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Decolonizzare il patrimonio, Sintesi del corso di Museologia

Sintesi del libro “Decolonizzare il patrimonio” di M.P. Guermandi per il corso di Politiche museali e didattica del patrimonio della prof.ssa Irene Baldriga, Sapienza Roma.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 20/02/2024

flaviaaa98
flaviaaa98 🇮🇹

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Scarica Decolonizzare il patrimonio e più Sintesi del corso in PDF di Museologia solo su Docsity! Decolonizzare il patrimonio Cap. 1 – Non più com’era, non ancora come dovrebbe essere Sono bastati solo alcuni mesi di pandemia a scuotere il nostro orizzonte di vita e di pensiero, sconvolgendo le strutture economiche e sociali in tutto il mondo. Il ruolo dello Stato, in seguito a questa occasione, ha di colpo riconquistato una posizione centrale. Tuttavia, non appena superato il momento più critico, sono riapparse le contraddizioni. L’Europa, che nei giorni più cupo del lockdown sembrava aver inaugurato uno spirito di condivisione ispirato da obiettivi non meramente economici, si è prontamente rinchiusa nella fortezza securitaria dei suoi confini, occupandosi esclusivamente del mantenimento della sicurezza sociale e dell'ordine pubblico, fra incertezze, egoismi e contraddizioni interne, smentendo una volta di più i principi fondativi cui pretende di ispirarsi.Anche per quanto riguarda il patrimonio culturale quest’ultimo biennio ha provocato non poche fratture e mutamenti, tra cui una forte crisi del turismo generale e culturale nello specifico, ridefinendo i modelli di gestione delle istituzioni culturali (musei, teatri, eventi), considerati fino al 2019 come esempi virtuosi. Questa crisi in Italia è stata aggravata da una politica incapace di progetti di sistema e da una ben poco cooperativa pubblica Amministrazione che hanno di fatto esacerbato le lacune della concezione e gestione del nostro patrimonio, ormai asservito alle sole esigenze del turismo. Gli struggenti appelli all’importanza della cultura in termini di creazione di risorse civili e sociali del primo periodo di pandemia si sono rivelati semplici esercizi retorici dal momento che gli obiettivi politici sono rimasti ancorati ai modelli precedenti di valorizzazione e spettacolarizzazione del patrimonio. Nel nostro Paese la pandemia non ha fatto altro che accelerare ed evidenziare le fragilità su cui si regge tutto il comparto che comprende la gestione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico, caratterizzato da grande frammentazione, da lavoro precario e sottopagato, pur se di altissima qualificazione, con modelli di gestione instabili e infine, da scarso tasso di innovazione (si sfrutta la rendita del patrimonio culturale in termini turistici, investendo il meno possibile sulla manutenzione e sulla ricerca). Sono problemi che vengono da lontano e che possono essere ricondotti a un ritardo complessivo del nostro paese per quanto riguarda l’elaborazione di politiche culturali adeguate a un contesto sociale radicalmente mutato negli ultimi decenni. L’altra faccia della medaglia di questo ritardo è senz’altro la retorica, replicata all’infinito, del “Paese più bello del mondo”, quello che possiede la percentuale maggiore del patrimonio culturale. Tuttavia, il paese più bello del mondo è sentito come tale esclusivamente in virtù di un patrimonio passato, di cui ci proclamiamo eredi per ius sanguinis, ma che rimane costantemente scisso dalla vita quotidiana, dall’evoluzione delle nostre città, dei nostri paesaggi e della nostra vita civile e sociale, “museificato” non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente. Il testo in esame propone la lettura del rapporto fra patrimonio culturale e colonialismi vecchi e nuovi, presentandosi come un atto di ottimismo nelle possibilità di evoluzione del ruolo sociale del nostro patrimonio culturale, ripartendo sia da una critica di ciò che è successo, che dalla proposta di percorsi alternativi. La tesi portata avanti è che l’esperienza coloniale italiana, che ancora oggi appare sostanzialmente marginalizzata nella percezione collettiva, in realtà ha avuto conseguenze profonde su molte dinamiche sociali, ma soprattutto che queste conseguenze siano tuttora operanti su molteplici aspetti della nostra vita collettiva, a partire da alcune pratiche patrimoniali e da una sostanziale mancata democratizzazione nell’accesso al patrimonio, nella sua definizione e nei suoi usi. La fase del colonialismo moderno che viene presa in considerazione è l’ultima, che va dalla metà del XIX ai primi decenni del XX secolo, cioè quella che ha di fatto modellato il sistema in cui ci muovano ora, con conseguenze che si protraggono nella contemporaneità. La prima parte del testo si concentra sulle fasi salienti che hanno contraddistinto il rapporto strumentale del colonialismo nei confronti del patrimonio culturale in Europa e in Italia; la seconda parte invece riguarda la parte postcoloniale (dal secondo dopoguerra ad oggi), per evidenziare le molte continuità tra periodo coloniale e mondo globalizzato attuale, nell’ambito delle politiche del patrimonio culturale e dei musei a causa del perdurare dei rapporti di forza fra colonizzatori ed ex colonie. Gli studi post e decoloniali costituiscono, anche per il settore del patrimonio culturale, una strumentazione critica efficace, soprattutto se coniugati con le recenti pratiche “dal basso” che movimenti e comunità vanno sperimentando in un nuovo attivismo che riguarda anche patrimonio e musei (black lives matter, cancel culture, repatriation dei beni). Parlare di decolonizzazione del patrimonio culturale significa evidenziare come l’ideologia coloniale sia ancora pienamente attiva in Europa, come nel nostro Paese., ed è quindi una faccenda che dovremmo affrontare se vogliamo pensare a un uso più democratico e socialmente più evoluto del patrimonio. Cap. 2 – Prologo. Gli heritage studies: nascita di una disciplina Il concetto di patrimonio culturale è moderno, la sua genesi può essere fatta risalire all’Italia rinascimentale, quando la cultura e il patrimonio culturale, trasformati dall’incontro/confronto con il diverso nel tempo (l’antico) e nello spazio (popolazioni extraeuropee), erano diventati un mezzo di emancipazione sociale e di autodeterminazione. Lo sviluppo di questo concetto e la sua affermazione definitiva in ambito occidentale si possono collocare alla fine del XVIII secolo, nella Francia illuminista e rivoluzionaria che trasformò il patrimonio culturale dell’ancien regime in uno strumento per affermare le nuove virtù civiche dell’emergente classe borghese. Da questo momento in poi il patrimonio è diventato strumento di costruzione principale degli Stati-nazione europei, affermandosi insieme alla lingua e al territorio come elemento costitutivo dell’identità nazionale. In ambito coloniale il ruolo del patrimonio sarà poi indistricabilmente connesso ad una funzione politica, verrà usato nel processo di affermazione dell’egemonia culturale occidentale, soprattutto dagli ultimi decessi del XIX secolo, fino ai primi del successivo. In questi primi due secoli quindi il patrimonio culturale si caratterizzerà come espressione dei meccanismi di sapere-potere, mentre il periodo post-bellico sarà caratterizzato da una sua rinnovata necessità sociale, fondamentale per la costituzione degli heritage studies. Le operazioni di ricostruzione dalle macerie (sia fisiche che morali) della guerra avevano già evidenziato come per la società europea tutta il recupero del patrimonio culturale rappresentasse un obbiettivo di grande importanza, sia a livello politico che comunitario/locale. Risalgono invece agli anni ’60 le prime iniziative della società civile a difesa dei siti o monumenti in pericolo o destinati ad essere distrutti dallo sviluppo urbano e industriale. Esempio: nel 1966 gli “angeli di fango” che aiutarono Firenze travolta dall’Arno a recuperare il proprio patrimonio artistico e librario arrivarono da tutto il mondo, a dimostrare l’allargamento a livello planetario di una nuova sensibilità nei confronti del patrimonio culturale, e anche di come tale patrimonio fosse ormai percepito come valore collettivo. Gli anni ’60 furono anche il momento in cui si avviò una rapida democratizzazione nell’accesso al patrimonio culturale, sentito sempre più come elemento di crescita sociale. E’ in questo mutato panorama storico e sociale che si afferma una concezione del patrimonio allargata a comprendere non più solo le opere d’arte o di architettura, ma i “beni culturali”, ovvero tutti gli oggetti, edifici, siti che, indipendentemente dal loro valore artistico, possano essere definiti “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Nel 1967 la Commissione Franceschini promosse per la prima e ultima volta nella sua storia un’indagine approfondita sulla situazione del nostro patrimonio culturale che attivò una discussione culturale sui temi del patrimonio, la sua salvaguardia e del suo accesso, riuscendo ad allineare l’Italia alle correnti più aggiornate del dibattito mondiale. Tra gli anni ‘60/’70 si era affermato un concetto di patrimonio culturale più ampio che fino a quel momento era rimasto circoscritto nell’ambito delle humanities, e quindi soprattutto degli studi storico-artistici, archeologici e di storia dell’architettura. Nei primi anni ’80 prenderà forma un insieme di ricerche e analisi ormai considerati come fondativi rispetto a una disciplina specifica sull’heritage. Questo fermento, caratterizzato da una marcata interdisciplinarità, si sviluppò in massima parte all’interno di due specifiche tradizioni culturali: - Anglosassone: in cui i dibattiti fecero emergere una nuova interpretazione dell’uso del patrimonio culturale come fenomeno sociale (TESTI?) - Francese: in cui il patrimonio diventa portatore di significati simbolici e storici, a prescindere dalle caratteristiche estetiche. La domanda sempre più allargata di accesso al patrimonio dagli anni ’70 in poi, ebbe conseguenze profonde anche sul piano della ridefinizione del ruolo del museo. Alla seconda metà degli anni ’80 può essere fatta risalire quella che sarà denominata “new museology”, un nuovo ambito di ricerca che elaborò una critica sempre più radicale nei confronti di un’istituzione museale di tipo tradizionale, concentrata esclusivamente sulle proprie collezioni e votata a una trasmissione monodirezionale del sapere e alla selezione e gerarchizzazione delle forme culturali come strumento di consolidamento delle gerarchie sociali costituite. Al contrario, la new museology affermava la necessità, per il museo, di riorganizzare le proprie politiche espositive a partire dalle esigenze del pubblico, utilizzando nuove modalità di comunicazione e di trasmissione del sapere. La gerarchia sociale sui cantieri vedrà sempre gli occidentali a dirigere le operazioni e la manovalanza locale a eseguire materialmente le attività. Gli obiettivi di scavo, inoltre, rifletteranno in questa prima fase di archeologia coloniale “informale”, solo le gerarchie di valori occidentali: era importante portare alla luce esclusivamente le testimonianze delle grandi culture classiche, anche a costo di distruggere per sempre le testimonianze di altri periodi storici o di altre civiltà. Questi rapporti di forza furono, sin da subito, chiari e a senso unico, nonostante non mancarono attriti ed episodi di resistenza o comunque forme di produzione alternativa alla visione del patrimonio elaborata dall’Occidente. Tuttavia, il mainstream occidentale fu quello di un “violenza epistemica”, culturale e sociale. In generale il patrimonio locale fu utilizzato dalle potenze colonizzatrici per testimoniare la ricchezza, anche culturale, delle colonie possedute. Le esposizioni universali e nazionali, dalla metà del XIX secolo costituirono una delle modalità più popolari attraverso le quali, nei paesi occidentali, fu teatralizzata la competizione tra le varie potenze coloniali, anche attraverso l’esibizione del patrimonio culturale. Forme estremamente efficaci di autorappresentazione e celebrazione dei successi in campo tecnologico e culturale e del mito del progresso di cui il colonialismo era l’esito sul piano politico e militare. Attraverso le ricerche archeologiche e antropologiche i colonizzatori europei acquisirono al contempo una migliore conoscenza dei territori sotto il loro controllo. Nel complesso, il rapporto degli europei con il patrimonio culturale di derivazione non classica fu ispirato ad atteggiamenti anche contraddittori, in cui si alternarono sottovalutazione, ad ammirazione e profondo interesse nei confronti di civiltà fino ad allora scarsamente conosciute. Le esposizioni universali svolsero, inoltre, un importante funzione di conoscenza del patrimonio culturale delle colonie per un pubblico vastissimo, riuscendo ad attirare una platea di visitatori enormemente più vasta e differenziata rispetto ai musei. Nel loro insieme, quindi, i musei archeologici e antropologici dell’Ottocento e primo Novecento divennero lo specchio del tentativo occidentale di classificazione e ordinamento, non solo di oggetti ma soprattutto delle popolazioni delle colonie, strumento funzionale a veicolare il messaggio principale dell’ideologia colonialista che vedeva come ultimo e migliore anello della catena del progresso umano, la razza bianca. Dopo la Prima guerra mondiale, il riassetto territoriale seguito agli esiti del conflitto consentì ai due imperi vincitori, Francia e Inghilterra, di spartirsi a tavolino, oltre ai territori dell’Impero ottomano, anche le rispettive zone di attività archeologica. Le devastazioni e i saccheggi del colonialismo raggiunsero il loro culmine con lo “scramble for Africa”, sancito dal Convegno di Berlino del 1884-85, con cui si diede avvio all’ultima fase del colonialismo europeo. A partire da questo evento si scatenò, con pochissime eccezioni, un feroce colonialismo con finalità predatorie, determinato ad uno sfruttamento intensivo delle immense ricchezze naturali del continente africano. Attraverso le small wars gli eserciti europei si impadronirono di enormi territori, procedendo di pari passi al saccheggio indiscriminato del patrimonio, provocando una sorta di genocidio culturale che portò all’azzeramento di testimonianze di tradizioni culturali millenarie considerate dagli europei estranee alla storia e alla civiltà che non fosse quella importata dai colonizzatori. Oggi si calcola che oltre il 90% del patrimonio culturale africano si trovi fuori dal continente. Nella gerarchia museografica e accademica occidentale il patrimonio culturale africano continuerà ad occupare l’ultimo scalino dell’evoluzione, rappresentando la diversità del “selvaggio” e del “primitivo”. Oltre al saccheggio, le conseguenze del colonialismo si riconnettono anche all’impatto culturale che le potenze europee esercitarono sulle loro colonie, imponendo paradigmi cognitivi occidentali, considerati universalmente validi (pratiche di identificazione, classificazione e conservazione connesse al patrimonio, che divenne un concetto centrale nel processo di civilizzazione). È chiaro che non fu un percorso a senso unico: nel definire la cultura “altra”, l’Occidente venne automaticamente a definire la propria identità, sì come superiore, ma modificata a sua volta dal contatto e dallo scambio, da un processo di ibridazione. L’approccio nei confronti del patrimonio culturale locale da parte degli europei mutò in particolare all’inizio del ‘900, quando maturò una piena consapevolezza dell’importanza di quel patrimonio e della necessità di una tutela. Lentamente iniziarono ad essere inserite nelle istituzioni di ricerca anche figure di studiosi e archeologi locali che avviarono un percorso di critica e rettifica delle precedenti ricostruzioni. Con l’arrivo della Seconda guerra mondiale si avvierà una fase postcoloniale anche in Asia e in Africa e, a livello globale, il patrimonio culturale comincerà a conoscere una fase di crescente successo, intrecciata all’esplosione del turismo di massa. Cap. 4 – Il patrimonio alla riconquista del mare nostrum: l’avventura coloniale italiana Il percorso del colonialismo italiano attraversa le stesse coordinate ideologiche degli altri Paesi occidentali, nonostante sia cominciato decenni dopo. Le mire colonialiste nacquero fin dai primi anni dopo la costruzione del Regno d’Italia, a conferma dell’interpretazione del colonialismo come esito inevitabile dei processi di nation- building europei. Come per gli altri paesi, le missioni archeologiche in molti casi precedettero o comunque accompagnarono l’avanzata degli esercizi colonizzatori. L’archeologia fu quindi una giustificazione ideologica fondamentale per il processo colonizzatore. La conquista del famoso “posto al sole” si indirizzò a partire dagli ultimi decenni dell’800 e poi con più grinta nel ventennio fascista, alla ricerca di territori da sfruttare verso l’Africa Orientale, divenuti di grande importanza sul piano commerciale dopo l’apertura del canale di Suez (Rodi e altre isole del Dodecaneso, Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia e l’Albania). Durante l’avventura libica protrattasi dal 1911 al 1943 il ruolo del patrimonio archeologico come “instrumentum imperii” fu una costante di tutta la nostra vicenda coloniale. Le iniziative militari furono precedute, negli anni immediatamente antecedenti alla guerra, da una diffusione costante di un messaggio: la necessità di un ritorno nelle terre dell’Impero romano. La legittimazione della guerra e dell’occupazione fu fornita quindi dalla pretesa eredità che l’Italia poteva vantare, ben più di altre nazioni, nei confronti di territori che avevano fatto parte dell’Impero. Le “guerre di Roma” vennero definite queste conquiste da parte degli eredi del grande impero che aveva dominato il mare nostrum. Il mito del ritorno fu esaltato non solo dalla classe politica ma anche da storici, poeti e giornalisti che durante il ventennio fascista sostennero il diritto italiano al possesso di quei territori. Sul piano della propaganda interna di cercò una legittimazione dell’impresa attraverso la narrazione di rivincita di una nazione storicamente caratterizzata dalla migrazione e finalmente alla pari delle altre nazioni occidentali. Tuttavia, lo scoppio della Prima guerra mondiale, nel corso del primo decennio di occupazione, e una resistenza diffusa e indomabile da parte delle popolazioni locali, impedì l’avvio di estese campagne di scavo. Peraltro, le operazioni dell’esercito italiano provocarono non pochi danni ai monumenti ed edifici storici. Il mistificante uso simbolico del patrimonio culturale connesso all’epoca classica assunse da subito un carattere totalizzante, a danno di tutto ciò che non vi era direttamente riconducibile. Il valore del patrimonio locale consisteva non nella sua rilevanza storico-artistica o culturale, ma nell’esotismo che era in grado di rievocare. Il patrimonio archeologico delle antiche città costiere del territorio nordafricano assunse un’importanza strategica, diventando icona di una propaganda che si allineava con quanto stava avvenendo in quegli stessi anni nella capitale. Mussolini passò dal disprezzare i reperti archeologici (nell’ottica futurista) a sfruttare la romanità per esaltare la sua immagine pubblica e quella del regime, accreditandosi, a partire dagli anni ’30, come l’erede di Augusto, così come il fascismo era destinato a ripercorrere le orme dell’Impero Romano. Fu così che Roma fu sventrata in alcuni dei suoi quartieri storici (rinascimentali e medievali), soprattutto nell’area centrale, per essere trasformata in un immenso palcoscenico in cui i resti archeologici diventarono le quinte scenografiche al servizio della propaganda del regime (costruzione di via dell’Impero per collegare piazza Venezia al Colosseo). La strumentalizzazione propagandistica dei siti archeologici impose molti sacrifici scientifici: gli scavi vennero eseguiti di fretta, senza adottare le giuste metodologie scientifiche e talvolta erano seguiti da anastilosi (ricomposizione con i pezzi originali) restauri, eseguiti frettolosamente senza i dovuti studi preliminari, poiché erano indispensabili per mostrare la grandiosità dei siti di cui si poteva fregiare la colonia fascista. La propaganda del regime sfruttò in ogni modo le immagini che illustravano i siti delle antiche città e i ritrovamenti, soprattutto scultorei per testimoniare attraverso la bianchezza marmorea una superiorità razziale rispetto a quella indigena. I successi archeologici, oltre ad essere vetrina spettacolare delle conquiste coloniali per le altre nazioni europee, vennero sfruttati soprattutto nella propaganda interna per giustificare gli enormi sforzi economici che le imprese coloniali comportavano e coprire i vari fallimenti. I siti archeologici scavati e restaurati dal regime divennero poi icone del marketing turistico. A partire dagli anni ’30 il circuito turistico fu decisamente sostenuto, i flussi turistici aumentarono insieme alle infrastrutture a loro sostegno (grande strada litoranea che dal confine tunisino arrivava a quello egiziano) anche per trovare un altro sbocco economico alla costosa impresa libica. Tuttavia, anche in questo caso, l’obiettivo prevalente fu quello propagandistico. Attraverso le riviste illustrate, i documentari e i cinegiornali gli italiani vennero a contatto con una realtà fino al allora sconosciuta: le immagini dei monumenti e delle statue costituirono una testimonianza a sostegno della grandezza della conquista africana. Gli itinerari turistici avevano come meta non solo i grandi siti archeologici ma ancor di più i villaggi, centri, infrastrutture costruiti dal regime ed erano costruiti per diffondere anche, e forse soprattutto, l’immagine di un territorio non più d’isolamento desertico, ma ormai moderno e civilizzato dall’opera colonizzatrice. Attraverso le visite ai villaggi nomadi il turista aveva esperienza dell’esotico che connotava le popolazioni indigene e otteneva il risultato di una conferma definitiva della superiorità della nostra cultura. E’ indubbio che l’opera di propaganda ebbe un notevole impatto sull’immaginario di ampi strati della popolazione italiana. In anni recenti è stato riconosciuto nell’avventura coloniale italiana, i sintomi di un meccanismo di trasformazione del sistema colonialistico destinato non più solo a fini di sfruttamento delle risorse o di popolamento, ma di turismo culturale, reale, e ancora di più immaginato (vissuto attraverso i materiali illustrativi, le guide, le riprese cinematografiche). Alla fine del ’34 il regime, conscio del potenziale del turismo come meccanismo di costruzione del consenso, incardinò le due principali associazioni turistiche nel sottosegretario per la stampa e Propaganda, destinato a diventare nel ’37 il famigerato Minculpop. Così come era accaduto per i siti degli altri paesi coloniali, sui cantieri archeologici la divisione dei ruoli è chiarissima: a dirigere gli archeologi, tecnici, studiosi colonizzatori, mentre ogni lavoro di manovalanza è riservata ai locali. In alcuni casi si trattò di vero e proprio lavoro forzato, in quanto gli operai provenivano dai campi di concentramento in cui fu ridotta la popolazione nomade. Il mito della romanità della colonia africana funzionò anche in chiave antisemita, per la costruzione della superiorità della razza bianca, a cui contribuirono anche le mistificazioni dell’archeologa preistorica. Nella prima metà degli anni ’30 una missione aveva identificato nei resti degli antichi abitanti del Fezzan, I Garamanti, una razza bianca penetrata dalla costa fino al Sahara, testimonianza del punto più meridionale raggiunto dalla civiltà mediterranea. Razzismo e colonialismo rappresentarono dunque due facce della stessa medaglia, soprattutto a cavallo dell’emanazione del Manifesto della razza e delle leggi. Il patrimonio archeologico dell’antichità aveva fornito materiale per costruire l’ideologia antisemita, mentre il patrimonio arabo e locale venne salvaguardato, quando non ostacolava attività o insediamenti, a certificazione di un esotismo pur sempre utile alla connotazione delle popolazioni arabe come “diverse” e quindi inferiori, lungi quindi dall’essere un’occasione di conoscenza. Alla fine della guerra d’Etiopia (1935/36), i territori abissini, uniti a quelli eritrei e somali andarono a costituire la colonia dell’Africa Orientale Italiana. Fra le pratiche coloniali esercitate dall’impero italiano non mancò quella del saccheggio del patrimonio culturale: negli anni dell’occupazione del territorio etiope (che terminò nell’ ’41), continuarono ad essere depredati oggetti di ogni tipo che andarono ad arricchire le collezioni dei musei o di privati italiani. Anche in Africa Orientale le ricerche archeologiche precedettero e accompagnarono le occupazioni militari. Il sito di maggiore importanza era quello di Axum, di cui uno dei tratti distintivi erano le stele collocate a decine nella città sacra, monoliti granitici con decorazioni incise e alte talvolta fino a 34 metri. Comprendendone le potenzialità simboliche nel ’36 il ministro delle colonie decise il trasferimento della stele più alta a Roma, come omaggio a Mussolini, riproponendo quel parallelo fra il duce e l’imperatore augusto, così come quest’ultimo aveva fatto trasferire a Roma gli obelischi egizi dopo l’assoggettamento dell’Egitto, così faceva Mussolini. Le operazioni si svolsero con grandissima difficoltà, provocando notevoli danni all’intera area archeologica. Il patrimonio culturale sottratto alle colonie non ebbe in Italia la stessa funzione che in altri Paesi: i grandi musei storici italiani hanno genesi diversa e precedente rispetto ai musei universalistici delle altre potenze coloniali. Non per questo mancano esempi di collezioni frutto del saccheggio dei territori coloniali (reperti egizi ad esempio). La legislazione che dal 1912 legava i reperti archeologici recuperati in Tripolitania e Cirenaica al loro territorio evitò il trasferimento indiscriminato dei materiali archeologici in Italia. In Italia mostre ed esposizioni temporanee, più che i musei coloniali, furono strumento fra i più efficaci nella costruzione dell’immaginario coloniale per la maggioranza della popolazione che trovò così conferma della “necessita storica” e del successo dell’avventura coloniale. Durante il fascismo poi le esposizioni divennero uno dei mezzi sui quali la propaganda investì maggiormente perché in grado di attirare un pubblico vastissimo I finanziamenti furono solo in parte versati dai vari stati che parteciparono all’impresa e in maggioranza provenienti dall’Egitto e da varie campagne di finanziamento che ricevettero adesioni da tutto il mondo, anche da parte di singoli cittadini. Da questo punto di vista il programma di salvataggio dei monumenti e siti nubiani ebbe un impatto straordinario nella diffusione di un concetto “universalista” del patrimonio culturale. Ma sul piano scientifico il programma ripropose alcune pratiche proprie di un’archeologa coloniale (gestione della manodopera locale e delle strategie di ricerca sul campo e analisi dei risultati), affidando la maggior parte dell’operazioni a team stranieri, in larga maggioranza occidentali, esaltando in questo modo la supremazia tecnologica occidentale. Le esperienze di recupero del patrimonio che caratterizzò i primi decenni costituirono la premessa per l’elaborazione della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale, emanata nel novembre del 1972 ed entrata in vigore dal ’75. In questo modo l’UNESCO affermò il proprio ruolo di principale istituzione a livello internazionale nell’ambito della salvaguardia del patrimonio monumentale, in grado di elaborare standard e linee guida validi universalmente, ma soprattutto in grado di certificare quei monumenti, siti archeologici o naturali dotati di “straordinario valore universale” tale da renderli degni di una protezione a livello mondiale e la cui gestione, affidata ai singoli Stati proprietari dei beni, sarebbe stata comunque monitorata dagli esperti UNESCO. Sulla base dei criteri stabili dalla convenzione i singoli stati membri avrebbero potuto segnalare i propri siti o monumenti da iscrivere alla World Heritage List. Nonostante le criticità crescenti la WHL è sicuramente diventato il programma di maggior successo dell’UNESCO. I maggiori argomenti di dissenso riguardano la scarsa rappresentatività della lista, troppo sbilanciata a favore del patrimonio europeo e la pretesa logica scientifica dei criteri adottati nella valutazione delle candidature: molti hanno contestato l’ambiguità di criteri quali quello di “autenticità”, oltre che la netta prevalenza data a un patrimonio di tipo monumentale e legato ad epoche passate. Il progressivo ampliamento e riallineamento concettuale dei criteri ha consentito dal 1992 l’inserimento di una nuova tipologia di siti, i paesaggi culturali (cultural landscapes), ovvero territori connotati da particolari valori simbolici, sacrali, identitari, presenti nelle tradizioni culturali (come quelle degli aborigeni australiani). Allo stesso modo, per rendere finalmente conto del valore antropologico del patrimonio, nel 2003 fu emanata la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile. La lista che però ne elenca le pratiche, gli oggetti, le espressioni e le forme cultuali che lo definiscono è stata mantenuta separata dalla WHL, dimostrando come in realtà non sia mutata la logica di fondo della WHL, tuttora ancorata ad una concezione del patrimonio culturale eurocentrica e iconica. Per questo motivo i postcolonial studies hanno sottolineato come le politiche universaliste UNESCO hanno in realtà contribuito a dare continuità ad una logica di tipo coloniale, in cui le potenze del nord del mondo cercano di proseguire il proprio dominio imperiale. Negli ultimi anni il programma UNESCO si è trasformato in un processo di brandizzazione di siti e monumenti finalizzato principalmente a un loro migliore sfruttamento turistico, per cui ottenere il riconoscimento della WHL è diventato sempre più un affare politico. Per molti anni i gruppi di potere più influenti in seno al WH Centre (centro che monitora il processo di iscrizione) sono stati costituiti dalle nazioni europee. Ciò ha permesso di premiare la concezione europea del patrimonio culturale a danno di altre e quindi di continuare a garantirne la supremazia. Inoltre, i processi d’iscrizione sono molto costosi e penalizzano, pertanto, i paesi economicamente più svantaggiati. Molti dei paesi post-coloniali, invece di discutere sull’effettiva validità dei criteri di valutazione e su di un concetto di patrimonio sempre meno rappresentativo, riproducono, di fatto, gli stessi meccanismi delle potenze culturali europee, con il miraggio di recuperare attraverso lo sfruttamento turistico, quei ritardi economici in gran parte frutto del dominio coloniale. Così in molti casi i Paesi extraeuropei hanno cercato di “adattare” i loro siti agli stessi criteri di monumentalità, autenticità, integrità, propri della concezione occidentale di patrimonio culturale. Questo meccanismo “mimetico” testimonia come la logica originaria dell’UNESCO sia ancora in grado di imporre una sorta di assimilazione di sapore neocoloniale. Le tensioni, tuttavia, sono molteplici: da un lato l’inserimento nella WHL, per alcuni siti, rappresenta pur sempre una protezione contro minacce di speculazione edilizia, contro degrado o abbandono, ma allo stesso tempo rischia di innescare o rafforzare processi di “gentrification” e stravolgimento di interi centri e aree storiche, a danno degli strati più deboli della popolazione. Il turismo culturale, di cui l’UNESCO per anni ha sostenuto lo sviluppo, si è ora trasformato in una vera e propria minaccia all’integrità culturale dei siti stessi. In molti casi l’investimento dei siti nella WHL ha comportato la “sanificazione” dei siti stessi da cui sono stati allontanati gli abitanti del luogo per favorire una fruizione di quelle località più consona agli standard di turismo internazionale che si aspetta siti ripuliti e “musealizzati”, vale a dire lontani da un contesto di vita ordinario. Anche in questo caso si assiste ad una logica culturale di continuità coloniale che riconosce come valide solo le modalità di accesso al patrimonio aderenti alle consuetudini occidentali, a costo di separare i luoghi del patrimonio da chi li abita e li vive quotidianamente, snaturando così i paesaggi culturali che vi erano espressi. Le proteste verso concezioni eurocentriche si sono moltiplicate a partire dagli anni ’90 e nel 1994 l’organizzazione rispose alle accuse cercando di affiancare a una concezione esclusivamente universalista nuovi criteri e un approccio “regionalista” al patrimonio al fine di migliorare la democraticità dei processi di selezione, tenendo conto, ad esempio, anche dei valori e dei patrimoni di minoranze etniche o comunità emarginate. Per contrastare approcci nazionalistici fu introdotta anche la categoria dei siti transnazionali, cioè condivisi tra più stati. Il successo della Convenzione e del programma WHL, a quasi 50° anni dal lancio, sottolineano anche la crisi dell’istituzione UNESCO, perché dimostrano quanto gli Stati-nazione siano i veri arbitri delle politiche dell’organizzazione, affossandone una capacità di visione realmente sovranazionale. Il riconoscimento dei patrimoni nella WHL si lega a molteplici motivazioni politiche che non si limitano all’ambito dello sviluppo turistico, ma si innestano nei vari conflitti geopolitici (Palestina e Israele ad esempio). Per quanto riguarda la WHL del patrimonio intangibile, non poche sono le difficoltà che vi si legano, a partire dalla contraddizione fra una “musealizzazione” a cui il processo della WHL inevitabilmente conduce e pratiche e usi di cui si compone invece il patrimonio intangible per loro natura incompatibili a classificazioni e standardizzazioni rigide, se non a prezzo del loro snaturamento. Attraverso la WHL del patrimonio intangibile l’UNESCO ha cercato di rispondere alla necessità sempre più attuale di una decolonizzazione del concetto di patrimonio non più solo incarnato dai valori monumentali delle grandi architetture storiche o dei siti archeologici, ma più direttamente collegabile alla vita delle comunità locali. Pertanto, all’interno della Convenzione sul patrimonio intangibile, si è cercato di valorizzare la partecipazione delle comunità come modalità privilegiata nel processo di identificazione dei patrimoni intangibili da candidare. Tuttavia, le analisi condotte in periodi successivi hanno messo in discussione il livello di coinvolgimento reale delle popolazioni locali in queste procedure e soprattutto decostruito le molte ambiguità dei processi partecipativi attraverso i quali si ripropongono spesso modalità ancora fortemente neocoloniali nel controllo del patrimonio. Oltre le WHL il ruolo dell’UNESCO nelle politiche di salvaguardia del patrimonio è tornato di drammatica attualità con l’inizio del millennio, con gli avvenimenti bellici che hanno insanguinato il Medio Oriente e l’avanzata del radicalismo islamico che ha coinvolto anche il patrimonio culturale. Esempio 1: distruzione delle due statue giganti di Buddha nel marzo del 2001 da parte del governo talebano allora al potere in Afghanistan che ha ripreso le operazioni e trasmesse in tutto il mondo, sollevando una generale condanna. La distruzione fu solo l’epilogo di un lungo confronto sulla sorte dei Buddha iniziato dai precedenti governi afghani (anni ’80) che avevano cercato, senza successo, di ottenere l’iscrizione delle statue nella WHL. I talebani arrivati al potere nel ’96 minacciarono più volte di distruggere le statue in osservanza della presunta legge islamica contro la raffigurazione di idoli, ma l’UNESCO riuscì a trovare un compromesso, tuttavia, non riconoscendo il governo come tale (neanche l’ONU), non poté mai iniziare il percorso di iscrizione nella WHL. Con il rovesciamento del governo talebano dell’11 settembre, in seguito all’invasione NATO del Paesi, i responsabili UNESCO iniziarono la ricognizione dell’area e la protezione delle strutture rimase che nel 2003 entrarono a far parte della WHL. La vicenda evidenziò a livello mondiale l’importanza rivestita dal patrimonio e la complessità del ruolo che svolge in un contesto geopolitico la cui fragilità sarà sempre aggravata dall’incomprensione delle dinamiche sociali locali da parte dell’occidente. L’UNESCO fallì nel suo intento di salvare le statue, ma ottenne in compenso un riconoscimento globale delle sue funzioni a difesa dei valori universali di civiltà incarnati dal patrimonio. Molti altri sono i casi di danni al patrimonio archeologico dei siti “culla delle civiltà” inferti durante le operazioni militari della seconda guerra del Golfo (2003) o della Primavera arava (2011). A partire dal 2014 l’avanzata dell’esercito dell’Isis, le cui distruzioni “rituali” del patrimonio culturale sono state replicate all’infinito sugli schermi di tutto il mondo come riprova della potenza dell’esercito islamico, espressione di un islamismo integralista e iconoclasta. Al di là di una rigida osservanza del credo religioso, è indubbio che le distruzioni colpissero non solo le raffigurazioni umane di rilievi e statue, quanto il valore simbolico che avevano assunto per l’Occidente, quello incarnato dall’archeologia e dai musei di matrice coloniale. Esempio 2: distruzione e saccheggio da parte delle milizie dell’Isis del sito di Palmira, luogo fortemente radicato nell’immaginario occidentale poiché negli anni è stato interessato da missioni archeologiche da parte di tutti i Paesi, per cui rappresenta una sorta di sintesi dell’archeologia coloniale occidentale in Medio Oriente. Nel 1980 il sito entrò a far parte della WHL aumentando ancor di più la sua attrattività. Dal 2015 il sito venne occupato dall’Isis e il teatro romano divenne luogo della vendetta islamica, dove avvenivano le esecuzioni capitali regolarmente filmate. In questa vicenda l’UNESCO giocò un ruolo di primo piano, contribuendo a raccontare la vicenda come una guerra fra civiltà e barbarie, secondo la logica del “noi-loro” tipica del linguaggio da “civilizzatori” che non ha aiutato a liberare l’immagine dell’UNESCO come istituzione dal forte retaggio coloniale. Inoltre, come è apparso evidente in quegli anni, l’attenzione dell’organizzazione nella denuncia delle distruzioni belliche si è concentrata prevalentemente sulle perdite subite dal patrimonio monumentale delle civiltà classiche (lo stesso del colonialismo informale ottocentesco), anche se non sono mancate appelli e documenti, non altrettanto efficaci, per la protezione del patrimonio islamico che ha subito, a sua volta, danni irreparabili. [distruzione di tre siti nella WHL in Yemen durante i bombardamenti sauditi del 2015 – a cui le potenze occidentali hanno dato aiuto e consenso – non ha ricevuto lo stesso interesse mediatico e soprattutto le stesse cifre stellari per la raccolta fondi attivata nel 2019 per l’incendio di Notre Dame. Un altro tema è quello del traffico illegale di oggetti del patrimonio culturale, fenomeno incrementato fortemente dall’Isis che lo sfrutta come principale forma di sostentamento insieme al petrolio, stigmatizzato in ogni modo dall’UNESCO, ma esistente soprattutto perché alimentato dalle richieste incessanti di compratori situati in larga preponderanza nel Nord America e in Europa. Con la dissoluzione dello stato islamico nel 2017 l’UNESCO si è concentrata sulla ricostruzione dei patrimoni distrutti esportando il proprio principio di ricostruzione integrale. Posizione che ha attivato una discussione tuttora in corso sulla necessità di un approccio differenziato che tenga conto delle diversità dei contesti e soprattutto delle esigenze delle comunità interessate. La percezione complessiva è che queste iniziative di ricostruzione, che alla base hanno la pretesa di educare e formare la popolazione locale per dare la possibilità di prendere in mano il proprio destino e rinnovare il paese (educati secondo quali canoni?), aumentino il rischio che il patrimonio culturale e la sua ricostruzione divengano, ancora una volta, lo strumento privilegiato di forme di penetrazione neocoloniale. [ricostruzione di Mosul, città irakena divenuta dal 2014 al 2017 una delle capitali dell’Isis] Tuttavia, non si può non riconoscere che l’UNESCO sostenga principi che, pur nella loro origine occidentale, sono stati condivisi anche da altre tradizioni culturali, come ad esempio la necessità di un progresso educativo e culturale come primo strumento di miglioramento delle condizioni di vita e che nella sua storia abbia organizzato innumerevoli attività che hanno permesso una più ampia condivisione dell’importanza del patrimonio culturale e della necessità di forme di salvaguardia nei suoi confronti. Le contraddizioni e le ambiguità che ne hanno contraddistinto le azioni trovano ragion d’essere in una cultura prevalentemente eurocentrica e, per certi versi, ancora impregnata di ideologia coloniale, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento di tradizioni culturali diverse da quelle occidentali e del loro valore e importanza non ai fini di una salvaguardia del patrimonio focalizzata non su monumenti e siti, ma sulle comunità e il loro benessere. Se nell’immediato dopoguerra l’ambizione ideale proclamata dai documenti fondativi dell’UNESCO era la pace, l’obiettivo primario odierno che deve guidare valori, usi e pratiche del patrimonio culturale è quello della giustizia sociale e ambientale, di un equilibrio delle disuguaglianze che mettono in pericolo la pace e la stessa sopravvivenza del pianeta. In realtà, mentre sul fronte economico e commerciale il processo di integrazione registrò rapidi progressi, su altri fronti l’Unione ha riscontrato ritardi e crisi che, negli ultimi decenni, ne hanno messo in discussione la stessa sopravvivenza, riducendo il consenso da parte dei suoi cittadini. A ulteriore testimonianza delle molteplici difficoltà incontrate dal progetto europeo nel suo insieme va evidenziato il contributo, talvolta poco lineare negli obiettivi, del patrimonio. Solo a partire dal Trattato di Maastricht del 1992 cultura e patrimonio culturale sono entrati a pieno titolo nel processo di costruzione dell’Unione. Ma a partire soprattutto dall’ultimo decennio, di fronte alla perdita di consenso del progetto europeo, il patrimonio culturale è stato rispolverato anche come strumento di dialogo interculturale e inclusione sociale. La costrizione di un patrimonio comune dotato di caratteristiche che ne evidenziassero “l’europeicità” si è rivelato un percorso ricco di ostacoli e contraddizioni, a partire dal motto adottato dall’unione nel 2002 “United in diversity”. Nel 2011 il Parlamento e il Consiglio Europeo lanciarono la European Heritage Label (EHL), alla ricerca di un patrimonio culturale europeo che rafforzasse il senso di appartenenza all’Unione da parte dei suoi cittadini. Un modo per segnalare siti, monumenti e documenti che rappresentassero tappe fondamentali nella storia europea. Dal 2013 la EHL è stata assegnata ad una cinquantina di siti e fra questi anche molti luoghi che rimandano a momenti negativi della storia europea (siti connessi alle due guerre mondiali, campi di concentramento, ecc.). Mancano siti riferibili alla cultura islamica o ad altre culture religiose che non siano quella cristiana o quella ebraica. Rispetto ai trattati e alle politiche dell’Unione, il Consiglio d’Europa, creato nel 1949, è riuscito attraverso i propri documenti ufficiali (che non hanno valenza prescrittiva per i paesi membri), ad elaborare una politica del patrimonio culturale più organica e attenta ai valori molteplici delle diverse comunità. L’ultima Convenzione nell’ambito del patrimonio, quella di Faro del 2005, è un documento fortemente innovativo, in cui finalmente si incorporano, a livello ufficiale europeo, i concetti di multiculturalismo come valore da salvaguardare e di un uso del patrimonio come strumento di coesione e benessere sociale. Un primo passo verso il riconoscimento a livello nazionale dei patrimoni culturali delle minoranze, spesso ignorati. Tuttavia, ad oggi, la maggioranza dei paesi non l’ha applicata, lasciando inalterata la cornice legislativa precedente. Nel 2007, su iniziativa del Parlamento Europeo, si diede avvio ad un progetto espositivo, la così detta “Casa europea della storia” (HEH), luogo nel quale i cittadini europei potessero conoscere i tratti di una storia comune, raccontata non come somma delle singole storie nazionali, ma come insieme di passaggi e memorie condivisi. Nel 2017 venne inaugurata nel distretto dove sono raggruppati gli edifici del potere UE a Bruxelles. In questa narrazione i passaggi della storia coloniale sono illustrati come una vicenda ormai conclusa le cui ripercussioni nella storia europea contemporanea non sono evidenziate, così come fenomeni come quello del razzismo o dei migranti, che tanta parte rivestono nelle dinamiche sociali e politiche dell’Europa contemporanea, non sono posti in connessione con le vicende coloniali. La realtà è che l’Unione Europea, non abbia mai affidato al patrimonio culturale un ruolo strategico. Nata nel 1956 come alleanza commerciale, ha incontrato difficoltà sempre più gravi a superare un livello di integrazione che andasse oltre il piano economico. Il vero rimosso della storia europea è sicuramente rappresentato dal colonialismo, quando in realtà, secondo le analisi di alcuni studiosi dei postcolonial studies, il progetto europeo fu concepito fin dall’inizio per proseguire il meccanismo di sfruttamento colonialista dei territori extraeuropei, seppur in un mutato orizzonte geopolitico. Quando nel 1951 comincio il processo federale europeo con la CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio), poi divenuta CEE (comunità economica europea) nel 1957, gli Stati fondatori erano in maggioranza stati coloniali. Il processo di integrazione europeo appare dunque inestricabilmente connesso alla vicenda coloniale che accomuna gli stati fondatori dell’Unione e che, di quel passato, ha ereditato gli elementi di razzializzazione insiti nell’ideologia coloniale. Così, ad esempio, gli Stati Europei che avviarono il processo di unificazione un comportamento discriminatorio nei confronti delle popolazioni delle colonie, pur se incorporate territorialmente nei confini nazionali e anche i vari conflitti (guerra d’indipendenza algerina, 1954/62) non furono mai considerati interni all’Europa, mantenendo così la suggestione fittizia delle retoriche pacifiste del “never again”. Con il processo di decolonizzazione tutti gli stati membri accantonarono la vicenda coloniale come estranea alla costruzione europea, consentendo così il disconoscimento degli obblighi degli Stati membri nei confronti dei cittadini delle ex colonie. Oltre alle politiche neocoloniali, la storia europea sin dai suoi esordi, ulteriori modalità coloniali, come quelle dei flussi interni ed esterni di lavoratori che hanno reso possibile il così detto miracolo economico postbellico e che hanno letteralmente costruito l’Europa, pur se gravati da condizioni di minorità quanto a diritti riconosciuti. In questo senso, i diritti umani sui quali si fonda la retorica europea parrebbero riservati a un’enclave ristretta e autocertificata, privilegi che continuiamo a non voler condividere con i paesi più poveri, fra i quali rientrano molte delle ex colonie europee. L’identità europea così tanto ricercata starebbe dunque proprio in questa matrice coloniale comune e tutt’altro che conclusa. Così come il patrimonio culturale fu uno degli strumenti per imporre l’egemonia occidentale nel mondo colonizzato, ancora oggi la sua importanza appare cruciale. Decolonizzare il patrimonio significa riconoscere le genesi e le eredità coloniali e razziste che vi operano e ricollocare le storie e i patrimoni delle comunità ex coloniali al centro della storia e del patrimonio europei. Il processo di decolonizzazione ha trovato un impulso decisivo sul piano culturale con l’avvio, a partire dagli anni ’70, dei postcolonial studies. Il testo fondativo è considerato “Orientalism” pubblicato nel 1978 da Edward Said, critico americano di origini palestinesi. Egli definì l’Orientalismo come un insieme di concetti e affermazioni usate dagli europei per descrivere, interpretare e valutare l’altro da sé, ovvero l’Oriente e il Medio Oriente. Attraverso la decostruzione di testi letterari e storici prodotti dal ‘700 in poi, l’autore mostrò come il sistema di sapere-potere che tali testi riflettevano e costruivano fosse funzionale al progetto coloniale europeo, ovvero designare l’Oriente come qualcosa di diverso e inferiore. Dagli anni ’80 in poi gli studi, dapprima limitati all’ambito letterario, si sono allargati a comprendere l’intero ambito delle scienze storiche e sociali, analizzando come e in che misura l’esperienza del colonialismo abbia influito sia sui colonizzati che sui colonizzatori; quale sia l’impatto complessivo nei vari ambiti (economico, culturale, legislativo, educativo, sociale) sulle società postcoloniali rispetto ai sistemi di saperi precedenti; quali resistenze furono messe in campo durante il dominio coloniale, come il sapere coloniale condizioni tuttora i processi identitari, di sviluppo economico e di modernizzazione di questi paesi. E infine, quanto sia possibile un processo di decolonizzazione, in che misura questo possa rivelarsi un ritorno ad un passato precoloniale, con le varie incognite e ambiguità che ciò comporta. Per quanto riguarda l’opposizione Occidente/Oriente il filosofo Homi Bhabha elaborò il concetto di mimicrì o mimetismo, come meccanismo di imitazione dei saperi e delle pratiche da parte del colonizzato. Tuttavia, ciò significa che se il colonizzato può essere “educato e civilizzato” ciò significa che la sua “alterità” rispetto al colonizzatore non è insuperabile. Il mimetismo è il risultato dei processi di “ibridazione”, concetto centrale dei postcolonial studies che fa riferimento alla creazione di nuove forme culturali in grado di smantellare la pretesa di superiorità gerarchica delle culture “pure”. A un crescente successo a partire dalla fine degli anni ’80 si sono comunque accompagnate molte critiche, oltre a quelle relative ad un linguaggio troppo criptico, il filone storico degli studi postcoloniali è stato accusato di non riuscire ad offrire strumenti interpretativi efficaci per il superamento delle condizioni di sfruttamento materiale e le disuguaglianze crescenti. Un altro filone di teoria critica nato alla fine degli anni ’60 che condivide molti temi con i postcolonial studies, sono i cultural studies. Secondo tale filone i fenomeni culturali assumono una natura politica, rimanendo in costante contatto con altri fenomeni sociali. La situazione attuale è letta dagli studi postcoloniali come un momento di riconfigurazione, sia a livello teorico che delle pratiche culturali. La convergenza dei postcolonial e cultural studies con gli studi sul patrimonio può essere fatta risalire agli anni Novanta. A partire da questo decennio, infatti, il filone degli heritage studies farà sempre più riferimento, nelle proprie analisi, agli studi postcoloniali, elaborando un concetto di patrimonio come prodotto sociale e culturale assieme. In campo archeologico l’attenzione fu rivolta a indagare la costruzione sociale del sapere archeologico, non più sapere “oggettivo”, ma determinato dai diversi contesti politici, economici e sociali. Nel 1990 i nativi americani videro riconosciuti i loro diritti alla restituzione dei resti umani e materiali dei loro antenati conservati nei musei federali: il primo passo delle popolazioni indigene verso la riappropriazione del controllo sul loro passato. La crescente attenzione alle forme di sapere-potere espresse dal patrimonio culturale servì a evidenziare la matrice eurocentrica della versione universalista propugnata dall’UNESCO e a metterne in rilievo i caratteri escludenti rispetto ad altre concezioni rappresentative di minoranze o comunità locali. L’introduzione di nuove categorie di patrimonio come quelle dei paesaggi culturali e del patrimonio intangibile, ne incrinarono il carattere monolitico concentrato sul patrimonio materiale in prevalenza monumentale, dotato di caratteristiche di unicità, autenticità ed elevato significato estetico. Gli heritage studies svilupparono così i filoni di ricerca avviati dagli studi postcoloniali, focalizzandosi su modelli alternativi in cui il patrimonio culturale non è legato ad oggetti o monumenti, ma piuttosto a pratiche discorsive e alla trasmissione di saperi. Abbandonato il campo delle scienze della conservazione e della storia dell’arte, il patrimonio fu quindi interpretato come un atto comunicativo che riflette e costruisce pratiche sociali. Al 1994 risale il primo numero dell’“International Journal of Heritage Studies”, prima rivista dedicata specificatamente agli studi sul patrimonio, inteso come un insieme di oggetti, monumenti, pratiche e siti. Nel 1996 viene definito il concetto di “dissonant heritage”, ovvero del patrimonio culturale conflittuale in quanto relativo ad un passato ambivalente o indesiderato, in cui rientrano tutti i siti e i monumenti legati alle grandi narrative coloniali, che rappresentano il risultato della sistematica omissione o sottorappresentazione delle narrative indigene dal discorso sul patrimonio. Nel 1999, Stuart Hall evidenziò una problematica relativa al concetto di patrimonio modellato esclusivamente dall’inglesità, a fronte di una realtà ben più complessa rappresentata da una società multietnica, frutto di ondate migratorie derivate in gran parte dalla dismissione dell’impero coloniale, motivo per cui il patrimonio non poteva più essere interpretato come un’entità immutabile nel tempo. Tuttavia, non bastava “Includere” altri patrimoni all’interno di quello britannico, ma occorreva una completa ridefinizione di quest’ultimo, un vero e proprio stravolgimento, per restituire all’altro il ruolo e lo spazio che gli erano sempre stati negati. Il patrimonio culturale si va legando così alla politica e ai suoi processi, diventando strumento fondamentale per i processi di riconoscimento identitario delle minoranze e delle popolazioni indigene, e quindi pienamente coinvolto nei processi di decolonizzazione. Nel 2006 l’archeologa australiana Laura Jane Smith nel testo Uses of Heritage elabora la decostruzione radicale del concetto di patrimonio UNESCO, analizzandone i meccanismi di formazione sostenuti dal così detto “Authorised Heritage Discourse” (AHD). Il patrimonio interpretato dall’AHD si concentra su oggetti, siti e loghi materiali o paesaggi legati al passato. Tale patrimonio è frutto di una categorizzazione da parte di una casta di esperti (storici, archeologi, ecc), delegati ad esprimere i valori occidentali attraverso l’AHD. La pretesa oggettività dell’AHD, fondata su un’analisi scientifica di valori intrinseci del patrimonio, ha in realtà agito come strumento per consolidare quelle gerarchie sociali esistenti a livello nazionale e internazionale e sarebbe responsabile delle asimmetrie e amnesie nei confronti delle altre tradizioni culturali. I concetti alternativi di patrimonio derivati da altri contesti hanno però il potere di sovvertire queste gerarchie stabilite dall’AHD. Uses of Heritage diventerà il testo fondativo della più recente corrente degli heritage studies, i critical heritage studies che, ribaltando la prospettiva dell’AHD – che considera il patrimonio soprattutto come un insieme di oggetti e monumenti dotati di valori intrinseci, per lo più estetici o storici – il patrimonio è assimilato ad un processo attraverso il quale costruiamo identità, valori, memorie e significati culturali e sociali che ci aiutano a dare senso al presente e che mutano nel tempo e nello spazio, evolvendosi a seconda dei diversi contesti politici e sociali. Secondo questa interpretazione il patrimonio culturale è pertanto sempre immateriale, politico - in quanto frutto di acelte e selezioni non casuali - e per conseguenza, (quasi) sempre conflittuale perché rappresentativo delle scelte, valori e idee di una parte. I critical heritage studies stanno man mano ampliano i temi di ricerca, mantenendo una connessione costante rispetto ai problemi della contemporaneità (movimento black lives matter e cancel culture). Nella molteplicità dei temi, ciò che è emerso è un orientamento interpretativo nei confronti del patrimonio più consapevole dal punto di vista ecologico e avviato al superamento degli schemi occidentali. Per molti versi il patrimonio interpretato dai c.h.s. rappresenta l’esito del processo di decolonizzazione del patrimonio. L’AHD, del resto, non è affatto scomparso, e continua a rappresentare il discorso ufficiale sul patrimonio e quello che prevale a livello di gestione istituzionale del patrimonio culturale. Il patrimonio riflesso dall’ahd è tra l’altro quello al centro dei flussi del turismo di massa. Il processo di decolonizzazione ha investito soprattutto i musei etnografici come espressione diretta della violenza del sapere coloniale, tuttavia, è l’istituzione museale in quanto tale ad essere concepita per interpretare e diffondere la visione del mondo occidentale, in cui l’ideologia razzista della colonizzazione ha operato a molteplici livelli. Esempio 3: esposizione sull’influenza del “primitivismo” nell’arte moderna al MoMA di NY nel 1984. Mostra fortemente criticata a causa dell’impianto che prevedeva la contrapposizione evidente tra l’arte moderna occidentale (Picasso, Brancusi, Gauguin), illustrata nei minimi dettagli e risvolti storico-artistici e il mondo del “primitivismo” concepito come un mondo indistinto e senza alcuna improtanza storica, nessuno degli oggetti esposti riportava riferimenti di data o funzione, né indicazioni riguardanti il contesto religioso o mitico di provenienza. Gli oggetti erano esposti solo come testimonianza inconsapevole e involontarie di una delle avventure culturali dell’arte occidentale del XX secolo. Da allora qualcosa è cambiato, più o meno tutti i “grandi musei” hanno dichiarato la volontà di intraprendere un percorso di decolonizzazione attraverso intervento di esperti, conferenze e la riscrittura di didascalie e pannelli al fine di raccontare la storia nascosta coloniale della collezione. Ma la difficoltà, parzialità e lentezza di questi percorsi viene ormai interpretata come la prova dell’impossibilità di una revisione radicale in chiave decoloniale di istituzioni come queste. Di fronte al moltiplicarsi di iniziative di questo tipo, la decolonizzazione rischia una banalizzazione, soprattutto se fatta con superficialità o se il rapporto con i nativi è raramente duraturo. Il coinvolgimento di rappresentanti delle comunità in iniziative temporanee non serve a mettere in discussione l’autorità curatoriale e anzi, molto spesso si trasforma in un rapporto asimmetrico che serve a dare visibilità al museo senza alterarne le strutture decisionali , riproducendo gli squilibri sociali esterni. Le disparità in termini di rappresentatività all’interno di tutte le principali istituzioni museali europee evidenziano le permanenze coloniali di un’istituzione che trova la sua genesi proprio nell’ideologia coloniale. Dopo circa ottant’anni dall’inizio della fase postcoloniale, la decolonizzazione delle nostre istituzioni museali è un percorso ancora in divenire, costellato da ambiguità e resistenze. Emerge con evidenza da parte di alcune grandi istituzioni, la tentazione di sfruttare la decolonizzazione come mezzo per intrecciare rapporti con istituzioni delle ex colonie, dietro i quali riaffiora un neocolonialismo culturale ancora largamente praticato. Fondamentale è stato il lavoro svolto dai gruppi di attivisti in risposta a tutte le operazioni di decolonizzazione dei grandi musei, che, oltre a svolgere una straordinaria funzione di critica, hanno contribuito a legare queste operazioni alle vicende contemporanee e usando i musei come riscontro dei conflitti razziali e postcoloniali che impregnano le nostre città, li hanno di fatto reinseriti nel discorso sociale. Il processo di decolonizzazione coinvolge a pieno titolo anche i musei organizzati nelle colonie dalle amministrazioni coloniali, molti dei quali sono diventati, dopo l’indipendenza, luoghi per la celebrazione dei nuovi stati nazionali. In altri casi invece sono stati organizzati musei di nuova concezione che hanno introdotto pratiche legate alle tradizioni locali o sono diventati luoghi di memoria nei confronti della dolorosa vicenda coloniale e segregazionista. E’ evidente che, una nuova stagione museale e il processo di decolonizzazione nel suo insieme non possa prescindere dal ritorno dei materiali saccheggiati. La repatriation come processo di restituzione dei beni culturali ha una lunga storia: le spoliazioni napoleoniche e il ritorno di una parte dei bottini di guerra francesi sancito nel Congresso di Vienna del 1815 è forse il primo esempio in età moderna. Ma fu sicuramente il saccheggio del patrimonio connesso al fenomeno coloniale ad aver posto il tema al centro del dibattito odierno. Mentre la questione del recupero delle opere sottratte in occasione di conflitti bellici è stata sancita dai trattati di pace e dalla legislazione internazionale, manca ancora un trattato internazionale che regoli la restituzione dei beni culturali a quei Paesi che abbiano subito un periodo di dominazione coloniale. Ai territori colonizzati non venne mai applicato il diritto di guerra, dal momento che secondo il diritto internazionale non erano considerati come territori occupati ma come parte dello Stato colonizzatore. Questa ambiguità è di per sé spia delle convenienze occidentali e di un atteggiamento neocoloniale che è riuscito ad imporre meccanismi giuridici utili a prevenire richieste di risarcimento da parte delle popolazioni colonizzate. Nel caso delle restituzioni alle comunità native delle colonie di insediamento si è costruito, a partire dagli anni ’90, un percorso ormai consolidato che ha consentito un profondo rinnovamento delle pratiche museali e, allo stesso tempo, favorito la nascita di musei o centri culturali gestiti direttamente dalle comunità native, smentendo le critiche al processo di repatriation come premonitore di uno “svuotamento dei musei”. Tuttavia, le lacune legislative non hanno comunque impedito le richieste da parte di alcuni paesi postcoloniali, innescando così una serie di contenziosi. Esempio: Una delle dispute più note è senz’altro quella relativa ai “marmi Elgin”, i rilievi del fregio Fidiaco che Lord Elgin prelevò nel 1812 dal Partenone e da altri monumenti dell’Acropoli, dopo un accordo con le autorità ottomane la cui validità/autenticità è oggi messa in discussione, entrando a far parte delle collezioni del British Museum. Dal 1983 cominciarono le richieste da parte dei ministri della cultura greci per la restituzione ma il diniego da parte dell’istituzione britannica fu motivato dalla necessità di garantire un’adeguata protezione ai marmi, oltre che una garanzia di più ampia funzione presso il museo inglese. Di fronte alle reiterate richieste del Museo dell’Acropoli, inaugurato nel 2009 e destinato alla ricollocazione del fregio, il British Museum ha ribadito il valore “universale” dei marmi fidiaci che trascendono i confini culturali. Quel furto, tuttavia, rimane per la Grecia il danno più grave. Il saccheggio del patrimonio durante le guerre coloniali africane è sicuramente un elemento strettamente connesso all’ideologia di sfruttamento totale di territori e uomini, fondata sul pregiudizio occidentale di un’inferiorità razziale. I bottini di guerra, frutto di aggressioni in cui l’uso della mitragliatrice contro guerrieri armati di arco e frecce rendeva piuttosto scontato l’esito finale, trovarono una lettura funzionale nel museo che trasformando gli oggetti di culture allora ancora vitali in oggetti da museo che rimandavano quindi a popolazioni estinte, annullava quelle culture inserendole in un orizzonte senza futuro. Recentemente, Dan Hicks, curatore del Pitt Rivers museo di Oxford, quintessenza del museo di impianto coloniale, ha affermato che il compito del museo etnografico nel XXI secolo deve essere quello di svelare le storie di rapina e violenza che si nascondono nelle sue collezioni e nei suoi oggetti e, tutte le volte che è possibile, agevolare il loro rientro presso le comunità eredi di quegli oggetti. Solo così si potrà porre fine a una storia di violenza, come quella del saccheggio dei Palazzo Reale del Benin da parte degli inglesi nel 1897, il cui bottino è stato in parte il nucleo fondativo della sezione africana del British ed in altra parte è confluito in altri musei europei. Tale presa di posizione cerca di contrastare un’altra strategia adottata dall’inizio del duemila da alcune istituzioni occidentali per arginare il tema delle restituzioni, ovvero il ricorso alle “biografie culturali degli oggetti”. In questo modo, spostando l’attenzione sugli oggetti si cerca di occultare le storie di violenza connesse alle loro acquisizioni. Nell’ottica di una biografia la collocazione museale sarebbe una fase importante della vita dell’oggetto che la repatriation annullerebbe; tuttavia, questa interpretazione considera la musealizzazione come una fine della storia, mentre il ritorno nei paesi a cui l’oggetto è stato sottratto non può che essere considerato come un’ulteriore tappa della sua storia appunto. Cercare di dare agli oggetti un finale diverso da quello predisposto in epoca coloniale, significa anche proiettare la funzione del museo al di sa dei semplici compiti di conservazione, riconfigurandolo come un protagonista del dibattito contemporaneo, e come luogo pubblico per il riconoscimento della violenza coloniale, che l’esposizione di quegli oggetti continua a perpetrare. Nel dicembre 2002 diciotto delle principali istituzioni museali occidentali pubblicarono un documento (The Declaration of the importance and value of universal museums) in risposta alle sempre più pressanti richieste di restituzioni di materiali che quelle istituzioni si trovavano a fronteggiare, a partire dal British. Nel documento le circostanze di molte acquisizioni erano interpretate come pratiche legate ad un contesto storico-sociale all’epoca dei fatti largamente condiviso, ma ormai superato. Il valore di quegli oggetti aveva acquisito pieno rilievo proprio per il fatto di essere esposto all’interno di musei di alto livello, gli unici in grado di valorizzare opere ormai decontestualizzate grazie al carattere universale delle loro collezioni. L’universalismo fungeva da giustificazione all’imposizione dei criteri e delle pratiche culturali occidentali. Anche nel caso dei musei, dunque, la retorica del potere si è espressa attraverso quell’universalismo con il quale si è giustificato, dall’Illuminismo in poi, non solo il dominio coloniale, ma anche la pretesa di conoscere che cosa voglia, pensi o addirittura come dovrebbe pensare l’altro colonizzato. Nel 2018 invece la pubblicazione del “Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano” ha invece rappresentato un punto di svolta sul tema della repatriation. Il documento è stato commissionato dal presidente francese Macron che nel 2017 aveva dichiarato di voler intraprendere un ampio programma di restituzioni o prestiti di lunga durata del patrimonio africano posseduto dai musei francesi. Il testo sancisce, per la prima volta in un documento a carattere ufficiale, l’illegittimità del possesso del patrimonio africano acquisito durante il dominio coloniale dai musei francesi e considera la sua restituzione un atto di riparazione necessario a porre fine alla violenza coloniale. Infine, viene sottolineato come sia compito esclusivo delle popolazioni africane cui appartiene il patrimonio sottratto, stabilirne le regole di fruizione, adottando criteri e saperi propri delle loro tradizioni culturali e non necessariamente coincidenti con quelle occidentali. Sul piano operativo le restituzioni procedono ovunque con estrema lentezza, anche se vanno aumentando le dichiarazioni di intenti in tal senso da parte delle ex nazioni coloniali o dei singoli musei. Nel 2020 il British ha annunciato un grande progetto di collaborazione con i ricercatori nigeriani che comprende sia una missione di ricerca archeologica che la consulenza sul nuovo grande museo Edo sull’arte dell’Africa Occidentale a Benin, destinato ad ospitar il poco che è rimasto di un patrimonio in gran parte conservato fuori dall’Africa (ma ben rappresentato nelle collezioni del British che continua a respingere le richieste di repatriation dei bronzi del Benin). Ogni processo di repatriation è frutto di un complesso lavoro di verifica e sicuramente le regole giuridiche delle istituzioni e degli stati nazionali sono un vincolo non trascurabile all’alienabilità del patrimonio culturale, ma del resto neanche insuperabile, come testimoniano le restituzioni dei patrimoni confiscati dal regime nazista. Nelle resistenze diffuse nei confronti della repatriation alle ex colonie si inseriscono anche motivazioni economiche da parte delle ex potenze coloniali, spaventate dalla possibilità di innescare, attraverso le restituzioni, anche un processo di richieste di risarcimento dei danni subiti dalle popolazioni durante la dominazione coloniale. Le inerzie occidentali continuano a parlare di un atteggiamento coloniale immutato e rinviano ad una funzione ancora pienamente coloniale dello stesso museo, concepito come vetrina di potere sul piano della competizione globale. Così dietro ai nuovi appelli per un patrimonio culturale condiviso a livello globale occorre fare attenzione che non si celino vecchi meccanismi: nessun nuovo sistema si potrà mai costruire senza riconoscere i furti e i saccheggi coloniali ed essere disponibili a riparare il disequilibrio in termini di rappresentatività del patrimonio culturale. Negli ultimi anni la second wave della new museology, mossa dalla volontà di riuscire ad includere e accettare il confronto con le comunità indigene e con le prospettive finora tenute lontane dal dibattito mainstream, ha evidenziato l’incapacità del museo di rappresentare i problemi contemporanei. L’attenzione si è ora spostata dalle istituzioni al pubblico, non più solo passivo ricettore dell’autorità espressa dalla narrazione museale, ma sempre più coautore di nuovi significati. L’attività del museo è ora vista all’interno di una rete di “agenti” quali istituzioni di potere (scuola, amministrazioni pubbliche) e reti di utenti e oggetti che hanno tra loro una complessa interazione. Quest’ultima fase della new museology ha ancor meglio articolato la concezione politica del museo, ora allargata a comprendere anche le sue pratiche più apparentemente neutrali, come la redazione di inventari o didascalie. Inoltre le molteplici interrelazioni che legano il museo, i suoi operatori interni, le loro pratiche, al mondo esterno (pubblico, sponsor, referenti politici/amministrativi, reti professionali), costruiscono una trama comunque “politica” in quanto ispirata a obiettivi, scelte, pregiudizi non sempre espliciti e talora divergenti. Il moltiplicarsi dei musei nel mondo e il diversificarsi del suo pubblico e delle modalità di fruizione, ha reso fortemente attuale la domanda su cosa sia un museo e quale sia il suo ruolo nel XXI secolo. A questa domanda ha cercato di rispondere l’ICOM che un paio di anni fa aveva proposto una nuova definizione di museo che cercava di allineare il ruolo del museo al contesto geopolitico del XXI secolo, caratterizzato dalla crisi ambientale e dalle crescenti disuguaglianze economiche e sociali. Riconoscendo la necessità di non fare più riferimento alla sola tradizione scientifica occidentale, ma ad una pluralità di visioni e di sistemi di conoscenza, la nuova definizione richiamava la priorità del processo di decolonizzazione e allargava lo sguardo a concezioni derivate da tradizioni indigene. [definizione pag. 167] Il testo ha incontrato la ferma opposizione di una minoranza di Paesi, per lo più europei, schierati su un versante decisamente più tradizionalista, Francia e Italia su tutti. La nuova definizione rimasta quindi “congelata” registrava finanziati dalle compagnie petrolifere che, dopo la scoperta dei giacimenti alla fine degli anni ’50, controllavano i destini non solo economici del Paese. In questa strategia di occupazione e penetrazione in cui cercò di inserirsi anche l’Italia attraverso le iniziative dell’ENI, viene ancora una volta ribadito il ruolo politico dell’archeologia come elemento di soft power. La rivoluzione del settembre ’69 con l’arrivo di Gheddafi al potere, provocò il primo vero movimento anticoloniale: i giacimenti petroliferi vennero nazionalizzati, le proprietà straniere espropriate e la colonia italiana a Tripoli scacciata. Per la prima volta a capo del dipartimento per le antichità venne nominato uno studioso libico, anche se gli archeologi italiani continuarono ad operare sugli stessi cantieri di scavo. Uno studio del 1996 compiuto per l’accademia dei Lincei raccontava dell’archeologia del Magreb come di una storia di successi scientifici, magnificando la quantità e la qualità dei risultati, senza alcun accenno alle vicende coloniali. L’uso della romanità ai fini della propaganda fascista venne considerato come episodio ci fu atti ad un momento storico che si voleva archiviato. Vennero soprattutto taciute o fortemente minimizzate le implicazioni razziste di quell’archeologia, nella sua ideologia e nelle sue pratiche. La presenza, nei decenni successivi, degli stessi archeologi alla direzione degli scavi e l’adozione delle stesse modalità coloniali nella suddivisione dei ruoli non consentirono una riflessione approfondita sull’impatto culturale e sociale della lunga presenza dell’archeologia italiana in Libia. Questo atteggiamento è stato in larga misura condiviso dalla grande maggioranza dei gruppi di ricerca guidati da archeologi occidentali nelle ex colonie e inizia a riscontrare progressivi aggiustamenti solo a partire dagli anni ’90, in Libia come altrove. Diventano elemento costante delle missioni le attività didattiche nei confronti degli studenti locali e si intensificano le indagini in ambito preistorico o nei confronti delle altre tradizioni culturali che compongono il patrimonio cultuale libico. Dagli anni ’90 in poi l’ideologia di riferimento, anche in campo archeologico, diviene quella della “cooperazione internazionale”, per cui le missioni archeologiche italiane continuarono sfruttare una rendita di posizione di diretta filiazione coloniale, perseguendo gli stessi percorsi di ricerca, pur con metodi aggiornati. Sul piano ideologico si cercò di mantenere la distanza da un passato ossessionato dai miti della purezza e della omogeneità culturale e soprattutto di separare il periodo fascista connotato dalla politicizzazione dell’archeologia dal periodo successivo che avrebbe invece lasciato spazio alla scienza, ma con molte ambiguità. Fare ricerca archeologica in Libia significa affiancare alle metodologie di scavo e di restauro e agli studi sull’arte e l’architettura antiche, il processo di decolonizzazione che interessa i meccanismi di costruzione identitari sia dello stato libico che di quello italiano. L’arrivo della Primavera araba, nel 2011, e i conseguenti eventi bellici che hanno coinvolto la Libia, hanno provocato inevitabilmente la sospensione delle ricerche archeologiche sul campo, poi gradualmente riprese negli anni successivi. Nel luglio di quello stesso anno si tenne a San Leucio un convegno internazionale organizzato per celebrare il secolo trascorso dall’inizio delle attività archeologiche in Libia e, focalizzare l’attenzione degli archeologi sui rischi che correva il patrimonio archeologico a causa dei recenti fatti di cronaca. Preoccupatissime e unanimi furono le reazioni degli studiosi occidentali che omaggiarono e celebrarono doverosamente i colleghi e funzionari libici che si prodigavano per la salvaguardia del patrimonio minacciato. Allo stesso tempo però, gli studiosi hanno continuato ad esprimere i loro timori sulla scarsa consapevolezza dei locali relativamente ai rischi per il patrimonio culturale. Preoccupazioni singolari se espresse da Paesi, come il nostro, dove abusivismo edilizio e scavi clandestini conoscono una continuità secolare. In queste preoccupazioni reiteratamente espresse e unanimemente condivise dal mondo scientifico internazionale si riflette chiaramente una sorta di “diritto di intervento” di impronta neocoloniale che denuncia la sostanziale impotenza delle istituzioni locali preposte alla gestione del patrimonio. Dopo decenni di transizione postcoloniale è palese che quell’operazione di capacity building nei confronti dei funzionari locali sia miseramente fallita. La causa è proprio data da quella continuità che, sul piano degli obiettivi e dei metodi, ha caratterizzato il nostro intervento nell’ambito del patrimonio in Libia e, in sostanza, ad un processo di decolonizzazione mai decollato perché ritenuto superfluo. La pretesa neutralità della ricerca archeologica ha oscurato la necessità di una ridiscussione critica sulla genesi coloniale della ricerca archeologica italiana in quei territori. Con l’inizio del secolo la storia della gestione italiana dell’archeologia e del patrimonio culturale in Libia, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, comincia ad essere raccontata nei suoi risvolti connessi all’ideologia coloniale. Reso evidente, soprattutto sul piano iconografico, l’uso politico dei resti della romanità, appare evidente il coinvolgimento di alcuni archeologi nella costruzione della macchina propagandistica. Anche questi studi però tendono a considerare il problema come ormai archiviato, circoscritto ad un passato senza troppe conseguenze nella vicenda contemporanea. Grazie agli studi che si sono succeduti negli anni abbiamo ora ricostruzioni efficacemente documentate e appare ormai chiaro come l’ideologia nazionalista e razzista abbia connotato l’intero arco della nostra esperienza coloniale (molteplici significati assegnati ai reperti e monumenti archeologici, esaltazione della romanità, ecc). Quella patrimoniale è una storia che viene ricostruita esclusivamente con le voci dei colonizzatori, che siano archeologi, intellettuali o politici, e proprio per questo appare ancora fortemente sbilanciata. Le ricerche in ambito antropologico-sociale stanno ora illuminando i molteplici aspetti di quel periodo storico e le sue permanenze nell’Italia postcoloniale. Il coinvolgimento del personale libico nella gestione del patrimonio archeologico - debitore, comunque, di un sapere esclusivamente occidentale – non è stato elemento sufficiente a riattivare un processo di riappropriazione del patrimonio e della storia che rappresenta da parte di ampi strati della popolazione. L’indifferenza lamentata dagli archeologi stranieri dovrebbe essere stimolo per intervenire attraverso il coinvolgimento delle comunità locali in quanto eredi dirette di quel patrimonio e soprattutto, portatrici di un sapere e di storie alternative indispensabili per restituire significato a un racconto fortemente lacunoso. Da almeno un decennio l’archeologia delle colonie e la così detta conflict archeology stanno dimostrando come sia possibile, attraverso l’indagine archeologica e antropologica insieme, gettare luce su episodi casualmente o volutamente rimasti all’ombra della storia ufficiale, ricostruendo le storie dei subalterni. Esempio: archeologo spagnolo Alfredo Gonzalez Ruibal, nel 2011 ha pubblicato gli esiti di una ricerca su di un episodio della guerra coloniale italiana in Etiopia svolta grazie alla collaborazione dei locali. Sono stati presi in considerazione i resti umani e materiali ritrovati nella grotta di Zeret, dove avevano trovato rifugio centinai adì guerrieri con le loro famiglie che si opponevano alle milizie fasciste, le quali, nell’aprile del ’39, posero assedio alla grotta e sterminarono i ribelli con gas e lanciafiamme. L’operazione di decolonizzazione dovrebbe attuarsi soprattutto sul patrimonio coloniale (archeologia della romanità compresa), a tutti gli effetti un “dissonant heritage”, ovvero un patrimonio cui gruppi di interesse diversi annettono valori contrastanti. Nel nostro caso i grandi scavi monumentali sulle coste libiche continuano oggi ad avere un ruolo importante per alcuni obiettivi: sono stati agevolati dai governi libici come incentivi all’economia del turismo e come forma di prestigio culturale da quando sono stati inseriti nella WHL negli anni ’80, per ampi strati della popolazione rimangono a testimonianza di un passato da dimenticare, mentre per gli archeologi italiani sono una forma di esercizio sapere/potere che però stenta ad incarnare la principale ragione d’essere della loro disciplina: interpretare attraverso la cultura materiale del passato, i bisogni del presente, a partire da quelli delle comunità locali. Il processo di conciliazione di un dissonant heritage non è affatto semplice, soprattutto quando si confrontano culture patrimoniali diverse, ma è indispensabile per tutti coloro che considerano il patrimonio e la sua conservazione uno strumento fondamentale per la costruzione di comunità inclusive e democratiche. Attualmente le missioni archeologiche continuano ad essere finanziate dalla nostra diplomazia come elemento di inserimento all’interno del grande gioco che vede coinvolte le potrebbe mondiali per il controllo strategico di un territorio come la Libia. Negli ultimi anni la politica italiana sta intensificando i rapporti con il nuovo governo libico, sia per il contenimento dei flussi migratori che per il presidio dei molteplici interessi economici italiani nella ex colonia. Alla fine del conflitto mondiale, dopo i trattati di pace del ’47, anche l’Italia ha dovuto affrontare il tema della restituzione del patrimonio culturale sottratto ai territori delle colonie. Processo complesso e non ancora concluso a causa di incertezze e ritardi a livello politico e trattative troppo dilatate nel tempo. Anche questa vicenda è frutto di un impietoso processo di decolonizzazione fortemente incompiuto. Come in altri casi, anche nei confronti della Libia, l’Italia oppose per decenni un atteggiamento dilatorio sulle compensazioni dei danni e il ritorno dei beni che furono restituiti, di volta in volta sempre a seguito di reiterate richieste. Solo nel ’98 si arrivò ad una dichiarazione congiunta tra i due Paesi in cui si prevedeva la restituzione, da parte dell’Italia, di documenti, manoscritti, beni culturali e oggetti di interesse archeologico prelevati nel corso dell’occupazione coloniale. Nel 2008, con il trattato di Bengasi, per la prima volta l’Italia ammise ufficialmente le violenze e i danni provocati ai tempi dell’occupazione e si ribadiva l’impegno alla restituzione dei reperti sottratti. Il caso specifico della restituzione della Venere di Cirene sollevò immediate contestazioni sulla stampa italiana, soprattutto quella di destra che, riesumando dei topoi tipici della propaganda coloniale fascista, sottolineava l’ingratitudine libica nei confronti di chi aveva portato alla luce i meravigliosi resti dei siti archeologici costieri, rimarcando come la Venere fosse l’icona di una cultura, quella classica, del tutto estranea all’orizzonte islamico della Libia contemporanea, incapace di apprezzarne il valore e quindi di custodirla adeguatamente. Elementi tipici di discriminazione consolidati dalla propaganda coloniale. Altra vicenda fortemente ambigua del processo di repatriation è sicuramente quella dei beni sottratti all’Etiopia. I trattati di pace obbligavano l’Italia, oltre ai danni di guerra, alla restituzione di tutti i beni. Una prima serie di oggetti fu riconsegnata nei primi anni ’50, anche se in numero decisamente inferiore rispetto alle richieste. Mentre per quanto riguarda la restituzione dell’obelisco di Axum, innalzato nell’ ’37 nella piazza di Porta Capena, l’atteggiamento del governo fu ondivago, più volte si offrirono contropartite o scambi e ritrattazioni. Solo nel 2005, dopo settant’anni, l’obelisco venne finalmente ceduto. Una delle giustificazioni per negare la restituzione era la situazione di estrema povertà dell’Etiopia, incapace per questo di occuparsi del proprio patrimonio, ribadendo così un pregiudizio di inferiorità nei confronti degli abitanti dell’ex colonia. Ancora oggi il tema della restrizione dei beni culturali non è conclusa, solo una parte di ciò che è stato sottratto è stata restituita e solo ciò che era in possesso dello stato italiano. Nulla è stato fatto per recuperare oggetti finiti illecitamente, come bottino di guerra, nelle collezioni dei gerarchi fascisti e dei privati che operarono nelle colonie. La sorte dei musei e delle sale coloniali è stata segnata dalla fine dell’avventura coloniale nel dopoguerra, a partire dal museo dell’Africa italiana, chiuso definitivamente, dopo varie riaperture, solo nel ’72, le cui collezioni si avviarono ad un progressivo degrado e nel ’95 vennero affidate all’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente. Chiuso anch’esso nel 2011 le collezioni vennero disperse fra varie istituzioni e in gran parte trasferite, nel 2017, al Museo Nazionale Pigorini. Rimangono in Italia le molte collezioni etnografiche, sparse un po’ ovunque: alcune conducono un’esistenza polverosa, altre hanno trovato una sistemazione che punta per lo più a ricostruire la storia collezionista alla base della costituzione delle diverse raccolte, come il Museo delle culture di Milano, altre cercano di creare uno spazio di discussione e sperimentazione con le comunità dei territori in cui si trovano i musei. In generale le attività si concentrano sulla valorizzazione della diversità culturale e del dialogo interculturale, ma sono iniziative per lo più temporanee che difficilmente riescono a mettere in discussione l’impianto concettuale dei musei o delle collezioni. L’istituzione più importante in questo ambito in Italia è l’attuale Museo delle civiltà, in cui sono confluite, a partire dal 2016, le collezioni di qualità straordinaria, ma diversissime per contenuto, formazione e obiettivi, appartenenti a varie istituzioni precedenti. Il museo, tuttavia, non ha saputo proporre esempi di rilievo internazionale, ancora sospeso nella vaghezza di obiettivi (valorizzazione di patrimoni e testimoniante delle diverse identità e memorie o promozione del dialogo e l’integrazione attraverso progetti di inclusione culturale) e nell’ acquisizione di un’identità precisa. Negli ultimi anni sono state ospitate performance/allestimenti che hanno lavorato su materiali delle collezioni coloniali, coinvolgendo spesso la comunità italo-libica di Roma. Il museo ha affrontato solo raramente il tema cruciale della decolonizzazione che, al contrario, dovrebbe costituire l’obiettivo principale di un’istituzione di questo tipo. Anche le collezioni risentono di un’impostazione molto tradizionale che non affronta minimamente il tema dell’acquisizione dei materiali, sorvolando ad esempio sul carattere predatorio delle “esplorazioni geografiche” otto-novecentesche e puntando più sul valore estetico-simbolico degli oggetti esposti. Far emergere il rimosso coloniale dalle collezioni, raccontarne la storia, sarebbe operazione necessarie e urgente, non solo per restituire loro una verità occultata da tempo, ma per trasformare il museo stesso in uno spazio critico in grado di aiutare nella comprensione delle conseguenze contemporanee di quella storia. Parlando di patrimonio culturale coloniale vengono inevitabilmente coinvolti anche tutti gli edifici, i monumenti e le infrastrutture che la vicenda coloniale ha lasciato sui territori. Una riflessione in questo ambito che non si limiti alla rivalutazione storico-estetica delle architetture di epoca fascista, è cominciata solo negli ultimi anni. Le
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