. Allora la gente meravigliata, portava nel luogo santo ove era tenuta la salma, sia storpi sia ciechi e altri poveri, affinché fossero miracolati dalla vicinanza del santo. In quel giorno arrivarono nella città tre mercanti fiorentini: Stecchi, Martellino e Marchese che, incuriositi dalla folla, vollero andare a vedere le spoglie del santo. Martellino trovò il modo per passare indisturbati e senza noie: lui si sarebbe finto uno storpio e i due compari l’avrebbero aiutato a reggersi. Arrivato vicino al corpo di Sant’Arrigo, Martellino per burlarsi delle persone che lo guardavano cominciò a fingersi miracolato, ritornando a poco a poco normale. Ma riconosciuto da un suo compaesano stava per essere linciato dalla folla, quando Marchese riuscì a portarlo via; e così tutti e tre fecero ritorno a casa. PARAFRASI Martellino, fingendosi storpio, simula di guarire grazie al Beato Arrigo, scoperto il suo inganno, è picchiato e arrestato; corre il pericolo di essere impiccato per la gola, ma alla fine si salva. Neifile iniziò il racconto riflettendo che ,alcune volte, chi voleva beffare gli altri, si ritrovava egli stesso beffato.E volle dimostrare ciò nel rispetto del tema fissato dalla regina. Non molto tempo addietro, viveva in Treviso un tedesco chiamato Arrigo, santo e apprezzato da tutti, molto povero, che viveva portando pesi a pagamento. A detta dei trevigiani, nell’ora della sua morte , tutte le campane del Duomo , senza essere tirate, si misero a suonare. Tutti gridarono al miracolo e, ritenendo Arrigo Santo, si recarono, in pellegrinaggio, alla casa dove giaceva, conducendo lì zoppi, ciechi, ammalati, tutti quelli che avevano qualche infermità e qualche difetto, sperando che miracolosamente potessero guarire toccando quel corpo. In tale circostanza, giunsero a Treviso tre fiorentini, uno chiamato Stecchi, l’altro Martellino e il terzo Marchese. Costoro erano buffoni che giravano per le corti dei signori, travestendosi e facendo imitazioni per divertire gli spettatori. Vedendo accorrere tanta gente si meravigliarono e, udito il motivo, vollero andare a vedere. Depositati i bagagli in albergo, pensarono a come fare per arrivare alla casa del morto. L’impresa non era facile, perché la piazza era piena di tedeschi e la chiesa ancora di più. Martellino ebbe un’idea. Decise di fingersi storpio, di non poter camminare e di farsi sostenere da un lato da Stecchi e dall’altro da Marchese. L’idea piacque ai suoi amici e subito misero in atto il piano. Martellino contrasse talmente le mani, le braccia, le gambe, la bocca, gli occhi e tutto il viso da sembrare veramente terribile e non c’era nessuno che ,vedendolo, non lo ritenesse handicappato. Per avvicinarsi alla chiesa, i due compagni ,che lo sostenevano, chiedevano di fare spazio e tutti si scostavano, anzi, alcuni uomini li aiutarono a mettere Martellino sul corpo di Arrigo perché potesse riacquistare la salute. Martellino, mentre tutta la gente era attenta a vedere che cosa gli succedesse, piano piano, cominciò a distendere le dita, poi la mano, poi il braccio e così tutto il corpo, come sapeva fare benissimo. La gente, vedendo ciò, subito gridò al miracolo, con grida tanto forti in onore di Santo Arrigo da uguagliare il rumore dei tuoni. Per caso ,si trovava in quel luogo un fiorentino che conosceva bene Martellino, ma che non lo aveva riconosciuto mentre si fingeva storpio. Lo riconobbe subito ,quando si raddrizzo, cominciò a ridere e disse “ O Signore ,che gli venga un accidente! Chi non avrebbe creduto, vedendolo, che era veramente storpio?”. Alcuni trevigiani, udendolo, ebbero dei dubbi e chiesero all’uomo chiarimenti. Il fiorentino rispose che quel bugiardo era sano come tutti loro, ma era un buffone che amava travestirsi e giocare. Udito ciò, tutti si misero a gridare e ad accusare il simulatore di volersi beffare di Dio e dei Santi e, afferratolo, gli strapparono le vesti e lo colpirono con pugni e calci, nonostante che egli chiedesse pietà. I due amici non osavano aiutarlo, per paura di fare la stessa fine, pure cercavano il modo per sottrarlo all’ira del popolo, che l’avrebbe sicuramente ucciso. Marchese, allora, andò a chiamare le guardie , accusando Martellino di avergli rubato una borsa con cento fiorini d’oro. Immediatamente le guardie corsero dove lo sventurato le stava buscando e lo sottrassero alle mani della folla infuriata. Molti li seguirono e, sentendo di che cosa era accusato, pensando di fargli avere una sempre albergato bene. Questa sera, per caso, vedremo chi alloggerà meglio, se tu che hai pregato o io che non ho pregato. Al posto del padrenostro io, di solito, dissi il “dirupisti” o il “ deprofundi” che mia nonna diceva che erano molto validi”. Così conversando, procedevano, aspettando il momento opportuno per attuare il loro piano malvagio. Giunti nelle vicinanze di Castel Guglielmo (nel Polesine), nell’attraversare un fiume, a notte inoltrata,assalirono Rinaldo e lo derubarono. Allontanandosi, dopo averlo spogliato di tutto, lasciandolo solo con la camicia, gli dissero “Vattene e vedi se il tuo San Giuliano stanotte ti darà buon albergo, a noi il nostro ,sicuramente, lo darà buono”. Il servitore di Rinaldo, vedendolo assalire, non si preoccupò di aiutarlo, ma, vigliaccamente, voltato il cavallo si diresse di corsa a Castel Guglielmo, dove, senza preoccuparsi, trovò ricovero. Rinaldo, scalzo e in camicia, facendo molto freddo e nevicando, essendo già notte fonda, cominciò a cercare un rifugio per la notte, ma non ne trovò alcuno. Infatti, in quella zona c’era stata la guerra ed ogni cosa era stata bruciata. Spinto dal freddo si diresse verso Castel Guglielmo, per cercare soccorso. Giunse al castello a notte fonda, quando le porte erano state chiuse e il ponte era stato alzato, perciò non potè entrare. Cercando, affannosamente, un riparo dalla neve e dal gelo, vide una casa ,che sporgeva un po’ in fuori dalle mura del castello, subito decise di ripararsi lì fino all’alba. L’uscio era chiuso, ma, davanti ad esso ,il tetto sporgeva appena, raccolta un po’ di paglia che era lì vicino, si sistemò, lamentandosi che San Giuliano non si era comportato bene con lui. Ma San Giuliano, intervenendo rapidamente, gli preparò un buon alloggio. Viveva in quel paese una vedova, bellissima come nessun’altra, che il marchese Azzo amava e teneva a sua disposizione. La donna abitava nella casa, sotto il cui tetto ,Rinaldo si era riparato. Il giorno prima, il marchese, volendo la notte giacere con lei, nella casa aveva fatto preparare un bagno e un’ottima cena. Era tutto pronto e la donna aspettava soltanto l’arrivo del marchese. Purtroppo arrivò un servo a cavallo, per avvisare la donna che il marchese era dovuto improvvisamente partire per cui non doveva più attenderlo. La donna, amareggiata, non sapendo cosa fare, decise di entrare nel bagno preparato per il signore, poi cenare ed, infine, andare a letto. Rapidamente entrò nel bagno, che era sistemato vicino alla porta, accanto alla quale si era rifugiato il meschino Rinaldo. Sentì il pianto ed il battito di denti, simile a quello di una cicogna, che faceva lo sventurato; chiamata la domestica, le disse di andare fuori a vedere chi c’era e che cosa faceva. La fantesca andò , vide l’uomo semicongelato e gli domandò chi era. Rinaldo le raccontò le sue disavventure e la pregò di non lasciarlo morire di freddo. Udito il racconto, la vedova, presa la chiave che serviva per far entrare soltanto il marchese, disse alla domestica di aprire e di far entrare l’uomo ,che poteva mangiare, visto che la cena era pronta , e poteva essere ospitato senza problemi perché c’era molto spazio. La fantesca, obbedendo all’ordine della padrona, lo fece entrare e, vedendo che era quasi assiderato, lo fece immergere nel bagno che era ancora caldo. L’uomo fece tutto di buon grado e, riconfortato dal calore, gli parve di essere resuscitato. La donna gli fece portare gli abiti del marito che era morto da poco, che gli andavano a pennello. Il mercante, aspettando gli ordini della donna, cominciò a ringraziare Dio e San Giuliano che lo avevano salvato e gli avevano preparato un buon albergo per la notte. La padrona, frattanto, chiese come stava l’uomo alla fantesca che, astutamente, rispose che si era rivestito e sembrava un bell’uomo e una persona per bene. Sentito ciò la donna lo fece invitare a cena, visto che non aveva cenato. Rinaldo ,entrato nella sala, ammirò la bellezza della dama e ringraziò per l’aiuto datogli. La vedova, condividendo il giudizio della domestica, lo fece sedere familiarmente vicino al fuoco e si fece raccontare quello che gli era capitato. Confrontandolo con quanto aveva sentito dire in paese riferito dal servo del mercante, gli credette completamente e gli disse ciò che sapeva del suo inserviente ,promettendo che l’avrebbe fatto chiamare l’indomani. Poi, imbandita la tavola, dopo essersi lavate le mani, insieme si misero a cenare. Rinaldo era alto, bello, di aspetto e di modi gentili, di mezza età (circa 35 anni). La donna cominciò a guardarlo con interesse e pensò che, poiché il marchese l’aveva lasciata sola quella notte, dopo aver destato in lei il desiderio d’amore, poteva usare quel bene che la fortuna le aveva mandato. Dopo cena, alzatasi da tavola, chiese consiglio alla domestica che, conoscendo il suo desiderio, l’assecondò. Tornata, dunque, vicino al fuoco, guardò amorosamente il giovane e gli disse “ Rinaldo, non siate così pensieroso, non pensate di poter recuperare il cavallo e gli abiti che avete perduto? Confortatevi, siete a casa vostra. Anzi ,vedendovi indossare i panni di mio marito morto, sembrando che siate proprio lui, mi è presa una gran voglia di abbracciarvi e di baciarvi, cosa che avrei certamente fatto se non avessi temuto di dispiacervi”. Rinaldo ,udendo queste parole e vedendo la luce d’amore negli occhi di lei, le andò incontro a braccia aperte, dicendo “Signora, farò tutto quello che volete, perché vi sono grato di avermi salvato e, pensando alle cortesia che mi avete usato, vi accontenterò in tutto e se voi desiderate abbracciarmi e baciarmi, vi abbraccerò e bacerò più che volentieri”. Non ci furono più parole. Dopo molti baci, ella, che ardeva di amoroso desiderio, lo condusse nella sua camera, e più volte si accoppiarono, come entrambi desideravano. Sul far dell’alba, la donna , svegliatasi, perché non si potesse sospettare nulla, gli diede dei vecchi abiti, gli riempì la borsa di denari e, pregandolo di tener nascosto l’accaduto, lo fece uscire da dove era entrato. Egli, fattosi giorno, entrò nel castello, ritrovò il servo e si rivestì con gli abiti che erano nella sua valigia. Venne , poi, a sapere che i tre masnadieri che lo avevano derubato, per un altro furto che avevano fatto, erano stati catturati ed avevano confessato. Gli furono, dunque, restituiti il cavallo, i panni e i denari, perdette soltanto dei lacci per le scarpe che i ladroni avevano buttato. Rinaldo, ringraziando Dio e San Giuliano, montò a cavallo e ritornò sano e salvo a casa sua, mentre i tre masnadieri furono impiccati. TERZA NOVELLA (PAMPINEA) Lamberto, Tedaldo e Agolante figli di un ricchissimo cavaliere, alla sua morte sperperano tutta l’eredità e, divenuti poveri, si decidono a lasciare Firenze e a partire per l’Inghilterra dove, prestando il denaro ad usura, riescono a guadagnare piu’ di quanto avevano perso.Ma, affidati i possedimenti inglesi ad un loro nipote di nome Alessandro, se ne tornarono a Firenze. Intanto a causa di una guerra le proprietà inglesi non rendono più, perciò i tre fratelli riperdono tutto e per i debiti sono incarcerati; anche Alessandro, ormai povero, sta per tornare in Italia quando incontra un abate inglese che gli si affeziona particolarmente. Una sera l’abate fatto venire Alessandro nel suo letto, comincia ad accarezzarlo ma Alessandro non capisce come può un uomo toccare un altro uomo; ma l’abate in verità altri non e’ che la figlia del re d’Inghilterra. Dopo una notte di passione, il giorno seguente giunti a Roma furono sposati dal Papa e così Alessandro divenne duca di Cornovaglia e poté liberare i tre zii, essendo oramai ricchissimo. PARAFRASI Tre giovani dissipano tutti i loro averi; il nipote di uno di questi, si accompagna ad un abate. Tornando a casa, disperato, si accorge che l’albergo era tutto pieno, solo nella camera dell’abate vi erano dei granai su cui il giovane poteva dormire ,arrangiandosi. Alessandro era perplesso, in quanto avrebbe preferito dormire con gli altri monaci, senza disturbare il religioso, che dormiva profondamente. Alla fine il giovane , date le insistenze, si sistemò su un granaio con una coperta addosso, cercando di fare meno rumore possibile. L’abate, che non dormiva per niente, ma era immenso in pensieri d’amore, aveva sentito tutto quello che i due si erano detti e anche dove si era sistemato Alessandro. Tutto contento disse tra sé” Iddio mi ha mandato questa occasione, se non la prendo, non mi capiterà mai più”. Con voce sommessa, invitò, perché si coricasse vicino a lui, Alessandro, che dopo aver più volte rifiutato, si spogliò e si coricò. L’abate , avvicinatosi lo cominciò a toccare come fanno le fanciulle innamorate con i loro amanti. Il giovane era sconcertato e non sapeva cosa fare, allora l’altro gli prese una mano e se la pose sul petto dicendo “Alessandro, scaccia ogni sospetto, ti svelo il mio segreto”. L’uomo con la mano , posta sul petto del religioso, sentì due seni tondi, sodi e delicati, come se fossero stati d’avorio, comprese, allora, che era una donna, e, senza indugio, voleva abbracciarla e baciarla. Ed ella disse “ Come puoi vedere sono femmina e non uomo, e, come fanciulla, stavo andando dal Papa perché mi sposasse; per mia sventura come ti vidi, mi innamorai perdutamente di te. Per questo ho deciso che voglio avere come marito solo te. Se tu non mi vuoi come moglie allontanati da qui e vai per la tua strada”. Alessandro, sebbene non la conosceva, vedeva che era bellissima e doveva essere molto ricca, dato il seguito che aveva. Accettò, dunque, la proposta di matrimonio ben volentieri. La fanciulla, messasi a sedere davanti ad un dipinto di nostro Signore, gli pose in mano un anello, come promessa di matrimonio. Poi si abbracciarono e trascorsero la notte in giochi amorosi, che erano graditi ad entrambi. All’alba, l’uomo, alzatosi, tutto sorridente, uscì dalla stanza senza che nessuno sapesse dove aveva dormito la notte. La carovana riprese il cammino e, dopo alcuni giorni, giunsero a Roma. Lì l’abate, con i due cavalieri ed Alessandro, senza nessun altro, fu ricevuto dal Papa. Fatta la dovuta riverenza, l’abate cominciò a parlare “ Santo padre, ognuno deve vivere bene e onestamente, come voglio fare io. Nell’abito in cui mi vedete sono fuggita ,con molte ricchezze del re d’Inghilterra, da mio padre, il quale mi voleva dare in sposa al re di Scozia, che è vecchissimo, e mi voleva far sposare da vostra Santità. Mi fece fuggire non tanto la vecchiaia del re di Scozia, quanto la paura che, una volta maritata, potessi fare qualcosa contro le leggi divine e contro l’onore del re mio padre. Durante il viaggio, Dio, per sua misericordia, mi pose davanti colui che voleva che io avessi come marito : questo giovane”. E gli mostrò Alessandro elogiandone l’onestà, il valore, anche se non era nobile come lei. Dichiarò che si era unita a lui, lo voleva, e non avrebbe sposato nessun altro qualsiasi cosa dicesse suo padre. E continuò dicendo “ Santità, vogliate benedire il matrimonio che Alessandro ed io abbiamo contratto alla presenza solo di Dio. Con la vostra benedizione, che ci darà la certezza che esso è gradito a Dio, di cui voi siete il vicario, noi possiamo onestamente vivere ed , infine, morire”. Il giovane si meravigliò udendo che la moglie era la figlia del re d’Inghilterra e ne gioì profondamente. Anche i due cavalieri si stupirono, e ancor più si stupì il Papa, ma, sapendo che non si poteva più tornare indietro, volle soddisfare la preghiera della donna. Nel giorno fissato per la cerimonia, il Papa, davanti a tutti i cardinali e i nobili, che aveva invitati per fare una gran festa, fece venire la donna, regalmente vestita, che era uno splendore, ed Alessandro , anch’egli riccamente vestito, tanto che pareva un re e non un usuraio . Fece celebrare nozze solenni, e poi licenziò gli sposi con la sua benedizione. I due sposi si recarono, poi ,a Firenze, dove l’uomo pagò i debiti, fece liberare i tre fratelli e li rimise con le loro donne nei possedimenti riacquistati. Ripartirono ,infine, per Parigi, dove furono ricevuti dal re, portando con loro Agolante. Frattanto, i due cavalieri andarono in Inghilterra e riuscirono a convincere il re ad accogliere i due sposi. Il Re li ricevette con grandissima festa e, poco dopo, nominò Alessandro cavaliere e gli donò la contea di Cornovaglia. Il giovane seppe operare così bene che pacificò il figlio con il padre, cosa che fu molto utile all’isola e ai suoi affari. Agolante, raccolti tutti i crediti ,straordinariamente ricco, ritornò a Firenze. Alessandro visse felicemente con la sua donna e, secondo quanto si dice, con l’aiuto del suocero, conquistò la Scozia e fu incoronato re. QUARTA NOVELLA (LAURETTA) A Ravello, una cittadina sul golfo d’Amalfi, vi era un ricchissimo mercante chiamato: Landolfo Rufolo.Questi partì, un giorno, con una nave piena di mercanzie per Cipro; ma commerciando perse tutto e così decise di fare il corsaro.Guadagnò molto di più così che con la precedente attività. Ma un giorno, trovato dai genovesi in un’insenatura, fu derubato e fatto prigioniero; durante il viaggio, l’equipaggio colto alla sprovvista da una tempesta fu scaraventato in mare assieme alle merci rubate.Landolfo riuscì a raggiungere terra aggrappato ad una cassa. Una giovane donna vedutolo sul bagnasciuga, lo portò in casa e lo ristorò per alcuni giorni. Il mercante, dopo aver scoperto che la cassa conteneva moltissime pietre preziose, lasciata la donna partì per Ravello dove, non esercitò più come mercante ma visse di rendita fino all’ultimo. PARAFRASI Landolfo Rufolo, caduto in povertà, diventa corsaro, catturato dai genovesi, naufraga e si salva appoggiandosi a una cassetta piena di tesori; Accolto a Corfù da una donna, torna ricco a casa sua. Vedendo che Pampinea aveva smesso di narrare, Lauretta ,che le sedeva vicino, immediatamente cominciò a parlare, tenendo conto del tema di quella giornata. Considerò, innanzitutto che la maggior prova della potenza della fortuna era il fatto che ,talvolta, chi era caduto in disgrazia si risollevava, come, appunto, era accaduto ad Alessandro, il protagonista della novella precedente. Poi iniziò un racconto che, partendo da gravi sventure, si sarebbe concluso con una splendida riuscita. La storia era ambientata nel litorale che andava da Reggio Calabria a Gaeta; lungo di esso, nei pressi di Salerno, vi era la costiera di Amalfi, che si affacciava sul mare, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini ricchi che vivevano di commerci. Tra queste cittadine ,ve ne era una, chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo, il quale, desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita , insieme con le ricchezze. Costui, come era usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave, la caricò di molte mercanzie, comprate con i suoi soldi, e anche di donne e partì per Cipro. Lì giunto, trovò molti altri mercanti, provenienti da tutte le parti del mondo, che parimenti commerciavano. Dovette, dunque, svendere le sue mercanzie, dandole quasi per niente, e per questo andò in rovina. Pensò ,quindi, o di morire o di andare a rubare. Trovato un compratore, vendette la sua grande nave e , con i soldi avuti, comprò una navicella agile e snella da corsaro, la armò in maniera adeguata e si diede alla vita di corsaro, derubando soprattutto i turchi. Questa attività fu favorita dalla fortuna, molto più che quella, precedente, di mercante. Avvolte le pietre in alcuni stracci, come meglio potè, disse alla buona donna che non aveva più bisogno della cassa e che gliela donava in cambio di un sacco, se era possibile. La donna l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì . Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma, prudentemente, non accennò alla cassa . Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e lo rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare, dandogli una compagnia. Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e guardò, con più attenzione, le pietre che vi erano contenute. Le vide belle e preziose sopra ogni sua aspettativa e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe diventato ricco il doppio di quando era partito. Vendute le pietre, mandò fino a Corfù una buona quantità di denaro alla donna che lo aveva salvato dalle acque del mare e lo stesso fece per coloro che a Trani lo avevano aiutato. Si tenne il resto senza voler più fare il mercante e così visse onorevolmente fino alla fine. QUINTA NOVELLA (FIAMMETTA) C’era a Perugia un noto mercante di cavalli, Andreuccio, che un giorno partì per Napoli con una borsa di fiorini d’oro. La stessa sera, arrivato nei pressi di Napoli, mentre cenava in un’osteria, trasse fuori la borsa con i soldi che furono subito notati da due scaltre donne. La sera dopo, la più giovane di queste due, invitò Andreuccio a casa sua e, piangendo, gli disse che lei era sua sorella. Dopo aver convinto Andreuccio, lo costrinse a rimanere la sera e la notte a casa sua. Il povero commerciante cadde in una botola, che si trovava nel bagno, e la donna poté così rubargli la borsa; uscito fuori della casa ed avendo cominciato a capire l’inganno, bussò, inferocito, più volte alla sua porta ma, ovviamente, nessuno rispondeva. Perse le speranze, s’incamminò verso l’osteria e sulla strada incontrò due contadini che, ascoltata la storia, sembrava volessero aiutarlo; così lo condussero ad un pozzo per farlo lavare dal fetore che aveva addosso. Ma, una volta calato Andreuccio nel pozzo, scapparono impauriti da alcune persone che stavano arrivando al pozzo; lo sfortunato ragazzo, dopo aver risalito il pozzo, saltò fuori terrorizzando tutti e, corse via. Ma incontrò nuovamente i due astuti contadini che lo obbligarono a rubare un rubino che si trovava al dito di un cardinale sepolto recentemente nella chiesa del paese.Andreuccio trovato l’anello se l’infilo’ in tasca e diede il resto delle pietre, sotterrate con il cadavere, ai due loschi individui, che lo chiusero nella cripta assieme al morto. Il giorno dopo, un prete, incuriosito dal tombino aperto, si calò nell’ipogeo e così, Andreuccio pote’scappare dopo aver spaventato a morte il prete, e ritornare a Perugia con il rubino. PARAFRASI Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comprar cavalli, incappato in tre gravi incidenti, scampato a tutti, torna a casa con un rubino. Fiammetta, alla quale toccava di raccontare, cominciò a dire che le pietre preziose trovate da Landolfo, le avevano ricordato un’altra novella, che, però, riportava gli avvenimenti di una sola notte. Viveva a Perugia un giovane chiamato Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli, il quale, avendo udito che a Napoli si vendevano degli ottimi cavalli, con nella borsa 500 fiorini d’oro, senza mai essere uscito di casa, partì con altri mercanti. Giunto a Napoli una domenica, dopo il vespro, seppe dall’albergatore che l’indomani, a piazza Mercato , ci sarebbe stata la vendita dei cavalli. Ne vide di molto belli, che gli piacquero e iniziò le trattative e, per mostrare che era in grado di pagare, da persona poco esperta, più volte, a destra e a manca, faceva vedere la borsa piena di fiorini ,che aveva con sé. Mentre discuteva, passò di lì una giovane siciliana bellissima, di facili costumi ,senza essere vista, vide bene la borsa e subito pensò che sarebbe stata meglio nelle sue mani. Era con lei una vecchia anch’essa siciliana, la quale, come vide Andreuccio, gli corse incontro e lo abbracciò affettuosamente, la giovane notò tutto ma rimase in silenzio. Andreuccio le fece una gran festa, la invitò al suo albergo e se ne andò. La ragazza che aveva seguito tutta la scena, pensando ad un piano per impadronirsi del denaro, si avvicinò alla vecchia e ,cautamente, cominciò a domandare chi era e da dove veniva il giovane, che cosa faceva lì e come lo conosceva. La donna spiegò che era stata a lungo in Sicilia col padre di lui e poi aveva vissuto a Perugia. La giovane ,informata di tutto, maliziosamente si organizzò. Impegnò la vecchia in lavori per l’intera giornata, affinchè non potesse andare a trovare il mercante. Presa, poi, con sé una servetta molto sveglia, la mandò all’albergo dove Andreuccio si trovava, per riferirgli che una gentildonna di Perugia gli avrebbe parlato volentieri. Egli, lusingato, si guardò allo specchio e, ritendosi un bel ragazzo, pensò che la donna si era innamorata di lui, come se a Napoli non ci fossero bei ragazzi; subito accettò l’invito e seguì la servetta ,senza dire niente, all’albergo. La servetta ,rapidamente, condusse il giovane nel vicolo chiamato “Malpertugio” e già il nome indicava che era un luogo malfamato. Ma egli, niente sospettando, lo ritenne un posto tranquillo. Appena arrivati alla casa, la fantesca gridò “Ecco Andreuccio”. La donna era sulla scala ad aspettarlo, era giovane ,alta, con un viso bellissimo, con abiti distinti. Gli corse incontro scendendo le scale, con le braccia aperte, piangendo, gli baciò la fronte e ,con voce rotta dall’emozione, disse “ Andreuccio mio, tu sii il benvenuto”. Egli fu molto sorpreso per l’accoglienza. La donna gli prese la mano e lo condusse prima in sala e poi nella sua camera, piena di fiori, profumata, con un letto di lusso, molti abiti e ricchi arredi, per cui ,il poverino credette di trovarsi alla presenza di una gran dama. Postasi a sedere vicino al letto, tra lacrime e carezze, la donna gli raccontò che era sua sorella, ed era felice di aver ritrovato uno dei suoi fratelli prima di morire. Continuò col dire che Pietro, padre di entrambi, aveva dimorato ,per lungo tempo a Palermo, dove era stato molto amato da una gentildonna vedova, che deposta la paura del padre, dei fratelli e del disonore, si unì a lui e gli dette una figlia, cioè lei. Pietro, in seguito, dovette partire da Palermo e ritornare a Perugia, lasciando madre e figlia nella città, senza più cercarle, né ricordarsi minimamente di loro, dimostrandosi sommamente ingrato e meritevole di biasimo. Cresciuta a Palermo, la madre che era ricca, la diede in moglie ad un uomo gentile e per bene di Agrigento (Girgenti), che, per amor suo ,si trasferì a Palermo. Durante le guerre tra Angioini (Francesi) e Aragonesi (Spagnoli) , dovettero fuggire dalla Sicilia. Prese poche cose, lasciate tutte le ricchezze, si rifugiarono a Napoli ,accolte da re Carlo, che, per riparare ai danni subiti, dette loro terre e possedimenti e continuò a proteggerle, dando aiuto al marito e cognato di Andreuccio, suo dolce fratello. Il giovane, udendo il racconto, tanto preciso, raccontato senza nessuna incertezza, ricordandosi che, veramente, il padre era stato per un certo tempo a Palermo, conoscendo i costumi dei giovani, vedendo le lacrime, gli abbracci e gli onesti baci, ritenne ciò che la donna diceva assolutamente vero. Meravigliato ,dichiarò che mai il padre aveva accennato di lei e della madre. Pure era felicissimo di aver trovato a Napoli dov’era solo e senza compagnia, un sorella così raffinata, mentre lui era un piccolo mercante. Chiese, comunque, come aveva saputo chi era. Ella rispose che la mattina glielo aveva detto una donna che aveva vissuto, per molto tempo, con il padre a Palermo e poi era andata a vivere a Perugia. Poi cominciò a informarsi di tutti i parenti, elencandone i nomi, cosa che convinse maggiormente Andreuccio. La donna fece poi portare Il poveretto cercò ,in tutti i modi, col capo e con le spalle, di alzare il coperchio, senza riuscirvi. Vinto da un gran dolore, cadde come morto sul corpo del prelato. Ripresosi , cominciò a piangere pensando alla morte orribile che lo attendeva. Mentre si disperava, sentì molte voci di gente che, come pensava, veniva a fare quello che aveva già fatto con i suoi compagni. Anche costoro, una volta aperta e puntellata la tomba, cominciarono a discutere su chi dovesse entrare, allora un prete, non temendo i morti, che riteneva inoffensivi, si offrì volontario, si sporse sul bordo e mise le gambe giù , per potersi calare. Andreuccio per risalire afferrò le gambe del prete e le tirò. Sentendosi afferrare ,il prete emise un grido altissimo e si gettò fuori. Tutti, spaventati ,lasciata aperta la tomba, fuggirono come se fossero inseguiti da centomila diavoli. Tranquillamente Andreuccio risalì e uscì dalla chiesa per la via da cui era venuto. All’alba, con al dito l’anello di rubini, giunse, per caso, alla marina e al suo albergo, dove trovò i suoi compagni e l’albergatore che ,tutta la notte, erano stati in ansia per lui, ai quali raccontò la sua avventura, senza accennare al rubino. L’oste gli consigliò di partire immediatamente. Giunto a Perugia, vendette l’anello, dicendo che a Napoli, dove era andato a comprare dei cavalli, aveva investito i suoi denari nell’acquisto di un anello. SESTA NOVELLA (EMILIA) Poiché il re Manfredi fu costretto a partire per combattere Carlo, affidò il regno ad Arrighetto Capece, un nobile di Napoli, il quale, venuto a conoscenza della morte del re, non fidandosi della fedeltà dei Siciliani, decise di fuggire dall’isola con la moglie incinta Beritola Caracciola e il figlio Giuffredi, ma i Siciliani lo scoprirono e lo imprigionano insieme ad altri servitori del vecchio re. Tuttavia, la moglie riuscì a salvarsi a Lipari, dove partorì un altro maschio e lo chiamò Scacciato; da lì decisa a ritornare a Napoli dalla sua famiglia, la donna si imbarcò su una nave con i figli e una balia, ma sfortunatamente un forte vento li spinse a Ponza, dove decisero di rimanere finché non si fossero placate le acque. Sull’isola Madama Beritola passò il tempo a piangere il marito ma, non appena si allontanò dai suoi cari per questo, una galea di corsari genovesi rapì i suoi figli e la balia e rubò la loro barca. Mentre Madama Beritola continuava le ricerche dei suoi cari, trovò per caso una grotta in cui si erano riparati due caprioli e la madre e subito offrì loro il suo latte. Alcuni mesi più tardi, approdò sull’isola una nave pisana, sulla quale viaggiava Currado dei Malaspina. Durante una battuta di caccia, questo inseguì i due caprioli fino alla grotta dove trovò la donna che, gli raccontò ciò che le era accaduto. Allora Currado decise di imbarcarla con i caprioli sulla sua nave. I corsari intanto avevano portato i figli di Beritola e la balia a Genova, dove erano stati dati come bottino a Guasparin Doria. La balia, temendo per la vita dei bambini, gli ordinò di fingersi suoi figli e cambiò il nome del più grande in Giannotto da Procida affinché non fosse riconosciuto. Raggiunti i sedici anni, Giannotto iniziò ad imbarcarsi sulle galee del suo. Un giorno arrivò in Lunigiana e lì si mise al servizio di Currado Malaspina della cui figlia ben presto si innamorò; ma dopo lunghi mesi furono scoperti da Currado che, grazie alle preghiere di sua moglie, invece di ucciderli, li incarcerò. Mentre ciò accadeva, il re Pietro d’Aragona liberò la Siciliane, venutolo a sapere Giannotto, decise di rivelare la sua vera identità al carceriere, che subito raccontò tutto a Currado. Quest’ultimo, memore del racconto di Beritola, liberò il ragazzo e la figlia e permise loro di sposarsi. Dopo che Beritola ebbe riconosciuto il figlio, Currado mandò due ambasciatori a Genova e in Sicilia per aver notizie di Scacciato e di Arrighetto. Quando arrivò a Genova, l’ambasciatore rivelò la vera identità di Scacciato a Guasparin Doria, il quale, gli diede in moglie la figlia per scusarsi per averlo trattato come un servo. Riunitisi tutti da Currado per festeggiare i ritrovati parenti e le nozze dei due fratelli, arrivò durante il pasto, l’altro ambasciatore e raccontò che Arrighetto era vivo e che era stato liberato dai Siciliani una volta scacciato Carlo d’Angiò. Dopo i festeggiamenti, partirono tutti per Palermo dove, accolti da Arrighetto fecero una grande festa e vissero lì felici per anni. PARAFRASI Madama Beritola, trovata con due caprioli su un’isola, avendo perso due figli, se ne va in Lunigiana. Uno dei figli si unisce con la figlia del suo signore ed è messo in prigione. Quando la Sicilia si ribella a re Carlo, la madre ritrova il figlio, che sposa la figlia del suo signore, e ritrova anche il fratello e tutti ritornano in ricchezza. Dopo che Fiammetta aveva raccontata la divertente storia di Andreuccio, Emilia, ricevuto l’ordine dalla regina, incominciò col considerare che era sempre gradevole, sia per coloro che vivevano nella felicità che per gli sventurati, ascoltare i vari movimenti della fortuna, perchè rendeva i primi più attenti e consolava i secondi. Proseguì dicendo che dopo la morte di Federico II ,imperatore del regno delle due Sicilie, che comprendeva tutta l’Italia meridionale, fu incoronato Manfredi. Egli stimò grandemente un nobile napoletano chiamato Arrighetto Capece, che aveva sposato una nobildonna, anch’essa napoletana, di nome Beritola Caracciolo, molto bella e gentile. Arrighetto, che era governatore della Sicilia, informato dello sbarco di re Carlo d’Angio a Benevento, dello spostarsi del re , dopo la vittoria e l’uccisione di Manfredi, verso la Sicilia, fu catturato dai francesi mentre si preparava a fuggire. La moglie ,non sapendo che fine aveva fatto, lasciata ogni cosa, insieme col figlio, Giuffredi , povera e gravida, fuggì a Lipari, su una barchetta. Lì partorì un altro figlio maschio, che chiamò lo Scacciato, e, insieme con i figli e una balia, si imbarcò per ritornare a Napoli, dai suoi parenti. Ma le cose andarono diversamente. Il vento spinse la barca all’isola di Ponza, in una piccola insenatura. Mentre la nobildonna ,sbarcata, si era appartata in un luogo solitario a piangere la sua sventura, nel porticciolo giunse una galea di corsari che catturò i figli e la balia. Quando la donna ritornò sulla spiaggia per rivedere i figli, non trovò nessuno, guardando verso il mare vide la galea che si allontanava, portandosi dietro la barchetta e capì che aveva perduto anche i figli, oltre al marito Per il dolore della perdita, svenne sulla spiaggia. Quando riprese le forze , a lungo andò in giro, cercando i figli e invocando il loro nome. Venuta la notte, spaventata, si allontanò dalla spiaggia e si rifugiò nella caverna dove, di solito, andava a piangere. Passata la notte, a mattinata inoltrata, poiché il giorno prima non aveva mangiato, si mise a raccogliere un po’ di erbe da mangiare. Dopo mangiato, mentre piangeva, vide una capriola entrare in una caverna e dopo poco uscirne. Incuriosita entrò e vide due caprioli, appena nati, che le sembrarono la cosa più bella e più dolce del mondo, e, non essendosi ancora asciugato il latte dal seno, per il suo parto recente, pose i caprioli al petto. Gli animaletti succhiarono come se avessero succhiato dalla madre. La gentildonna, avendo trovato la compagnia della capriola e dei suoi figlioletti, nutrendosi di erbe e bevendo l’acqua, pur ricordando con sofferenza i figli, il marito e la vita di prima, si era rassegnata a vivere e a morire in quel luogo, come un animale selvatico. Un bel giorno, giunse colà una navicella pisana, su cui era un signore chiamato Corrado dei marchesi Malaspina, con sua moglie. Essi, dopo essere andati in pellegrinaggio nei luoghi sacri del regno di Puglia, se ne tornavano a casa. Mentre i pisani esploravano l’isola, i cani di Corrado cominciarono ad inseguire i due caprioli che pascolavano, i quali ,fuggendo, si desiderio di denaro furono causa di tradimento da parte mia. Amai tua figlia e l’amerò sempre perché la stimo degna del mio amore e se mi comportai con lei poco onestamente, commisi quel peccato per l’ardore della giovinezza. Se i vecchi si ricordassero di essere stati giovani sarebbero più comprensivi. Quello che tu mi offri l’ho sempre desiderato e se potevo minimamente sperare, te lo avrei chiesto già da molto tempo. Ora che avevo perso ogni speranza, mi giunge ancora più gradito. Se non sei convinto non darmi false speranze e fammi ritornare in prigione. Sappi che qualsiasi cosa farai , amerò sempre la Spina e ti rispetterò sempre”. Corrado apprezzò molto quelle parole e stimò e tenne caro ancora di più il giovane, lo baciò e lo abbraccio. Fece venire la figlia che, in prigione, era diventata magra, pallida e debole, che quasi non si riconosceva più, e, alla sua presenza, i giovani si scambiarono la promessa di matrimonio. Senza dir nulla per molti giorni, sembrandogli il momento giusto per far felici le due madri, chiamò sua moglie e la “ Capriola” e disse alla donna che voleva farle riavere il suo figlio maggiore, che era il marito di una delle sue figlie. Poi, rivolto alla moglie, disse che voleva donarle un genero. Frattanto giunsero i giovani, elegantemente vestiti, e Corrado comunicò a Giuffredi che gli avrebbe fatto ritrovare la madre. L’incontro avvenne con grande festa, riconoscendo nel giovane i tratti fanciulleschi del figlio, senza parlare, madama Beritola lo abbracciò e ricadde, quasi morta tra le sue braccia. Il giovane ,stupito perché l’aveva vista tante volte in quella casa senza mai riconoscerla, pure conobbe l’odore materno e piangendo, teneramente, l’abbracciò. La “Capriola” ,riprese le forze con l’aiuto dei presenti, riabbracciò il figlio con molte lacrime e parole dolci. Dopo alcuni giorni dall’annuncio del matrimonio, Giuffredi chiese al signore di aiutarlo a ritrovare il fratello che era, come servo, in casa di Guasparino Doria, il quale aveva preso,insieme con la balia, dai corsari. Lo pregò, inoltre, di mandare in Sicilia qualcuno che si informasse delle condizioni del paese e chiedesse se Arrighetto ,suo padre era vivo o morto e, se era vivo, si adoprasse per farlo ritornare da loro. La richiesta piacque a Corrado che, immediatamente, si attivò. Mandò a Genova, da messer Guasparino, una persona che gli chiedesse la consegna dello Scacciato e della balia, narrandogli ciò che Corrado aveva fatto. Messer Guasparino, per maggiore sicurezza, interrogò la balia; la donna, che non aveva più paura, avendo saputo che la Sicilia si era ribellata e che Arrighetto era vivo, raccontò tutta la verità. Il signore ,confrontando le due storie, trovandole corrispondenti, da uomo astutissimo qual’era, si vergognò del modo meschino con cui aveva trattato il giovane , e, per farsi perdonare, poiché aveva una bella figlioletta di quasi undici anni, gliela diede in moglie con grande dote. Salito, poi, con la figlia, il giovane, la balia e l’ambasciatore su una nave ben armata, venne a Lerici ed andò al castello di Corrado ,dove era pronta una festa grande. Si può immaginare le gioia di tutti, quando si ritrovarono insieme. Perché la felicità fosse completa, Dominedio volle che giungessero notizie anche di Arrighetto. Infatti ritornò colui che era stato mandato in Sicilia e riferì che Arrighetto, tenuto prigioniero da re Carlo, quando era scoppiata la rivolta, era stato liberato dal popolo, che aveva assaltato le prigioni. Come nemico di re Carlo, era stato fatto capitano per inseguire ed uccidere i francesi. Per l’aiuto dato fu molto apprezzato da Pietro d’Aragona, che gli restituì i suoi beni e gli onori. L’ambasciatore aggiunse che era stato ricevuto con grande riguardo da Arrighetto, felicissimo di ricevere notizie della moglie e del figlio, di cui non aveva saputo più niente. Madama Beritola e Giuffredi non smettevano più di ringraziare Corrado e la moglie. Poi, rivolti a messer Guasparino, la cui disponibilità giungeva imprevista, si dissero certissimi che Arrighetto gli sarebbe stato molto grato per la generosità dimostrata verso lo Scacciato. Dopo di ciò ,lieti mangiarono e si godettero la festa, che continuò per molti giorni. Al termine, madama Beritola, Giuffredi e tutti gli altri, tra molte lacrime e abbracci, si imbarcarono e partirono. Col vento favorevole, rapidamente giunsero in Sicilia, dove furono accolti con indicibile gioia da Arrighetto. E in Sicilia vissero per molto tempo, riconoscenti a Dio per il beneficio ricevuto. SETTIMA NOVELLA (PANFILO) Il sultano di Babilonia Beminedab, per ringraziare il re del Garbo di averlo soccorso durante una battaglia, decise di dargli in sposa la sua bellissima figlia Alatiel. Per questo, la imbarcò insieme ad altre damigelle su una nave che partiva da Alessandria. Erano quasi giunte a termine del loro viaggio, quando dei forti venti spinsero la nave fuori rotta tanto da farla arenare vicino Maiorca. Alatiel, la mattina seguente fu fortunatamente aiutata da Pericon da Visalgo che, subito s’innamorò della bella fanciulla e la portò nel suo palazzo dove la fece ubriacare. E così trascorse con la giovine una felice nottata. Anche il fratello di Pericon, Marato, s’innamorò della ragazza. Essendo approdata sull’isola una nave di due fratelli genovesi, si accordò con loro per rapirla, uccidere il fratello e poi fuggire con la ragazza. Così accadde. Anche i due fratelli però s’innamorarono di Alatiel e, gettato Marato in mare, cominciarono a litigare violentemente e così combatterono fino alla morte di uno dei due. Alatiel e il genovese sopravissuto giunsero così a Chiarenza dove presto si sparse la notizia della bellezza della ragazza, tanto che il principe dell’Acaia la rapì e la portò nel suo palazzo. Anche il duca d’Atene volle vederla e se ne innamorò. Il principe però, non disposto a lasciare al duca la ragazza, si accordò con un certo Cuiriaci per uccidere il principe e rapire Alatiel. Soltanto due giorni dopo la fuga del duca e della ragazza ad Atene, fu ritrovato il corpo del principe insieme a quello di Cuiriaci. Fu così che il fratello del principe organizzò un piccolo esercito e dichiarò guerra al duca. Allora quest’ultimo chiese aiuto all’Imperatore di Costantinopoli, che inviò oltre al suo esercito i suoi figli: Costanzio e Manovello. Anche Costanzio si innamorò di Alatiel e, lasciato il campo di battaglia, fuggì con la ragazza su una piccola nave a Chios dove rimasero fintantoché la ragazza si innamorò di Costanzio. Ma Osbech, re dei Turchi, rapì Alatiel per sposarla. Saputo questo, l’Imperatore di Costantinopoli chiese aiuto al re della Cappadocia che uccise Osbech in battaglia. Alora Antioco, essendo stato raccomandato dall’amico Osbech, di proteggere Alatiel, fuggì con questa e un suo amico a Rodi. Lì però Antioco si ammalò e in punto di morte chiese al giovane di proteggere la sua donna. Trasferitisi a Cipro, Alatiel riconobbe Antigono di Famagosta, servo del sultano di Babilonia suo padre. Si accordò con questo per tornare in patria da suo padre al quale disse che dopo il naufragio in Provenza, era stata soccorsa da quattro cavalieri che l’avevano portata in un monastero di benedettine dove era rimasta per molto tempo fingendo di esser figlia di un mercante di Cipro per paura di essere cacciata a causa della sua religione. Alla fine però era riuscita ad aggregarsi ad un gruppo di pellegrini diretti a Gerusalemme e avendo fatto scalo a Baffa aveva incontrato Antigono e con lui era ritornata a Babilonia. Il sultano, udite queste parole, accolse felicemente la figlia e la fece sposare con il principe del Garbo come d’accordo inizialmente; la prima notte di nozze , Alatiel gli fece credere di essere ancora vergine. PARAFRASI Il Sultano di Babilonia manda una sua figliuola in sposa al re del Garbo (Marocco), la quale per molte avventure, in quattro anni ,passa attraverso luoghi diversi con nove uomini, infine, restituita al padre ,va in moglie al re del Garbo, come doveva avvenire fin dall’inizio. La donna , che non aveva nessuna esperienza, come si accorse che il pene dell’uomo, ingrossatosi a dismisura, premeva sulla sua vagina, si pentì di non aver accolto prima le lusinghe di Pericone,e, in seguito molte volte, non con le parole, che non si sapeva spiegare, ma con i fatti ,gli si offrì. Ma la fortuna, non contenta, ci mise lo zampino. Pericone aveva un fratello di venticinque anni, fresco e bello come una rosa, di nome Marato, che era molto attratto dalla donna. Il giovane ,credendo di essere da lei corrisposto, ritenne che l’unico ostacolo fosse la grande sorveglianza che le veniva fatta ed escogitò un piano scellerato. Era giunta nel porto una nave appartenente a due giovani genovesi, carica di mercanzie, che doveva andare a Chiarenza, in Romania, ed era già pronta a partire , con le vele issate. Marato si accordò con i naviganti per imbarcarsi nella notte seguente. Durante la notte si recò ,con alcuni compagni fidatissimi, nella camera dove Pericone dormiva con la donna. Uccisero Pericone nel sonno , catturarono la donna piangente e senza essere uditi da nessuno si imbarcarono. Inizialmente la donna pianse molto, ma Marato, con il suo fallo molto grosso, la consolò così bene che ella presto dimenticò Pericone. Ma era pronta per lei una nuova sventura. Vedendola così bella, i due giovani padroni della nave se ne innamorarono, senza che Marato minimamente lo sospettasse. Senza indugio, mentre era sul ponte, lo attaccarono alle spalle e lo buttarono in mare , senza che nessuno se ne accorgesse ; poi si impegnarono a confortare la donna , messa al corrente dell’incidente. Volendo ciascuno essere il primo a possederla, accesi dall’ira, vennero alle mani e si affrontarono ,armati di coltelli. L’uno cadde morto, l’altro fu ferito gravemente. Frattanto la nave approdò a Chiarenza , dove, con il ferito, Alatiel scese a terra e alloggiò in un albergo. La fama della sua bellezza giunse alle orecchie del principe di Morea, che si trovava in città, il quale, appena la vide, se ne innamorò perdutamente. I parenti del ferito, avutane richiesta, senza perder tempo, mandarono al principe la donna che aveva procurato loro tanti guai. Il principe, gradito molto il dono, la trattò come una regina, rispettandola come se fosse sua moglie. Ella, ripresasi dalle sventure, rasserenata dall’amore e dalle di lui attenzioni ,rifiorì, tanto che in tutta la Romania non c’era nessuna donna bella come lei. Il duca di Atene, amico e parente del principe, fu preso dal desiderio di vederla e giunse dopo un lungo viaggio, accompagnato da molti nobili, a Chiarenza. Elogiandone la bellezza, lo sventurato accompagnò l’amico nelle sale, dove la donna si tratteneva con il seguito. Anche se Alatiel non parlava la loro lingua era talmente bella che il duca, ritenendo l’altro straordinariamente fortunato, cadde nella rete e si innamorò perdutamente. Lasciando da parte ogni prudenza e giustizia, escogitò un piano per liberarsi del principe, con l’aiuto di un servitore fedelissimo del nobile rumeno di nome Ciuriaci, che aveva accesso alla camera dove dormiva con la donna. Una notte, per il molto caldo, il principe ,tutto nudo, stava alla finestra guardando il mare, godendosi un bel venticello. Ciuriaci, di nascosto, gli andò alle spalle, e, colpendolo ai reni, lo gettò dalla finestra. Siccome il palazzo era a picco sul mare, nessuno vide e sentì la caduta del corpo. Un compagno del duca ,fingendo di accarezzarlo, strangolò il servo infedele con una corda e buttò anche quel corpo dal dirupo. Sicuro di non essere stato visto né sentito da nessuno, il duca, con tutta calma, si recò nella camera della donna che dormiva nuda. La scoprì, potè ammirarla in tutto il suo splendore, poi si coricò e fece l’amore con lei, che, ancora assonnata credeva che si trattasse del principe. Dopo un certo tempo, la mise su un cavallo e ,per nasconderla, la portò in un luogo appartato sopra Atene. Intanto, in Romania, i cortigiani ,non vedendo più né il principe né il servitore cominciarono a cercarli. Un matto trovò il corpo di Ciuriaci attaccato alla fune e dette l’allarme. Tutti lo seguirono e scoprirono il cadavere del principe, lo seppellirono con molti onori e decisero di vendicarlo. Prepararono un grande esercito e dichiararono guerra al duca di Atene. Molti potenti signori mandarono aiuti militari, tra cui l’Imperatore di Costantinopoli ,che inviò il figlio, Costantino , e il nipote ,Manovello . I due furono ricevuti affettuosamente dalla duchessa ,che era loro sorella. Avvicinandosi il giorno della battaglia , la duchessa, chiamatili in disparte, raccontò loro che il duca l’aveva offesa tenendo con sé ,di nascosto, una donna , e promise una ricca ricompensa se l’avessero vendicata. I giovani la confortarono, promisero e partirono, dopo aver saputo da lei dove si trovava la donna. Avendo ,molte volte, sentito parlare della bellezza della donna chiesero al duca di vederla. Egli ,dimentico del passato, li invitò a desinare con lei in uno splendido giardino. Sedendo Costantino vicino a lei, considerandola come la cosa più bella che avesse mai veduto, tralasciando la guerra, si mise a pensare come poteva eliminare il duca. Frattanto il principe si avvicinava e il duca e Costantino ,con l’esercito, uscirono da Atene per bloccare il nemico alle frontiere. Costantino si finse malato e ,col permesso del duca, lasciato il comando a Manovello, ritornò ad Atene dalla sorella, alla quale promise di portar via ,lontano da Atene, la bella Alatiel, senza che il il marito lo sapesse. La duchessa ritenendo che il fratello facesse ciò per amor suo non della donna, assentì ben lieta. Raccomandò vivamente che tutto fosse fatto in gran segreto. Il giovane, armata una navicella sottile e veloce, la fece andare vicino alla dimora della donna; frattanto, ricevuto con i suoi compagni dalla dama, se ne andò con lei in giardino e, fingendo di portale notizie del duca , la spinse sulla barca. Ordinò ai presenti di tacere perché, in tal modo, non rubava la donna al duca ma vendicava l’offesa fatta alla sorella. Tutti tacquero e Costantino, salito sulla nave con la donna piangente, navigando a gran velocità, giunse ad Egina ( di fronte ad Atene). Qui giacque con la donna addolorata, poi, temendo i rimproveri del padre e che la donna gli fosse tolta, preferì andare a Chios ,per nascondersi in un luogo sicuro, dove la donna, riconfortata, cominciò a riprendere salute e gioia di vivere.Nel mentre Osbech , re dei Turchi, che era in continua guerra con l’Imperatore di Costantinopoli, udì che il giovane era a Chios ,dove conduceva una vita lasciva con una donna che aveva rubata. Di notte, su alcune navi leggiere, assaltò di sorpresa Chios, uccidendo molti soldati che dormivano ed altri che, sorpresi, cercavano di difendersi. Gli assalitori caricarono sulle navi il ricco bottino ed i prigionieri e ritornarono a Smirne. Osbech, che era un bell’uomo, tra i prigionieri trovò la bella donna, che era stata catturata mentre dormiva con Costantino, si rallegrò e, senza indugio, la fece sua sposa, giacendo lieto molti mesi con lei. L’Imperatore, informato di ciò che era accaduto al figlio, sollecitò Basano, re della Cappadocia, suo alleato, ad attaccare Osbech ,ed egli stesso si mosse col suo esercito, per attaccare il nemico su due fronti. Osbech ,per evitare di essere accerchiato, andò contro il re della Cappadocia, lasciando a Smirne la donna, affidata ad un amico di nome Antioco. Sconfitto ed ucciso il re di Cappadocia, Antioco, rimasto solo con lei, sebbene attempato , se ne innamorò. Anche Alatiel, che per molti anni era stata creduta sorda e muta, poiché Antioco conosceva la sua lingua, entrò in confidenza con lui e corrispose al suo amore. Temendo di essere assaliti, decisero di partire e, con le ricchezze di Osbech, di nascosto, se ne andarono a Rodi, dove ,dopo un certo tempo, Antioco si ammalò e morì. In punto di morte affidò la donna anche se a malincuore acconsentì e si separò dalla figlia, mentre con Perroto, così era stato rinominato il figlio, andò elemosinando in Galles. Lì, presso un maresciallo del re, assistevano agli allenamenti d’equitazione dei ragazzi. Un giorno il maresciallo, propose al conte di prender con sé Perotto e farlo crescere come suo erede. Allora il conte si trasferì in Irlanda presso un cavaliere e lì visse molto tempo servendolo come garzone. Nel frattempo Giacchetto, il figlio dei signori presso cui Giannetta lavorava, si innamorò perdutamente della fanciulla. Ma quando Giannetta raggiunse l’età giusta per sposarsi, la madre del ragazzo, non conoscendo i sentimenti del figlio, cominciò a darsi da fare per trovare un buon marito alla ragazza, al ché il figlio si ammalò. Nessun medico riusciva a capire ciò che causasse il malore del ragazzo, ma un giorno, mentre un medico tastava il polso dell’ammalato, Giannetta entrò nella stanza e subito i battiti del ragazzo aumentarono. Il medico intuì ciò di cui soffriva il ragazzo e lo raccontò alla madre, che, acconsentì alle nozze dei due ragazzi. Il che avvenne dopo poco tempo. In Galles, invece si abbatté una pestilenza e fortunatamente Perotto riuscì a salvarsi insieme con una contadina, ma il maresciallo e il resto della famiglia morì lasciando a lui tutti i possedimenti. Allora Perotto, innamoratosi della contadina la sposò e ottenne dal re il titolo di maresciallo. Passati 18 anni da quando si era trasferito in Irlanda, il conte decise di andare a vedere come stavano i figli. Andò prima in Galles dove, senza farsi riconoscere, scoprì la felice situazione del figlio Luigi poi, si recò a Londra dalla figlia, anche lì non facendosi riconoscere,dove scoprì che Violante aveva avuto dei bei bambini. Un giorno elemosinando davanti la loro casa fu accolto dentro per riscaldarsi e subito i figli di Giannetta lo abbracciarono e lo coccolarono pur non sapendo chi fosse veramente. Con la morte del vecchio re di Francia e l’ascesa del nuovo, la guerra tra le due potenze si inasprì a tal punto che il monarca francese dovette chiedere aiuto al re d’Inghilterra, il quale inviò in guerra i suoi marescialli. Dunque Perotto, Giacchetto e il conte che serviva il genero in qualità di scudiero furono costretti a partire. Mentre la guerra infuriava, la regina di Francia si ammalò e in punto di morte chiamò il vescovo per l’ultima confessione, al quale rivelò il crudele gesto che aveva compiuto contro il conte d’Anversa. Questa notizia giunse rapidamente al nuovo re che proclamò una grida nella quale si diceva che chiunque avesse riportato al cospetto del re il conte e i suoi figli, avrebbe avuto come ricompensa una grande somma di denaro. Saputo ciò il conte subito rivelò a Giannetto e Perotto la sua identità e disse a Giacchetto di portarlo dal re perché ricevesse la ricompensa come dote per la figlia. E così fu: Giacchetto ricevette il denaro e al conte furono restituite le proprie terre insieme ad altri doni. PARAFRASI Il conte di Anversa, falsamente accusato , va in esilio ; lascia due figli in luoghi diversi d’Inghilterra; ritornando in Inghilterra senza che nessuno lo conosca ,li ritrova in buone condizioni, va come garzone di stalla nell’esercito del re di Francia, riconosciuto innocente ritorna nelle condizioni di prima. Mentre le donne sospiravano per le vicende del racconto precedente, la regina diede ordine ad Elissa di proseguire ed ella incominciò dicendo che la fortuna determinava infinite situazioni, in cui gli uomini si dovevano muovere come in una giostra. Proseguì raccontando ,come esempio, una novella. Quando l’Impero Romano passò dalle mani dei francesi (carolingi) ai tedeschi (Ottone I di Sassonia), scoppiò una terribile guerra tra le due nazioni. Il re di Francia, con suo figlio, riunì un grandissimo esercito per attaccare i suoi nemici. Prima di partire, affidò il Regno a Gualtieri, conte di Anversa, gentiluomo saggio e fedele, che cominciò a governare consultandosi sempre con la regina e sua nuora. Egli aveva circa quarant’anni, aveva un corpo bellissimo ed era un cavaliere garbato ed elegante. Mentre il re ed il figlio erano in guerra , la moglie di Gualtieri morì lasciando un figlio ed una figlia senza di lei. La nuora del re , di nascosto, si accese d’amore per il conte ,scacciando la vergogna, decise di dichiararsi e fece chiamare l’uomo che ,senza alcun sospetto, andò da lei. La donna parlò a lungo della lontananza del marito, della sua giovinezza, degli ozi cui era costretta, per giustificare l’ardente amore che provava e lo scongiurò di assecondare, in segreto, i suoi desideri, piangendo disperatamente. Il conte ,che era un cavaliere molto leale, respinse le offerte. La donna, rifiutata, fu presa da un’ira violenta e decise di vendicarsi. Cominciando a gridare, si stracciò i vestiti, accusando l’uomo di aver tentato di violentarla. Il cavaliere, temendo che si potesse dare più credito alla malvagità della donna che alla sua innocenza ,uscì rapidamente dal palazzo, corse a casa sua, pose i figli a cavallo e fuggì, più rapidamente che potè, a Calais. Molti, accorsi alle grida della donna, credettero alle sue parole e corsero al palazzo del conte per arrestarlo, ma, non trovandolo, saccheggiarono e distrussero la casa fin dalle fondamenta. La notizia giunse al re e al figlio, che condannarono lo sventurato e promisero ricchi doni a chi l’avesse consegnato vivo o morto. Il conte, che, con la sua fuga, da innocente s’era fatto colpevole, vestito miseramente, di nascosto, con i figli giunse a Calais, e di lì si imbarcò per l’Inghilterra. Prima di sbarcare, raccomandò ai figli di non dire chi erano e da dove venivano, se avevano cara la vita. Il più grande si chiamava Luigi ed aveva nove anni, la più piccola Violante e ne aveva sette. Il padre cambiò i loro nomi in Perotto e Giannetta, poi, come si vedeva fare ai mendicanti francesi, vestiti miseramente, giunsero a Londra e si misero a chiedere l’elemosina. Per caso, una mattina, la moglie del maniscalco del re d’Inghilterra, uscendo dalla chiesa, vide il conte e i due figlioletti che mendicavano, si avvicinò e chiese chi erano e da dove venivano. Egli rispose che veniva dalla Picardia e che , per un misfatto del figlio maggiore, era dovuto partire con i figli più piccoli. La donna, commossa, si offrì di prendere con sé la bambina e di maritarla convenientemente, se si comportava bene. Il conte , piangendo, gliela affidò e , poco dopo, partì con Perotto verso il Galles dove fu accolto e nutrito da un altro maniscalco del re. Costui aveva dei figli con cui Perotto entrò in amicizia, su richiesta del funzionario, il fuggiasco gli affidò il figlio, anche se si dolse molto per la separazione. Avendo sistemato i figli, Gualtieri passò in Irlanda, a Straford, dove si pose a servizio di un conte del luogo, facendo i lavori più umili e lavorando senza tregua per molto tempo, senza essere riconosciuto da nessuno. Violante, chiamata Giannetta, crescendo a Londra con la gentildonna, divenne una bellissima fanciulla, di cui tutti dicevano un gran bene. La dama voleva sposarla onorevolmente ad un brav’uomo della condizione sociale a cui pensava che la fanciulla appartenesse. Ma Dio, consapevole della nobiltà della fanciulla, dispose diversamente ed impedì che la giovane finisse nelle mani di un uomo di condizione modesta. La gentildonna che ospitava Giannetta aveva un solo figlio ,molto amato, bello, gentile e valoroso, dotato, insomma, di tutte le virtù. Egli aveva sei anni in più della ragazza e se ne innamorò perdutamente. Non osava, però, chiederla per moglie al padre e alla madre, sapendo che era di umili origini, teneva, perciò, il suo amore nascosto. Ben presto il giovane, preso da mal d’amore, si ammalò. I molti medici consultati non riuscirono a comprendere l’origine dei suoi mali. I genitori, addolorati, chiedevano spesso al figlio, che sospirava continuamente, la ragione delle sue sofferenze. Un giorno, mentre un illustre medico stava tastando il polso del ragazzo, si avvicinò Giannetta, che serviva il giovane per rispetto alla Il precettore riferì la cosa al nonno paterno , che disprezzava Giannetta per la sua origine modesta e non amava i nipoti, ritenendoli poltroni, come la madre. Giachetto, vedendo l’affetto dimostrato dai figli a quel vecchio, lo invitò a rimanere al suo servizio, per attendere al suo cavallo ; finito il lavoro poteva giocare con i bambini. Frattanto, in Francia, morì il re di Francia e gli successe il figlio la cui moglie ,con le sue menzogne, aveva costretto il conte a fuggire. Costui riprese a combattere aspramente contro i tedeschi. Il re d’Inghilterra, come suo parente, mandò in aiuto molti uomini sotto il comando di Perotto, suo maniscalco e di Giachetto ,figlio dell’altro maniscalco. Al seguito di Giachetto partì anche il conte che seppe consigliare opportunamente il giovane. Durante la guerra la regina di Francia si ammalò gravemente e, sentendosi vicina alla morte, volle farsi confessare dall’arcivescovo di Rouen, ritenuto uomo santissimo e comprensivo. Tra i tanti peccati ,confessò anche il torto che aveva fatto al conte di Anversa , non soltanto alla presenza dell’arcivescovo ma davanti a molti uomini valenti, pregandoli di ritrovare il gentiluomo ed i figli per restituirli al loro rango. Poco dopo morì e fu sepolta con molti onori. Saputa la cosa, il re fece girare un avviso in tutto l’esercito e in molte altre parti, promettendo una lauta ricompensa a chi lo avesse ritrovato. Udendo ciò, il conte, chiamati il figlio e il genero, rivelò loro tutta la verità e propose di presentarsi al re per ricevere la ricompensa e rientrare nel proprio rango. Perotto, guardandolo con maggiore attenzione, riconobbe il padre e, piangendo, gli si gettò ai piedi. La stessa cosa fece Giachetto, chiedendo umilmente perdono per ogni offesa arrecatagli. Il gentiluomo ,benignamente, lo sollevò ed organizzò un piano per procacciarsi il dono che il re aveva promesso a chi gli portava il conte di Anversa. Giachetto si recò alla presenza del re e si offrì di consegnargli il conte e il figlio ,dopo aver ricevuta la ricompensa . Il re immediatamente fece portare un dono meraviglioso e chiese di mostrargli i due uomini. Giachetto, allora, voltatosi, gli mostrò il conte, che indossava ancora i miseri panni che aveva portato fino a quel momento, ed il suo ragazzo, anche se non poteva presentargli la figlia, che era divenuta sua moglie. Il re, dopo averlo guardato attentamente, riconobbe il conte ,anche se si era completamente trasformato, lo sollevò da terra, dove era in ginocchio, lo abbracciò e lo baciò. Ordinò ,poi, di dare al conte e a Perotto abiti, cavalli e tutto ciò che la loro nobiltà richiedeva. Fece molti doni anche a Giachetto che aveva accolto il conte e i suoi figliuoli. Gli raccomandò vivamente di dire a suo padre che il conte e i suoi figli erano parenti del re per parte di madre e non erano di umile origine. Giachetto prese i doni e fece venire a Parigi la moglie, la madre, la cognata; tutti furono accolti dal re con una Grande festa. Dopo che il conte fu riabilitato e gli furono restituiti i suoi beni, tutti se ne ritornarono a casa loro. Il conte rimase a Parigi, vivendo splendidamente fino alla sua morte. NONA NOVELLA (FILOMENA) A Parigi in una locanda vi erano molti mercanti italiani che discorrevano sui loro affari e sul fatto che, se avessero avuto l’occasione, non avrebbero esitato a tradire le proprie mogli con una “scappatella”, poiché essi ritenevano che anch’esse lo facessero. Soltanto uno, di nome Bernabò Lomellin da Genova non concordava su ciò: infatti, si fidava ciecamente ed era così innamorato di sua moglie Ginevra (Zinevra nel testo) che non l’avrebbe mai tradita e che lei avrebbe fatto altrettanto. Udendo questo, un altro mercante, Ambruogiuolo da Piacenza, volle dimostrare che, come tutte le donne, anche Ginevra era volubile, scommettendo con Bernabò che l’avrebbe sedotta in tre mesi e che gli avrebbe portato le prove di ciò che aveva fatto; la posta era 5000 fiorini d’oro se avrebbe vinto, altrimenti ne avrebbe dati 1000 a Bernabò. Fatto ciò, subito partì per Genova e trovò la casa della donna. Accordatosi con una domestica, si nascose in un baule e si fece portare nella stanza da letto di Ginevra. La notte, usciva dal baule, memorizzava la stanza, rubava alcuni anelli e vestiti della donna. Una sera, uscito come suo solito dal baule, scoprì Ginevra e notò che sotto la mammella sinistra aveva un neo un po’ grande con dei peli biondi intorno; essendo questo sufficiente per vincere la scommessa, la mattina seguente uscì dal baule e ritornò di corsa a Parigi, dove, raccontato ciò che aveva visto e mostrato a Bernabò ciò che aveva rubato, non gli rimase che intascare la posta. A quel punto al povero Bernabò non rimase che ritornare a Genova e, gonfio d’ira, stando da alcuni suoi parenti incaricare un suo amico di uccidere Ginevra per punirla così dell’adulterio che non aveva commesso. Secondo gli ordini di Bernabò, quello condusse Ginevra in un luogo isolato e stava per ucciderla ma sotto le preghiere della donna, gli raccontò l’accaduto e non la uccise; si fece però dare i suoi vestiti per portarli a Bernabò in modo da fargli credere che l’aveva uccisa. Ginevra subito fuggì da Genova, si travestì da maschio tagliandosi i capelli e schiacciando il seno e si imbarcò sulla nave del catalano En Cararh come marinaio, facendosi chiamare Sicuran de Finale. Ben presto riuscì ad accattivarsi il capitano ed ad avere incarichi più importanti. Un giorno la sua nave approdò ad Alessandria per consegnare un suo carico al sultano, al quale, piacendogli molto le capacità di Silurano, convinse En Cararh a lasciarglielo ai suoi ordini. Dopo poco tempo, a Silurano fu affidato il compito di vigilare durante i mercati tra cristiani e arabi in Acri; mentre perlustrava i mercati, notò che un mercante (Ambruogiuolo da Piacenza) aveva dei vestiti che le appartenevano, subito gli chiese come faceva ad averli; Ambruogiuolo rise e gli raccontò ciò che aveva già raccontato a Bernabò. Allora Silurano, fingendo di apprezzare quella storia, portò Ambruogiuolo affinché la raccontasse al sultano e fece anche convocare Bernabò, anch’egli lì per affari. Allora smascherò l’inganno del mercante facendolo minacciare dal sultano e rivelando la sua vera identità al marito e agli altri. Il sultano allora obbligò Ambruogiuolo a risarcire Bernabò e inoltre regalò alla coppia ritrovata ori, gioielli e molti 10000 denari: la coppia poté così ritornare a Genova. Ambruogiuolo fu invece cosparso di miele, legato ad un palo e lasciato nel deserto alla mercé degli insetti. PARAFRASI Bernabò da Genova, ingannato da Ambrogiuolo, perde i suoi averi e comanda che la moglie innocente sia uccisa; la donna si salva e vestita da uomo serve il Sultano : ritrova l’ingannatore, conduce Bernabò ad Alessandria, dove, punito l’ingannatore, ripresi gli abiti femminili, ritorna ricca a Genova con il marito. Avendo finito Elissa , dovevano raccontare solo Filomena ,la regina e Dioneo, al quale la regina aveva promesso che avrebbe raccontato per ultimo. Cominciò, dunque, Filomena dicendo che tra la gente del popolo era diffuso un proverbio che diceva che spesso l’ingannatore rimaneva ai piedi dell’ingannato. Ella col suo racconto voleva dimostrare la verità del proverbio che poteva essere utile a tutti. Si trovavano a Parigi alcuni ricchissimi mercanti italiani, ognuno per i suoi affari, che una sera cominciarono a parlare delle loro mogli, che avevano lasciate a casa. Uno, scherzando, disse che non sapeva che faceva sua moglie a casa, ma egli se si presentava una giovinetta, non se la lasciava scappare, separando il lato dell’amore da quello del piacere. Così discorrevano supponendo che anche le loro mogli ,lasciate a casa, si dessero da fare , senza perder tempo. Solo Bernabò Lomellin da Genova sostenne il contrario, dicendo che sua moglie, bella, Il servitore, avendone pietà, assecondò il piano, le dette il farsetto , il cappuccio , un po’ di soldi e, raccomandandole di fuggire, la lasciò ai piedi del vallone. Andò dal padrone e gli disse che l’aveva uccisa e aveva lasciato il corpo ai lupi. Bernabò a Genova fu molto biasimato per il fatto. La donna, rimasta sola, sconsolata, vestita da uomo, andò ad un villaggio lì vicino. Procuratasi da una vecchia quello che le serviva, accorciatosi il gilè, fattasi una camicia, tagliatisi i capelli, si trasformò in un marinaio e andò verso il mare. Qui si imbattè in un gentiluomo catalano di nome En Carach, che, sceso dalla nave, era andato ad Alba per rinfrescarsi ad una fontana. Il marinaio disse che si trovavano tra la Francia e la Liguria,di chiamarsi Sicurano da Finale (Ligure) e chiese di imbarcarsi . Il nobiluomo lo assunse al suo servizio e lo apprezzò molto per la grande laboriosità e devozione. Un bel giorno ,il catalano, con la sua nave, approdò ad Alessandria per commerciare, mostrò al Sultano alcuni falchi da caccia ammaestrati e glieli regalò. Il Sultano, non contento del dono, avendo apprezzato i modi di Sicurano ,chiese al mercante di lasciarglielo come servitore. Il giovane si fece molto stimare dal Sultano, come aveva fatto con il catalano. Frattanto, come ogni anno, si doveva organizzare in San Giovanni d’Acri (Siria), che era sotto il governo del Sultano, una importante fiera, con un gran raduno di mercanti sia saraceni che cristiani. Perché i mercanti e le loro mercanzie fossero al sicuro, il sovrano era solito mandare un esercito con un comandante e molte guardie a sorvegliare., scelse come comandante Sicurano. In Acri Sicurano, signore e capitano della guardia, fece molto bene il suo lavoro e conobbe molti mercanti della sua terra, andando in giro per la fiera. Un giorno, giunto davanti ad un magazzino veneziano, vide, tra le altre cose , una borsa ed una cintura che erano state sue. Si meravigliò e , senza darlo a vedere, chiese di chi erano e se il proprietario voleva venderle. Il negozio apparteneva ad Ambrogiuolo da Piacenza che, per caso, era venuto in fiera con le sue mercanzie su una nave veneziana. Sentita la richiesta, il mercante si mise a ridere e non volle vendere la borsa e la cintura. Raccontò che quelle cose, insieme con altre, gliele aveva donate una gentildonna di Genova, chiamata Ginevra, moglie di Bernabò Lomellino, una notte che era stato con lei, come pegno del suo amore. Continuava a ridere perché Bernabò, da stupido qual’era, aveva scommesso 5000 fiorini d’oro sull’onestà della donna, contro i suoi 1000 fiorini. Aggiunse, ancora, che Bernabò avrebbe dovuto punire sé stesso piuttosto che la donna, che aveva fatto quello che tutte le donne fanno. E concluse dicendo che aveva sentito che il mercante, ritornato a Genova, aveva fatto uccidere la moglie. Sicurano, sentendo ciò, comprese la ragione dell’ira del marito verso di lei e la causa del suo male e decise di vendicarsi. Finse,comunque, di divertirsi molto al racconto e diventò molto amico di Ambrogiuolo, tanto che, finita la fiera, lo fece andare con lui ad Alessandria, gli fece aprire un negozio e gli diede molti soldi suoi. Poi cercò in tutti i modi di far andare ad Alessandria Bernabò , che si era ridotto assai male, con alcuni mercanti genovesi e lo fece alloggiare presso dei suoi amici. Pregò, poi, il Sultano, al quale Ambrogiuolo aveva raccontato ,tra molte risate,la vicenda, di fare venire in sua presenza Ambrogiuolo e Bernabò, per farsi dire dal furfante, in presenza di Bernabò, la verità su ciò che era avvenuto con Ginevra e come aveva vinto i 5000 fiorini d’oro. L’imbroglione, minacciato severamente sia dal sultano che da Sicurano, fu costretto a raccontare come era andato veramente il fatto. Sicurano, allora, si rivolse a Bernabò e gli chiese che cosa aveva fatto alla sua donna per quella bugia., l’uomo rispose che l’aveva fatta uccidere da un suo servo e che era stata divorata dai lupi. Chiarita tutta la storia, Sicurano chiese al Sultano di voler punire l’ingannatore e perdonare l’ingannato, mentre lui avrebbe fatto venire alla presenza di tutti la donna. Il Sultano lo volle accontentare e gli ordinò di far venire la donna. Di fronte a Bernabò, che la credeva morta, e a Ambrogiuolo, che temeva il peggio, Sicurano, gettatosi ai piedi del Sultano, rivelò che era Ginevra e che sotto vesti maschili, per sette anni, era andata in giro miseramente, falsamente accusata da un traditore e mandata ad uccidere dal marito ,uomo crudele ed iniquo. Si stracciò i panni di dosso e mostrò il petto , affinchè fosse chiaro a tutti che era femmina e rivolta ad Ambrogiulo gli chiese quando mai era giaciuto con lei, come fino ad allora si era vantato. Il bugiardo ,riconoscendola, rimase muto per la vergogna. Il Sultano ,che l’aveva conosciuta come uomo, si meravigliò molto e lodò sommamente la virtù e l’onestà di Ginevra. Le fece indossare ricchi abiti femminili e fece venire molte donne che le tenessero compagnia. Perdonò Bernabò, come la donna aveva chiesto ed ella, sebbene non ne fosse degno, l’abbracciò teneramente. Il sovrano comandò ,poi, che Ambrogiuolo fosse legato ad un palo, al sole, unto di miele e lì rimanesse fino alla morte. E così fu fatto. Comandò, ancora, che fosse donato a Ginevra tutto ciò che era appartenuto al condannato, del valore di diecimila doppie. Per onorare quella donna molto valorosa fece preparare una grande festa e le donò gioielli e vasi d’oro e d’argento ,del valore di altre diecimila doppie. Infine, data loro una nave, fece tornare marito e moglie a Genova, ricchissimi e felici. A Genova, Ginevra ,creduta morta, fu accolta con grandi onori. Ambrogiuolo ,nello stesso giorno, fu legato al palo e unto di miele e non solo fu ucciso ma fu divorato fino alle ossa da mosche, vespe e tafani. Le sue ossa bianche rimasero lì per molto tempo a testimonianza della sua malvagità . E così “ l’ingannatore rimase ai piedi dell’ingannato”. DECIMA NOVELLA (DIONEO) Un giudice pisano di nome Ricciardo di Chinzica, era uomo fisicamente gracile. Piuttosto ricco di famiglia, volle sposarsi una donna molto giovane e bella di nome Bartolomea Gualandi. La festa nuziale fu fastosa, ma già dall'inizio questo marito mostrò scarsa propensione a frequentare la moglie. Il giudice, allora, sentendosi a disagio, cominciò a spiegare alla moglie come certi giorni del calendario vietassero le intimità coniugali; ad essi aggiungeva i giorni di digiuno, le vigilie di apostoli e altri santi; i venerdì, i sabati e la domenica, tutta quanta la quaresima e persino i giorni in cui la luna occupava determinate posizioni. Tutto questo rattristava la sposa, che era anche attentamente sorvegliata dal marito, il quale temeva che qualche altro uomo le insegnasse un calendario senza tutte quelle feste. Ora, un giorno estivo di grande calura, il giudice Ricciardo organizzò una bella gita di pesca; su una barca salirono Ricciardo e i pescatori, mentre sopra un'altra si sistemarono alcune donne assieme alla giovane Bartolomea. Nell'entusiasmo per la pesca si allontanarono un po' troppo dalla riva e furono sorpresi dalla nave corsara di Paganino da Mare che, bloccata la barca dove erano le donne, e, notata la bella Bartolomea, la sequestrò sotto gli occhi di messer Ricciardo che non poté far nulla per evitare la cattura della moglie. Tornato a Pisa il giudice si diede molto da fare per avere notizie della moglie scomparsa, ma nulla. Costei, nel frattempo, era stata portata afflitta e piangente fino a Monaco, sulla Costa Azzurra, che era appunto la sede dei pirati. Paganino, intanto, cercava di consolarla e tanto bene vi riuscì che la sera stessa Bartolomea dimenticò il giudice e le sue leggi e cominciò a vivere lietamente con Paganino il pirata. Dopo qualche tempo messer Ricciardo venne finalmente a sapere dove si trovava la moglie e, imbarcatosi, raggiunse Monaco nella ferma speranza di poter riavere la moglie, pagando anche un costosissimo riscatto. Incontratosi con Paganino, barchette, su una stava lui con i pescatori, su l’altra la moglie con le donne. Senza accorgersene giunsero fino al mare, dove si trovava un galeotto (nave) del famoso corsaro Paganin da Mare. Il corsaro, avvistatele, si diresse verso le barche, raggiungendo quella su cui si trovava la donna. Paganin, vedendo la bella donna la pose sulla sua nave e andò via, mentre la barca di Ricciardo giungeva a riva. Il giudice si lagnò della malvagità dei corsari senza sapere chi gli aveva rubato la moglie e dove l’aveva portata. Frattanto ,Paganino , vedendo la donna così bella e non avendo moglie, pensò di tenersi costei. Venuta la notte, cominciò a consolarla con i fatti , oltre che con le parole, e così bene la consolò che prima che giungessero a Monaco, ella dimenticò il calendario, il giudice e le sue leggi e cominciò a vivere molto felicemente con il corsaro, che, condottala a Monaco, onoratamente la teneva come moglie. Dopo un certo tempo, Ricciardo, avendo saputo dove era la moglie, desideroso di riaverla con sé, decise di andare a Monaco da Paganino , per offrirgli quanti danari volesse per riscattare la moglie. Incontratosi con il corsaro, con cui in poco tempo venne in grande amicizia, gli spiegò la ragione della sua venuta e gli offrì tutto il denaro che voleva per riscattare la moglie. Paganino, sorridendo, rispose che aveva una giovane in casa, ma non sapeva se era la moglie, che l’avrebbe condotto da lei. Se veramente era così come Ricciardo diceva e la donna voleva ritornare con il marito ,l’avrebbe lasciata andare, con il riscatto che il signore voleva pagare. In caso contrario, il giudice avrebbe lasciato la donna al corsaro, che era giovane e l’amava. Ricciardo, sicuro di sé, accettò, precisando che come la moglie l’avesse riconosciuto, gli avrebbe buttato le braccia al collo. Andati, dunque, a casa sua, Paganino fece chiamare Bartolomea, che venne, vestita con molta cura, e riservò a Ricciardo la stessa accoglienza che avrebbe riservato ad un altro forestiero che fosse venuto in casa sua. Il marito, ritenendo che il dolore e la tristezza lo avessero talmente trasformato da renderlo irriconoscibile agli occhi della moglie, tentò, in tutti i modi, di farsi riconoscere. Ma la donna insistette sostenendo di essere stata scambiata per un’altra, perché non ricordava di averlo mai visto. Riccardo, pensando che ella così dicesse per paura di Paganino, chiese di essere lasciato solo con lei, promettendo che non avrebbe tentato di baciarla contro la sua volontà. Rimasti soli, come si misero a sedere, l’uomo tentò nuovamente di farsi riconoscere. La donna incominciò a ridere e senza mai smettere, disse “ Sapete bene che non sono così smemorata da non riconoscere che siete Ricciardo di Chinzica, mio marito, ma voi, mentre stetti con voi, dimostrate di conoscere assai male me. Infatti, se foste stato saggio, avreste dovuto sapere che io ero giovane e forte e che, altre al vestire e al mangiare, avevo diritto a quelle cose che non si dicono per vergogna, cose che voi sapete bene come le facevate. Se preferivate più lo studio delle leggi che la moglie, non dovevate sposarvi. Anche se, in verità, sembravate più un banditore di feste, di sagre, di digiuni e di vigilie. Se foste stato un contadino, come quelli che coltivano le vostre terre, tra tutte le giornate festive ,non avreste raccolto nemmeno un granello di grano. Per caso ho incontrato quest’uomo che non conosce quelle feste che conoscete voi, più devoto a Dio che ai desideri delle donne.. In questa stanza non entrò né sabato, né venerdì, né quaresima, anzi si lavora sempre di notte e di giorno, senza riposarsi mai. Per questo resterò qui a lavorare mentre sono giovane e le feste, i perdoni, i digiuni li conserverò per quando sarò vecchia. Voi ,con tanti auguri di buona fortuna ,andatevene e, senza di me, celebrate tutte le feste che volete”. Ricciardo, udendo queste parole, biasimò il comportamento della donna che preferiva rimanere con il corsaro, come concubina, piuttosto che come sua moglie , con onore, a Pisa, e la scongiurò di ritornare a casa con lui. La donna, prontamente, rispose che non si preoccupava dell’onore suo e dei suoi parenti, che l’avevano data in sposa a lui, di cui si conosceva la scarsa virilità. Era ormai troppo tardi, ella si sentiva più moglie di Paganino, che tutta la notte la teneva abbracciata, la stringeva e la mordeva, che sua. Lo invitò, infine, a ritornare a Pisa e a curarsi perché lo vedeva triste e malaticcio (tisicuccio) e aggiunse che se anche il suo uomo l’avesse lasciata, mai più sarebbe ritornata a Pisa, ma avrebbe cercato altrove il suo interesse. Ripetendogli che con il corsaro non vi erano né feste ,né vigilie e che lì voleva restare, lo minacciò che se non se ne fosse andato immediatamente, avrebbe gridato che la stava molestando. Messer Ricciardo, vedendosi a mal partito e conoscendo la follia della moglie, uscì moggio moggio dalla camera, e, inventando un sacco di scuse, si congedò da Paganino e ritornò a Pisa. Per il dolore impazzì e a chiunque lo salutava rispondeva “ il mal foro non vuole feste” e poco dopo morì. Paganino come seppe la notizia, sposò la donna che lo amava e continuò la sua vita, felicemente, senza guardare mai a feste, vigilie e quaresime. Perciò Dioneo concluse dicendo che ser Bernabò discutendo con Ambrogiuolo faceva male i fatti suoi. IV GIORNATA 4.1 TANCREDI E GHISMUNDA Nella novella che apre la quarta giornata, dedicata agli amori infelici, Fiammetta narra della triste vicenda di Ghismunda, figlia del principe di Salerno che, rimasta vedova e non ottenendo un nuovo marito dal padre, intreccia una relazione con un valletto di nome Guiscardo, escogitando un accorto sistema per i loro convegni amorosi. Tancredi, il padre della donna, scopre fortuitamente la tresca e fa imprigionare Guiscardo, ordinando poi di metterlo a morte, e la figlia, dopo aver rivendicato con fierezza il suo diritto a soddisfare i propri desideri amorosi, si uccide per il dolore della perdita del suo innamorato. Il racconto è uno dei più retoricamente elevati del "Decameron" e mette bene in luce la novità della visione da parte di Boccaccio della tematica amorosa, con l'affermare che la ricerca del piacere non è affatto un tabù e reprimerla può anzi causare gravi conseguenze, come nel caso della protagonista. Pur rifacendosi ai motivi della letteratura cortese, l'autore rielabora il "topos" dell'amore adultero e dimostra tutta la modernità della sua concezione laica della vita, segnando una distanza incolmabile rispetto alla tradizione precedente. PARAFRASI: Tancredi ,principe di Salerno, uccide l’amante della figlia e le manda il cuore in una coppa d’oro; messa sul cuore dell’acqua avvelenata, la figlia beve dalla coppa e muore. Fiammetta considerò che il compito della quarta giornata di narrare storie di amori infelici, che facevano compassione a chi li ascoltava, era stato voluto per temperare la letizia dei giorni passati. Ella avrebbe raccontato una storia triste ,degna delle lacrime dei presenti. Tancredi, il giovane si giustificò incolpando Amore, che poteva più del principe e di sé stesso. Fu ,immediatamente ,imprigionato. Come al solito, dopo pranzo, il padre si recò nella camera della figlia, ignara di tutto. Piangendo egli la rimproverò aspramente perché si era unita ad un uomo senza averlo sposato, per di più aveva scelto un uomo di umilissime origini che era stato accolto per carità da bambino alla sua corte. Le disse ,ancora, che aveva deciso quale punizione dare a Guiscardo , che aveva fatto catturare la sera prima, mentre usciva dalla grotta, ma non sapeva che cosa fare con lei. Era sua figlia ,l’aveva sempre amata più di ogni cosa al mondo ed era sdegnato per la sua follia. Da un lato avrebbe voluto perdonarla, dall’altro punirla crudelmente. Ma prima di decidere le chiese cosa aveva da dire a sua discolpa.Ghismonda udendo il padre , comprendendo che il suo amore segreto era stato scoperto e che Guiscardo era stato catturato, provò un dolore immenso. Non ricorse alle lacrime per impietosire il padre, ma, con animo fiero, decise di non vivere più, ritenendo che il suo Guiscardo fosse morto. Quindi , non come una femmina piangente, ma come una donna orgogliosa confessò al padre tutto l’amore che aveva provato e che continuava a provare per il giovane e che avrebbe provato anche dopo la morte. Accusò ,poi, Tancredi di essere stato poco sollecito a maritarla, dimenticando che era fatta di carne e non di pietra o di ferro. Egli ,essendo vecchio, aveva dimenticato quanto fossero forti le leggi della gioventù. Gli rimproverò aspramente di aver trascurato il fatto che ella era ancora giovane, fatta di carne ,e, che essendo stata sposata, aveva già conosciuto il piacere del sesso. E continuò dicendo che non aveva potuto resistere al richiamo dell’amore e si era innamorata del giovane valletto, pur avendo tentato in tutti i modi di evitarlo per non recare vergogna a sé stessa e al padre. Aveva scelto Guiscardo non per caso ma per amore. Il giovane, sebbene fosse di umili origini, era nobile per costumi e per indole. Aggiunse che se il principe avesse giudicato senza animosità, l’avrebbe ritenuto nobilissimo a differenza dei suoi nobili, tutti villani. Infine Ghismonda supplicò il padre di usare la sua crudeltà senile contro di lei, e, se aveva intenzione di punire con la morte il giovane, di uccidere anche lei con lo stesso colpo. Tancredi prese atto della grandezza d’animo della figlia, ma non credette nella sua determinazione. Per raffreddare l’ardente amore della donna, allontanatosi da lei, ordinò ai due sorveglianti di strangolare Guiscardo la notte seguente, di strappargli il cuore e di portarglielo. I due così fecero. Il giorno seguente il principe si fece portare una bella coppa d’oro, vi mise il cuore di Guiscardo e lo mandò alla figlia come consolazione. Frattanto Ghismunda, decisa ad attuare il suo proponimento, quando il padre si allontanò si fece portare delle erbe e delle radici velenose e le mise a macerare nell’acqua per tenerle pronte in caso di bisogno. Appena scoperchiata la coppa portatale dal servo, capì che si trattava del cuore dell’amato. Lo avvicinò alla bocca e lo baciò, provando ancora più forte l’amore che aveva per il giovane. Rivolse al cuore, guardandolo, tenerissime parole d’amore, maledicendo la malvagità del padre che le aveva mandato un dono così crudele. Promise che la sua anima si sarebbe presto ricongiunta all’anima del giovane. Così detto cominciò a piangere sul morto cuore come una fontana, baciandolo infinite volte. Le damigelle ,non comprendendo le sue parole, cercarono inutilmente di consolarla. Dopo aver pianto per molto tempo, alzato il capo e asciugatisi gli occhi, disse “ O mio amato cuore ,ora non mi resta nient’altro da fare che venire con la mia anima a fare compagnia alla tua”. Ciò detto si fece portare la brocca, dove era l’intruglio che prima aveva preparato, lo versò nella coppa dove era il cuore. Senza paura vi pose la bocca e bevve il veleno. Poi, con la coppa in mano, si pose sul letto, accostando il suo cuore a quello dell’amante e attese la morte. Tancredi, temendo quello che poteva succedere, scese nella camera della figlia e si mise accanto al letto. Resosi conto della sventura, cominciò a piangere. La figlia aspramente gli disse che non doveva piangere per lei, che non desiderava quelle lacrime. Se, comunque, provava ancora un po’ di affetto per lei, poiché non aveva voluto che vivesse di nascosto con Guiscardo ,gli chiese di seppellire il suo corpo accanto a quello dell’amante in un posto dove tutti potessero vederlo. Poco dopo morì. Così ebbe tragica fine l’amore di Guiscardo e di Ghismunda. Tancredi, pentito, ahimè tardi, della sua crudeltà, con grande dolore di tutti i salernitani, onorevolmente fece seppellire i due giovani in una stessa tomba. COMMENTO: Il tema al centro di questa novella, tra le più stilisticamente elevate del Decameron, è l'amore sensuale, che non solo non viene condannato dall'autore ma anzi celebrato come qualcosa di assolutamente naturale che è impossibile cercare di reprimere: Boccaccio riprende quanto già dichiarato nella sua "autodifesa" nell'Introduzione a questa stessa giornata e sceglie di aprirla con una novella che narra di un amore adultero, per di più tra una nobildonna (Ghismunda, figlia del principe di Salerno) e un modesto valletto, destinato a finire tragicamente. La tresca tra la donna e Guiscardo si ricollega in parte agli amori furtivi della letteratura cortese, con l'importante differenza che qui l'uomo non è un nobile cavaliere e la soddisfazione dei desideri carnali non è il punto di arrivo, bensì la causa scatenante della relazione tra i due. Altrettanto significativo che a rivendicare il diritto di perseguire il proprio piacere e di essere felice in amore è Ghismunda, che affronta il padre con un discorso che è un piccolo capolavoro di retorica ed esprime senza dubbio il punto di vista dell'autore in materia di relazioni amorose. Ghismunda è la protagonista assoluta della novella e la donna si presenta come una vera "eroina", che in parte riprende stereotipi già presenti nella tradizione precedente: è una donna di bell'aspetto, nobile, colta (lo si deduce dalla ricercatezza stilistica del suo discorso al padre), rivendica con fierezza il suo diritto ad avere una propria vita sessuale che Tancredi le nega non consentendole di risposarsi, inoltre afferma con orgoglio che la distinzione tra nobili e non nobili riguarda esclusivamente la virtù e non la nascita o le ricchezze, rifacendosi all'analogo motivo dello Stilnovo. Da un lato Ghismunda può ricordare alcune protagoniste dei romanzi cortesi (Ginevra, Isotta la Bionda...), dall'altro la sua figura sembra riproporre quella di Francesca incontrata da Dante tra i lussuriosi in Inf., V, in quanto anche lei era nobile e appassionata lettrice di letteratura cortese e come Ghismunda intrecciava una relazione adultera col cognato Paolo, destinata anch'essa a una fine tragica (► TESTO: Paolo e Francesca). La differenza sta nel fatto che Dante condannava tale relazione e la letteratura che l'aveva in certo modo suscitata, mentre eventi - viene ancor oggi ricordato in una struggente canzone, che ricorda il furto della pianta. L’amore e il dramma di Lisabetta Con questa novella Boccaccio difende la forza del sentimento amoroso, che, espressione di un istinto naturale e irrefrenabile, non deve essere assolutamente represso, tantomeno per motivazioni economiche o di gerarchie sociali. Il tema è in sintonia con quanto l'autore afferma nell'importantissima Introduzione alla quarta giornata dove, spezzando il meccanismo narrativo della "cornice", Boccaccio specifica e precisa la propria posizione in merito: l'amore è pulsione naturale e spontanea dell'uomo e della donna, e non dovrebbe per nessuna ragione essere impedito, in quanto le forze dell'istinto sono superiori a quelle della società o della morale. Le conseguenze drammatiche dell'opposizione ad un amore spontaneo e sincero sono messe in luce sin dalla caratterizzazione dei personaggi principali della novella; i fratelli, dominati solo dalla logica della "mercatura" e dalla necessità di conservare il buon nome della famiglia, considerano Lisabetta alla stregua di un oggetto, da portare ad un matrimonio utile e conveniente. All'opposto, Lorenzo si qualifica, nella breve descrizione che gli viene concessa, come un giovane "assai bello della persona e leggiadro molto": le virtù fisiche e il suo bell'aspetto si impongono rispetto alla sua umile origine. Tuttavia, è Lisabetta il personaggio su cui Boccaccio si concentra con più attenzione: giovane donna succube della famiglia, è condannata per tutta la durata della vicenda (a parte i momenti felici con Lorenzo) ad una condizione di minorità. Quando l'amante le viene sottratto con l'inganno e la violenza, non può che trasferire nevroticamente i propri sentimenti sul basilico, nutrito dalla testa dell'innamorato. Assai significativo che i pensieri e i sentimenti di Lisabetta non si manifestino quasi mai per via verbale, con sue frasi o espressioni dirette; piuttosto, Lisabetta è un personaggio che si esprime attraverso gesti silenziosi, su tutti le lacrime che, alla fine, la conducono ad una morte tragica. PARAFRASI: Nella quarta giornata, “sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine”. Tema della Quarta giornata è quindi quello degli amori infelici, conclusisi tragicamente. La novella racconta la storia di Lisabetta (Elisabetta), innamorata del giovane Lorenzo, che viene ucciso dai fratelli di lei, per proteggere l’onore della famiglia. La relazione con Lorenzo, che è il loro garzone, sarebbe, infatti, motivo di scandalo. Il giovane appare in sogno alla ragazza e… Quarta Giornata – Novella Quinta I fratelli di Lisabetta uccidono il suo amante; lui le appare in sogno e le mostra dov’è sotterrato. Lei di nascosto ne dissotterra la testa e la mette in un vaso di basilico; ogni giorno piange a lungo su di essa, ma i fratelli gliela portano via, e lei muore poco dopo di dolore. Vivevano a Messina tre giovani fratelli mercanti, molto ricchi dopo la morte del padre, originario di San Gimignano. Essi avevano una sorella di nome Isabella, una giovane molto bella e virtuosa, che per una qualche ragione non avevano ancora fatto sposare. C’era poi un giovane pisano, chiamato Lorenzo, che amministrava i loro affari, molto bello d’aspetto e gentile, che cominciò a piacere molto a Isabella, che più volte l’aveva notato. Lorenzo se ne accorse più volte, così, abbandonati i suoi amoreggiamenti, si dedicò completamente a lei. Fu così che, piacendosi molto reciprocamente, non passò molto tempo prima che, con cautela, cominciassero a fare l’amore. Per un po’ le cose andarono bene e poterono trascorrere molti bei momenti piacevoli insieme. Tuttavia non furono abbastanza prudenti, così una notte il maggiore dei fratelli di Lisabetta la vide recarsi dove Lorenzo dormiva, senza che lei se ne accorgesse. Il giovane, benché la cosa lo irritasse molto, ritenne che fosse più opportuno per il momento non dire e non fare nulla, meditando però sulla cosa e aspettando fino alla mattina seguente. Il giorno dopo raccontò ai fratelli quel che aveva visto a proposito di Lisabetta e di Lorenzo. Assieme a loro, dopo lunga discussione, decise di tacere e far finta di nulla, per non disonorare se stessi e la loro sorella, fino a quando non si presentasse l’occasione per lavare l’onta senza danni e senza vergogna. Fermi in questa loro decisione, un giorno scherzando e ridendo con Lorenzo, com’erano abituati, lo condussero con sé fuori città, dove gli dissero di volersi recare per divertirsi, tutti e tre. Giunti in un luogo isolato, alla prima occasione propizia uccisero Lorenzo, che nulla sospettava, e lo seppellirono, in modo che nessuno se ne accorgesse. Tornati a Messina dissero d’averlo inviato in un certo luogo per affari, cosa che fu senza problemi creduta, dato che era capitato frequentemente. Poiché Lorenzo non tornava, Lisabetta chiedeva spesso con ansia ai fratelli sue notizie, perché quest’assenza così prolungata la angosciava. Così un giorno, quando lei chiese con insistenza notizie di Lorenzo, uno dei fratelli le rispose: – Che cosa significa questo? Che cos’hai tu a che fare con Lorenzo, che ne chiedi notizie così spesso? Non permetterti più di chiedere se non vuoi la risposta che ti meriti. Così la giovane, triste e addolorata, preoccupata pur non sapendo di che cosa, non osava più chiedere. Spesso la notte lo chiamava e pregava che tornasse, piangeva continuamente, si lamentava della sua prolungata assenza e, inconsolabile, sempre lo aspettava. Una notte, dopo aver pianto a lungo perché non tornava ed essendosi infine addormentata sempre piangendo, Lorenzo le apparve in sogno, pallido e sconvolto, con i panni tutti strappati e fradici addosso. Le parve che egli le dicesse: – O Lisabetta, non fai altro che chiamarmi e ti rattristi per il mio lungo ritardo, e con le tue lacrime duramente mi accusi. Perciò sappi che io non posso più tornare, perché l’ultimo giorno che mi hai visto i tuoi fratelli mi hanno assassinato. Poi le descrisse il luogo dove l’avevano sotterrato e le disse che non doveva più invocarlo né aspettarlo e scomparve. La giovane si svegliò e, credendo alla visione, pianse amaramente. La mattina seguente, non avendo il coraggio di dir nulla ai fratelli, decise di recarsi nel luogo indicatole per vedere se fosse vero quel che le era apparso nel sogno. Ottenuto dai fratelli il permesso di andare a passeggiare fuori città, in compagnia di una donna che era stata al loro servizio e che conosceva la sua storia, si recò il più velocemente possibile là. Tolte le foglie secche che vi si trovavano, scavò nel punto in cui la terra le sembrò meno dura, e non scavò a lungo prima di trovare il corpo del suo povero amante ancora integro. Così comprese che la visione era veritiera. Pur trafitta dal dolore più di ogni altra donna, tuttavia non indugiò nel pianto. Se avesse potuto avrebbe portato con sé il corpo del suo amato per dargli più degna sepoltura, ma si rese conto che non era possibile. Così gli staccò la testa dal busto con un coltello, meglio che poté, la avvolse in un panno e la mise in grembo alla donna, dopo aver gettato la terra sopra il corpo, infine partì e tornò a casa senza essere vista da nessuno. Qui si chiuse in camera sua con la testa, pianse amaramente e a lungo su di essa, tanto che con le sue lacrime la lavò, e le diede mille chiusi, uno contenente terra, l’altro oro, il re lo esorta a scergliene uno come suo dono, e questi sceglie il forziere con la terra. Il re spiega, quindi, a Ruggieri che non aveva ricevuto doni a causa della sua stessa fortuna avversa. Ma il re, riconosciuto comunque il suo valore, decide di donargli il forziere con l’oro, proprio ciò che la sua stessa fortuna gli aveva negato. E Ruggiero, ringraziato il re per tanta magnificenza, se ne torna lieto in Toscana. PARAFRASI DECIMA GIORNATA – NOVELLA N.1 Un cavaliere è al servizio del re di Spagna, gli sembra di essere mal ricompensato, ; il re con grande sicurezza gli mostra che non è stata colpa sua, ma della malvagia fortuna del cavaliere, donandogli poi molto generosamente. Neifile ringraziò il re perché l’aveva invitata a narrare per prima di atti di magnificenza, la quale, come il sole dà al cielo bellezza e ornamento, così dà luce ad ogni altra virtù. Aggiunse che avrebbe raccontato una novella assai leggiadra, che sarebbe stato utile ricordare. Un tempo in Firenze, tra tanti valorosi cavalieri, ve ne era uno, forse il migliore, di nome messer Ruggieri de’ Figiovanni, il quale era ricco e nobile di animo. Egli, considerata la qualità del vivere e dei costumi del suo tempo in Toscana, vedendo che se fosse rimasto lì il suo valore non sarebbe mai stato apprezzato, decise di andarsene per un certo tempo al servizio di Alfonso, re di Spagna. La fama del valore del re superava quella di tutti gli altri signori di quel tempo. Se ne andò, dunque in Ispagna, fornito onorevolmente di armi, cavalli e servitù ,e fu ricevuto cortesemente dal re. Dimorando colà messer Ruggieri, vivendo splendidamente e facendo imprese d’armi meravigliose, si fece presto conoscere come uomo valoroso. Vivendo in Spagna per un buon periodo, osservando le maniere del re, si accorse che il sovrano donava castelli, città e baronie ora all’uno, ora all’altro con poco discernimento, dandoli a chi non valeva nulla. A lui , che ben conosceva il proprio valore, non aveva donato nulla. Ritenne che ciò sminuisse la sua fama, perciò decise di partire e domandò commiato al re. Il re glielo concesse e gli donò, perché la cavalcasse, un’ottima mula, la più bella che aveva, la quale fu molto utile al cavaliere, dato il lungo cammino che doveva fare. Il re ordinò, poi, ad un suo servitore di accompagnare messer Ranieri, con discrezione, come se non fosse stato mandato dal sovrano , con l’incarico di farlo parlare e di riferigli poi tutto quello che il giovane aveva detto di lui durante il viaggio. Gli ordinò, ancora, di far ritornare indietro messer Ranieri il giorno dopo. Il servitore, con molta prudenza, come il cavaliere si mise in viaggio, gli si affiancò, facendogli credere che andava verso l’Italia. Cavalcarono insieme, messer Ruggieri sulla mula donatagli dal re , e l’altro, parlando del più e del meno. Quasi alla terza ora (alle nove circa) messer Ruggieri decise di dare riposo alle bestie. Entrati in una stalla, tutte le bestie, ad eccezione della mula, defecarono. Proseguendo il cammino, giunsero ad un fiume. Qui, mentre abbeveravano le loro bestie, la mula defecò nel fiume. Vedendo ciò messer Ruggieri disse “ Che Dio ti punisca, bestia, ché tu sei fatta come il signore che a me ti donò”. Il servitore raccolse quelle parole,e, in tutta la giornata, udì soltanto parole di somma lode in favore del re. La mattina dopo, mentre stavano per partire verso la Toscana, il servitore riferì al cavaliere il comando del re e Ruggieri immediatamente ritornò indietro. Il re seppe subito quello che egli aveva detto alla mula, lo fece chiamare e gli chiese perché aveva paragonato lui alla mula o meglio la mula a lui. Il giovane, con sincerità, gli disse “ Signor mio, io la paragonai a voi perché come voi donate dove non dovreste e non date dove dovreste, così ella non defecò dove era opportuno e, invece, defecò dove non era opportuno”. Allora il re rispose “ Messer Ruggieri ,il non avervi donato, come ho donato a molti che a paragone di voi non valgono niente, non è stato dovuto al fatto che non abbia stimato voi valorosissimo cavaliere e degno di grandi doni . La colpa è stata della vostra fortuna che non me lo ha permesso. E’ stata lei a peccare, non io. Adesso vi dimostrerò che dico la verità”. A lui Ruggieri rispose “ Signor mio, non mi turbo perché non ho ricevuto da voi alcun dono perché non ne avevo bisogno, essendo già molto ricco. Ma sono addolorato perché non ho avuto da voi alcun riconoscimento del mio valore. Accetto la vostra giustificazione e sono pronto a vedere ciò che volete fare, sebbene credo che non ce ne sia bisogno”. Il re lo condusse, dunque, in una grande sala, dove erano due forzieri serrati e, alla presenza di molti, gli disse “ Messer Ruggieri, in uno di questi forzieri vi è una corona, lo scettro ,il pomo reale e tutti i miei gioielli, l’altro è pieno di terra. Prendetene uno, quello che avrete preso sarà vostro .Potrete vedere chi è stato ingrato verso il vostro valore, se io o la vostra fortuna “. Messer Ruggieri, visto che il re così desiderava, ne prese uno. Il re comandò che fosse aperto e tutti videro che era pieno di terra. Allora il sovrano, ridendo, disse “ Potete, dunque, ben vedere, messer Ruggieri, quello che vi dico della fortuna. Ma poiché il vostro valore merita un riconoscimento, io mi opporrò alle sue forze. So che voi non volete diventare spagnolo, perciò non vi voglio donare né castelli, né città in Spagna. Voglio, invece, che sia vostro quel forziere che vi tolse la fortuna, per farle un dispetto, affinchè lo portiate nelle vostre contrade a testimonianza del vostro valore e vi possiate ,meritatamente, gloriare dei miei doni con i vostri vicini”. Messer Ruggieri lo prese e rese grazie al re come si conveniva. Lieto con il forziere se ne ritornò in Toscana. SECONDA NOVELLA (ELISSA) Ghino di Tacco, uomo famoso per le sue ruberie, ribellatosi ai conti di Santafiore e alla Chiesa di Roma, allontanato dalla città, si rifugia a Radicofani, derubando chiunque si trovi nei territori circostanti al suo castello. Non risparmia neanche gli ecclesiastici e cattura, insieme alla suo seguito, un certo abate di Clignì, che passava per quei luoghi diretto ai bagni di Siena per guarire dal suo mal di stomaco. Una volta alloggiati l’abate e il suo seguito, Ghino si rivolge al suo prigioniero per essere informato dei motivi che l’avevano spinto in quei luoghi e, saputo della malattia, mosso a compassione, decide di curarlo lui stesso. Dopo vari giorni di cura, l’abate guarisce dalla sua malattia e Ghino decide che è il momento per l’abate e il suo seguito di lasciare il castello. Ghino, congedandolo, mostra all’abate la sua vera personalità, un uomo costretto a vivere in quel modo poco onesto per malvagità d’altri e non per sua scelta; si dimostra molto gentile nei suoi confronti e lo assicura che non avrebbe confiscato i beni che trasportava durante il viaggio, ma gli chiede di donargli liberamente ciò che ritiene giusto come pegno dell’ospitalità ricevuta. L’abate, sentite le sincere parole di Ghino, riconosce la sua onestà e abbandona lo sdegno avuto verso di lui. Decide di donargli tutto ciò che possedeva in quel momento salvo lo stretto necessario per tornare a Roma. Qui, incontrato il papa e raccontati i fatti accaduti, prega il Santo Padre di rendere grazia a Ghino di Tacco, che si era dimostrato uomo tanto valente. Il papa, udendo la richiesta dell’abate, chiama a corte Ghino, lo insignisce dell’ordine di cavaliere dello Spedale, nonché amico e servitore dell’abate di Clignì e della Santa Chiesa. PARAFRASI Poi lo prese per mano e lo condusse nella stanza apparecchiata, lasciandolo con i suoi. L’abate si confortò e raccontò ai suoi quale fosse stata la sua vita nel castello, mentre, al contrario, tutti dissero che erano stati trattati splendidamente. Venuta l’ora di mangiare, all’abate e a tutti gli altri furono serviti buone vivande e ottimi vini, senza che Ghino si facesse ancora riconoscere. Dopo un certo tempo Ghino fece portare nella sala molti bagagli e nel cortile sotto la sala fece sistemare tutti i cavalli, anche il più misero ronzino Poi andò dall’abate e gli chiese se si sentiva bene e credeva di poter cavalcare. L’altro rispose che era forte e del tutto guarito dal mal di stomaco e sarebbe stato meglio se fosse stato fuori delle mani di Ghino. Allora Ghino lo fece accostare ad una finestra ,da cui poteva vedere tutti i suoi cavalli, e disse “ Messer abate, dovete sapere che l’essere un nobile uomo, l’essere stato cacciato dalla propria casa, l’essere povero ed avere molti nemici potenti, hanno costretto Ghino di Tacco, che sono io, ad essere brigante e nemico della Corte di Roma, per difendere la propria vita e la propria nobiltà. Poiché mi sembrate un signore valente e poiché vi ho guarito dal mal di stomaco, non voglio trattarvi come farei con un altro, al quale prenderei quello che volessi. Scegliete voi, conoscendo le mie necessità, lasciate ciò che volete. Tutte le vostre cose sono davanti a voi e i vostri cavalli sono nella corte, come potete vedere. Perciò prendete, come vi piace, e la parte e il tutto. D’ora in poi potete andare o rimanere, come vi piace”. L’abate si meravigliò che un ladro di strada parlasse con parole così nobili e gli piacque molto. Subito l’ira e lo sdegno si tramutarono in benevolenza e ,divenuto di tutto cuore amico di Ghino, corse ad abbracciarlo, dicendo “ Giuro, in nome di Dio, che,per guadagnare l’amicizia di un uomo come ormai ritengo che tu sia ,sopporterei di ricevere molte maggiori ingiurie rispetto a quelle che mi è sembrato che tu mi abbia fatto. Sia maledetta la fortuna che ti costringe ad un mestiere così dannoso”. Poi, prese soltanto pochissime cose necessarie, gli lasciò tutte le altre e se ne tornò a Roma. Il Papa aveva saputo della cattura dell’abate e se ne era rammaricato molto. Quando lo vide gli chiese se i bagni gli avevano giovato. L’abate, sorridendo, gli rispose “ Santo padre, più vicino dei bagni, trovai un valente medico, che mi ha guarito ottimamente”. E gli raccontò il modo, di cui il Papa rise. Continuando a parlare, l’abate, spinto dalla magnificenza del suo animo, chiese una grazia. Il Papa ,credendo che volesse chieder altro, generosamente si offrì di fare ciò che gli veniva chiesto. L’abate allora disse “ Santo Padre, io intendo domandarvi che voi concediate la vostra grazia a Ghino di Tacco, mio medico. Di quanti uomini valorosi ho conosciuto, e ne ho conosciuti tanti, egli è certamente uno dei migliori.Il male che egli fa ritengo che sia più un peccato della fortuna che suo. Se mutate la fortuna dandogli qualche cosa, grazie alla quale possa vivere secondo il suo stato, non dubito che, in poco tempo, egli sembrerà a voi, quello che sembra a me”. Il Papa ,udendo ciò, essendo di animo grande e amante degli uomini valorosi, disse che l’avrebbe fatto, se era un uomo di tanto valore. Invitò ,pertanto, l’abate a farlo andare di lui ,senza pericolo. Ghino, dunque, si recò a corte sicuro, come volle il suo protettore. Quando fu al cospetto del Papa, il Santo Padre apprezzò il suo valore, si riconciliò con lui e gli donò la grande prioria dell’ordine degli Spedalieri, di cui l’aveva nominato cavaliere. Fu amico e servitore della Santa Chiesa e amico dell’abate di Cluny finchè visse. TERZA NOVELLA (FILOSTRATO) Viveva in Oriente un uomo nobile e ricco di nome Natan che, desideroso di essere conosciuto per le sue opere, aveva edificato uno sfarzoso palazzo dove ricevere e ospitare coloro che per viaggio passavano nei luoghi vicini. Grazie a quest’immensa opera, la fama di Natan si sparse in tutto Oriente, suscitando l’invidia di un certo Mitridanes, un uomo altrettanto ricco. Questi sebbene avesse costruito un palazzo simile a quello di Natan, diventando anche lui molto famoso, comprende l’impossibilità di superarlo e intuisce che l’unico modo possibile era ucciderlo. Così, deciso di assassinare Natan, dirigendosi verso il suo palazzo, lo incontra casualmente sul cammino. Ignorando chi realmente fosse, gli chiede informazioni e Natan, saputa la destinazione del forestiero, nascondendo la sua identità, finge di essere un servo di lui stesso e si offre di accompagnarlo a palazzo. Qui, interrogato Mitridanes, conosce lo scopo cui lui ambiva e, senza dimostrarsi spaventato né tanto meno rivelando chi fosse, decide addirittura di aiutarlo nell’impresa, rivelandogli che Natan era solito, ogni mattina, passeggiare da solo in un bosco vicino. La mattina seguente, Natan, segnato ormai il suo destino, si dirige nel bosco e aspetta che Mitridanes lo trovi e lo uccida. Questi non tarda ad arrivare, ma quando vede Natan e capisce che colui che la notte prima lo aveva ospitato, servito e aiutato era proprio quello che stava per uccidere, il rimorso e la vergogna lo fermano dall’impresa. Natan si dimostra comunque deciso e esorta Mitridanes a ucciderlo, perché infondo lui era ormai vecchio e poco gli rimaneva da vivere, ed era onorato che la sua morte potesse rendere migliore qualcun altro. Mitridanes, commosso dalle parole di Natan, decide di non ucciderlo e, riconosciuta la sua magnanimità, ritorna a palazzo insieme a lui, si congeda e ritorna alla propria dimora. PARAFRASI Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, va da lui per ucciderlo. Senza conoscerlo si imbatte in lui e, informato dallo stesso Natan sul modo, lo trova in un boschetto, come aveva stabilito; riconoscendolo si vergogna e diviene suo amico. A tutti sembrò di aver udito una cosa simile ad un miracolo e cioè che un religioso avesse compiuto una cosa con magnificenza. Terminati i ragionamenti delle donne, il re comandò a Filostrato che continuasse. Il giovane, prontamente, incominciò dicendo che grande era stata la magnificenza del re di Spagna e, cosa mai udita prima, quella dell’abate di Cluny. Ma non meno meraviglioso sarebbe sembrato loro udire che un uomo , per liberalità, dispose di offrire il proprio sangue, anzi il proprio respiro ad un altro, che lo desiderava, e l’avrebbe fatto se l’altro l’avesse voluto, così come il narratore intendeva dimostrare con la sua favoletta. Era certissimo, se si prestava fede ad alcuni genovesi che erano stati in quei luoghi, che nel Catai ci fu, un tempo, un uomo di origini nobili, ricchissimo, chiamato Natan. Dimorava vicino a una strada per la quale necessariamente dovevano passare sia quelli che da Ponente volevano andare verso Levante, sia quelli che andavano da Levante verso Ponente. Poichè era di animo grande e liberale e desiderava essere conosciuto per le sue azioni, avendo presso di sé molti artigiani, fece costruire, in pochissimo tempo, uno dei più belli e ricchi palazzi che si fossero mai visti. In esso fece porre tutte le cose utili per ricevere e onorare i gentiluomini. E accoglieva e onorava cortesemente, con il suo numeroso seguito, con garbo e con feste, chiunque passava di lì. E seguì quella abitudine per molto tempo, tanto che divenne famoso non solamente al Levante, ma in quasi tutto il Ponente. Egli era già pieno di anni, ma non si era ancora stancato di fare cortesie, quando la sua fama giunse alle orecchie di un giovane chiamato Mitridanes, di un paese non lontano dal suo. Il giovane si sentiva non meno ricco di Natan ed era diventato invidioso della fama e della virtù del vecchio. Si propose, perciò, di annullare o di offuscare con la sua liberalità quella di Natan. Il giovane, udita la voce, lo guardò e subito riconobbe che era colui che l’aveva accompagnato familiarmente e fedelmente consigliato. Perciò la sua ira e il suo furore caddero e si convertirono in vergogna. Gettò la spada, che aveva sguainato per ferirlo, smontò da cavallo e, piangendo, si gettò ai piedi di Natan e disse “Riconosco, carissimo padre, la vostra liberarità, considerando con quanta prudenza siete venuto a darmi il vostro spirito che io, senza alcuna ragione, desideravo avere. Ma Dio, più attento al mio bene che io stesso,al momento opportuno ,mi ha aperto gli occhi, che la misera invidia mi aveva serrati. Quanto più considero che voi siete stato pronto a compiacermi, tanto più mi riconosco debitore della penitenza per il mio errore. Dunque, prendete su di me la vendetta che considerate giusta per il mio peccato”. Natan lo fece alzare in piedi, teneramente lo abbracciò e baciò e gli disse “ Figlio mio, la tua impresa ,che vuoi chiamare malvagia o altrimenti, non deve essere perdonata, perché la volevi attuare non per odio ma per essere ritenuto migliore. Vivi ,dunque, sicuro del mio affetto e sappi con certezza che non vive nessun uomo che ti ami quanto ti amo io. Ho riguardo per la nobiltà del tuo animo, il quale si è dedicato non nell’ammassar denari, come fanno i miseri, ma a spendere quelli ammassati. Non ti vergognare di aver desiderato di uccidermi per divenire famoso e non pensare che mi meravigli. Gli imperatori e i re non hanno quasi altra arte ( compito) che uccidere, non un solo uomo,come volevi tu, ma infiniti, ed ardere paesi e abbattere città, per ampliare i loro regni e, di conseguenza, la loro fama. Perciò, se, per diventare famoso, volevi uccidere un solo uomo, non facevi una cosa straordinaria, né nuova, ma una cosa fatta molto spesso”. Mitridanes ,non scusando il suo perverso desiderio, ma apprezzando la scusa trovata dal saggio per esso, alla fine aggiunse che si meravigliava molto che Natan fosse disposto a morire e gli avesse consigliato come fare per ucciderlo. E Natan rispose “Mitridanes, non voglio che ti meravigli della mia libera decisione di aiutarti a fare quello che avevi deciso. Nessuno capitò mai a casa mia che non fosse accontentato da me nelle sue richieste. Venisti tu, desideroso della mia vita, ed io , sentendotela chiedere, decisi di donartela, affinchè tu non fossi l’unico ad allontanarti senza aver ottenuto ciò che chiedevi. Perciò ti diedi il consiglio utile a prendere la mia vita e a non perdere la tua. Ancora adesso ti dico e ti prego di prenderla, se ti piace. Io non so come spenderla meglio. L’ho adoperata già per ottanta anni e l’ho usata nelle cose che mi piacevano e mi davano consolazione. So bene che, seguendo il corso della natura, come avviene per gli uomini e per le altre cose, essa mi può essere lasciata, ormai, per poco tempo. Ritengo, dunque, preferibile donarla a te, come ho sempre donato e speso tutti i miei tesori, che conservarla fino a quando, contro la mia volontà, mi mi sarà tolta dalla natura. E’ un piccolo dono donare cento anni, ancora più piccolo donarne sette o otto, che possa ancora avere. Prendila, se ti piace, te ne prego. Mentre sono vissuto, non ho mai trovato nessuno che la desiderasse, e non so quando potrò trovare un altro, se non la prendi tu che me la chiedi. Seppure dovessi trovare qualcuno che me la chieda, quanto più tempo passa, tanto più essa perderà di valore. Perciò, prima che divenga più vile, prendila tu, te ne prego”. Mitridanes , vergognandosi, gli rispose che solo Dio poteva togliere a Natan una cosa così cara com’era la sua vita, che egli non desiderava più come prima.Aggiunse che , se avesse potuto, avrebbe aggiunto gli anni di Natan ai suoi. Subito Natan disse “ Vuoi veramente aggiungere i miei anni ai tuoi? E vuoi permettere a me di prendere le tue cose, il che, cioè prendere le cose altrui, io non feci mai? “. Immediatamente Mitridanes rispose di si. “ Dunque” disse Natan “ farai come ti dico. Tu, giovane come sei, resterai qui, nella mia casa e ti chiamerai Natan, io me ne andrò nella tua e mi farò chiamare Mitridanes”. Allora il giovane rispose “ Se io sapessi operare bene come voi fate e avete fatto, prenderei, senza pensarci troppo, quello che mi offrite. Ma temo che le mie opere potrebbero diminuire la fama di Natan ed io non voglio guastare negli altri ciò che non so aggiustare in me. Dunque non accetterò”. Dopo aver molto piacevolmente discusso, ritornarono al palazzo. Lì Natan ospitò con grandi onori ,per molti giorni, Mitridanes, spingendolo col suo ingegno e il suo sapere verso nobili obiettivi. Alla fine ,Mitridanes ,ormai consapevole che non avrebbe mai potuto superare Natan in liberalità, decise di ritornare a casa. QUARTA NOVELLA (LAURETTA) Nella nobilissima Bologna, viveva un certo Gentil de’ Carisendi, il quale era innamorato di donna Catalina, moglie di Niccoluccio Caccianimico, e non era ricambiato. La donna, a quel tempo gravida, fu colpita da una grave malattia, e in breve tempo in lei scomparse ogni segno di vita e, poiché il bambino che portava in grembo era stato concepito da poco, i parenti decisero di seppellirla. Gentile, saputa questa notizia, come segno estremo del suo amore, decide di profanare la tomba di Catalina per porgerle un bacio, non avendo potuto farlo mentre lei era in vita. Facendo ciò, si accorge miracolosamente che Catalina, sebbene molto debole, era ancora in vita e decide di trasportarla a casa sua per curarla. Qui Catalina e il bambino nel suo grembo guariscono completamente e la fanciulla partorisce un bel figlio maschio. Gentile decide allora di invitare a pranzo alcuni amici per mostrare loro Catalina, la cosa più cara che aveva, perché aveva saputo che questa fosse un’usanza dei Persi per onorare gli amici cari. Prima di chiamare Catalina, Gentile chiede un parere agli amici, domanda loro se fosse giusto che un uomo richiedesse indietro un suo servo, che aveva abbandonato perché malato, all’uomo che l’aveva trovato e curato. Un uomo risponde per tutti che non era legittimo perché, abbandonando il suo servo, il primo uomo non aveva più nessun diritto su di lui. L’uomo che aveva risposto era proprio Niccoluccio Caccianimico, il marito di Catalina e quando questa viene mostrata agli invitati e avendo Gentile sottolineato che il servo della domanda precedente rappresentava la fanciulla, capisce che rispondendo aveva perso tutti i diritti sulla moglie e sul figlio. Ma Gentile, notando il dispiacere e le lacrime sul viso di Niccoluccio, decide di rinunciare a Catalina, porgendola al marito, guadagnandosi l’amicizia della coppia e dei loro parenti. PARAFRASI Messer Gentile dei Carisendi, venuto a Modena, trae fuori dal sepolcro una donna da lui amata, seppellita come morta; la quale, ripresasi, partorisce un figlio maschio, e messer Gentile restituisce lei e il figliuolo a Niccoluccio Caccianimico, marito di lei. Sembrò a tutti una cosa strordinaria che un uomo volesse offrire la propria vita. Tutti affermarono che Natan aveva superato la magnificenza del re di Spagna e dell’abate di Cluny. Dopo che furono dette molte altre cose, il re si volse verso Lauretta, invitandola a narrare. Lauretta immediatamente incominciò, dicendo che le cose che erano state raccontate fino a quel momento erano senz’altro magnifiche e belle, ma era giunto il momento di metter mano ai fatti d’amore, che offrivano una grande quantità di materiali.L’età dei componenti della brigata spingeva proprio a ciò. Ella voleva ,dunque, raccontare la magnificenza fatta da un innamorato. Essa ,considerata ogni cosa, non sarebbe sembrata minore di quelle già raccontate. moglie, o amica, o figliuola, o altro, dicendo che, se potesse, ugualmente gli mostrerebbe il suo cuore. Io voglio introdurre questa usanza a Bologna. Voi, per vostra grazia, avete onorato il banchetto, ed io, secondo l’usanza persiana, vi voglio onorare mostrandovi la cosa più cara che ho al mondo ed avrò mai. Ma, prima di farlo, voglio sentire il vostro parere su un dubbio che vi esporrò.Vi è una persona che ha in casa un bravo e fedelissimo servitore, che si ammala gravemente. Il padrone, senza attendere la morte del servo infermo, lo fa portare in mezzo alla strada e non ha più cura di lui. Giunge un estraneo e, avendo compassione per l’ammalato, se lo porta a casa e, con gran preoccupazione e spesa, lo riporta in salute Ora, vorrei sapere se il padrone a ragione si può rammaricare se l’estraneo non gli vuol restituire il servitore, se egli glielo chiede”. I gentiluomini, dopo aver a lungo discusso, furono tutti d’accordo in un solo parere ed affidarono a Niccoluccio Caccianimico, che era un ottimo parlatore, la risposta. Egli, commentata l’usanza della Persia, disse che tutti erano della stessa opinione, che cioè il primo signore non aveva alcun diritto sul suo servitore, perché non solo l’aveva abbandonato, ma addirittura gettato. L’estraneo avendo raccolto e curato l’infermo, l’aveva trattato come se fosse un suo servitore, tenendolo ,dunque, con sé non recava nessun danno al padrone di prima. Il cavaliere, contento della risposta, soprattutto perché gliela aveva data Niccoluccio, disse che anch’egli era d’accordo e aggiunse che era giunto il momento di mantenere la sua promessa. Chiamati due servi, li mandò dalla donna, che era splendidamente vestita, pregandola di andare a rallegrare gli ospiti con la sua presenza. Ella, tenendo in braccio il suo figlioletto bellissimo, venne e, come volle il cavaliere, si sedette vicino ad un valente uomo. Messer Gentile, allora, disse “ Signori, questa è la cosa più cara che ho, guardate se vi sembra che io abbia ragione”. I gentiluomini la cominciaron a guardare con interesse e molti l’avrebbero riconosciuta ,se non l’avessero ritenuta morta. Ma soprattutto la guardava Niccoluccio, il quale, essendosi allontanato il cavaliere, le chiese se fosse bolognese o forestiera. La donna, sentendo che il marito le faceva delle domande, si trattenne a fatica dal rispondere, ma tacque per obbedire all’ordine ricevuto. Un altro le domandò se era suo quel figlioletto ed un altro ancora se fosse la moglie di messer Gentile o una sua parente. Ma ella non diede alcuna risposta. Quando messer Gentile ritornò,uno dei convitati gli chiese se, per caso, la donna era muta. Il cavaliere rispose che l’aver taciuto era una prova della di lei virtù. Il convitato insistette chiedendogli chi ,dunque, ella fosse. Il padrone di casa rispose che l’avrebbe accontentato, ma voleva che nessuno si allontanasse di lì, finché non avesse terminato il suo racconto. Dopo che tutti avevano promesso e le tavole erano state tolte, messer Gentile, sedendo al lato della donna, disse “ Signori, questa donna è quel leale e fedele servo del quale vi chiesi poco fa; costei, ritenuta dai suoi poco cara, come umile e non più utile, fu gettata in mezzo alla strada. Io la raccolsi e con sollecitudine e attenzione la strappai dalle mani della morte. Dio, avendo riguardo per il mio affetto, l’ha fatta diventare così bella, da cadaverica che era. Ma vi racconterò come ciò mi sia accaduto brevemente”. E iniziò a raccontare del suo innamorarsi di lei e, via via, tutte le cose che erano accadute, con grande meraviglia degli ascoltatori. Poi aggiunse “Per questi motivi, se non avete cambiato parere, e soprattutto Niccoluccio, questa donna, a ragione, è mia e nessuno me la può chiedere”. Nessuno rispose e tutti pendevano dalle sue labbra. Niccoluccio, tutti gli altri e la donna piangevano, commossi. Messer Gentile, alzatosi, prese in braccio il bambino e per mano la donna e si diresse verso Niccoluccio. Poi disse “ Orsù, compare, ti rendo tua moglie, che i suoi parenti gettarono via, ma ti voglio donare questa donna, mia comare e il suo figlioletto, il quale sono certo che fu da te generato. Io lo tenni a battesimo e lo chiamai Gentile. Ti prego che ella non ti sia men cara perché è stata tre mesi a casa mia. Ti giuro, per quel Dio che mi fece innamorare di lei, affinchè il mio amore fosse la causa della sua salvezza, che ella ha vissuto onestamente in casa mia con mia madre, come se fosse stata con il padre e la madre”. Detto ciò si rivolse alla donna e la lasciò libera di andare da Niccoluccio. Niccoluccio accolse la sua donna con il figlioletto con gioia tanto più grande perché non aveva più speranza di vederla viva e, come meglio seppe, ringraziò il cavaliere. Tutti piangevano commossi e commentavano il fatto. La donna fu accolta a casa sua con straordinaria festa e fu guardata per molto tempo dai bolognesi con stupore, come una resuscitata. Messer Gentile visse per sempre amico di Niccoluccio, dei suoi parenti e di quelli della donna. La narratrice chiese, allora, alle donne che cosa ne pensassero. Se ritenevano che l’aver un re donato lo scettro e la corona, aver un abate riconciliato un malfattore con il Papa, o un vecchio aver offerto la sua vita ad un nemico, avessero lo stesso valore di ciò che aveva fatto messer Gentile. Egli, giovane e innamorato, avendo avuto la possibilità di avere ciò che la superficialità altrui aveva gettato via e, fortunatamente, aveva raccolto, non solo controllò il suo ardore, ma spontaneamente restituì ciò che aveva desiderato con tutta la sua anima e cercato di rubare. Riteneva ,perciò, che nessuna delle cose già dette potesse essere paragonata a quella. QUINTA NOVELLA (EMILIA) Nella città di Udine viveva insieme al marito Gilberto, donna Dianora, la quale era desiderata ardentemente da messer Ansaldo Gradense. La donna, stanca delle incessanti proposte e regali fatti da Ansaldo, decide di porre fine a questo tormento: riferisce ad Ansaldo che, se fosse riuscito, nel mese di gennaio in cui erano, a far fiorire il suo giardino come nel mese di maggio, lei lo avrebbe amato, mentre se non riusciva nell’intento, avrebbe dovuto per sempre dimenticarla. Il povero innamorato, dopo infinite ricerche, riesce a trovare un negromante capace di tale magia e così vedendo il giardino in fiore, Dianora si rassegna e racconta la promessa al marito. Gilberto, sebbene avesse reagito con l’ira, capisce che Dianora aveva fatto la promessa innocentemente e, conoscendo la purezza dell’animo della moglie, la invita a recarsi da Ansaldo per scogliere la promessa, ma se questo non fosse accaduto, l’avrebbe lasciata andare via con lui. Recatasi Dianora da Ansaldo e riferitegli le parole del marito, questi comprendendo la magnanimità di Gilberto e non volendo privare la sua amata dell’amore del marito, scoglie la promessa e la lascia andare. L’episodio sembra coinvolgere anche il negromante lì presente che, di fronte a tanta liberalità, segue l’esempio e rifiuta la ricompensa pattuita per far fiorire il giardino. PARAFRASI Madonna Dianora chiede a messer Ansaldo un giardino bello come i giardini di maggio; messer Ansaldo, chiamato un negromante, glielo dà ;il marito permette che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale vista la liberalità del marito, la scioglie dalla promessa; il negromante scioglie messer Ansaldo dal pagamento della ricompensa. Ogni componente dell’allegra brigata aveva elevato con le proprie lodi messer Gentile fino al cielo, quando il re ordinò ad Emilia di continuare. Ella , lietamente, quasi desiderosa di narrare, cominciò dicendo che sicuramente messer Gentile aveva operato con Poi le andò incontro, senza alcun desiderio sessuale, la ricevette con rispetto e fece entrare tutti in una bella camera, con un gran focolare. Invitò la donna a sedere e le chiese il motivo della sua venuta, in nome dell’amore che le portava. La donna, vergognosa e quasi con le lacrime agli occhi, disse “ Messere, né l’amore ,né la promessa che vi feci mi portarono qui, ma il comando di mio marito, il quale, avendo più riguardo per quello che avete fatto per amor mio, che per l’amore suo e mio, mi ha fatto venire. Per ordine suo sono disposta ad assecondare il vostro piacere solo per questa volta”. Messere Ansaldo rimase ancora più sorpreso per le parole della donna e per la liberalità di Gilberto. Commosso cambiò il suo amore in compassione e disse “ Madonna, non piaccia a Dio, se le cose stanno così, che io danneggi l’onore di chi ha pietà del mio amore. Perciò rimarrete qui, fino a quando vi piacerà, come se foste mia sorella .Quando vi piacerà, potrete andarvene liberamente, purchè riferiate a vostro marito , che ha usato nei miei confronti tanta cortesia, come siate stata accolta con riguardo. Vi chiedo, per il futuro, di considerarmi vostro fratello e servitore”. La donna, provando una gran meraviglia, più lieta che mai, disse “ Non avrei mai creduto, conoscendo i vostri costumi, che voi, dopo la mia venuta, aveste fatto ciò che fate; anch’io vi sarò sempre obbligata”. Preso commiato, se ne tornò da Gilberto e gli raccontò ciò che era avvenuto. Da ciò nacque una bella e leale amicizia che legò lui ed Ansaldo. Il negromante,che stava per ricevere la ricompensa da Ansaldo, vista la liberalità di Gilberto verso Ansaldo e di Ansaldo verso la donna ,disse “ Dio non voglia. Perchè ho visto Gilberto sacrificare il suo onore e voi il vostro amore , anch'io, ugualmente, sarò liberale del mio premio, che intendo lasciare a voi, ritenendo che sia più giusto così". Il cavaliere molto insistette perché il mago accettase il compenso, ma non ottenne nulla. Dopo tre giorni il negromante tolse via il suo giardino e decise di partire. Ansaldo lo raccomandò a Dio e, spento nel cuore ogni desiderio d’amore, conservò verso la donna un grande affetto. Che si doveva, dunque, dire? Era forse più importante una donna quasi morta e il tiepido amore rispetto alla liberalità dimostrata da messer Ansaldo ,ancora ardentemente innamorato e sul punto di ottenere la preda tanto inseguita?. Ed Emilia concluse che sarebbe stato sciocco paragonare gli esempi di liberalità di cui si era parlato prima con quell’ultimo. SESTA NOVELLA (FIAMMETTA) Questa novella parla di una vicenda capitata a messer Neri degli Uberti con il re Carlo 1° D’ Angiò. Messer Neri decise di ritirarsi in un luogo solitario per finire nella calma i suoi giorni, così comprò un appezzamento di terra dove costruirvi una casa e un bellissimo giardino con un laghetto con dei pesci nel mezzo. Le voci sulla bellezza di questo giardino arrivarono al re che, incuriosito, decise di andarlo a vedere. Messer Neri ospitò umilmente il re e i suoi quattro compagni con una tavola ricca di bevande apparecchiata nel giardino. Ad un certo punto due giovani e belle fanciulle uscirono dalla casa e con delle reti entrarono nel laghetto e ne uscirono poco dopo con dell’ottimo pesce da mettere sul fuoco. Uscirono dall’acqua con i loro bianchi vestiti così bagnati da lasciar intravedere quanto di più bello avevano, e il re, osservandole, ne rimase colpito. Durante il viaggio verso casa e nei giorni seguenti il re non riuscì a pensare ad altro che a Ginevra la bella e ad Isotta la bionda (questi i nomi delle fanciulle), innamorandosi perdutamente della prima. Facendosi sempre più strada l’ idea di sposare la fanciulla, uno dei suoi consiglieri, capendo la gravità di questa vicenda se fosse avvenuta, disse al re che maritare le figlie di messer Neri sarebbe stato un grave errore, e che doveva vincere la “guerra” contro se stesso e le sue passioni; così, alla fine il re fece sposare le due con grandi baroni a cui donò anche delle province. PARAFRASI Re Carlo (Carlo I d’Angiò) ormai vecchio, dopo aver vinto molte guerre, innamoratosi di una giovinetta, vergognandosi del suo folle pensiero, fa sposare lei e la sorella onorevolmente. Sarebbe troppo lungo raccontare tutte le discussioni fatte dalle donne su chi fosse stato più liberale o Giliberto o messer Ansaldo o il negromante. Dopo aver discusso per un po’ di tempo, il re, guardando verso la Fiammetta, per interrompere la discussione, le ordinò di raccontare. Fiammetta, senza alcun indugio, cominciò dicendo che era stata sempre dell’opinione che le brigate come le loro non si dovessero impegnare in dispute troppo sottili e complicate. Tali dispute convenivano alle scuole degli studiosi e non a loro, che si dedicavano al ricamare a al filare. Perciò ella, che aveva già in mente una storia che poteva far discutere, vedendole pronte a litigare per le cose dette, l'avrebbe lasciata andare e ne avrebbe raccontata un’altra, di un valoroso re, che operò con cavalleria, senza venir meno al suo onore. Tutte loro avevano sentito parlare di Carlo il Vecchio, ossia di Carlo I D’Angiò, per la sua venuta in Italia in difesa della Chiesa e per la sua vittoria su Manfredi (figlio di Federico II di Svevia). Dopo quella vittoria i ghibellini furono scacciati da Firenze e vi ritornarono i guelfi. Un cavaliere, chiamato messer Neri degli Uberti, ghibellino, uscendo dalla città con tutta la sua famiglia, chiese di mettersi sotto la protezione del re Carlo. Per stare in un luogo tranquillo, dove finire la sua vita, se ne andò a Castellammare di Stabia. Lì, un poco lontano dalle altre abitazioni di quel posto, comprò un possedimento tra ulivi, noccioli e castagni, di cui quella contrada era ricca. Su quel possedimento fece costruire una bella e ricca casa e al suo fianco un ameno giardino, nel mezzo del quale, secondo il costume del luogo, poiché c'era abbondanza di acqua, fece un bel vivaio che riempì con molto pesce. E si dedicava escusivamente a rendere ogni giorno più bello il suo giardino. Frattanto re Carlo, d’estate, per riposarsi un po’, se ne andò a Castellammare, dove, avendo sentito parlare della bellezza del giardino di messer Neri, desiderò di vederlo. Sapendo che messer Neri, il proprietario del giardino, era di parte ghibellina, a lui avversa, pensò di dover trattare con lui molto garbatamente e prudentemente. Gli mandò ,dunque, a dire che la sera seguente voleva cenare nel famoso giardino con quattro compagni, serenamente. Messer Neri fu assai contento e, avendo ordinato ai suoi servitori di fare tutto ciò che era necessario, ricevette il re il più lietamente che potè. Il re, dopo che ebbe visitato tutto il giardino e la casa, dopo essersi lavato, si sedette ad una delle tavole che erano state apparecchiate al lato del vivaio. Ad un lato comandò che sedesse Guido da Monforte, che era un suo compagno, dall’altro messer Neri. Furono servite delicate vivande e vini ottimi e preziosi, con garbo e gentilezza, senza rumore e senza noia, cosa che il sovrano apprezzò molto. Mentre il re stava mangiando con gusto, entrarono due giovinette di circa quindici anni ognuna, bionde come l’oro, con i capelli ricci, sciolti, su cui era poggiata una leggera ghirlanda di tante preoccupazioni importanti, che non vi hanno consentito, tuttora, di riposare. Vi direi che questo non è atto di un re magnanimo ma di un giovinetto meschino. Oltre a ciò, dite che avete deciso di togliere le due figlie al povero cavaliere che, non solo vi ha ospitato con riguardo a casa sua, malgrado non ne avesse le possibilità,ma per onorarvi di più vi ha mostrato le figliuole quasi nude. Ha testimoniato così la fiducia che aveva in voi, credendo fermamente che foste un re, non un lupo rapace. Avete forse dimenticato che la violenza fatta alle donne da Manfredi vi ha aperto le porte di questo regno? Quale tradimento degno di eterno supplizio si potrebbe compiere più grande che togliere a colui che vi onora il suo onore, la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi , se lo faceste a lui? Pensate che sia una scusa sufficiente dire che lo avete fatto perché egli è ghibellino? La giustizia del re prevede ,forse,che coloro che ricorrono a lui siano trattati diversamente a seconda del partito cui appartengono?. Vi ricordo, maestà, che grandissima gloria è aver vinto Manfredi, ma gloria ancora maggiore è vincere sé stesso. Poiché dovete governare gli altri, vincete voi stesso e frenate questo desiderio, né vogliate guastare con questa macchia ciò che avete conquistato gloriosamente”. Quelle parole colpirono l’animo del sovrano e tanto più lo turbarono perché sapeva che erano vere. Perciò, dopo un lungo sospiro, disse “ Conte, sicuramente non potrei trovare nessun altro nemico che non ritenga debole e facile da vincere rispetto alla mia passione. Ma, sebbene l’affanno sia grande e la forza di cui ho bisogno inestimabile, le vostre parole mi hanno fatto comprendere che è opportuno che, prima che passino troppi giorni, io vi faccia vedere che, come so vincere gli altri, così so vincere me stesso”. Pochi giorni dopo aver detto quelle parole ,il re ritornò a Napoli, sia per togliere a sé l’occasione di fare qualcosa di vile, sia per premiare il cavaliere dell’onore ricevuto da lui. Sebbene gli fosse difficile donare ad altri ciò che sommamente desiderava per sé, decise di voler maritare le due giovani non come figlie di messer Neri, ma come sue. Diede loro una magnifica dote, con grande gioia del padre, e diede in sposa a messer Maffeo da Palizzi Ginevra la bella e Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, entrambi nobili cavalieri e baroni. Infine, con grandissimo dolore ,se ne andò in Puglia e si impegnò in grandi fatiche ,tanto che spezzò le catene dell’amore e, per quanto gli rimase da vivere, si liberò di tale passione. Forse vi erano coloro che dicevano che era cosa da poco per un re aver maritato due giovinette, ed era vero. Ma era, invece, una grandissima cosa che un re innamorato avesse maritato ad un altro colei che egli stesso amava ,senza prendere del suo amore né foglia, né fiore, né frutto. Così, dunque, magnificamente operò il re, premiando il cavaliere, onorando le giovinette e vincendo valorosamente sé stesso. SETTIMA NOVELLA (PAMPINEA) Questa novella narra di una giovane fanciulla che nel giorno in cui il vittorioso re Pietro dà una festa in paese, affacciandosi dalla finestra della sua casa, vede e si innamora pazzamente del re, non sapendo che quello fosse tale. Venutolo a sapere cade in malattia peggiorando periodicamente. Quando la sua situazione si sta facendo critica, pensa che non vuol morire senza aver prima fatto sapere al re del suo amore, e così chiede di vedere un cantore che possa riferire a corte quanto detto: così va a trovarla Minuccio e dopo appena tre giorni che era andato dalla fanciulla, aveva creato una canzone da presentare al re. Così la canta al re che, colpito dalla volontà della fanciulla, chiede di vederla e dopo averci parlato, preso dalla compassione, si impegna a farla sposare con un giovane barone così da farla felice. PARAFRASI Il re Pietro d’Aragona ,sentito l’ardente amore che gli porta Lisa, inferma, la conforta e poi la marita ad un gentil giovane; la bacia sulla fronte e si dice suo cavaliere. Fiammetta aveva terminata la sua novella e tutti avevano commentato la magnificenza di re Carlo, ad eccezione di una ,che era ghibellina. Subito dopo Pampinea, per ordine del re, cominciò a dire che nessuna persona saggia non sarebbe stata d’accordo su quanto avevano detto del buon re Carlo, ad eccezione di chi non gli fosse stato avverso per altri motivi, come la loro compagna. Ma ella aveva ricordato una cosa, ugualmente degna di attenzione, fatta da un avversario di re Carlo verso una giovane fiorentina e desiderava raccontarla. Nel tempo in cui i francesi furono cacciati dalla Sicilia (Vespri Siciliani 1282) viveva in Palermo un fiorentino venditore di spezie, chiamato Bernardo Puccini, uomo ricchissimo, che aveva avuto da sua moglie una sola figlia bellissima, già in età da marito. Pietro d’Aragona, che era divenuto da poco signore dell’isola, faceva a Palermo una bellissima festa con i suoi baroni. Mentre si faceva un torneo e il re armeggiava alla maniera catalana, la figlia di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove era con altre donne, lo vide e le piacque tanto che, dopo averlo a lungo guardato, se ne innamorò perdutamente. Finita la festa la fanciulla, stando in casa del padre, non poteva pensare ad altro che al suo grande amore. Quello che la turbava di più era la cosapevolezza della sua umile condizione che non le lasciava alcuna speranza di un lieto fine. Ma non poteva smettere di amare il re, né osava per paura manifestare il suo amore.. Il re, dal canto suo, non si era accorto di nulla e non si curava di lei, il che le procurava un intollerabile dolore. Aumentando l’amore e aggiungendosi un dolore all’altro, la bella giovane, non potendone più, si ammalò e ogni giorno si consumava come neve al sole. Il padre e la madre, preoccupati, con consigli continui, con medici e con medicine, l’aiutavano come meglio potevano. Ma niente serviva perché ella, disperata per il suo amore, aveva deciso di non voler più vivere. Un giorno le venne in mente di voler far conoscere al re, prima di morire, il suo amore e la sua intenzione, con molta prudenza. Perciò pregò il padre, pronto ad accontentarla, di far andare da lei Minuccio d’Arezzo, che era ritenuto un finissimo cantatore e suonatore ed era stimato da re Pietro. Bernardò lo avvisò che Lisa voleva sentirlo un po’ suonare e cantare. Minuccio, che era un uomo gentile, immediatamente andò da lei , la confortò con amorevoli parole. Poi con la viola suonò alcune ballate e cantò alcune canzoni che fecero ardere ancora di più d’amore la giovane, invece di consolarla. Lisa, dopo aver ascoltato, disse che voleva parlare solo con lui. Dopo che tutti si furono allontanati, ella gli disse “ Minuccio, ti ho scelto come custode di un mio segreto, che non devi svelare a nessuno, se non a colui che ti dirò; ti prego di aiutarmi con tutti i mezzi che sono in tuo potere. Devi, dunque, sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro re Pietro fece una gran festa per il suo insediamento venne visto da me, mentre torneava. L’amore di lui si accese come un fuoco nella mia anima, tanto ardente che mi ha ridotta come tu mi vedi. Ben sapendo che il mio amore non si conviene ad un re, non potendo né scacciarlo, né diminuirlo, essendo tanto pesante da sopportare, ho deciso, per soffrire meno, di morire e così farò. Proverei un gran conforto se il re lo sapesse, prima che io muoia. Ritenendo che tu sia la persona adatta a fargli conoscere la mia decisione, ti voglio affidare questo incarico e ti prego di non rifiutarlo. Quando l’avrai portato a termine, fammelo sapere, affinchè io ,consolata, morendo mi liberi di queste pene”. Minuccio si meravigliò della profondità del sentimento e delle intenzioni della fanciulla, addolorandosi moltissimo. Pensò subito a come poteva accontentarla e le disse “ Lisa, ti giuro sulla mia parola, umile. Dopo essersi trattenuto con lei per un certo tempo ed averla confortata, se ne andò. L’atteggiamento del re e l’onore che egli aveva fatto allo speziale e alla figlia fu molto commentato. La ragazza, felice per la visita del re, in pochi giorni guarì e diventò più bella di prima. Dopo la sua guarigione, il re , che aveva raccontato alla regina dell’amore della giovane per lui,un giorno, montato a cavallo, insieme a molti baroni si recò a casa di Bernardo. Entrato nel giardino fece chiamare lo speziale e la figlia. Poco dopo arrivò anche la regina con molte donne; ricevuta tra loro la giovane, incominciarono una bellissima festa. Poi il re e la regina chiamarono Lisa e il re le disse “ Valorosa giovane, col vostro amore mi avete recato grande onore; per questo noi vogliamo accontentarvi. Poiché siete in età da marito, vogliamo che prendiate il marito che vi daremo. Mentre io sarò sempre vostro cavaliere, senza volere da voi, per il vostro amore, niente altro che un bacio”. La giovane, tutta rossa in viso per la vergogna, a bassa voce, disse che se la gente avesse saputo che si era innamorata di lui, l’avrebbe ritenuta pazza, credendo che fosse uscita di mente e che non conoscesse la sua umile condizione. Ma ben comprendeva, nel momento in cui si era innamorata, che egli era il re e lei la figlia di Bernardo speziale e che non poteva osare rivolgere così in alto il suo amore. Ma ,come egli ben sapeva, nessuno si innamorava usando la ragione, ma seguendo solo la passione e il sentimento. Perciò non poteva controllare l’amore che provava e avrebbe provato allora e per sempre. Poiché voleva ubbidirgli, anche se non prendeva marito volentieri, avrebbe ritenuto caro quel marito che egli aveva scelto per lei e lo avrebbe onorato e rispettato. Del resto, si sarebbe gettata nel fuoco per fargli piacere. Avrebbe tenuto in giusto conto avere il re per cavaliere e il bacio che il re voleva non lo avrebbe concesso senza il permesso della regina. Iddio avrebbe reso grazie della benevolenza di lui e della regina nei suoi confronti. E, a questo punto, tacque. Alla regina piacque molto la risposta della giovane ,che le parve saggia, come il re le aveva detto. Il sovrano fece chiamare il padre e la madre della fanciulla. Visto che erano contenti , ordinò che fosse condotto alla sua presenza un giovane, gentile ma povero, che aveva nome Perdicone, gli donò alcuni anelli e gli propose di sposare Lisa, cosa che il giovane accettò ben volentieri. Oltre a ciò, il re , con la regina ,donò a Lisa molti altri gioielli e a Perdicone Cefalù e Caltabellotta, due terre fertilissime, dicendo “ Ti doniamo queste terre, come dote della donna; quello, poi, che darò a te, lo vedrai in futuro”. Poi, rivolto alla giovane,le disse “ Ora vogliamo prendere quel frutto del vostro amore che dobbiamo avere”. E, presole il capo con entrambe le mani, la baciò sulla fronte. Perdicone, il padre e la madre di Lisa ed ella stessa ,molto contenti fecero una bellissima festa di nozze e, come molti affermarono, il re diede alla giovane ancora altri doni. Il sovrano si ritenne sempre, finchè visse, suo cavaliere e sempre, in ogni combattimento, portò l’insegna che la giovane gli aveva donato. Così si conquistavano gli animi dei popoli assoggettati, si dava agli altri motivo di operare bene e si acquistava fama eterna, cose alle quali nel loro tempo pochi o nessuno rivolgevano l’attenzione, essendo quasi tutti i nobili divenuti crudeli e tirannI. OTTAVA NOVELLA (FILOMENA) Questa è la storia di due amici molto cari, Gisippo e Tito,cresciuti insieme e molto legati. A Gisippo viene promessa in sposa la bella Sofronia. I due un giorno vanno a trovare la ragazza mai vista, e avviene che Tito si innamora della futura sposa dell’ amico, ma non lo dice a Gisippo. Dopo alcuni giorni in cui Gisippo vede che Tito è in condizioni pessime decide di parlarci e scopre che Tito è molto innamorato, e decide di cedergli la donna, ma non può farla sposare a lui altrimenti i genitori di lei e i suoi si sarebbero opposti. Comunque Tito parla con i genitori di Sofronia e la porta con sé a Roma. Intanto Gisippo diventa molto povero e ritorna anche lui a Roma dove viene riconosciuto dal vecchio amico Tito che lo accoglie calorosamente salvandolo da una condanna a morte autoaccusandosi. Viene però assolto anche lui da Ottaviano e accoglie Gisippo dandogli poi in moglie la sorella e condividendo i suoi beni con lui. PARAFRASI ofronia, credendo di essere moglie di Gisippo, diventa moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se ne va a Roma, dove arriva Gisippo in povero stato e, credendo di essere disprezzato da Tito, afferma di aver ucciso un uomo, per essere condannato a morte. Tito lo riconosce e, per salvarlo, dice di aver ucciso l’uomo; vedendo ciò, colui che aveva commesso il fatto, si dichiara colpevole. Per la qual cosa vengono tutti liberati da Ottaviano e Tito da in moglie a Gisippo la sorella e divide con lui tutte le sue ricchezze. Dopo che Pampinea aveva smesso di parlare e tutte, soprattutto la ghibellina, avevano commentato il comportamento di re Pietro, Filomena, per ordine del re, cominciò . Disse che tutti non ignoravano che i re, quando volevano, sapevano essere magnifici e, sicuramente, facevano bene a comportarsi come conveniva loro. Se avevano elogiato con tante belle parole le opere del re, certamente avrebbero apprezzato molto di più le opere compiute da due giovani, lor pari, somiglianti o addirittura maggiori di quelle del re. Voleva, dunque, raccontare un’impresa magnifica e degna di lode, compiuta da due cittadini amici. Nel tempo in cui Ottaviano, non ancora divenuto imperatore, comandava Roma, nel primo triumvirato, visse in Roma un gentiluomo, chiamato Publio Quinzio Fulvo. Costui aveva un figlio ,di nome Tito Quinzio Fulvo, di grande ingegno, che mandò a studiare filosofia ad Atene. Lo raccomandò, quanto più potè, ad un ateniese, suo amico di vecchia data, chiamato Cremete, che lo ospitò nella propria casa, dove fu alloggiato insieme al figlio, di nome Gisippo. Cremete affidò l’istruzione di entrambi i giovani ad un filosofo, chiamato Aristippo. Tra i due giovani, che crebbero insieme, nacque una fratellanza ed un’amicizia così grande che durò fino alla morte. Ognuno di loro aveva pace solo quando erano insieme. Cominciati gli studi, ciascuno ,dotato di altissimo ingegno, apprendeva la filosofia, ottenendo grandissime lodi, in pari misura. Vissero così per tre anni con grandissimo piacere di Cremete, che li considerava entrambi suoi figli. Quasi trascorsi tre anni, Cremete, ormai vecchio, morì. I due giovani soffrirono ,in egual modo, come se avessero perso il padre e i parenti e gli amici di Cremete non sapevano chi consolare di più. Dopo alcuni mesi, i parenti, gli amici e lo stesso Tito spinsero Gisippo a prendere moglie e gli trovarono ,come sposa, una bellissima giovane, di origine molto nobile, cittadina di Atene, il cui nome era Sofronia, di quasi quindici anni. Avvicinandosi il tempo delle nozze, Gisippo pregò Tito di andare con lui a vederla, perché non l’aveva ancora vista. Quando giunsero a casa di lei, la fanciulla si sedette in mezzo a loro. Tito cominciò a guardarla attentamente e provò una grande attrazione per lei. Ogni parte di Sofronia gli piaceva straordinariamente e , senza darlo a vedere, se ne innamorò follemente. Dopo essersi trattenuti per un certo tempo se ne ritornarono a casa. Qui Tito, ritiratosi nella sua camera, cominciò a pensare alla giovane e si accendeva sempre di più. Tristi pensieri lo assillavano. Considerava gli onori che aveva ricevuti da Cremete e dalla sua famiglia e l’amicizia che lo legava a Gisippo, a cui la fanciulla era promessa. Perciò , si diceva, la doveva considerare come una sorella ,frenare il desiderio dei sensi e rivolgere altrove i suoi
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