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DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO, Sintesi del corso di Diritto Penale

DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO DIRITTO PENALE

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

Caricato il 19/10/2014

giogio89
giogio89 🇮🇹

4.7

(3)

7 documenti

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Scarica DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! CAPITOLO 1. I DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO IN GENERALE. SEZIONE. 1 PREMESSA INTRODUTTIVA. I delitti contro il patrimonio corrispondono alle figure criminose contenute nel Titolo XIII del Libro II del codice penale (artt. 624--648ter): si tratta di delitti che offendono, in via esclusiva o principale, diritti soggettivi o interessi a contenuto economico-patrimoniale, facenti capo a persone fisiche o giuridiche. E’ opportuno precisare che la predetta sezione non comprende tutti i fatti che offendono i beni patrimoniali, visto che vi sono altre figure di reato che indirettamente o direttamente offendono i beni in esame non presenti nel XIII Libro (esempio artt. 61, n.7 e 62, n.4). Si distinguono dai delitti contro “l’economia pubblica” che, invece, ledono interessi di natura superindividuale o collettiva connessi al funzionamento globale del sistema economico (ad esempio l’art. 499). Il patrimonio è il bene giuridico di categoria, sotto il quale sono raggruppati tutti i reati contenuti nel XIII Libro. Secondo gli intendimenti del legislatore storico l’oggettività giuridica di categoria “patrimonio” costituisce un’ etichetta di sintesi per indicare che la legge penale tutela il complesso dei diritti e dei rapporti giuridici di contenuto patrimoniale che fanno capo ad una persona, compreso anche il diritto di proprietà. Però, è anche vero che il concetto di patrimonio è ancora controverso sia come concetto dogmatico, sia come bene giuridico di categoria. Un orientamento tradizionale, proprio facendo leva sul criterio del bene giuridico protetto, distingue i reati in 2 grandi categorie: a) Reati contro la proprietà o patrimoniali in senso lato: in questo caso ai fini della configurabilità dell’illecito penale, si ritiene sufficiente che venga pregiudicata la possibilità del titolare del diritto di usare e disporre a suo piacimento delle cose che gli appartengono. Non è necessario che il soggetto passivo subisca in concreto un danno patrimoniale. E’ considerato furto punibile l’impossessamento di cose dotate di semplice valore d’affezione (es. lettera d’amore). b) Reati contro il patrimonio in senso stretto: l’illecito penale aggredisce il patrimonio come entità economica complessiva e la fattispecie incriminatrice prevede, come elemento costitutivo, l’altrui danno patrimoniale. Il reato non si configura se la cosa aggredita è priva di valore economico-patrimoniale ovvero se la perdita patrimoniale subita dalla vittima viene compensata da una controprestazione del soggetto attivo di valore equivalente. Es. la truffa. Tuttavia, questa bipartizione è soggetta a critiche: infatti, per quanto riguarda i reati contro la proprietà vi sono alcuni casi problematici di furto o di appropriazione indebita, il cui disvalore non sembra giustificare la punibilità del fatto. Si pensi al caso in cui Tizio si impossessa di sua iniziativa di alcune monete metalliche di un amico, sostituendole con una banconota di analogo valore pecuniario. In questo caso il ricorso alla tutela penale appare sproporzionato per eccesso. Mentre nei reati contro il patrimonio in senso stretto si è assistito ad un processo inverso: infatti nell’ipotesi di truffa c.d. contrattuale, la giurisprudenza ravvisa il reato pur in presenza di una controprestazione economicamente equivalente del soggetto attivo, identificando il danno nella lesione della libertà di autodeterminazione del truffato o nella mancata destinazione del denaro a un impiego per lui personalmente più vantaggioso. Quindi, la dogmatica odierna tenta di ricostruire un quadro sufficientemente unitario dei reati contro il patrimonio. In questo senso si prospettano due strade: a) La prima consiste nel rimarcare la dimensione “patrimoniale” di tutti i reati contenuti nel Titolo XIII, quindi non solo di quelli patrimoniali in senso stretto (truffa, estorsione, ecc.), ma anche dei reati contro la proprietà (furto, rapina, appropriazione indebita). Questa prospettiva tende a uniformare in senso economico-patrimoniale il contenuto dell’offesa. A favore di questa ricostruzione sono adducibili più argomenti: • In una società evoluta come la nostra è plausibile che il nostro legislatore presuma che i reati contro la proprietà ledano anche i concreti interessi economici (e non solo l’astratto diritto di proprietà). • Sono poco frequenti i casi-limite di lesione delle proprietà scompagnata da un pregiudizio economico effettivo (si pensi alla fattispecie di sottrazione di fogli per ricetta da un ospedale, considerata penalmente rilevante in base al rilievo che il valore della cosa non può essere preso in considerazione sotto un profilo puramente economico, ma è necessario anche tener conto dell’interesse del detentore a mantenere la cosa stessa). • La coincidenza tra lesione di proprietà e danno economico, esiste un apposito indice normativo, cioè l’art. 626 c.p., ricomprende tra i furti minori, punibili a querela, il fatto commesso su cose di “tenue valore”. A questa tesi si può obiettare che esso tiene poco conto del fatto che lo stesso concetto di “danno patrimoniale” non presenta più una fisionomia precisa, cioè che esso vada concepito in termini oggettivi di puro valore di mercato, oppure in alcuni casi anche in termini di valore d’uso alla stregua dell’interesse personale del soggetto derubato. b) La seconda tenta di rendere omogenei tutti i reati contenuti nel Titolo XIII, sulla base di un concetto di lesione patrimoniale trascendente la dimensione puramente economica del danno. Questa tesi identifica il carattere patrimoniale di un bene con la sua destinazione funzionale a soddisfare un concreto interesse del titolare. Tale orientamento tende a dilatare il concetto di danno nell’ambito della truffa nei confronti dello stato, nella quale la lesione patrimoniale è ravvisata nel mancato soddisfacimento degli scopi pubblici cui il bene coinvolto dalla condotta truffaldina era vincolato. Tuttavia anche quest’orientamento è soggetto a critiche: infatti risulta essere assai generica e a suo modo formalistica: essa infatti si informa poco sui concreti interessi di volta in volta tutelati. A prescindere dall’orientamento cui si aderisce, risulta difficile elaborare una teoria, imperniata sull’unitarietà del concetto di patrimonio. Tra i reati contenuti nel XIII Libro, vi sono anche i c.d.reatiplurioffensivi: si tratta di fattispecie incriminatrici che ledono oltre che il patrimonio anche beni di natura personale cioè il diritto di libertà e l’ autodeterminazione individuale (estorsione, il sequestro estorsivo, la truffa). SEZIONE II. I CONCETTI GENERALI Nello studio dei reati contenuti nel XIII Titolo ci si imbatte in termini e concetti propri del diritto privato: proprietà, patrimonio, possesso, detenzione, cosa danno ecc. Ci si interroga se questi concetti vadano intesi nello stesso significato tecnico che essi posseggono nel diritto privato. Secondo il Fiandaca-Musco il criterio-giuda è deducibile dalla presunzione che a uno stesso termine corrisponda il medesimo significato, quale che sia il settore del diritto che viene in questione, stando al principio dell’unità dell’ordinamento giuridico. Tuttavia si tratta di una presunzione semplice (e non assoluta), la quale potrà essere superata in presenza di specifiche ragioni che inducono l’interprete ad attribuire al termine in questione un autonomo significato penalistico. La nozione di patrimonio. La nozione di patrimonio risulta tutt’oggi controversa. a) La concezione giuridica, risalente a Binding e al Merkel, definisce il patrimonio come la somma dei diritti soggettivi patrimoniali facenti capo ad una persona.Tuttavia questa definizione è soggetta a critiche.Innanzitutto essa viene a coincidere con la lesione della posizione giuridica tutelata anche se le cose oggetto di attività criminosa siano prive di valore economico. Ne deriva che la consumazione dei reati con la cooperazione della vittima (es. truffa) si anticipa nel momento in cui il soggetto passivo dispone del diritto, non occorrendo più attendere la concreta verificazione del danno economico. Inoltre non sarebbe più possibile graduare la gravità del reato in funzione del valore economico delle cose aggredite. Da ultimo rimarrebbero impuniti posizioni economicamente rilevanti non inquadrabili nello schema giuridico-formale del diritto soggettivo. b) La concezione economica, intende il patrimonio come l’insieme di beni economicamente rilevanti appartenenti ad un soggetto. In questo caso è indifferente che sulle cose la vittima vanti un diritto soggettivo. Rientrano nella nozione di patrimonio anche le aspettative fattuali di guadagno e la forza lavoro. Essa può incorrere nell’obiezione di escludere tutte quelle cose che posseggono un valore d’uso per il soggetto interessato a utilizzarle ma priva di un valore di scambio, nonché può includere posizioni economiche disapplicate in altri settori del diritto. c) La concezione economica-giuridica esclude che meritino indifferentemente tutela penale tutte le posizioni dotate di rilevanza patrimoniale: essa infatti distingue tra posizioni meritevoli di tutela e non. Secondo il Fiandaca-Musco, la tesi preferibile è quella che tende a circoscrivere la protezione penale a quei rapporti economici che l’ordinamento riconosce espressamente, sia pure in forma più attenuata rispetto ai diritti soggettivi in senso stretto: rientrano nel concetto di patrimonio le aspettative dotate di fondamento giuridico, ma non anche le pretese invalide o le aspettative di mero fatto. Si cerca di contemperare due esigenze contrapposte: da un lato non restringere troppo l’area della tutela penale; dall’altro a evitare un contrasto tra diritto civile e diritto penale. d) La concezione personalistica del patrimonio ricomprende solo l’insieme dei beni e dei rapporti idonei ad assolvere una funzione strumentale rispetto all’autorizzazione e allo sviluppo della persona umana. Il problema consiste nell’elaborare parametri normativi che permettono di selezionare i rapporti economici davvero strumentali alla realizzazione ed allo sviluppo della singola personalità umana. il concetto di cosa. In generale è definibile cosa, nel diritto penale, ogni oggetto corporale o fisico: in altri termini ogni entità, che presenti i caratteri della definitezza spaziale e della esistenza autonoma. Da questa definizione deriva che non sono considerate cose il mare o il cielo, ecc; i diritti, le aspettative (almeno che non siano incorporati in supporti materiali che li rappresentano, ad esempio il floppy disk); uomo vivente, ne ogni sua singola parte costitutiva del corpo, almeno che non siano staccate dal corpo umano (es. denti già estratti); il cadavere destinato alla sepoltura. Sono cose anche gli animali viventi. Nei reati ad aggressione unilaterale contro la proprietà o contro altro diritto (furto, rapina, danneggiamento), la cosa costituisce l’oggetto materiale. Nei reati patrimoniali in senso stretto e caratterizzati dalla cooperazione della vittima (truffa, l’estorsione, la circonvenzione degli incapaci ecc) l’azione criminosa può attaccare singole cose materiali, ma il punto decisivo è un altro: occorre, ai fini delle configurabilità del reato, che l’azione incida negativamente sul patrimonio del soggetto passivo concepito come entità economica unitaria. Originariamente la legge penale faceva riferimento a cose di natura prettamente materiale. Successivamente si è posto il problema delle energie e dei beni c.d. informatici. Per quanto concerne il primo problema, si deve trattare di energie suscettive di essere apprese e godute dall’uomo con profitto e danno altrui (energia elettrica, idrauliche, solari, gassose, nucleari ecc). Mentre sono escluse dall’equiparazione le energie umane e animali tranne quelle atte ad assumere autonomia (si pensi ad un furto di materiale spermatico ricavato dall’accoppiamento abusivo di animali). Circa i dati informatici, sembra che essi non possono essere equiparati alle cose nel senso del diritto penale, senza violare i principi di legalità e tassatività al divieto di interpretazione analogica. L’unica strada percorribile consiste nell’introduzione di una nuova normativa destinata a reprimere la criminalità informatica. La maggior parte dei reati contro il patrimonio aggrediscono cose “mobili”: furto, rapina, appropriazione indebita; altre figura di reato, come la truffa, il danneggiamento, la circonvenzione possono ricadere su cose “mobili” o “immobili”; mentre esistono fattispecie criminose (usurpazione, invasione di terreni o edifici ecc) che sono specificamente rivolte ad aggredire soltanto beni “immobili”. La distinzione tra beni mobili ed immobili è tracciata dall’art. 812 c.c.: “Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Sono reputati immobili i mulini, i bagni, e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva o all’alveo e sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro utilizzazione. Sono mobili tutti gli altri beni”. E’ mobile la cosa che può essere rimossa e spostata dal luogo in cui si trova, anche se soltanto previa mobilizzazione. altruità Nelle fattispecie delittuose, che incriminano aggressioni a cose mobili o immobili, qualificano l’oggetto materiale dell’azione con la nota altruità: e cioè altrui deve essere la cosa rubata, rapinata, danneggiata, ecc. Risulta, però problematico l’interpretazione del concetto di altruità. L’orientamento tradizionale, sostiene che altrui è una cosa di “proprietà di altri”. Tuttavia questa impostazione sembra troppo restrittiva perché ci sono posizioni giuridiche ulteriori rispetto al diritto di proprietà. Ci si riferisce ai casi in cui il nudo proprietario si rende responsabile di abusi ai danni di chi possiede o usufruisce della cosa ad altro titolo. Ad esempio il proprietario danneggia intenzionalmente l’autocarro dato a noleggio ad un trasportatore di merci. Inoltre la tendenza ad affrancare il concetto di altruità da quello di proprietà può trovare sostegno nella circostanza che il legislatore ha identificato l’oggettività giuridica di categoria non più nella proprietà, bensì nel “patrimonio”. Infatti è da considerare “altrui” la cosa che appartiene al “patrimonio di altri”: nel concetto di patrimonio rientrano oltre al diritto di proprietà, tutti gli altri diritti e tutti gli altri rapporti giuridici di carattere patrimoniale. Alla stregua di queste argomentazioni si può affermare che il requisito dell’”altruità” ricomprende le relazioni di interesse che intercorrono tra le cose e i soggetti (diversi dall’agente) che vantano su di esse diritti di proprietà o altri diritti di natura patrimoniale. L’interrogativo di fondo riguarda i limiti di estensione del concetto di altruità. Secondo il Fiandaca-Musco l’individuazione delle posizioni giuridicamente rilevanti deve essere effettuata in maniera diversa in base alle caratteristiche delle varie fattispecie incriminatrici nelle quali l’altruità figura come elemento esplicito del fatto di reato. Possesso e detenzione. Si tratta di due concetti molto importanti ai fini della ricostruzione di non pochi delitti contro il patrimonio, a cominciare dalla distinzione tra furto e appropriazione indebita. Si sono sviluppate nel tempo diverse concezioni. La Concezione civilistica riteneva che la concezione del possesso fosse da ricostruire facendo esclusivo riferimento alle disposizioni del diritto civile. L’inconveniente di questa concezione consiste nell’escludere dal reato di appropriazione indebita quello dell’ appropriazione di cose possedute a titolo di deposito necessario. Infatti stando al diritto civile, essendo il depositario non un possessore ma un semplice detentore, l’appropriazione da lui commessa si dovrebbe qualificare furto, in contrasto con quanto stabilito dalla legge penale. La concezione autonomistica partiva dal presupposto che la nozione di possesso dovesse identificarsi con la detenzione, e cioè con la mera relazione di fatto con la cosa: trascurando però, che lo stesso legislatore penale distingue tra possesso e detenzione, come emerge dalla fattispecie del furto. In realtà occorre procedere con metodo “esegetico sperimentale”: cioè sarà l’interpretazione delle singole fattispecie penali a confermare o smentire l’identità della nozione di possesso (o detenzione) nel’uno o nell’altro settore dell’ordinamento. Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria: il possesso va inteso quale autonomo potere di signoria sulla cosa, cioè come potere di fatto che si esercita al di fuori della sfera di controllo di un soggetto che vanta un potere giuridico maggiore (ad esempio nel diritto penale è possessore il garagista che custodisce un’ automobile nella sua autorimessa, con la conseguenza che egli commetterà appropriazione indebita, e non furto ove se ne appropri. Mentre è detentore il portabagagli che detiene materialmente gli oggetti rimanendo sottoposto al potere di vigilanza del viaggiatore e commetterà il reato di furto qualora si appropri dei bagagli. danno. La fattispecie di offesa al patrimonio con cooperazione artificiosa della vittima presentano come requisito costitutivo esplicito il danno altrui. ES. nei delitti di truffa il giudice è tenuto ad accertare se la condotta tipica abbia in concreto arrecato alla vittima un effettivo pregiudizio patrimoniale. • Il concetto di “filiazione”si estende anche alla filiazione illegittima: vi rientrano cioè sia i figli legittimi, sia quelli illegittimi. • L’articolo non contempla il rapporto di “affiliazione”, anche se l’identità di ratio potrebbe consentire una applicazione in via analogica. • Sembra escludersi l’applicabilità della norma, nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso in danno di un prossimo congiunto e di un terzo (esempio furto di una cosa di proprietà comune), in quanto il reato non è commesso in danno di una delle persone previste nella norma. • Un orientamento dottrinale tende ad estendere l’applicazione della norma anche ad altre fattispecie di natura patrimoniale che non rientrano in quelle del XIII titolo. • L’ultimo comma dell’art. 649 prevede un limite espresso all’operatività della causa di non punibilità della causa di non punibilità (o di punibilità condizionata alla querela): essa non è applicabile ove si tratti di delitto di rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione o di “ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone”.Quest’ultima formula fa sorgere 2 questioni: • Ci si chiede se rientri il tentativo di reato: la giurisprudenza è divisa. Infatti ora ammette l’applicabilità della causa di non punibilità. Argomentando in base alla natura di autonomo titolo di reati del tentativo; ora afferma che l’esclusione deve ricomprendere anche il tentativo, perché anche in esso ricorre l’uso della violenza. • Ci si chiede se il concetto di violenza alle persone ricomprenda sia la violenza fisica sia la violenza morale: la tesi estensiva non convince perchè si risolve in una abrogazione di fatto della distinzione tra le modalità della violenza e della minaccia menzionate autonomamente dalla legge. b)In merito alla questione dogmatica relativa alla natura giuridica della causa di non punibilità, si sono sviluppati 3 filoni: - Considera l’art. 649 una causa di inesistenza del reato, partendo dal presupposto teorico-generale della inscindibilità tra precetto e sanzione. - Ritiene che la norma in esame configuri una causa di giustificazione del fatto. - Riporta la disposizione dell’art. 649 nell’ambito della categoria delle cause personali di esenzione della pena, e cioè di quelle circostanze che, pur non togliendo al fatto il suo carattere di illiceità. penale, impediscono l’applicabilità della sanzione per particolari ragioni di politica criminale. Per Fiandaca-Musco l’art. 649 lascia integra l’antigiuridicità penale del fatto e paralizzi in concreto solo l’applicazione della pena nei confronti del soggetto possessore della qualifica di coniuge, ascendente, discendente ecc. In altri termini l’esenzione da pena appare collegata ad un giudizio di opportunità inteso ad evitare il maggior danno che la famiglia potrebbe ricevere dall’intervento della giurisdizione penale: quindi la sottrazione di una cosa mobile da parte del figlio in danno del padre continua ad essere un fatto qualificabile in termini di furto. Inoltre, la qualifica di causa personale di esenzione da pena implica, la impossibilità del ricorso all’analogia, trattandosi di disciplina di carattere eccezionale. CAP.2 . I DELITTI DI AGGRESSIONE UNILATERALE. 1. FURTO (ART. 624). “Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per se o per altri, è punito con la reclusione a 3 anni e con la multa da 154 euro a 516 euro. Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanza di di cui agli art. 61 n. 7) e 625”. Questa disposizione è caratterizzata da numerosi nodi interpretativi. a)bene giuridico oggetto di tutela. In merito si sono sviluppate 2 tesi: • Il bene protetto è il semplice potere di fatto (possesso o detenzione) che il soggetto derubato aveva sulla cosa sottrattagli dal ladro. Il concetto di detenzione va inteso come quel potere di fatto o di signoria sulla cosa. Quindi, l’azione furtiva aggradisce la relazione materiale tra un bene della vita ed il soggetto che lo possiede o semplicemente lo detiene. Di conseguenza, viene configurato come furto anche la sottrazione di una cosa al soggetto che l’abbia a sua volta rubata (furto cd. ai danni del ladro). Questo modo di concepire l’oggetto della tutela tiene conto delle caratteristiche della sottrazione come specifica modalità aggressiva del delitto di furto, intesa come attacco arbitrario alla pace sociale alla cui salvaguardia contribuisce il rispetto dello stato attuale delle relazioni materiali e i beni della vita. • Oggetto di tutela è lo stato di diritto, che coincide ora più restrittivamente con la proprietà o altri diritti reali, ora più estensivamente anche con i diritti personali di godimento o di altri diritti. Questa tesi fa leva su diversi ordini di argomentazioni tra loro non sempre coincidenti. Un rilievo diffuso poggia sulla impossibilità di configurare furto punibile la sottrazione della cosa ai danni del detentore materiale, da parte dello stesso proprietario. Questi autori arrivano a siffatta conclusione, partendo dal presupposto che il requisito dell’”altruità” porti ad escludere dal novero dei soggetti attivi del reato lo stesso proprietario, sicchè il bene protetto dall’art. 624 è costituito dalla proprietà, e soltanto in subordine, dal possesso. Inoltre l’art. 67 stabilisce una pena più mite per la sottrazione di cosa “comune”, sarebbe contrario al principio di proporzione punire con la sanzione più severa prevista dall’art. 624 l’ipotesi comparativamente meno grave rappresentata dalla sottrazione della cosa al semplice detentore da parte di chi ha la piena proprietà. V’è chi sostiene che il vero oggetto giuridico del furto consista nel “diritto di disporre” in primo luogo e nel “diritto di godere” della cosa, in secondo luogo, cioè gli autori del reato sono coscienti della violazione non del semplice possesso materiale, bensì del diritto (di disporre o di godere) col quale quel fine di profitto contrasta. Tuttavia, questa costruzione è soggetta a obiezione: infatti, la fattispecie di furto non richiede che l’agente abbia la consapevolezza dell’illegittimità sostanziale del profitto perseguito. La tesi secondo cui l’oggetto giuridico è costituito soltanto da relazioni di diritto, è stata di recente ribadita da Mantovani, il quale però circoscrive tali relazioni alla “proprietà” e ai “diritti di godimento”perchè il furto, comportando le perdite della cosa, aggredirebbe necessariamente i poteri esecutabili sulla cosa medesima, e cioè la disponibilità ed il godimento: esulano invece dall’ambito di tutela i diritti di garanzia (es. pegno) e le mere relazioni di custodia, in quanto attaccati solo in maniera eventuale (nei soli casi in cui siano costituiti sulla cosa) dalla condotta sottrattiva. Per il Fiandaca-Musco la tesi del potere di fatto è da escludere, perché l’”altruità” costituisce uno dei pilastri della descrizione normativa del furto e non un requisito superfluo, dato che (stando alla tesi del potere di fatto) l’identificazione del bene protetto consiste nella mera relazione fattuale detentore-cosa. L’altruità abbraccia non solo la proprietà, ma tutti i diritti reali o di obbligazioni che attribuiscono a chi ne è titolate un effettivo potere di uso o di godimento della cosa; esulano dall’area della tutela sia il diritto di garanzia, sia la semplice relazione di custodia, in quando in entrambi i casi manca un vero e proprio diritto ad usare la cosa. b) soggetto passivo. È il titolare del diritto o della relazione di interesse giuridicamente rilevante con la cosa sottratta. Ove il soggetto che viene spogliato della cosa non coincida con il titolare del diritto, egli assumerà il ruolo di semplice punto di incidenza dell’azione materiale di spossessamento, e non di soggetto passivo. Rientra in quest’ultima ipotesi anche il furto nei confronti del ladro. c) soggetto attivo. È chiunque. E’ controversia la configurabilità del furtum rei proprie, cioè della sottrazione commessa dallo stesso proprietario ai danni di chi esercita sulla cosa un diritto reale o personale di godimento. In mancanza di una presa di posizione del legislatore, il dubbio potrebbe essere risolto in senso positivo. Infatti nel nostro sistema costituzionale non sembra azzardato escludere che la proprietà possa essere tutelata fino al punto di consentire che il “nudo” proprietario si reimpossessi abusivamente di cose in atto destinate a soddisfare concreti interessi giuridicamente rilevanti di altri soggetti. Inoltre il termine “altruità” ricomprende qualsiasi interesse giuridicamente tutelabile, in virtù del quale la cosa sia usata o goduta da un soggetto diverso dall’autore della sottrazione. Sarebbe comunque auspicabile l’intervento del nostro legislatore volto a colmare il dubbio. d) la condotta incriminata: fa leva sul triplice concetto di detenzione, sottrazione ed impossessamento. 1) la detenzione. Si è assistiti al passaggio dal criterio spaziale (rimozione dal luogo) previsto nel codice Zanardelli, al criterio personale (sottrazione al detentore), permettendo di superare le incertezze applicative di cui dava luogo il primo codice. Infatti, l’art. 624 comma 2, nel precisare la nozione di cosa mobile, vi fa rientrare ‘energia elettrica e ogni altra energia che abbia un “valore economico”. Per evitare che la sanzione penale possa oggi essere utilizzata in maniera sproporzionata, occorre ancorare la valutazione dell’utilità della cosa sottratta al giudizio non del soggetto passivo, bensì di un osservatore ricostruito sulla base delle caratteristiche tipiche degli individui rientranti nella cerchia sociale e/o professionale cui il soggetto passivo di volta in volta appartiene. 2) cose mobili. Nel novero cose mobili sottraibili sono espressamente ricomprese dal legislatore le energie, purchè dotate di valore economico (ad esempio l’energia elettrica, idraulica, termica ed ogni energia meccanica). Lo scopo del nostro legislatore è quello di eliminare la persistenza di dubbi in ordine al carattere di cosa mobile delle energie. Dubbi sussistono nel caso di captazione abusiva di energie connesse per contatore, come nell’ipotesi dell’energia elettrica. Sembra più corretto configurare il furto tutte le volte in cui l’energia venga sottratta antecedentemente al suo passaggio attraverso il contatore (allacciamento abusivo alla rete tramite un cavo volante per la sottrazione dell’elettricità); e la truffa nelle ipotesi in cui la condotta captativa sia realizzata in un momento successivo e mediante manomissione del contatore. Non rientrano tra le energie sottraibili ne quelle animali ne quelle umane. Quindi ad esempio l’utilizzazione temporanea di un cavallo ai fini di trasporto potrà integrare il reato di furto d’uso. 3) Altruità. La cosa deve trovarsi in una relazione di interesse, giuridicamente rilevante, con un terzo che subisce lo spoglio. Il problema consiste nel determinare il contenuto della relazione. a) Secondo alcuni autori, che ravvisano l’essenza del furto nello “spossessamento”, l’elemento di “altruità” si limiterebbe a indicare o confermare che la cosa deve essere sottratta alla sfera possessoria di un soggetto diverso dall’agente. Tuttavia, è lo stesso concetto di “sottrazione” a presupporre che la cosa sottratta non sia in possesso del soggetto spogliato. b) L’orientamento più tradizionale interpreta l’altruità con specifico riguardo al diritto di proprietà: nel senso che la cosa sottratta deve costituire oggetto di un diritto di proprietà facente capo ad un soggetto diverso dal ladro. A questa conclusione si giunge di regola muovendo dal rilievo che sarebbe assurdo riconoscere che possa commettere furto lo stesso proprietario della cosa. c) Altra parte della dottrina più recente tende a interpretare l’altruità come concetto più ampio: ma non vi è unanimità di vedute. Infatti, secondo una concezione molto lata, il requisito dell’”altruità” abbraccerebbe qualsiasi relazione di interesse tra la cosa sottratta e un soggetto diversodall’autore del furto: relazione d’interesse da determinarsi alla stregua delle norme di diritto civile che disciplinano la distribuzione dei beni. Tuttavia, così facendo tale concetto rimarrebbe troppo astratto e formale. Così appare decisivo l’importanza economico-sociale del diritto offeso: in questo senso l’”altruità” verrebbe a ricomprendere ogni tipo di diritto che, nel caso concreto, abbia un “peso” economico- sociale maggiore del diritto di cui è titolare il soggetto attivo. Ma anche questa tesi va incontro a delle obiezioni: infatti, il riferimento alla coscienza sociale è un criterio troppo generico per valutare il peso economico-sociale del diritto leso dalla condotta di sottrazione. Sembra da preferirsi la tesi della relazione d’interesse, anche se occorre meglio circoscrivere quest’ultimo concetto, in quanto non tutte le relazioni di interesse giuridicamente rilevanti sono sufficienti a integrare l’”altruità” richiesta dalla fattispecie di furto: ad esempio il creditore pignoratizio ha un vincolo di interesse sulla cosa ricevuta in pegno, ma il divieto di farne uso impedisce che la cosa stessa sia divenuta propria del creditore sino a considerarlo soggetto passivo di una eventuale sottrazione furtiva da parte dei terzi. Dato che il diritto penale tutela le relazioni di interesse strumentali alla garanzia del potere di fatto degli uomini sui beni della vita: sarà soggetto di furto chi possiede la cosa per un titolo che implichi l’esercizio di un potere immediato di disposizione, di godimento o di uso della cosa. Il concetto di altruità può dunque essere esteso sino a ricomprendere, oltre al diritto di proprietà, i diritti di godimento e di uso, sia a carattere reale sia a carattere personale. F) Dolo. E’ costituito dalla volontarietà della sottrazione e dell’impossessamento, unitamente alla consapevolezza dell’”altruità” della cosa sottratta: il dolo perciò esula se l’agente ritiene che la cosa sia propria a causa di un errore di fatto ovvero per erronea interpretazione della legge extrapenale. Ma a connotare il furto concorre soprattutto il dolo specifico rappresentato dal fine di trarre profitto: si tratta di dolo specifico perché, ai fini della consumazione del reato non è necessario che il profitto sia di fatto conseguito, ma è sufficiente che l’agente miri a conseguirlo. È assai risalente nel tempo l’interrogativo se il profitto preso di mira dall’agente vada inteso in senso strettamente economico ovvero corrispondente al generico concetto di vantaggio. Nel tempo è prevalsa una concezione estremamente lata e onnicomprensiva del profitto. Tuttavia, questa interpretazione troppo estensiva del “profitto” finisce per degradare il reato a dolo specifico a reato a dolo generico: infatti lo scopo di trarre profitto viene a coincidere col vantaggio insito di impossessarsi della cosa. Pertanto tra i possibili vantaggi genericamente connessi all’impossessamento, bisogna selezionare quelli che rappresentano lo scopo tipico verso cui intrinsecamente si proietta l’aggressione furtiva, a prescindere dai diversi moventi psicologici che sollecitano il ladro ad agire, provocando una rottura delle regole che presiedono allo scambio dei beni del mercato: lo scopo perseguito è quello di evitare l’esborso patrimoniale normalmente necessario per acquisire i beni nel libero mercato. Stante questo nesso aggressione unilateriale-rottura della logica di mercato, sembra derivarne che, ai fini della configurabilità del furto, le cose sottratte devono avere valore economico. Il fine economico non va confuso col movente psicologico che induce a rubare. Ad esempio se Tizio si impossessa di un quadro non per rivenderlo ma per ricavarne un piacere estetico, comunque il fine intrinseco all’azione furtiva rimane pur sempre quello di sottrarsi ai costi che il mercato impone per acquisire il quadro necessario al raggiungimento del fine (piacere estetico). Inoltre, se il concetto di profitto di profitto fosse equivalente a quello generico di vantaggio, non si comprenderebbe perché il legislatore faccia un uso differenziato dei due termini non solo in fattispecie diverse, ma talvolta persino nell’ambito di una medesima fattispecie. Ad es. nell’art. 416-bis del c.p., che configura l’associazione di stampo mafioso, si fa menzione di “profitti o vantaggi”, lasciando intendere che il profitto assume una connotazione economico- patrimoniale cosa che invece può mancare al più generico vantaggio. Quindi ai fini della configurabilità del furto, oltre all’impossessamento e l’eventuale appagamento nell’impossessamento stesso, occorre l’acquisizione di un vantaggio economicamente valutabile derivante dalla cosa posseduta. Di questo profitto oltre all’agente, può beneficiare anche un terzo: ad esempio risponderà di furto che ruba un oggetto per donarlo ad un amico. Mentre non costituisce reato se il destinatario del profitto è la stessa vittima (ad es. il furto viene commesso per impedire che la stessa cosa venga distrutta da altri). Il reato non è configurabile, nemmeno, nel caso di un soggetto che commette il fatto tipico (impossessamento di un oggetto altrui) del furto per farsi arrestare e mantenere in carcere. Oltretutto, il vantaggio perseguito non deriva dalla cosa sottratta, bensì dalla commissione dell’illecito. Nel silenzio della norma incriminatrice, è controverso se il requisito del profitto debba o non essere accompagnato dalla caratteristica dell’ingiustizia o dell’illegittimità. Il Fiandaca Musco sostiene la tesi che considera il profitto perseguito con l’azione sottrattiva in una pretesa giuridicamente riconosciuta. Rispetto a queste ipotesi la tutela penale è normalmente azionabile se ed in quanto ricorrano i presupposti del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e cioè la pretesa venga esercitata con violenza alle cose o alle persone. Pertanto non è ingiusto il profitto perseguito dal creditore che sottragga un bene al debitore inadempiente al fine di soddisfare un suo diritto. G) Momento consumativo. Con riferimento all’attuale art. 624, si prospetta l’alternativa di far coincidere la consumazione: o col perfezionamento della condotta di sottrazione; ovvero con l’impossessamento quale fase distinta, anche se non sempre temporalmente, dalla sottrazione. Il Fiandaca-Musco preferisce la soluzione che consiste nel far coincidere la consumazione con l’impossessamento inteso come momento più pregnante della mera sottrazione: il furto cioè si consuma non prima che l’agente, dopo aver sottratto la cosa, ne consegua la disponibilità autonoma al di fuori della sfera di sorveglianza della vittima. Se così è costituisce un’ipotesi di furto non già consumato, bensì tentato il caso di un soggetto che, introdottosi nell’ufficio esporta la cassaforte fin quasi all’uscita, dandosi poi alla fuga perché l’abbandono si verifica in un momento antecedente alla acquisizione, da parte del soggetto attivo, di un potere di autonoma disponibilità sulla cosa. 2. FURTO IN ABITAZIONE E FURTO CON STRAPPO art. 624-bis “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 309 a euro 1.032. Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, strappandola di mano o di dosso alla persona. La pena è della reclusione da tre a dieci anni e della multa da euro 206 a euro 1.549 se il reato è aggravato da una o più delle circostanze previste nel primo comma dell'articolo 625 ovvero se ricorre una o più delle circostanze indicate all'articolo 61.” Non si deve far uso delle armi o del narcotico, perché in caso contrario si configura il reato di rapina. • “Se il fatto è commesso con destrezza”. La ratio dell’aggravamento della pena sembra consistere nella maggiore pericolosità dimostrata dall’agente. Secondo un orientamento interpretativo, la destrezza presuppone l’esistenza di una abilità straordinaria, e cioè deve evidenziare una capacità superiore a quella del ladro comune e tale comunque da saper evidenziare la vigilanza normale dell’uomo medio. La giurisprudenza ritiene che la destrezza debba avere come punto di incidenza oltre che la persona anche alle cose. • “Se il fatto sia commesso da 3 o + persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio”. La ratio dell’aggravante viene identificata nella maggiore efficacia dell’azione criminosa e nella corrispondente minorata possibilità di difesa dei beni patrimoniali. Qui sono presenti 3 circostanze aggravanti: a) Fatto commesso da 3 o + persone: oltre ai compartecipi la formula normativa include anche i concorrenti morali, non essendo necessaria la presenza dei primi nel medesimo luogo.Inoltre, devono essere computati nel numero dei concorrenti necessario per configurare un aggravante anche i soggetti non imputabii o non punibili che abbiano partecipato al fatto. b) Fatto commesso da persona travata: il “travisamento” consiste in un alterazione dell’aspetto esteriore della persona, che rende difficilmente riconoscibile o addirittura irriconoscibile il colpevole. Non è necessario il mezzo di alterazione (maschera, alterazione di connotati) e, stando ad una giurisprudenza risalente, il riconoscimento non esclude la configurabilità dell’aggravante. c) Il colpevole simula la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio: la simulazione presuppone l’inesistenza della qualifica e la relativa usurpazione da parte del colpevole. E’ indifferente la modalità con cui si compie la simulazione. Occorre la contestualità con la commissione del furto, altrimenti si configurerebbe l’aggravante del mezzo fraudolento. • “Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni, negli scali o banchine, negli alberghi o in altri servizi ove si somministrano cibi e bevande”. La ragione giustificatrice di questa aggravante è individuabile nella minore possibilità di vigilanza e di difesa del possesso delle proprie cose da parte del soggetto che si trova in viaggio. È necessario che la vittima possieda la qualità di viaggiatore: è tale chi si allontana con qualsiasi mezzo di trasporto dal luogo di dimora abituale o vi ritorna. La qualità si acquista al momento dell’inizio del viaggio e non si perde nelle soste intermedie (ad es. sosta in campeggio). Inoltre occorre che le cose rubate costituiscano il “bagaglio” del viaggio: il termine indica tutto ciò che si porta con se per comodità o per necessità personale o per finalità del viaggio. Non costituisce bagaglio ciò che in genere si porta addosso o fa parte dell’abbigliamento personale. Esso deve essere del viaggiatore anche se non di sua proprietà (cioè quello sottratto al facchino che lo trasporta ma non quello spedito). È necessario che il fatto sia commesso in uno dei luoghi espressamente indicati dalla legge, e cioè in veicoli, in stazioni, in scali o in banchine, in alberghi o in altri esercizi ove si somministrano cibi e bevande. • “Se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici e stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza”. a) Il fatto commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici e si giustifica per la maggior pericolosità dimostrata dal colpevole. L’ufficio è il luogo di svolgimento di una data attività, mentre lo stabilimento è un complesso di opere, principali ed accessorie, impiegate per la realizzazione di un servizio. Il carattere “pubblico” dell’ufficio o dello stabilimento deriva dalla natura dell’attività che vi si svolge e non della sua destinazione al pubblico (es. ospedali, porti, aereoportiecc). Le cose devono essere esistenti nell’ufficio o nello stabilimento: occorre cioè che abbiano un rapporto non occasionale ne fortuito con il luogo e non basta che vi si trovino. L’aggravante presenta delle affinità con il delitto di violazione della pubblica custodia di cose, ma se ne differenzia per il fatto che in quest’ultima norma la cosa dev’essere “particolarmente custodita”. b) Se il fatto è commesso su cose sottoposte a sequestro o pignoramento e si giustifica per la violazione del particolare vincolo giuridico che ne caratterizza la cosa. L’aggravante si distingue dalla figura speciale di reato di sottrazione di cose sottoposte a sequestro: questa non può essere commessa dal custode, mentre il furto aggravato è compiuto dal terzo. c) Se il fatto è commesso su cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede. La ratio riflette la minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione delle cose. In primo luogo occorre che le cose siano esposte alla fede pubblica che è la condizione in cui si trova una cosa mostrata ad una indistinta collettività di persone ed affidata al naturale rispetto per l’altrui possesso. Ciò che importa non è la natura del luogo ma la facilità di accesso. In secondo luogo, che l’esposizione alla fede pubblica trovi la sua causa nella “necessità” (la vittima si è trovata costretta a lasciare la cosa incustodita, per impossibilità di tenere un comportamento diverso), nella “consuetudine” (fa riferimento alle abitudini di lasciare incustodite le cose in occasione dello svolgimento di determinate attività, ad es. lasciare incustoditi sulla spiaggia mentre si fa il bagno), o nella “destinazione” (presuppone o una determinata qualità o un uso della cosa, che non può essere diversamente custodita, ad es. frutti delle piante ovvero ai distributori automatici di oggetti, ecc). d) Il furto è stato commesso su cose “destinate a pubblico servizio o pubblica autorità, difesa o reverenza”. Per poter configurare l’aggravante è necessario che la destinazione della cosa sia attuale. La “destinazione al pubblico servizio” ricorre quando la cosa è adibita alla soddisfazione di esigenze generali della collettività (ad es. impianti di erogazione dell’energia elettrica). La “destinazione a pubblica utilità” presuppone che la cosa, indipendentemente dalla sua appartenenza, svolga una funzione di utilità generale (ad es. farmaci che si trovano in un ospedale o in un pronto soccorso, ovvero all’esportazione di rilevanti quantitativi di materiali inerti prelevati dal letto di un fiume). “Destinate a pubblica difesa” sono quelle cose, di proprietà privata o pubblica, che servono alla protezione di un interesse relativo alla incolumità o alla sicurezza collettiva (ad es. parapetti dei pontili, alle pompe destinate allo spegnimento degli incendi ecc). “Destinate alla pubblica reverenza” sono quelle cose che formano oggetto di culto o sono altrimenti rispettate dalla generalità dei consociati in quanto espressione di elevati ideali civili (ad es. gli oggetti ornamentali delle tombe, dipinti di una chiesa, ecc). • “Se il fatto è commesso su 3 o più capi di bestiami raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria”. Questa circostanza da vita al delitto di abigeato e trova la sua ragion d’essere nella esigenza di garantire una maggiore protezione al patrimonio zootecnico. Non è necessario che la mandria o il gregge sia custodito o che si trovi in un recinto: occorre invece che non si tratti di animali sbandati o dispersi. È irrilevante che gli animali siano raccolte in mandrie: essa ricorre anche in caso di furto di un solo bovino od equino, e ciò in considerazione del maggior valore economico di tali animali. E’ irrilevante che gli animali siano liberi o legati. • “Se il fatto è commesso su armi, munizioni od esplosivi nelle armerie ovvero in depositi o in altri locali adibiti alla custodia di essi”. Si giustifica con la particolare pericolosità delle cose rubate. L’ultimo comma dell’art. 625 stabilisce che “se concorrono 2 o + circostanze prevedute dai numeri precedenti, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle dell’art. 61, vi è un aumento di pena e della multa”. Oggi l’orientamento dominante risolve con il ricorso alla categoria della “norma a più fattispecie” l’ipotesi in cui il furto viene commesso mediante violenza sulle cose e con un mezzo fraudolento, escludendo il concorso tra circostanze previste nello stesso numero, evitando ulteriori aumenti sanzionatori; e con l’aumento di pena, previsto da questo secondo comma, in omaggio al principio di proporzione giuridica e per evitare in tal modo l’aumento ulteriore di pena. 4. FURTI MINORI ART. 626 “ Furti punibili a querela dell’offeso. Si applica la reclusione fino a un anno ovvero la multa fino a lire quattrocentomila e il delitto è punibile a querela della persona offesa: 1) se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita (1); 2) se il fatto è commesso su cose di tenue valore, per provvedere a un grave ed urgente bisogno; 3) se il fatto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare nei fondi altrui, non ancora spogliati interamente del raccolto. Tali disposizioni non si applicano se concorre taluna delle circostanze indicate nei nn. 1, 2, 3 e 4 dell’articolo precedente.” L’art. 626 prevede 3 furti minori, rubricati come “furti punibili a querela dell’offeso”. Inoltre, l’art. stabilisce che le disposizioni in esso contenute non si applicano se concorre taluna delle circostanze nei numeri 1,2,3 e 4 dell’art. 625. Tuttavia, la disciplina in materia ha perso rilevanza successivamente alla legge n. 205 del 1999, che ha aggiunto un terzo comma all’art. 624, nel quale si stabilisce la generale punibilità a querela del furto. a)Il furto d’uso Non essendoci un significato tecnico preciso, si ritiene che il fatto tipico vada ricondotto ai residui di qualunque tipo di prodotti agricoli sfuggiti alla raccolta. È necessario che il fatto sia commesso in fase di raccolto, cioè a raccolto iniziato ma non ancora ultimato: si configura il furto comune se il fatto è compiuto prima che il raccolto abbia inizio. 5. SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI ART. 627 (Questo reato si registra quando) “il comproprietario, socio o coerede che, per procurare a se o ad altri un profitto, si impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene. Non è punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di essere non eccede la quota a lui spettante.” Quanto all’oggettività giuridica, parte della dottrina ne sottolinea la piena autonomia, ravvisando nella comproprietà non la mera somma di tanti diritti di proprietà, bensì una forma di proprietà collettiva che trova il suo fulcro nell’interesse del gruppo. Si tratta di un reato proprio, dal momento che il soggetto attivo è tassativamente indicato dal legislatore nel comproprietario, socio o coerede. Si fa riferimento solo al socio di società di persone e non a quello di capitali perché in quest’ultimo caso, i beni sono di pertinenza di un soggetto autonomo (l’ente societario), e perciò sono, rispetto ai soci, altrui. Tuttavia quest’ultima affermazione è ormai superata. Adesso è necessario distinguere i casi in cui la cosa sia diventata parte integrante dell’ente societario (ad esso non sottraibile senza alternarne la funzionalità), da quelli in cui la cosa stessa appare ancora legata alla persona dei soci. Per quanto riguarda il fatto tipico: presupposto del reato è che l’agente non abbia la detenzione della cosa sottratta. Oggetto materiale è la cosa mobile comune: tale è la cosa oggetto di comproprietà, società ed eredità. Dal 2^ comma dell’art. 627 si ricava che il fatto è sempre punibile se realizzato su cose infungibili e diventa punibile se commesso su cose fungibili eccedenti la quota personale. La ratio di questa esenzione da pena sta nel fatto che, nei casi di sottrazione di cose fungibili nei limiti di quota, viene leso soltanto il diritto accessorio alla divisione concordata, mentre non si verifica quella trasformazione in signoria che l’art. 627 tende ad evitare. Quanto la natura giuridica di questo limite, non fa altro che definire in negativo un requisito positivi del fatto tipico. Il dolo richiede la consapevolezza del carattere “comune”delle cose sottratte. Esso è escluso dalla erronea convinzione della “fungibilità” o della “non eccedenza” della cosa sottratta. 6. APPROPRIAZIONE INDEBITA ART. 646 “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a 3 anni e con la multa fino a 2 milioni. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata. Si procede d’ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel numero 11 dell’art 61.” Tale figura criminosa si distingue dal furto: infatti mentre il ladro, per far propria la cosa altrui, deve prima “sottrarla” a chi la detiene; l’autore dell’appropriazione indebita già “possiede” la cose di cui illecitamente si impadronisce (ad es. la cassiera di un negozio si appropria del denaro pagato dai clienti e raccolto nella cassa a lei affidataria). La minore gravità attribuita all’appropriazione indebita si spiega con la mancanza di quell’attacco alla pace sociale, provata dalla condotta sottrattiva del ladro nonché nella corresponsabilità della vittima, il quale prima di consegnare in mano ad altri cose di sua proprietà, dovrebbe assicurarsi che la persona prescelta sia meritevole di affidamento. La identificazione del bene protetto è controversa. Una prima tesi, ravvisa l’oggetto di tutela nel rapporto di fiducia che dovrebbe intercorrere tra il proprietario e il soggetto sul quale incombe l’obbligo di restituzione della cosa posseduta. Tuttavia questa tesi non riflette la disciplina dell’appropriazione indebita, dal momento che il legislatore del 30 ha eliminato dalla tipizzazione legislativa il requisito del previo affidamento o della consegna della cosa. Inoltre l’aver previsto come circostanza aggravante l’appropriazione di cose possedute a titolo di deposito necessario, denota che il rapporto di fiducia non costituisce un elemento indefettibile dell’ipotesi-base del reato. L’orientamento dominante identifica il bene protetto nel diritto di proprietà: a differenza del furto che tutela il possesso. Tuttavia, anche questa tesi è criticabile, visto che intendendo la proprietà in senso civilistico porterebbe ad escludere la configurabilità del reato in alcune ipotesi (es. il caso di appropriazione di cose fungibili). Si ritiene che il bene protetto sia costituito dall’interesse di un soggetto diverso dall’autore del fatto al rispetto dell’originario vincolo di destinazione della cosa. La struttura oggettiva dell’appropriazione indebita è caratterizzata da un presupposto possessorio: l’art. 646 cioè richiede che il soggetto attivo del reato “abbia a qualsiasi titolo il possesso” del denaro o della cosa mobile altrui di cui si appropria. In verità, la determinazione di questo requisito ha sollevato dubbi interpretativi. Circa il concetto di possesso sussiste una concordia nell’identificarlo con un autonomo potere di fatto sulla cosa. Sicché sono considerati possessori tutti coloro che esercitano sulla cosa un potere che esula dalla diretta sfera di controllo di chi vanti sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore (es. appaltatore, usufruttuario, depositario, comodatario). Mentre non è configurabile il possesso nell’ipotesi del portabagagli che trasporta le valigie a fianco del viaggiatore, mancando il presupposto possessorio nel senso di un potere di autonoma signoria, il soggetto per far propria la cosa, deve prima sottrarla, onde il reato che si configura è quello di furto. È pur vero che la sua applicazione nei diversi casi concreti può dar luogo a qualche incertezza: per cui non deve sorprendere che la dottrina e la giurisprudenza siano costrette a procedere in modo casistico. Si considerino le ipotesi di colui che lascia temporaneamente la propria automobile a un “posteggiatore”, e di chi invece la affida ad un “garagista” perché la custodisca all’interno dei locali dell’autorimessa, così da far apparire il posteggiatore più assimilabile al detentore e il garagista, più simile al possessore: con configurabilità nel caso di appropriazione del veicolo, del reato di furto ovvero di appropriazione indebita. Un’ ipotesi molto controversa è quella del possesso sprangato: ad es. Tizio affida a Caioun involucro chiuso contenente alcuni oggetti; Caio, dopo aver infranto il contenitore si appropria anche delle cose che vi sono contenute. In questo caso il reato è di appropriazione indebita, perché Caio per impadronirsi delle cose sprangate, basta che infranga la materialità dei sigilli, senza recidere la relazione possessoria che Tizio mantiene a distanza con esse. Il possesso della cosa mobile (o del denaro) può essere fondato su “qualsiasi titolo”: e cioè su una legge, su un contratto o su qualsiasi altra causa. Non deve trattarsi di un titolo che trasferisca la proprietà e ne deve avere una provenienza illecita. Un altro punto da chiarire concerne il rapporto cronologico che deve intercorrere tra il possesso della cosa e la condotta appropriativa. Il possesso non deve solo precedere, ma anche perdurare durante la realizzazione dell’atto di appropriazione Si consideri il caso di Tizio che ricevuto in prestito da Caio un libro, lo presta a sua volta a Sempronio, al quale dopo qualche tempo lo vende dietro compenso. In questo caso, Tizio non può essere considerato responsabile di appropriazione indebita perché, al momento in cui fa propria la cosa alienandola all’ignaro Sempronio, non ne ha più il possesso (in quanto precedentemente passato a Sempronio medesimo): ove ne sussistano i presupposti, potranno invece configurarsi altri reati, come ad es. la truffa. La condotta incriminata consiste nell’”appropriazione”: cioè l’agente deve comportarsi nei confronti della cosa come se ne fosse proprietario; si suole anche parlare di intervisione del possesso per esprimere il tramutamento del possesso in proprietà: il soggetto, che precedentemente possedeva la cosa in base a un titolo diverso dalla proprietà, inizia a possederla come se ne fosse proprietario. Ciò che si realizza è soltanto una situazione di fatto, corrispondente o analoga alla posizione giuridica del proprietario. Secondo l’orientamento dottrinale dominante, forme tipiche di manifestazione del reato sono: • Condotte di consumazione relative a cose consumabili: A consuma benzina altrui di cui è in possesso. • Condotte di alienazione a titolo oneroso o a titolo gratuito: B dona al fratello un libro avuto in prestito da un amico. • Condotte di ritenzione (comportamento omissivo di chi viola l’obbligo di restituire cose possedute): mancata restituzione della cose date in pegno. Oltre alla mancata restituzione della cosa occorre che la ritenzione sia accompagnata da una condotta che manifesti positivamente il rifiuto di restituire la cosa (ad es. negare di avere mai ricevuto in possesso la cosa o di nasconderla, e situazioni simili). • Condotta di distrazione: consiste nel dare alla cosa una destinazione diversa da quella originaria, incompatibile con il titolo e le ragioni del suo possesso. Si faccia l’esempio di un dipendente bancario che previo accordo collusivo con il cliente, gli concede un fido bancario in violazione delle norme statutarie sugli affidamenti. In questo caso ai fini della configurabilità del reato, occorre che il dipendente bancario non si limiti ad autorizzare il I. Appropriazione di cose smarrite art. 647. n.1. Il fatto tipico consiste nell’appropriarsi, senza osservare le apposite prescrizioni della legge civile, di cose smarriste che siano ritrovate per caso ovvero nel corso di ricerche sollecitate dallo stesso smarritore. Per cosa smarrita si intende quella cosa che non è in possesso di alcuno, cioè la cosa deve essere uscita dalla sfera di signoria del precedente possessore e quest’ultimo non deve essere in grado di ripristinare il potere di fatto su di essa. Mentre se un soggetto si appropria di una cosa dimenticata (cosa abbandonata momentaneamente per distrazione del proprietario), non si parla di appropriazione indebita, bensì di furto. Il reato di furto si configura anche nel caso in cui l’agente ritenga per errore che la cosa sia smarrita mentre di fatto è solo dimenticata, è prevista una circostanza aggravante per il caso in cui l’agente conosceva il proprietario della cosa dalla quale si è appropriato. II. Appropriazione indebita di tesoro art. 647 n.2. È incriminata la condotta di chi “avendo trovato un tesoro, si appropria in tutto o in parte, la quota dovuta al proprietario del fondo”. È definibile tesoro, “qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario”. Presupposto del reato è il ritrovamento del tesoro per caso fortuito. La condotta incriminata implica, oltre all’impossessamento, la mancata consegna al proprietario della quota spettantegli. III. Appropriazione di cosa avuta per errore o per caso fortuito art. 647 n.3 La condotta tipica consiste questa volta nell’appropriazione di cose, delle quali si sia venuti in possesso per errore o caso fortuito. L’errore altrui, che viene qui in rilievo, deve essere indipendente dal comportamento del soggetto attivo, perché altrimenti potrebbe configurarsi il delitto di truffa: esso può ricadere sia sulla cosa, sia sulla persona cui la cosa sia consegnata. In giurisprudenza, il delitto in esame è stato ravvisato nel caso di un correntista bancario, che si appropri di una somma di denaro accreditata sul suo conto a causa di un errore (a lui noto) di un dipendente della banca. Ricorre il caso fortuito (comprensivo anche della forza maggiore) in tutte le ipotesi nelle quali l’impossessamento, che precede l’atto appropriativo, sia la conseguenza di accadimenti che sfuggono al potere di controllo volontario sia dell’agente, sia dell’avente causa. 8.RAPINA ART. 628 “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da lire un milione a quattro milioni. Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità. La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da lire duemilioni a lire sei milioni: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o la persona travisata, o da più persone riunite; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; 3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416 bis.” Rapina: furto con violenza o minaccia alle persone. Dottrina e giurisprudenza hanno considerato il delitto di rapina come una classica ipotesi di reato complesso ex art 84 in cui gli elementi costitutivi sarebbero il furto e la violenza privata. Può anche accadere che la violenza non sia sempre etichettabile come violenza privata o che la violenza si fermi ad un reato di percosse o che si spinga oltre come nell’omicidio. Quindi il Fiandaca-Musco considera la rapina un reato solo “eventualmente” complesso poichè accanto al furto non si riscontra necessariamente una violenza privata, ma è sufficiente una violenza qualsiasi diretta al perseguimento dei fini contemplati dall’art 628. Va anche considerato il fatto che nella rapina rimane assorbita accanto alla minaccia solo la violenza che si manifesta come percosse. Ogni violenza che presenti un disvalore superiore (es omicidio) concorre con la rapina. Possiamo distinguere tra rapina propria e impropria. I. Rapina propria La violenza o la minaccia costituiscono il mezzo diretto ed immediato per realizzare la sottrazione e l’impossessamento della cosa mobile altrui. a. bene giuridico: dottrina prevalente non considera solo il possesso di beni mobili, dato che vengono posti in evidenza interessi ulteriori di natura personale, relativi cioè alla libertà di autodeterminazione e alla stessa integrità fisica del soggetto passivo, sostenendo una natura plurioffensiva del reato. b. Soggetto attivo della rapina è chiunque: deve trattarsi di soggetto diverso da quello che possiede attualmente la cosa. Tuttavia il peculiare disvalore, che la modalità aggressiva attribuisce all’intero fatto di reato, fa includere tra i soggetti attivi anche il proprietario della cosa, allorchè la cosa che gli appartiene sia posseduta da altri a titolo di diritto reale o obbligatorio. c. La condotta incriminata ruota attorno all’uso della violenza o della minaccia,finalizzato all’impossessamento della cosa allo scopo di trarne profitto. La violenza o la minaccia costituiscono lo strumento utilizzato per impossessarsi della cosa. La violenza rappresenta una forma di coazione del volere e ricomprende tutto ciò che è idoneo a costringere: essa priva l’aggredito della capacità di formare e attuare liberamente la propria volontà. La violenza non è limitata solo al togliere la libertà di movimento (es. mettere le mani addosso),ma si estende a qualsiasi mezzo fisico impiegato allo scopo ed a quei mezzi particolarmente insidiosi che sono in grado di determinare uno stato di incapacità di volere e di agire. La violenza dev’essere rivolta contro la persona: la rapina non è configurabile se la violenza viene realizzata sulle cose. Non è necessario comunque che quest’ultima venga esercitata nei confronti del detentore della cosa: essa può essere diretta anche nei confronti di un terzo purché vi sia un legame tale da far proiettare gli effetti coercitivi sul detentore medesimo. La minaccia costituisce un mezzo di coartazione della volontà del soggetto passivo,mediante la prospettazione di un male ingiusto e futuro. Il male o pregiudizio minacciato consiste nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici di pertinenza del soggetto passivo del reato o di terzi a lui legati da particolari vincoli sociali (rapporti di parentela, di affetto). La minaccia può essere diretta contro una persona diversa dal soggetto passivo, purché sia in grado di produrre l’effetto coercitivo in maniera trasversale sul possessore della cosa. La minaccia e la violenza devono apparire tali, e non costituire l’esito oggettivo di un comportamento ingannatorio e/o fraudolento, come nel caso di Tizio che, qualificandosi falsamente come agente di polizia, si introduce nell’abitazione altrui ed effettua una perquisizione, nel corso della quale si impossessa di alcuni oggetti: in questo caso la fattispecie incriminatrice è di furto aggravato e non rapina perché deve ritenersi che il comportamento di chi si limita a far credere di dover eseguire un ordine dell’autorità configura un raggiro. Non costituisce rapina neppure approfittare dello stato di intimidazione prodotto da causa non imputabile al soggetto agente (es. chi si impossessi di cose mobili altrui approfittando dello stato di paura creato da una folla in tumulto, in questo caso si registra il reato di furto aggravato dalla circostanza prevista all’art. 61 comma 5), salvo il caso in cui il soggetto abbia usato individualmente violenza o abbia contribuito volontariamente a rendere minacciosa la folla stessa verso il derubato. L’impossessamento della cosa deve essere conseguito mediante sottrazione a chi la detiene. Sottrazione ed impossessamento devono essere considerati in maniera distanti. La sottrazione costituisce il primo momento dell’iter criminis che progredisce poi e si conclude con la fase della instaurazione dell’autonomo potere di disposizione sulla cosa. Ed implica la spoglio,l’eliminazione dell’altrui possesso e presuppone il dissenso di colui che subisce lo spossessamento. L’impossessamento coincide con l’acquisizione di un autonomo potere di signoria sulla cosa al di fuori dell’altrui vigilanza(e coincide anche con il momento consumativo della rapina). Mentre nel furto la costituzione di un autonomo possesso presupporrebbe la fuoriuscita della cosa mobile dalla sfera di sorveglianza in modo che il detentore non possa recuperarlo; nella rapina, l’effetto coercitivo della violenza o della minaccia renderebbe superfluo il riferimento all’altrui Il fine di “ assicurare il possesso” ricorre ogni volta che il soggetto attivo tenta di instaurare un autonomo possesso sulla cosa sottratta al di fuori della sfera di sorveglianza della vittima. Per quanto riguarda la finalità di “procurare a se o ad altri l’impunità”, secondo la Suprema Corte al concetto di impunità si deve attribuire un contenuto molto ampio e comprensivo di tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso, compreso il sottrarsi all’arresto. Anche se vi è una distinzione dei 2 concetti in sede di disciplina delle aggravanti dell’omicidio. c. Tentativo è configurabile nel caso in cui dopo la sottrazione della cosail soggetto tenti di usare senza riuscirvi violenza nei confronti di chi vuole impedirgli di assicurarsi il possesso della cosa e di procurarsi l’impunità. Ma è controversa la questione della configurabilità del tentativo nell’ipotesi in cui l’autore usi violenza o minaccia dopo aver tentato di sottrarre senza esservi riuscito la cosa mobile altrui. Secondo il Fiandaca-Musco, in quest’ultimo caso non è configurabile il tentativo perché la rapina propria è caratterizzata dall’uso della violenza o minaccia dopo la sottrazione. La mancata sottrazione della cosa impedisce di considerare in un unitario contesto teleologico il tentativo di furto e la successiva violenza o minaccia usata per conseguire l’impunità. 9. DANNEGIAMENTO ART 635 “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a 310 euro. La pena è della reclusione da sei a tre anni e si procede d’uffico, se il fatto è commesso: 1) Con violenza alla persona o con minaccia; 2) Da datori di lavoro in occasione di serrate, o da lavoratori in occasione di sciopero, ovvero in occasione di alcuno dei delitti previsti dagli articoli 330, 331 e 333; 3) Su edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto, o su cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o su immobili, compresi nel perimetro dei centri storici, o su altre cose indicate nel numero 7 dell’art.625; 4) Sopra opere destinate all’irrigazione; 5) Sopra piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento; 5bis) sopra attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive.” Tra i reati di aggressione unilaterale,poiché ha come effetto la distruzione delle cose altrui,il delitto di danneggiamento è quello che arreca la lesione più intensa al bene del patrimonio. Tuttavia ha un trattamento sanzionatorio molto meno rigoroso rispetto a quello riservato a furto e appropriazione indebita. Ciò perché l’autore di fatti di danneggiamento è percepito come un soggetto molto meno pericoloso rispetto al ladro: mentre quest’ultimo agirebbe per soddisfare un impulso di arricchimento egoistico,chi provoca danni sarebbe spinto dal desiderio di giocare scherzi stupidi o da vandalismo. a. bene giuridico: va ben oltre il diritto di proprietà ed è individuato nel diritto alla integrità della cosa nella sua sostanza o comunque nella sua utilizzabilità,di cui è titolare il proprietario o colui che esercita su di essa un diritto di godimento o d’uso. b. soggetto attivo: chiunque, compreso il proprietario che danneggi la cosa su cui altri legittimamente esercita un diritto di godimento o d’uso. c. fatto tipico: ci sono 4 modalità di aggressione :distruggere,disperdere,deteriorare,rendere inservibile. Sono condotte alternative,basta che ne venga realizzata una soltanto. Tali condotte sono accomunate dall’attitudine a produrre il medesimo risultato,che è l’evento tipico:la alterazione strutturale o funzionale della cosa,o un suo deterioramento. E’ escluso il reato nei casi di danno particolarmente esiguo. a) distruzione: comporta il completo annientamento della cosa. Es. demolizione di un edificio. b) dispersione: riguarda solo le cose mobili o mobilizzate,consiste nel far uscire la cosa dalla disponibilità dell’avente diritto così che costui non possa più recuperarla o possa farlo con molta difficoltà. Es. aprire una bombola in modo da far fuoriuscire il gas. c) deterioramento: implica una modificazione in peggio della cosa, che ne pregiudica la funzione strumentale. Es. mutilazione di una statua. d) inservibilita’: equivale all’inutilizzabilità della cosa in rapporto alla sua originaria funzione strumentale. Non è necessario che la cosa venga distrutta,dispersa o deteriorata. Es. scomposizione del motore di un’automobile. La dottrina dominante e la giurisprudenza ammettono il danneggiamento omissivo a condizione che l’autore del fatto rivesta una posizione di garanzia generatrice dell’obbligo giuridico di impedire l’evento tipico. d. oggetto materiale:l’altrui cosa mobile o immobile. Ci si interroga se i fatti di inquinamento possano essere penalmente sanzionati facendo ricorso a tale fattispecie. Nonostante l’introduzione dell’apposita normativa sulla tutela delle acque dall’ inquinamento,permane il dubbio se le specifiche ipotesi introdotte escludano l’applicabilità della più generale figura criminosa in esame. e. dolo:è costituito dalla coscienza e volontà di distruggere,disperdere ,deteriorare o rendere inservibili le cose altrui (mobili o immobili) prese di mira: non è necessaria la presenza di un fine specifico di nuocere quale componente psicologica aggiuntiva. Il contenuto della volontà colpevole serve a distinguere il delitto di danneggiamento da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose, essendo previsto per quest’ultimo reato il fine specifico di esercitare un preteso diritto. f. consumazione: tale delitto è un reato istantaneo anche se di possibile esecuzione plurisussistente e si consuma nel momento in cui si verifica l’effetto dannoso. g. tentativo è configurabile. h. circostanze aggravanti speciali (ad efficacia speciale):comportano l’applicazione di una pena quantitativamente diversa da quella dell’ipotesi base e la procedibilità d’ufficio. Ricorrono se il danneggiamento è commesso: 1) Con violenza alla persona o con minaccia È sufficiente che violenza e minaccia siano contestuali al danneggiamento per applicare l’aggravante. 2) Da datori di lavoro in occasione di serrate,o da lavoratori in occasione di sciopero,ovvero in occasione di alcuno dei delitti preveduti dagli art 330,331,333. La prima parte dell’aggravante è stata considerata costituzionalmente illegittima per violazione del principio di eguaglianza. 3) Su edifici pubblici o destinati all’uso pubblico o all’esercizio di un culto,o su cose indicate nel n 7 dell’art 625. 4) Sopra cose destinate all’irrigazione. 5) Sopra piantate di viti,dialberi,o arbusti fruttiferi,o su boschi,selve,oforeste,ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento. Per applicare questa circostanza è necessario: d) Che le piante siano poste in opera dall’uomo e) Che siano fruttifere f) i. rapporti con altre figure di reato: e) Con l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose: la differenza sta nel fine specifico di esercitare un preteso diritto. f) Con il furto: es. tizio si impossessa di legna altrui e la brucia per scaldarsi. In questo caso si configura solo il furto poiché la distruzione della cosa è il mezzo per ottenere lo stesso profitto e quindi per trapassare valori patrimoniali dal patrimonio della vittima al proprio,mentre nel danneggiamento si cagiona la perdita di altrui elementi del patrimonio senza alcuna forma di trasferimento nel patrimonio dell’agente. 10.DANNEGGIAMENTO DI SISTEMI INFORMATICI E TELEMATICI ART 635 BIS “Chiunque distrugge, deteriore o rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati altrui, è punito, savo che il fatto costituisca più grave fatto di reato, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni Se ricorre una o più delle circostanze di cui al secondo comma dell’articolo 635, ovvero se il fatto è commesso con abuso dalla qualità di operatore del sistema, la pena è della reclusione da uno a quattro anni”. Nella prassi era emerso il problema se l’art 635 fosse utilizzabile per punire il sabotaggio di software,cioè l’alterazione o distruzione di dati informatici operata tramite istruzioni indirizzate in qualunque modo al computer (es. Tecnico di una ditta di calcolatori, chiamato a rispondere di danneggiamento per aver parzialmente cancellato il programma magnetico installato presso una società che aveva chiesto tale servizio per i propri collaboratori). Il problema è stato risolto poiché il legislatore ha introdotto una norma incriminatrice ad hoc che configura il nuovo reato di danneggiamento informatico. Ritenuto ipotesi più grave del danneggiamento comune • Ha un trattamento sanzionatorio più rigoroso • È perseguibile d’ufficio quello stabilito dalla legge o di non concludere il contratto non c’è minaccia mediante omissione poiché non esiste un obbligo giuridico di dare in godimento a terzi un proprio appartamento. • La minaccia può pure consistere nel prospettare il mantenimento di una situazione dannosa in atto esistente che si è contribuito a determinare. Es. il sindacalista che,dopo aver innescato una serie di conflitti sindacali,chiede come corrispettivo per il salvataggio dell’azienda una somma di denaro. • La minaccia è integrata da quei comportamenti che in apparenza sono diretti alla realizzazione del contenuto di un diritto ma che in realtà mirano a conseguire un obiettivo diverso e configgente con quello tipico es. la minaccia dell’instaurazione di una lite. La violenza o la minaccia può essere esercitata anche nei confronti di un soggetto diverso dalla vittima. Costrizione:tale effetto deve essere prodotto dalla violenza o minaccia. Occorre cioè che vi sia un nesso causale tra la condotta e la coazione psicologica che è l’evento intermedio. La coazione deve essere causata direttamente dalla condotta del soggetto attivo (se la condotta è uno dei tanti antecedenti non c’è estorsione). La coazione psicologica si risolve nella compressione della libertà di autodeterminazione creata dalla paura del male prospettato. Per effetto della coazione il soggetto passivo deve fare od omettere qualche cosa. Tali termini includono tantissimi comportamenti come l’alienare un bene,il rimettere un debito,il versamento di una somma di denaro etc. A differenza della rapina che ha per oggetto solo le cose mobili,l’estorsione può aggredire qualsiasi parte del patrimonio della vittima,comprese le aspettative di diritto es. costringere a rinunciare all’eredità per restare unico erede. Il fare od omettere deve avere ad oggetto atti giuridici validi,cioè produttivi di conseguenza giuridiche. Il reato si configura nell’ipotesi di atti annullabili poiché produttivi di effetti ,non si configura nel caso di atti inesistenti o nulli. Il comportamento coartato del soggetto passivo deve procurare al reo un ingiusto profitto con altrui danno (è il duplice effetto finale). Il danno e il profitto sono requisiti dotati di autonomia per cui l’uno può esistere indipendentemente dall’altro. danno:assume un contenuto esclusivamente patrimoniale:ricomprende ogni deminutiopatrimonii sia sotto il profilo del danno emergente che del lucro cessante. Può consistere nella perdita di un bene,nell’assunzione di un obbligazione etc. profitto: deve essere inteso in termini esclusivamente patrimoniali:ricomprende ogni forma di arricchimento o di evitato depauperamento del patrimonio del soggetto attivo o del terzo beneficiario della condotta del reo. Deve inoltre essere ingiusto, che ha un contenuto analogo a quello del delitto di rapina . d) dolo specifico cioè coscienza e volontà di coartare un terzo a fare od omettere qualcosa con lo scopo di ottenere un ingiusto profitto con danno altrui. A ben vedere si tratta di una tesi infondata perché l’ingiusto profitto non sta fuori dal fatto di reato ma è l’evento che deve essere voluto dall’agente. È rilevante l’errore sul profitto laddove si risolva in un errore sul fatto. e) consumazione: una tesi sostiene debba essere anticipata al momento in cui il reo ottiene la disponibilità,anche per un breve periodo,del prodotto dell’attività criminosa. Considera quindi consumata l’estorsione nel caso di predisposizione della forza pubblica durante la consegna del denaro o della cosa da parte della vittima. Tesi inaccoglibile poiché trasforma l’estorsione da reato di evento in reato di mera condotta. La lesione patrimoniale richiede una disponibilità effettiva e autonoma nel tempo e nello spazio. f) circostanze aggravanti:sono le stesse previste per la rapina. Precisazioni : • L’aggravante della violenza o minaccia commessa con armi è compatibile con l’estorsione soltanto quando abbia ad oggetto cose immobili,rientrando la consegna necessitata di cose mobili nella rapina. • L’aggravante della procurata incapacità di volere o agire può operare solo quando si voglia obbligare la vittima a un fare o omettere. g)rapporto con altri reati: 1) Estorsione e rapina: la delimitazione va ravvisata nella collaborazione,seppur coatta,della vittima. Il requisito dell’essenzialità della collaborazione rende irrilevante l’elemento materiale della semplice consegna,qualificandosi sempre come rapina l’impossessamento violento che l’agente poteva comunque conseguire da solo. 2) Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni: la differenza sta nella finalità perseguita dall’agente; nell’esercizio arbitrario il soggetto attivo,supponendo di essere titolare di un diritto,agisce con lo scopo di esercitarli,mentre nell’estorsione l’agente sa di conseguire un ingiusto profitto. 2. SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE ART 630 “Sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. Chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sè o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. Se dal sequestro deriva comunque la morte, quale conseguenza non voluta dal reo, della persona sequestrata, il colpevole è punito con la reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell’ergastolo. Al concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall’Articolo 605. Se tuttavia il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni. Nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera, al di fuori del caso previsto dal comma precedente, per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo a due terzi. Quando ricorre una circostanza attenuante, alla pena prevista dal secondo comma è sostituita la reclusione da venti a ventiquattro anni; alla pena prevista dal terzo comma è sostituita la reclusione da ventiquattro a trenta anni. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena da applicare per effetto delle diminuzioni non può essere inferiore a dieci anni, nell’ipotesi prevista dal secondo comma, ed a quindici anni, nell’ipotesi prevista dal terzo comma. I limiti di pena preveduti nel comma precedente possono essere superati allorché ricorrono le circostanze attenuanti di cui al quinto comma del presente articolo.” Tale reato,cosiddetto ricatto,negli anni 70 è andato assumendo un volto odioso di un crimine sempre più diffuso pericoloso e allarmante. In seguito,seppur si è avuto un decremento,permangono le connotazioni di particolare gravità di questo reato a causa: • Dell’elevata pericolosità degli autori:sempre più freddi e professionali • Del frequente ricorso a drammatiche pressioni sulla famiglia per ottenere riscatti particolarmente redditizi • Dell’adozione di tecniche esecutive disumane e crudeli Senza che l’effettivo pagamento del riscatto garantisca la liberazione o sopravvivenza dell’ostaggio: da qui la definizione del sequestro estorsivo come negoziazione asimmetrica, in cui cioè si realizza la mercificazione della vittima senza alcuna garanzia di liberazione dopo il pagamento. Le reazioni legislative a tale fenomeno hanno mirato : • A rendere più rigoroso il trattamento punitivo • A favorire forme di ravvedimento funzionalizzate alla liberazione dell’ostaggio, all’elisione delle ulteriori conseguenze del reato o alla collaborazione con gli inquirenti. Nell’originaria configurazione codicistica la fattispecie del sequestro estorsivo era concepita • Come una speciale forma di estorsione caratterizzata dal mezzo • O come un sequestro di persona caratterizzato dal fine estorsivo Seppur era una figura ibrida che incideva sia sul patrimonio che sulla libertà della vittima, la collocazione nel titolo 13 ne privilegiava la connotazione patrimonialistica. Sicchè la vera ragione d’essere del reato risiedeva nello scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione e perciò nell’offesa del patrimonio del sequestrato. Tuttavia questa configurazione del reato sembrava rinnegare la superiorità gerarchica del bene personalistico. Ci sono stati quindi degli interventi legislativi che hanno mutato l’originaria configurazione patrimonialistica a vantaggio di una maggiore proiezione della tutela verso il bene della libertà personale. a) oggetto di tutela: si incentra prevalentemente sul bene della libertà personale del sequestrato con conseguente attenuazione della dimensione patrimonialistica . Ciò è supportato: • Dalla soppressione dell’aggravamento di pena per l’ipotesi di un effettivo conseguimento del riscatto e la sua sostituzione con la circostanza aggravatrice della morte dell’ostaggio • Dall’esclusione di una attenuazione della pena per il caso di mancato conseguimento del profitto • Dal completo sganciamento della prospettiva premiale dalle vicende relative al pagamento del prezzo b)condotta tipica:il nucleo base è identico a quello del reato previsto dall’art 605,ovvero sequestrare una persona. sequestrare: privare taluno della libertà personale,concepita come libertà di movimento nello spazio. È sufficiente una impossibilità relativa di libero movimento: basta cioè che il soggetto passivo non sia in grado di superare da solo e con immediatezza l’ostacolo che gli viene frapposto. È indifferente il modo con cui il sequestro viene eseguito. durata minima della compressione della libertà: è indifferente la protrazione più o meno lunga dell’impedimento e seppur non sia predeterminabile con precisione e una volta per tutte il lasso di tempo a partire dal quale il fatto diventa punibile,trattandosi di reato permanente perché si abbia sequestro consumato è necessario un protrarsi più o meno lungo della privazione della libertà. Occorrerà poi prendere in considerazione tutti gli elementi del caso concreto. Parimenti grave è la pena nel caso in cui il fatto sia commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità. e) La condotta tipica del reato Consiste in una particolare forma di aggressione al patrimonio altrui, realizzata attraverso un inganno che induce la stessa vittima ad autodanneggiarsi. Per queste ragioni, tale reato è ascrivibile nel novero delle fattispecie a cooperazione artificiosa: l’azione offensiva non si esaurisce in un’aggressione unilaterale del reo, ma richiede una sorta di completamento ad opera del soggetto passivo che coopera alla produzione del danno. f) Bene giuridico protetto dalla norma È il patrimonio in quanto offendibile attraverso il ricorso alla frode. A volte è stato riconosciuto tutelato da questa norma anche la buona fede del pubblico quale elemento dell’ordine giuridico generale, in un’ottica di pubblicizzazione del bene protetto. Questo orientamento, tuttavia, non può trovare accoglimento dal momento che anche il delitto di truffa è sottoposto al regime della perseguibilità a querela. Ragion per cui l’offesa della truffa riguarda soprattutto diritti soggettivi individuali. g) Sembra necessario tener conto della concatenazione delle caratteristiche modali della truffa: a. Artifici o raggiri: ai fini della configurabilità del reato non è sufficiente una condotta induttiva qualsiasi che comunque provochi di fatto un inganno, ma è necessario che l’induzione sia realizzata mediante le specifiche modalità legislativamente previste (quindi mediante artificio o raggiro). L’artificio è definito come una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o mediante la dissimulazione di circostanze esistenti. Il raggiro invece consiste in un’attività simulatrice sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il falso per vero. Quindi il raggiro può esaurirsi in una semplice attività di persuasione che influenza la psiche altrui. Soltanto la grossolanità o inverosimiglianza dell’inganno escludono il reato: quindi ove l’inganno sia in concreto riuscito, non occorre affatto provare la astratta idoneità dell’artificio o del raggiro a trarre in errore. In questo modo si è finito per includere anche la semplice menzogna quale condotta punibile, dilatando notevolmente ed ingiustificatamente la lettera della legge. Da qui, allora, l’esigenza di ripristinare, da un lato un metodo restrittivo di interpretazione degli artifici e dei raggiri e di recuperare, dall’altro, il ruolo della vittima quale criterio complementare atto a circoscrivere i limiti della punibilità (si ricordi il pensiero del Carmignani secondo cui “non deve per l’uomo far tutto la legge quando egli poteva fare da sé medesimo”). Per queste ragioni è necessario che l’inganno presenti un apprezzabile grado di pericolosità: possegga cioè l’attitudine a sorprendere l’altrui buona fede in misura tale che la vittima presa di mira nono possa, adoperando l’accortezza dovuta, difendersene da sé medesima. Per queste ragioni la fiducia della vittima può considerarsi giustificata (e pertanto si configura il reato in capo all’ingannatore) se è ragionevolmente fondata: cioè sorretta da elementi di verosimiglianza che escludono ogni motivo di diffidenza, ovvero se confortata ad esempio dalle qualità della funzione svolta dalla controparte, ovvero da un rapporto di lunga conoscenza, ecc. Inoltre, l’affidamento è legittimo in tutti i casi di fiducia necessitata, cioè concessa per necessità o perché la potenziale vittima non dispone delle cognizioni e capacità necessarie a sventare l’inganno, o perché il ricorso a controlli è oggettivamente impossibile, ecc. Al di fuori di queste ipotesi, la fiducia è mal riposta e l’errore in cui si può cadere è conseguenza dell’irragionevolezza del proprio affidamento. È controverso se il silenzio, la reticenza o comunque un comportamento omissivo possano fungere da strumenti idonei di inganno. Secondo una certa parte di giurisprudenza ciò è ammesso: p.e. è punibile il presidente di una società sportiva il quale, nel procedere alla vendita di un atleta, ha taciuto sulle precarie condizione di salute di quest’ultimo. Tuttavia non mancano delle argomentazioni che ci portano ad escludere la configurabilità della truffa mediante omissione: • Vi sono difficoltà nel nostro ordinamento nel rinvenire espliciti obblighi giuridici di dire la verità. • L’equiparazione tra l’omettere e l’agire è in linea generale esclusa proprio rispetto ai reati a forma vincolata (e la truffa è un reato a forma vincolata). b. Induzione in errore: l’attività induttiva, realizzata mediante artifici o raggiri, deve generare come risultato l’errore del soggetto preso di mira. Per errore intendiamo la falsa o distorta rappresentazione di circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della volontà. Altra cosa è l’ignoranza pura: in questo caso, vi è una completa mancanza di rappresentazione. E in linea di principio l’ignoranza dovrebbe esulare dalle ipotesi da far rientrare nella truffa, ma a causa di un atteggiamento interpretativo della giurisprudenza, anche alcune ipotesi di ignoranza finiscono per rientrare nella truffa. Sarebbe opportuno anche qui avere un’interpretazione restrittiva dal momento che va ricordato che la tutela penale deve essere sempre considerata quale extrema ratio. Sempre in maniera restrittiva andrebbe interpretata lo stato di dubbio, ossia il caso in cui taluno versi in uno stato di dubbio circa la credibilità della controparte: quindi anche in questo caso non è opportuno considerare configurabile il reato proprio perché il soggetto dubbioso è meno vulnerabile ed esposto all’inganno. Va tuttavia precisato che vi sono due ipotesi di dubbio: • Dubbi rilevanti: ossia sorretti da elementi concreti e specifici, in ordine ai quali il soggetto potrebbe indagare al fine di prevenire da sé medesimo la caduta in errore. Dunque non è configurabile in questo caso la truffa. • Dubbi irrilevanti: in questo caso il soggetto non sarebbe in grado, pur adoperando la maggiore avvedutezza, di evitare di cadere in errore. E in questi casi la truffa è configurabile. Pacificamente si ammette sia in dottrina che in giurisprudenza che vittima dell’errore può essere anche una persona diversa dal soggetto passivo del reato, purché l’ingannato si trovi in una condizione giuridica che lo legittima a compiere atti produttivi di effetti pregiudizievoli sul patrimonio del soggetto danneggiato dalla truffa. c. Atto di disposizione patrimoniale da parte dell’ingannato (elemento implicito per via interpretativa): esso rappresenta il secondo evento del reato, quale effetto dell’errore (che è il primo evento) e quale causale del danno patrimoniale (che è il terzo evento) subito dal soggetto passivo. Si tratta di un elemento che non è scritto e che è stato frutto di interpretazione: si è, infatti, osservato come nella truffa lo stesso soggetto ingannato contribuisce a provocare la lesione dei suoi interessi patrimoniali. La giurisprudenza, oltre a considerare necessaria la presenza di un atto o comportamento del soggetto passivo, arriva a ritenere che esso possa anche avere carattere omissivo, estendendo dunque l’ambito applicativo della truffa: dunque l’atto patrimoniale pregiudizievole potrebbe anche consistere in un comportamento negativo della stessa vittima, in forza del quale essa perde un diritto o non acquisisce una utilità. La disposizione patrimoniale può assumere a suo oggetto qualsiasi elemento costitutivo del patrimonio (beni mobili, immobili e diritti di qualsiasi natura). Essa può consistere nell’assunzione di obbligazioni, nell’esecuzione di prestazioni o servizi, nell’assunzione di oneri, ecc. d. Danno patrimoniale e profitto ingiusto: abbiamo detto che l’induzione in errore provoca l’atto di disposizione patrimoniale da parte dell’ingannato, e questo evento a sua volta ne determina un altro, ossia il danno patrimoniale. La norma non determina la portata e i confini di questo requisito e per queste ragioni dottrina e giurisprudenza spesso divergono. La tendenza ad estendere la portata di questa norma ha avuto spesso la conseguenza di estendere il danno patrimoniale, assumendo connotazioni che vanno al di là della richiesta deminutio patrimonii. La dottrina dominante propende per una concezione obiettivo-economica del danno: essa lo identifica con un danno patrimoniale effettivo, sotto forma di danno emergente o anche di lucro cessante, accertabile sulla base di valutazioni di mercato. Questa stessa dottrina poi ha ricevuto alcuni correttivi per scongiurare risultati applicativi considerati poco appaganti: • In riguardo alla truffa contrattuale (che è quella commessa nell’ambito di una relazione di scambio che non avrebbe avuto luogo senza gli artifici o raggiri) e precisamente facendo riferimento a quelle fattispecie concrete in cui il raggirato riceve in cambio una controprestazione economicamente equivalente o proporzionale alla propria prestazione, ma inidonea a soddisfare un suo bisogno personale (p.e. un rappresentante di commercio raggira un contadino, inducendolo ad acquistare, al prezzo di mercato, una macchina agricola inutilizzabile nel suo terreno). In queste ipotesi in cui la cosa ottenuta dal soggetto raggirato sia acquisita al giusto prezzo di mercato, la giurisprudenza ha ravvisato gli estremi della truffa, sostenendo che il danno consiste nella mancata destinazione del denaro ad impieghi più utili per la parte ingannata. Ma così facendo, si trascende la dimensione oggettiva ed economica del danno e si privilegia la prospettiva dei bisogni individuali. La soluzione preferibile invece consiste nell’ancorare la valutazione dell’utilità personale al giudizio ragionevole di un osservatore obiettivo: e quindi, occorrerà verificare se la controprestazione ricevuta sia utile per il truffato (non già sulla base del suo personale punto di vista, bensì) alla stregua delle vedute dominanti nel suo contesto sociale e/o professionale di appartenenza (p.e. se si applica questo parametro di giudizio sarà penalmente irrilevante la vendita di un tappeto al prezzo di mercato ad una casalinga invogliata da un commerciante che le fa credere di vendere ad un prezzo speciale nell’ambito di una campagna promozionale di durata limitata). • In riferimento a quei casi in cui la condotta ingannatrice proietta la sua carica offensiva su interessi pertinenti allo Stato o ad altro ente pubblico, e soprattutto ai casi di truffa in attività lavorativa o in assunzione (p.e. colui che, producendo una documentazione falsa, si fa assumere in un pubblico impiego nonostante sia carente dei requisiti richiesti per partecipare al concorso). La Cassazione solitamente ravvisa il danno nel pregiudizio nei confronti della P.A. che assume una persona che non possiede evidentemente i requisiti richiesti, ma anche nei confronti degli altri concorrenti che ricevono un danno per l’alterazione della graduatoria. Certamente è nobile l’intento di reprimere comportamenti ingannatori indubbiamente gravi e censurabili, ma gli interessi lesi da simili comportamenti attengono, infatti, più che al patrimonio della P.A., alla regolarità delle procedure di assunzione nei pubblici concorsi. • In riguardo a quei casi in cui la condotta ingannatrice ha per risultato l’ottenimento indebito di prestazioni o strumenti di pubblico ausilio, finalizzati a scopi di politica sociale ovvero di politica economica (finanziamenti, agevolazioni, sussidi, edilizia popolare, ecc.). Innanzitutto va detto che la presenza di circostanze aggravanti implica il passaggio dalla procedibilità a querela di parte alla procedibilità d’ufficio. 3. La prima circostanza ricorre se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare. La ratio di questa aggravante non va riscontrata nell’esigenza di tutela del servizio militare, bensì di protezione dell’immagine della P.A. contro il discredito che le deriverebbe dall’apparenza di corruttibilità. 4. La seconda circostanza ricorre se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’autorità. La ratio di questa seconda aggravante è ravvisata nella particolare insidiosità della condotta ingannatrice. La prima ipotesi consiste nel far sorgere nella vittima la paura di un male futuro (p.e. una fattucchiera, sfruttando la superstizione della vittima, si fa dare del denaro facendole credere che, senza un determinato sortilegio, una persona cara sarebbe morta a causa di un incidente stradale); ma questo evento di carattere psicologico deve essere il frutto del comportamento fraudolento dell’autore e non già di una minaccia (altrimenti parliamo di estorsione). La seconda ipotesi si caratterizza per il fatto che il raggiro dell’agente deve far credere falsamente alla vittima di dover eseguire un ordine dell’autorità. Anche in questo caso si dovrà configurare l’estorsione e non già la truffa aggravata se il comportamento dell’autore si risolve in una minaccia a compiere l’atto di disposizione patrimoniale. 3) Truffa in danno dello Stato (art. 6402) L’art. 6402 prevede un aggravamento della pena per il caso in cui il fatto sia commesso a danno dello Stato o di altro ente pubblico: è dunque necessario che lo Stato assume il ruolo di soggetto passivo quale destinatario del danno. Il codice disciplina quest’ipotesi quale circostanza aggravata di reato, anche taluni hanno sostenuto che forse sarebbe opportuno considerarla quale fattispecie autonoma, viste le sue peculiarità che addirittura finiscono per entrare in conflitto con l’ipotesi-base. Queste le peculiarità della truffa in danno dello Stato: • Danno: tende ad assumere connotati qualitativi che vanno al di là della tradizionale dimensione patrimonialistica privata. • In alcune ipotesi poi non è riscontrabile l’atto dispositivo. • Obbligo di controllo: sullo Stato incombe un obbligo di controllo sulla genuinità e veridicità delle dichiarazioni, delle informazioni e dei dati che i privati devono fornire al fine di conseguire le prestazioni pubbliche. E questo obbligo di controllo va ad interferire sull’accertamento dell’idoneità causale dell’inganno del privato a trarre in errore gli organi della P.A. 4) Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis) Ai sensi dell’art. 640-bis la pena è della reclusione da 1 a 6 anni e si procede di ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominati, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. A. Circostanza aggravante della truffa o autonoma figura di reato? Un primo problema di carattere interpretativo che sorge dinanzi a tale fattispecie è se è necessario considerarla quale fattispecie autonoma o anch’essa una circostanza aggravante della truffa comune. Le SS.UU. hanno optato per la natura circostanziale dell’art. 640-bis dal momento che in questa norma vi è un rinvio all’art. 640 circa il criterio strutturale della descrizione del precetto penale. B. Oggetto della frode La fattispecie è costituita dagli stessi requisiti della truffa, fatta salva la specificità inerente all’oggetto della frode (contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo). La formulazione abbastanza casistica e generica, comporta che l’identificazione di tutte le forme di erogazione rientranti nell’art. 640-bis sia affidata alla discrezionalità del giudice. 5) Frode informatica (art. 640-ter) Ai sensi dell’art. 640-ter chiunque, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa da 52 € a 1033 €. A. Fattispecie autonoma Allo scopo di evitare forzature interpretative della tradizionale figura della truffa, il legislatore ha introdotto nel ’93 il nuovo reato di frode informatica. B. Bene giuridico protetto dalla norma La norma tutela non solo il patrimonio del danneggiato, ma anche la regolarità di funzionamento dei sistemi informatici e dalla riservatezza che deve accompagnare l’utilizzazione. C. Condotta tipica La struttura oggettiva della condotta punibile soltanto apparentemente ripropone lo schema tradizionale della truffa: mancano, infatti, sia l’estremo dell’induzione in errore del soggetto passivo, sia gli artifici o raggiri (visto che stiamo parlando di un computer!). La condotta fraudolenta deve necessariamente consistere in una alterazione del funzionamento del sistema informatico o telematico ovvero in un intervento non autorizzato su dati, informazioni e programmi. D. Dolo Il dolo consiste nella volontà di alterare il funzionamento dei sistemi o di intervenire indebitamente su dati, informazioni o programmi, ecc. E. Circostanze aggravanti Si applicano le circostanze aggravanti previste dall’art. 640, insieme alla nuova circostanza aggravante prevista per coloro che rivestano la qualità di operatore del sistema. e) Insolvenza fraudolenta (art. 641) Ai sensi dell’art. 641 chiunque, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla è punito, a querela della persona offesa, qualora l’obbligazione non sia adempiuta, con la reclusione fino a 2 anni o con la multa fino a 516 €. L’adempimento dell’obbligazione avvenuto prima della condanna estingue il reato. 5. Bene giuridico protetto Il delitto di insolvenza fraudolenta tende a tutelare il patrimonio della vittima, oltre la buona fede contrattuale. 6. Soggetto attivo Il delitto può essere commesso da chiunque. 7. Condotta tipica La condotta che configura il reato di insolvenza fraudolenta si articola in tre momenti: • Dissimulazione dello stato di insolvenza: si inserisce in una relazione a prestazioni corrispettive, in cui un soggetto adempie in funzione di una controprestazione. Il comportamento dissimulatorio altera in qualche modo la situazione di buona fede, impedendo ad una parte di cogliere la reale posizione economica dell’altra (p.e. colui che dorme in albergo senza pagare all’albergatore). La dissimulazione dunque è un comportamento solitamente omissivo e fraudolento capace di mantenere la controparte in uno stato di ignoranza, a differenza dell’artificio e/o raggiro tipico della truffa che deve invece indurre in errore: quindi più corposo e palese diviene il comportamento dissimulatorio, tanto è maggiore il rischio che esso si trasformi in un vero e proprio artificio o raggiro. La dissimulazione è esclusa quando la condotta della controparte riveli manifestamente l’indisponibilità ad adempiere l’obbligazione (p.e. un senzatetto che chiede un pasto in un ristorante di lusso). Oggetto della dissimulazione è quindi il proprio stato di insolvenza, e cioè l’impossibilità economico-finanziaria, totale o parziale, di adempiere l’obbligazione assunta. confronto la personalità della vittima con quella del soggetto attivo (p.e. uno psicoanalista induce un paziente in analisi a sottoscrivere quote di due società gravitanti nell’ambito dell’organizzazione di cui fa parte, convincendolo, mediante approfitta mento del suo stato di sofferenza psichica, che l’investimento economico nelle predette società costituisce condizione del buon esito del trattamento psicoanalitico). • Condotta incriminata La condotta incriminata consiste in una attività di induzione mediante abuso della condizione di minorità psichica. Se si tratti di minori, l’attività persuasiva del reo deve tradursi in un approfittamento dei loro bisogni, delle loro passioni o della loro inesperienza. Se il soggetto passivo sia un infermo o deficiente psichico, l’abuso deve avere ad oggetto questa specifica condizione di incapacità. L’induzione consiste in una forma di interferenza psichica, che si realizza tipicamente mediante persuasione o suggestione. È necessario che la pressione psicologica (p.e. eccitamento, stimolo, suggestione, ecc.) sia esercitata in misura apprezzabile (p.e. non è sufficiente una mera richiesta o il semplice profittare della menomazione della vittima, senza esercizio di alcuna forma positiva di stimolo). L’abuso si traduce in questo caso in uno sfruttamento o approfitta mento, nel senso che il reo deve giovarsi, con qualsiasi mezzo idoneo, delle particolari condizioni di vulnerabilità del soggetto passivo al fine di carpire un consenso che in situazioni normali non sarebbe prestato. La condotta di induzione approfittatrice deve produrre, come primo risultato, il compimento di un atto da parte dell’incapace: quest’atto deve a sua volta implicare, come seconda conseguenza, qualsiasi effetto giuridico per lui o per altri dannoso (ragion per cui rientra nei reati di cooperazione con la vittima). • Compimento di un atto da parte dell’incapace: è necessario accertare il nesso causale che lo lega alla condotta abusiva e che si manifesta attraverso l’attività di induzione. Non è sempre facile accertare ciò; la giurisprudenza ritiene sufficiente che l’agente rafforzi una decisione pregiudizievole già adottata dal minorato. Per atto si intende il comportamento umano idoneo a produrre effetti giuridici; può essere scritto, orale o può consistere in un fatto materiale. Il reato si configura se l’atto è annullabile o affetto da nullità sanabile: il reato, invece, esula se l’atto è inesistente o inficiato da una nullità insanabile. • Qualsiasi effetto giuridico per il soggetto passivo o per altri dannoso: secondo coloro che sono favorevoli a ricostruire il reato come lesivo della libertà di autodeterminazione, per danno non si intende necessariamente un danno di natura patrimoniale (p.e. il pregiudizio che deriverebbe all’identità e all’immagine della ragazza 15enne che rischierebbe di essere assimilata ad un’attrice- porno). Tuttavia è preferibile considerare il danno in termini patrimoniali (beninteso, ciò non implica che la patrimonialità debba interessare anche l’atto che produce il danno). • Dolo È un reato punito a titolo di dolo generico se il soggetto attivo ha la consapevolezza della condizione di minorità, infermità o deficienza psichica del soggetto passivo, e l’intenzione di strumentalizzarla. È un reato punito a titolo di dolo specifico se l’agente ha il fine di procurare a sé o ad altri un profitto (profitto che la norma non chiarisce ma secondo alcuni dovrebbe essere altresì ingiusto). • Consumazione Il reato si consuma allorché si verificano tutti i requisiti previsti dalla fattispecie incriminatrice, compreso l’effetto giuridico dannoso conseguente all’atto compiuto: quindi, in altre parole, basta, ai fini della consumazione del reato, che si siano verificati i presupposti tipici di un danno di giuridica attualità, non essendo necessaria la concreta verificazione del danno in senso economico, che resta un accadimento soltanto eventuale. • Tentativo La configurabilità del tentativo deve ritenersi compatibile con la struttura del fatto tipico. g) Delitti di usura d).2.. Usura Ai sensi dell’art. 644 chiunque, fuori dei casi previsti dall’art. 643 (circonvenzione di persone incapaci), si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito con la reclusione da 2 a 10 anni e con la multa da € 5mila a € 30mila. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizione di difficoltà economica o finanziaria. 6) Brevi cenni storici dell’istituto Questo reato era assente nel codice Zanardelli del 1889 per l’impronta liberistica di tale codice. È ricomparso nel codice Rocco e nel tempo ha subito progressive modifiche normative (nel ’92, nel ’96 e nel ‘05). Le modifiche sono state dettate dall’esigenza di rendere sempre più efficace la repressione dell’usura, essendosi il fenomeno via via incrementato anche per effetto dei suoi crescenti collegamenti con la criminalità organizzata. 7) Bene giuridico protetto L’oggetto della protezione penale è controverso: • Originaria formulazione codicistica dell’art. 644: l’opinione tradizionale sosteneva che la fattispecie di usura si preoccupasse di apprestare tutela al patrimonio della persona offesa. Ma non mancavano orientamenti volti sia a valorizzare gli aspetti gli aspetti pubblicistici dell’economia pubblica, sia ricostruzioni tendenti a mettere in luce una pluralità di interessi tutelati (plurioffensività del delitto). • Attuale formulazione dell’art. 644: si riaccredita quella tesi, un tempo minoritaria, che ravvisa l’oggetto della protezione penale nell’esigenza pubblicistica di regolamentare e dare un freno al mercato creditizio: ciò allo scopo di frenare la lievitazione del costo del denaro, specie rispetto ai settori di mercato meno dotati di risorse. Tuttavia a ben vedere esiste una triplice possibilità: a. Secondo un primo punto di vista, si può sostenere che il bene giuridico tutelato rimanga la regolarità del mercato del credito, sia nell’ipotesi di interessi usurari alla stregua del limite legale, sia in quella di interessi usurari in concreto. b. Un secondo approccio ricostruttivo ritiene invece che il bene giuridico protetto si diversifichi in relazione a ciascuna delle due ipotesi prese in considerazione dalla vigente norma incriminatrice. E cioè, nel caso di interessi usurari secondo il parametro astrattamente determinato, l’oggetto della tutela andrebbe ravvisato nell’ordinamento del credito; mentre, nell’ipotesi dell’usurarietà determinata dal giudice in base alle circostanze concrete del fatto, il bene protetto tornerebbe a consistere nel patrimonio del soggetto che si trova in una situazione di particolare debolezza economica. c. In base alla terza tesi il bene protetto rimane in ogni caso il patrimonio del soggetto che versa in uno stato di difficoltà (difficoltà che è presunta nell’ipotesi di tasso usurario ex lege; difficoltà che è accertata dal giudice nel caso di usurarietà determinata in concreto). 8) Soggetto attivo L’usura è un reato comune, che può dunque essere commesso da chiunque. 9) Condotta incriminata È necessario, ai fini della configurabilità di questo reato, che il soggetto attivo (usuraio) si faccia dare o promettere dal soggetto passivo interessi o altri vantaggi usurari, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità. Quindi vi è uno scambio di prestazioni: l’usuraio presta denaro o altra utilità; la vittima, in cambio, gli dà o promette interessi o altri vantaggio sproporzionati per eccesso. Solitamente si realizza mediante contratto di mutuo, ma altre volte può concretizzarsi mediante altri strumenti quali l’apertura di credito, la compravendita sia a rate sia con patto di riscatto, ecc. Quanto alla condotta del soggetto attivo, abbiamo detto che consiste nel prestare denaro o altra utilità. Prima del ’96 si faceva riferimento a “altra cosa mobile”, mentre dopo l’intervento riformatore si parla di “altra utilità”. • Altra cosa mobile: sfruttamento di una momentanea situazione di difficoltà finanziaria, soddisfatta dal prestito di somme di denaro o di altre cose mobili. Quindi si faceva riferimento solo alla c.d. usura pecuniaria, e non anche a quella c.d. reale, ossia quella consistente nella prestazione di un servizio o di una attività professionale. • Altra utilità: con questa espressione si fa rientrare nell’area della rilevanza penale anche l’usura c.d. reale (p.e. il chirurgo che chiede compensi estremamente elevati per prestare la propria opera professionale). Quanto alla prestazione della vittima, essa consiste nella dazione o promessa di interessi o altri vantaggi usurari. Non conta se l’iniziativa sia del soggetto passivo o attivo, ciò che conta è solo la pattuizione usuraria. CAP. 4 – I DELITTI DI CIRCOLAZIONE E REIMPIEGO DI COSE O CAPITALI ILLECITI 1. RICETTAZIONE (ART 648 C.P.) “Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque si intromette per farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da 2 a 8 anni e con la multa da € 516,46 ad € 10329,14. La pena è della reclusione fino a 6 anni e della multa fino a € 516,46 se la pena è di particolare tenuità. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto” In numerosi ordinamenti stranieri (es: quello anglosassone), la ricettazione non ha una sua specifica configurazione differenziata rispetto al furto. I nostri criminalisti del secolo scorso, distinguevano il “delinquente accessorio” in 3 categorie: • PRIMA DEL DELITTO • NEL TEMPO DEL DELITTO • DOPO IL DELITTO La ricettazione veniva, ovviamente, inserita nella terza categoria poiché si sosteneva l’idea che “la volontà di uno può in un certo modo concorrere ad un delitto da altri già commesso”. All’inizio del secolo, però, la dottrina ha ritenuto inconsistente questa teoria; il Codice Rocco prendendo atto di ciò, avviò il lungo processo di autonomizzazione del delitto di ricettazione. Oggi, quindi, la ricettazione è definitivamente autonoma rispetto al cd. delitto presupposto. Una delle forme più frequenti di realizzazione di questo reato, è l’acquisto di merce proveniente da furto o rapina; per questo motivo, si crede che “il ricettatore sia più spregevole del ladro”, poiché buona parte dei furti di opere d’arte vengono compiuti con la consapevolezza di trovare, poi, un ricettatore pronto a riceverle ( la Cass. Tedesca definisce il ricettatore “il leone dei ladri”). Vediamo quali sono i caratteri tipici della ricettazione: • RAGIONE DELL’INCRIMINAZIONE: secondo un’opinione tradizionale, consiste nell’esigenza di evitare la dispersione degli oggetti provenienti dal delitto, in seguito alla loro messa in circolazione. Tuttavia questa opinione non è realistica poiché la circolazione può provocare l’effetto contrario: fornire agli organi di repressione penale, l’occasione d’individuare e scoprire gli autori del delitto medesimo. La difficoltà di identificare l’oggetto della tutela, ha offerto soluzioni cd. scorciatoia ( es: tesi che ritengono il delitto di ricettazione, un reato senza offesa….). Sicuramente possiamo affermare che si tratta di un delitto che ha natura “curiosa” che presuppone una lesione di interessi patrimoniali, un reato di pericolo astratto e non di danno. • SOGGETTO ATTIVO: può essere “chiunque” acquisti, riceva od occulti le cose menzionate dall’art 648 c.p. ovvero s’intrometta per farle acquistare, ricevere od occultare. Sono esclusi dai possibili autori del reato, i concorrenti nel reato presupposto ed il danneggiato del reato ed il proprietario della cosa. • CONDOTTA INCRIMINATA: consiste nell’ “acquistare, ricevere od occultare” denaro o cose provenienti da delitto, ovvero “intromettersi nel farli acquistare, ricevere od occultare”. Come vediamo, si configurano due tipologie di ricettazione: • Ricettazione vera e propria: in questa ipotesi il soggetto attivo, agisce per curare un proprio interesse; • Ricettazione c.d. intermediazione: il soggetto attivo svolge il ruolo di mediatore tra il soggetto che possiede le cose di provenienza illecita ed un terzo. • Nozione di acquisto: è controversa; secondo un orientamento della dottrina e della giurisprudenza, starebbe ad indicare ogni attività negoziale, a titolo oneroso o gratuito, il cui effetto è quello di far entrare la cosa nella sfera giuridico-patrimoniale dell’agente, attribuendogli il possesso “uti dominus” (es: compravendita, permuta, acquisto di diritti reali). Secondo altro orientamento dottrinale, il termine acquisto è sinonimo di compravendita. • Nozione di ricevere: ricomprende ogni forma di conseguimento della disponibilità della cosa proveniente da delitto. L’opinione oggi maggioritaria sostiene che la ricezione comprenda tutte le forme di conseguimento del possesso, anche temporaneo, della cosa “non uti dominus”. La dottrina tradizionale considera il ricevere, equivalente all’entrata in possesso della cosa a qualsiasi titolo diverso dalla compravendita; orientamento isolato, invece, la riferisce a tutti i negozi a titolo gratuito. • Nozione di occultamento: indica il nascondimento della cosa, anche temporaneamente; presuppone sempre il precedente acquisto o la precedente ricezione. • Nozione di intromissione: è lo svolgimento dell’attività di mediazione in senso civilistico; tuttavia, ci si riferisce anche a qualsiasi attività di messa in contatto, dell’autore del reato presupposto con un terzo possibile acquirente. Non è necessario che l’agente raggiunga lo scopo che si era preposto ma è sufficiente che si tratti di comportamento idoneo allo scopo. • OGGETTO MATRIALE: oggetto materiale della ricettazione è il “denaro” o le “cose”. Per quanto riguarda il termine “cose” significa “semplici prestazioni di servizi, svaghi ecc…, pagati con il denaro del quale si conosce la provenienza delittuosa (interpretazione estensiva). Alcuni ritengono che nel termine cose, possano rientrare anche i beni immobili (esempio: un soggetto acquista un bene immobile da altro soggetto che lo ha, a sua volta, acquisito per mezzo di una circonvenzione d’incapaci). • DELITTO-PRESUPPOSTO: abbiamo visto come la ricettazione richieda l’esistenza di un delitto presupposto; non si ha ricettazione se in precedenza non sia stato commesso un altro delitto dal quale provengono il denaro o le cose ricettate. Secondo l’opinione dominante,il delitto- presupposto, alla base della ricettazione, deve riguardare un delitto (doloso o colposo, tentato o consumato) e non una contravvenzione; inoltre non necessariamente deve consistere in un delitto contro il patrimonio, dal momento che il denaro può provenire, tranquillamente, anche da un delitto contro la P.A. (esempio: peculato o corruzione). A- Nozione di provenienza: secondo dottrina e giurisprudenza dominanti, le cose e il denaro devono provenire da delitto e ricomprendono tutto ciò che si ricollega al fatto criminoso ( oltre a ciò che costituisce il profitto, il prezzo, il prodotto, ogni altra cosa che è servita o fu destinata a commettere il fatto medesimo). Tuttavia, questa interpretazione non è condivisibile poiché travisa il significato di “proveniente” e lo trasforma in quello di “attinente”; in realtà da un delitto derivano solo i beni ottenuti mediante esso. Posizione dottrinale isolata, ritiene che la ricettazione sia configurabile anche nei confronti di cose provenienti da contravvenzione. • RAPPORTO DI ACCESSORIETA’: il rapporto di accessorietà tra ricettazione e reato presupposto, si esprime nel far dipendere la punibilità della prima dalla punibilità del secondo. Quindi la ricettazione presuppone sempre la commissione di altro reato (c.d. PRESUPPOSTO). Le disposizione riguardanti la ricettazione, si applicano anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile. • Cause di esclusione della ricettazione→ essa è esclusa quando: A- il fatto non è qualificabile oggettivamente in termini d’illecito (imputabilità e non punibilità, sembrano indiziare una situazione “soggettiva” e cioè la presenza di una causa personale di esclusione della pena). Tuttavia le situazioni soggettive di questo tipo, non sono in grado di escludere l’esistenza del reato presupposto; di conseguenza se il reato presupposto è punibile a ” querela” e questa non sia ancora stata presentata, la ricettazione è egualmente configurabile, per espressa disposizione del 3°co. dell’art 648 c.p. B- quando ci sono “cause oggettive” (esimenti) e “cause soggettive” (errore sul fatto…), che escludano il reato presupposto. Secondo opinione dominante, la mancanza dell’elemento psicologico nel reato presupposto, sarebbe irrilevante per la configurazione della ricettazione. Tuttavia, ragionando così, si dimentica che la mancanza dell’elemento psicologico impedisce di qualificare il fatto come delitto. C- L’art 170 c.p. che disciplina le “cause di estinzione del reato presupposto” , stabilisce che “quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende ad altro reato”. Questa disposizione si riferisce all’ipotesi nella quale la causa di estinzione del reato presupposto, interviene dopo la commissione dell’altro reato; di conseguenza è impossibile configurare la ricettazione tutte le volte in cui il reato presupposto si estingue prima della commissione della ricettazione. Infine, il reato presupposto è soggetto sia all’ abolitio criminis sia alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale: riguardo all’abolitio criminis, il reato presupposto diventa un fatto penalmente lecito e di conseguenza sarebbe contraddittorio configurare la ricettazione di una cosa che scaturisce da un fatto consentito dall’ordinamento. Riguardo alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale, invece, ha efficacia ex tunc e di conseguenza il reato viene eliminato dal mondo del diritto e considerato come se non fosse mai esistito. • CONCORSO NEL REATO: per poter configurare la ricettazione è necessario che il soggetto attivo abbia agito “fuori dei casi di concorso nel reato”. Viene definita “concorso” l’attività di determinazione o rafforzamento dell’altrui proposito criminoso e di partecipazione materiale al fatto di reato. Dottrina e giurisprudenza riconducono sotto la disciplina del concorso, tutti i comportamenti tenuti prima della consumazione del reato presupposto mentre qualificano ricettazione, tutto ciò che si compie dopo la consumazione di tale delitto. Ovviamente rientrano nella ricettazione, tutte le attività che costituiscono un posterius rispetto al delitto presupposto. • ELEMENTO PSICOLOGICO: è rappresentato dalla volontà di acquistare, ricevere od occultare ovvero di intromettersi nel far acquistare, ricevere od occultare il denaro o la cosa mobile, con la consapevolezza che il denaro o la cosa mobile provengano da un delitto (dolo generico); Altra particolarità sta nel fatto che nella precedente disciplina, l’art 648-bis distingueva tra: • Riciclaggio-ricettazione (qui si colpiva la sostituzione del denaro, dei beni o delle altre utilità); • Riciclaggio-favoreggiamento (qui si colpiva chi ostacolava l’identificazione della provenienza illecita). 4- DOLO: anche dopo la modifica della fattispecie, continua a rimanere generico; infatti la formula “in modo da ostacolare”, non si riferisce ad una specifica finalità. Il dolo, pertanto, ricomprende sia la volontà di compiere l’attività di sostituzione, di trasferimento o di ostacolo sia la consapevolezza che i capitali da riciclare, provengono da un delitto non colposo. 5- CIRCOSTANZA AGGRAVANTE: è prevista nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso “nell’esercizio di un’attività professionale”. La ratio di questa previsione, consiste nello scoraggiare il ricorso ad esperti, per il “lavaggio” del denaro sporco. 6- CIRCOSTANZA ATTENUANTE: è stata prevista dal legislatore nel ’93; si applica qualora i beni o le altre utilità, provengano da un delitto per il quale è stabilita una pena di reclusione, massima di 5 anni. Tale attenuante, si basa sulla minore gravità del riciclaggio che proviene da un delitto punito, a sua volta, da una pena non particolarmente grave. 7- CAUSA DI NON PUNIBILITA’: l’art 12-quater d.l. n° 304/1992, ha previsto una nuova causa di non punibilità per l’agente provocatore: “ fermo quanto disposto dall’art 51 del c.p., non sono punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Direzione investigativa antimafia o dei servizi centrali e interprovinciali, che, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli art 648-bis e 648-ter del c.p., sostituiscono denaro, beni o altre utilità provenienti da taluno dei delitti indicati o procedono in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza illecita. È una causa di giustificazione speciale. • IMPIEGO DI DENARO, BENI O ALTRE UTILITA’ DI PROVENIENZA ILLECITA (ART 648-ter) “Chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da 4 a 12 anni e con la multa da € 1.032,91 ad € 15.493,71. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. La pena è diminuita nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art 648. Si applica l’ultimo comma dell’art 648” Questa nuova fattispecie incriminatrice è stata introdotta dal legislatore del ’90, allo scopo di impedire l’immissione di capitali illeciti nei normali circuiti economici e finanziari. Anch’essa è stata modificata dalla Convenzione del Consiglio d’Europa con la direttiva n. 166/1991. A differenza del riciclaggio, la modifica ha riguardato soltanto la parte relativa ai c.d. reati presupposti: il legislatore ha eliminato l’indicazione tassativa dei reati e ha previsto, come presupposto, un qualsiasi delitto anche di natura colposa. Lo spazio di operatività di questa norma è quello di impedire “l’investimento produttivo dei proventi di origine illecita”; si vuole impedire che l’ordine economico subisca gravi turbamenti. Vediamo quali sono i caratteri tipici del reato: F. SOGGETTO ATTIVO: è colui che effettua l’impiego di capitali delittuosi. Sorge, tuttavia, il problema di stabilire se possa rendersi responsabile del reato in esame, anche il possessore o fornitore del capitale destinato a essere impiegato. In base alla riserva contenuta nella disposizione, si desume che essa è applicabile “fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli art 648 e 648-bis”. Questo significa che “soggetto attivo, del reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, può essere un soggetto diverso sia dal concorrente in uno dei reati principali, sia da chi è punibile come ricettatore o riciclatore”. Infatti, dobbiamo sapere che non è agevole distinguere tra colui che detiene e colui che impiega il denaro; non si può impiegare denaro di provenienza illecita, se prima non lo si riceve. Ricevendolo, tuttavia, potrebbero sussistere gli estremi della ricettazione e, in alcuni casi, del riciclaggio. L’interpretazione preferibile dell’art 648-ter sembra la seguente: “ il ricevere denaro o altre utilità al fine di impiegarli in attività economico-finanziarie, non è punibile a titolo di ricettazione o riciclaggio, ma rimane sanzionato dalla fattispecie in esame. L’art 648-ter, risulterà inapplicabile a quanti abbiano già commesso il reato di ricettazione o riciclaggio e soltanto in un secondo momento ne abbiano impiegato i proventi frutto del reato di ricettazione o riciclaggio loro attribuibile”. G. CONDOTTA INCRIMINATA: si riferisce “all’impiego in attività economiche o finanziarie”. Si riferisce ad una formula abbastanza generica; infatti: • Impiegare: significa utilizzare per uno scopo qualsiasi; • Investire: fa riferimento all’impiego di capitali finanziari, allo scopo di conseguire un utile futuro. Considerata la ratio della norma incriminatrice, sembra più corretta l’interpretazione restrittiva che tende ad identificare l’impiego con l’investimento, cioè con l’utilizzazione a fini di profitto. L’espressione “attività economiche e finanziarie” va intesa in un significato atecnico. Essa abbraccia qualsiasi settore idoneo a far conseguire profitti (esempio: attività relative alla produzione e circolazione di beni e servizi). H. DOLO: è la coscienza e la volontà di destinare ad un impiego economicamente utile, i capitali illeciti unitamente alla consapevolezza che essi provengono da delitto. I. CIRCOSTANZA AGGRAVANTE: così come accade per l’art 648-bis, anche in questo caso, la pena è aggravata qualora il fatto sia commesso nell’esercizio di un’attività professionale. J. CIRCOSTANZA ATTENUANTE: così come accade per l’art 648-bis, anche in questo caso, si applica qualora i beni o le altre utilità, provengano da un delitto per il quale è stabilita una pena di reclusione, massima di 5 anni. K. CAUSA DI NON PUNIBILITA’: così come accade per l’art 648-bis, anche in questo caso, è prevista una causa speciale di non punibilità per l’agente provocatore (vedi punto 7 del reato di riciclaggio).
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