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Decameron VI giornata, Appunti di Letteratura Italiana

Novelle e Analisi VI giornata, dalla quarta alla decima giornata

Tipologia: Appunti

2017/2018
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Caricato il 28/12/2018

dante-catalini
dante-catalini 🇮🇹

4.8

(6)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Decameron VI giornata e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Novella IV Regina → Elissa Narratore → Neifile Giorno → Mercoledi Protagonisti → Corrado Gianfigliazzi (nobile); Chichibio (cuoco); Brunetta (da lui amata); Ospiti forestieri di Corrado Dove → Firenze Quando → XIV secolo, primi decenni Durante una battuta di caccia, Currado Gianfigliazzi, nobile e cavaliere, proveniente da una famiglia di banchieri, trova e uccide una gru, che invia al suo cuoco, Chichibio. Il cuoco cucina a perfezione il volatile. Giunge Brunetta, la ragazza di cui è innamorato Chichibio, che gli domanda una coscia della gru. Il cuoco inizialmente rifiuta, ma, stuzzicato e provocato dalla donna, alla fine cede e le dona una coscia. Chichibio serve poi la gru a Currado e ai suoi ospiti. Non appena vede la zampa mancante, il nobile chiede spiegazioni al cuoco, che risponde che le gru hanno una sola zampa. Il nobile, irritato dalla menzogna di Chichibio, lo sfida: il giorno successivo sarebbero andati a vedere al lago per verificare l'esattezza di questa affermazione. Una volta giunti lì, i due uomini scorgono diverse gru su una zampa sola, cioè nella posizione in cui questi uccelli sono soliti dormire. Currado quindi, gridando “oh, oh”, corre verso gli uccelli, che spaventati volano via, tirando fuori anche la seconda zampa. Currado allora chiede a Chichibio: ''Che ti par, ghiottone? Parti ch’elle n’abbian due?'' Il cuoco risponde con notevole prontezza: ''Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste." L'intelligente risposta di Chichibio fa ridere il nobile Currado, che quindi perdona il cuoco. Analisi Questa breve novella è basata sul motto di spirito finale con cui Chichibio, uomo di condizioni umili, riesce a placare l’ira del padrone e a evitarne la punizione. Ancora una volta uno dei temi principali è proprio l’arguzia di personaggi di estrazione sociale bassa che riescono a comportarsi alla pari con i nobili, grazie alla loro furbizia ed abilità verbale. È evidente che si tratta di una parificazione fittizia: il divario sociale, infatti, non viene colmato, ma solo posto da parte dalla battuta del protagonista. In Chichibio, la caratterizzazione del protagonista non si appoggia però solo sulla sua inventiva e sulla sua capacità di comporre "alcun leggiadro motto" per cavarsi d'impiccio; Chichibio, veneziano d'origine, si esprime spesso nel suo dialetto nativo, come quando risponde a Brunetta che gli chiede la coscia della gru: “Voi non l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì da mi”. Novella V Regina → Elissa Narratore → Panfilo Giorno → Mercoledi Protagonisti → Messer Forese da Rabatta (giurista); Giotto (pittore); Contadino Dove → Mugello Quando → XVI sec. , prima del 1337 Al termine della IV novella, le donne mostrarono di essersi molto divertite per la risposta di Chichibio. Subito Panfilo, per volere della regina, si rivolse alle donne. Disse che spesso come la Fortuna nascondeva grandissimi tesori sotto vili arti, così la Natura nascondeva sotto uomini di aspetto bruttissimo meravigliosi ingegni. Il che si vedeva chiaramente in due cittadini fiorentini dei quali Panfilo voleva parlare. Messer Forese da Rabatta, piccolo e sformato nel corpo, col viso piatto e cagnesco, col viso piatto e cagnesco, che sarebbe sembrato orribile anche per uno qualsiasi dei Baronci, così esperto nelle leggi che fu ritenuto da molti uomini di cultura un vero pozzo di scienze. L’altro, di nome Giotto, fu dotato di un ingegno tanto eccellente che sapeva dipingere ogni cosa data dalla natura. Ottenne la gloria con grandissima umiltà, sempre rifiutando di essere chiamato maestro. Ma, sebbene la sua arte fosse grandissima, egli non era nel corpo e nell’aspetto più bello di messer Forese. Panfilo proseguì dicendo che, avendo messer Forese e Giotto dei possedimenti nel Mugello, messer Forese era andato a vedere i suoi, nel periodo estivo. Per caso, mentre andava su un ronzino, incontrò Giotto, il quale, avendo visitato le sue terre, se ne tornava a Firenze. Tutti e due, mal conciati, sia per la cavalcatura che per il resto, come due vecchi se ne andavano insieme, facendosi compagnia. All’improvviso scoppiò un temporale, per sfuggire alla pioggia, si rifugiarono nella casa di un contadino loro amico e conoscente. Dopo un certo tempo, poiché non smetteva di piovere e dovevano essere in giornata a Firenze, fattisi prestare due mantellacci vecchi e due cappelli molto consumati, ché migliori non ve ne erano, cominciarono a camminare. Camminarono per un po’ e si inzupparono tutti di fango per gli schizzi che i ronzini facevano con gli zoccoli, andando nelle pozzanghere. Rischiaratosi il tempo, dopo un lungo silenzio, ricominciarono a parlare. Messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, che era un ottimo conversatore, cominciò a guardare il maestro dal capo ai piedi, dappertutto. Vedendolo così brutto e malridotto, senza pensare al proprio aspetto, cominciò a ridere e disse: “ Giotto, tu pensi che, se, per caso, ci venisse incontro un forestiero che non ti avesse mai visto, crederebbe che tu sei il migliore pittore del mondo, come ,in realtà, sei?”. E Giotto, prontamente, gli rispose: “Messere, forse che egli, guardando voi, potrebbe credere che sapete l’abicì?”. Analisi Boccaccio in questa novella esalta il potere della parola, capace di trarre d'impaccio e di salvare colui che si trova in una situazione scomoda o di pericolo. Forese provoca Giotto con una battuta e viene indotto a riconoscere il proprio errore dalla risposta arguta dell'amico. Il vero protagonista della novella è Giotto, autore della risposta risolutiva che mette a tacere il provocatore. Novella VI Regina → Elissa Narratore → Fiammetta Giorno → Mercoledi Protagonisti → Michele scalza (bel giovane); brigata di giovani Fiorentini; Neri Vannini; Piero di Fiorentino Dove → Firenze Quando → XIV sec., passato prossimo A termine della IV novella, la regina ordinò alla Fiammetta di continuare. Ed ella incominciò a parlare dicendo che il fatto che Panfilo avesse ricordato i Baronci, che tutte conoscevano bene, le aveva fatto ricordare una novella che avrebbe dimostrato la loro nobiltà, rimanendo nel tema della giornata. Un giovane, chiamato Michele Scalza era l’uomo più divertente del mondo e aveva sempre novelle insolite e originali da raccontare, un giorno, mentre era a Montughi, con un gruppo di amici, si cominciò a discutere su quali fossero gli uomini più nobili di Firenze. Alcuni dicevano gli Uberti, i Lamberti, e chi uno e chi un altro, come gli diceva la testa. Quando → Impreciso ma contemporaneo Finito il racconto, la regina, voltandosi verso Emilia, le fece segno di proseguire. Ella precisò che un pensiero l’aveva distratta per molto tempo, per cui avrebbe narrato una novella più breve di quanto avrebbe fatto se avesse concentrato la sua attenzione sul novellare. Iniziò, dunque, narrando di una giovane che era stata rimproverata dallo zio con un motto molto garbato, se l’aveva ben compreso. Un tale, che si chiamava Fresco da Celatico, aveva una nipote chiamata con il vezzeggiativo di “Cesca”, che aveva un bel corpo e un bel viso, anche se non proprio angelici. Ella si credeva così bella e nobile, che aveva preso l’abitudine di criticare uomini, donne e ogni cosa che vedeva. Risultava, perciò, sgradevole, antipatica e odiosa a tutti e, oltre a ciò, era superba come se appartenesse ai Reali di Francia. Quando camminava per la strada aveva una faccia così disgustata e storceva continuamente il muso. Un giorno, mentre era tornata a casa, dove era anche Fresco, postasi a sedere, non faceva altro che sbuffare. Allora Fresco le domandò perché, essendo un giorno di festa, era ritornata a casa così presto. Al che ella, tutta sorrisi e moine, rispose che era tornata così presto a casa perché, mai come in quel giorno, sulla terra aveva visto tanti uomini e donne così sgradevoli e non ne era passato uno per la strada che non le fosse risultato antipatico. Allora Fresco, al quale i modi altezzosi della nipote non piacevano per niente, le disse “ Figliuola ,se tanto ti dispiacciono le persone spiacevoli, se vuoi vivere lieta, non ti guardare mai nello specchio”. Ma Cesca, vuota come una canna, che pensava di avere la saggezza di Salomone, non diversamente da come avrebbe fatto uno stupido montone, rispose che si voleva specchiare come le altre. E così nella sua presunzione e nella sua stupidità rimase e rimaneva ancora. Analisi Nella maggior parte delle altre novelle, invece, Boccaccio evidenzia l'intelligenza e l'astuzia, ma sapendo che nel "Decameron" vuole rappresentare la vita di tutti i giorni in tutte le sue sfaccettature, è ragionevole pensare che anche questo possa essere stato parte integrante della società fiorentina trecentesca. La novella, inoltre, si può dividere in tre macrosequenze. - La prima è la solita parte introduttiva, la cosiddetta "sequenza espositiva", che caratterizza l'intero "Decameron", ed è narrata da Boccaccio, che è quindi un narratore esterno e di primo grado. - La seconda è, invece, una sequenza prettamente descrittiva: il narratore è, in questo caso, Emilia, un narratore esterno e di secondo grado, che fa un ritratto di Cesca soprattutto psicologico, morale e comportamentale. Questa sequenza ha sicuramente la funzione di rallentare l'azione, in quanto, al suo interno, non accade alcun tipo di evento. - La terza, infine, è narrativa e dialogica, caratterizzata da un breve, ma vivace, scambio implicito di opinioni tra i due protagonisti. I personaggi della narrazione sono statici, e non dinamici: durante lo sviluppo delle vicende mantengono inalterate le loro caratteristiche e non subiscono trasformazioni, mentre, in altre novelle, sono capaci di un'accentuata evoluzione psicologica che conduce, quindi, a sostanziali evoluzioni della propria personalità. Nella narrazione, inoltre, non sono presenti né analessi (flashback) né prolessi (flash-future), infatti, il tempo della storia corrisponde alla durata reale degli avvenimenti. Considerando, poi, che la novella è molto breve (la seconda più corta di tutto il "Decameron"), Boccaccio non ha voluto aggiungere ulteriori sommari o eclissi. Sono presenti, però, sia discorso indiretto che discorso diretto, con quest'ultimo che prevale soprattutto nell'ultima parte della storia. Il registro è colloquiale, a confermare questa tesi è anche la frequente presenza di vocaboli non ricercati e della sintassi semplice tipica del parlato. Novella IX Regina → Elissa Narratore → Elissa Giorno → Mercoledi Protagonisti → Betto Brunelleschi (cavaliere); suoi compagni di brigata (nobili); Guido Cavalcanti (nobile) Dove → Firenze Quando → Fine XIII sec., prima del 1300 La regina, sentendo che Emilia aveva finito la sua novella e che restava da raccontare soltanto a lei e a Dioneo, che aveva avuto il privilegio di essere l’ultimo, cominciò a parlare. Iniziò dicendo che due novelle che aveva pensato di dire erano già state raccontate, gliene rimaneva, comunque, da raccontare una ,che si concludeva con un motto tanto saggio che non se ne era sentito altro. Continuò affermando che in Firenze, vi erano usanze assai belle e lodevoli, di cui, in quel tempo, non ne era rimasta nessuna a causa dell’avarizia che era cresciuta con le ricchezze. Tra queste ce ne era una, per la quale i gentiluomini delle contrade si radunavano in diversi luoghi di Firenze, formavano brigate di un certo numero, facendo in modo che oggi l’uno, domani l’altro, e così in ordine, tutti potessero offrire un banchetto, ciascuno nel giorno stabilito, a tutta la brigata. Spesse volte invitavano anche gentiluomini forestieri, quando capitava, e anche cittadini. E, nello stesso modo, almeno una volta all’anno si vestivano in maniera somigliante e con le persone più importanti cavalcavano per la città. Tra queste brigate ce n’era una di messere Betto Brunelleschi, nella quale con i compagni avevano cercato di far entrare Guido, figlio di messere Cavalcante dei Cavalcanti. Infatti Guido, oltre ad essere uno dei migliori loici (logico di notevole arguzia) del mondo e ottimo filosofo naturalista (cose delle quali la brigata poco si curava), era ricchissimo ed era un gradevolissimo e garbato parlatore, molto abile ad esprimere con le parole le cose che ritenesse valide. Messer Betto non c’era mai riuscito e, con i suoi compagni, riteneva che ciò succedesse perché Guido quando cominciava a fare il filosofo si astraeva dagli uomini . Teneva, poi, in gran conto la filosofia di Epicuro, per cui la gente del popolo diceva che egli voleva solo dimostrare che Dio non esisteva. Un giorno Guido se ne partì dall’Orto di San Michele e andò per il Corso degli Adimari, fino a San Giovanni, tragitto che faceva spesso. Lì c’erano grandi tombe di marmo, che poi erano state portate in Santa Reparata, e molte altre intorno a San Giovanni. Egli si trovava tra le colonne di porfido, le tombe e la porta di San Giovanni, che era chiusa. Messer Betto, venendo a cavallo con la sua brigata, vedendo Guido tra quelle tombe, propose di andare ad infastidirlo. Spronati i cavalli, prima che se ne accorgesse, lo circondarono scherzosamente e gli dissero “Guido, tu rifiuti di far parte della nostra brigata, ma quando avrai dimostrato che Dio non esiste, che cosa avrai fatto?”. Guido, vedendosi circondato, subito rispose “Signori, voi a casa vostra mi potete dire ciò che vi piace”. E, posta la mano su una delle tombe, che erano grandi, molto agilmente la scavalcò e, liberatosi, se ne andò. Tutti, guardandosi l’un l’altro, cominciarono a dire che Guido era uno stupido e ciò che aveva risposto non voleva dire nulla. Infatti si trovavano in un luogo che non aveva niente a che fare con loro, né con gli altri cittadini e, tanto meno, con Guido. Messer Betto, rivolto ai compagni, disse che erano loro gli stolti, che non avevano capito nulla. Invece Guido, con garbo e con poche parole, aveva detto la più grande villania del mondo, perché, se avessero guardato bene, quelle tombe erano le case dei morti, infatti in esse erano sepolti e dimoravano i morti. Se egli diceva che erano a casa loro, voleva dire che loro e gli altri uomini ignoranti, che non erano letterati, a confronto con lui e con gli uomini colti, erano peggio che uomini morti, e, perciò, trovandosi lì, erano a casa loro. Allora ciascuno comprese quello che Guido aveva voluto dire, si vergognarono e non gli dettero mai più fastidio. Da quel momento in poi tennero in gran conto messer Betto, ritenendolo un brillante ed intelligente cavaliere. Analisi In questa novella Boccaccio esalta Guido Cavalcanti come emblema dell’intellettuale che non viene compreso dalla massa, che in lui vede solo, in maniera molto superficiale, una figura originale e solitaria, presa in maniera ossessiva dai propri pensieri. La “beffa” di Guido ai danni della brigata di Betto vuole invece ribadire proprio questa distanza incolmabile tra la gente comune e chi invece si dimostra colto nel sapere: per questo Guido paragona i suoi avversari a dei morti, cioè a corpi ormai privi di vita e di senno. Da questo episodio traspare anche la prospettiva con cui nel Decameron si guarda al tempo passato e ai valori ch’esso incarna: Boccaccio, infatti, esclude la questione politica. Piuttosto, alla luce dell’ideologia dell’opera e della visione del mondo del suo autore, conta la rievocazione, venata di nostalgia, del passato ideale della città di Firenze, in cui ancora esistevano figure, come quella di Cavalcanti, che rappresentavano al meglio un'aristocrazia non solo dei titoli o dei possedimenti ma anche dell’intelletto e della cultura umanistica. Novella X Regina → Elissa Narratore → Dioneo Giorno → Mercoledi Protagonisti → Frate Cipolla; Giovanni del Bragoniera (giovane di Certaldo); Biagio Pizzini (giovane di Certaldo); Nuta (serva dell'albergo); Certaldesi Dove → Certaldo Quando → primi decenni del 1300 N.B. → Certaldo è il paese natio di Boccaccio Avendo tutti componenti della brigata finito di raccontare, era arrivato il turno di Dioneo che, senza aspettare alcun ordine, cominciò a parlare rivolgendosi alle vezzose donne. Disse che, pur avendo libertà di scegliere l’argomento della sua novella, voleva rimanere nel tema del giorno. Voleva, infatti, mostrare come uno dei frati di Sant’Antonio, con spirito pronto, riuscì a sfuggire allo scorno che gli avevano preparato due giovinastri. Continuò dicendo che Certaldo, come tutti sapevano, era un castello di Valdelsa, nella campagna fiorentina, da quel castello si ricavavano buone offerte, vi si recava, una volta all’anno, per raccogliere le elemosine fatte dagli sciocchi abitanti, uno dei frati di Sant’Antonio, il cui nome era frate Cipolla, perché quel terreno produceva cipolle famose in tutta la Toscana. Frate Cipolla era piccolo di persona, con i capelli rossi, sorridente, il miglior brigante del mondo. Oltretutto, pur essendo ignorante, era un grande e arguto parlatore, tanto che chi l’avesse conosciuto avrebbe pensato che fosse Cicerone stesso. Compare di tutti gli abitanti della contrada e secondo la sua abitudine, nel mese di Agosto, il frate andò a Certaldo una domenica mattina. Quando gli sembrò opportuno, si fece avanti e ricordò ai parrocchiani che era loro usanza ogni anno
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