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Dio lo vuole. Storia delle crociate in terrasanta, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del libro di Antony Bridge per esame di storia medievale, arricchito con integrazioni e appunti presi da altri libri

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 28/04/2024

LoveArt96
LoveArt96 🇮🇹

4.5

(138)

26 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Dio lo vuole. Storia delle crociate in terrasanta e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Le Crociate ISLAM: I pensatori cristiani si servirono delle teorie dell’antica Roma sulla «guerra giusta» come principio fondante del proprio concetto di guerra santa, riformulandole ulteriormente per elaborare l’idea di crociata. Ma il cristianesimo non fu il solo sistema religioso a nutrire l’idea di un conflitto sacro; all’inizio del VII secolo, emerse infatti un altro credo dotato di un proprio marchio di guerra di religione: l’islam. L’insegnamento del profeta Maometto si diffuse con incredibile velocità e, pochi anni dopo la sua morte, nel 632, i suoi seguaci avevano conquistato l’intera penisola arabica e Gerusalemme. Sin dall’inizio, la nuova religione inculcò nei credenti il dovere della guerra santa, riunendo potere religioso e potere politico nell’istituto del califfato, riservato ai successori di Maometto nella loro qualità di guida spirituale dell’islam. Gli Arabi erano popolazioni di stirpe semitica stanziate nella penisola arabica, per lo più nomadi e dedite alla pastorizia ed al commercio. Tra le varie tribù in cui erano divisi, quella dei Beduini viveva depredando le carovane che attraversavano il deserto. Dal punto di vista religioso, gli Arabi avevano assorbito qualche elemento dal Giudaismo e dal Cristianesimo, ma erano politeisti; avevano un solo culto in comune: quello della Pietra Nera (un meteorite) che si riteneva fosse stata portata dall’arcangelo Gabriele e che si venerava, insieme ad altri idoli, in un edificio detto Kaaba, situato nella città della Mecca, il centro di culto più frequentato, in cui era molto potente la casta sacerdotale. Proprio alla Mecca, nel 570, nacque Maometto, monoteista convinto, che cominciò a predicare contro il politeismo attirandosi le ire della casta sacerdotale. Per sottrarsi alle loro persecuzioni fu costretto a rifugiarsi a Medina, dove elaborò gli elementi fondamentali della nuova religione. Proprio per questo, l’anno della fuga (in arabo, égira) di Maometto a Medina, il 622, viene considerato fondamentale e da esso viene fatta iniziare l’era islamica. La nuova religione si basa su due sole verità di fede: 1) non esiste altro Dio che Allah e 2) Maometto è il suo profeta. L’individuo deve sottomettersi totalmente a Dio. “Islam” significa infatti “abbandono a Dio” e “Muslim” (da cui la denominazione “musulmano”) indica il fedele che si abbandona completamente alla volontà di Dio. La dottrina dell’Islam viene riassunta nei cosiddetti cinque pilastri dell’Islam, ovvero i cinque obblighi di ogni musulmano: 1) credere che esiste un solo Dio e che Maometto è il suo profeta); 2) pregare quotidianamente; 3) digiunare (Ramadan); 4) fare l’elemosina; 5) recarsi almeno una volta nella vita in pellegrinaggio alla Mecca. Una caratteristica che contraddistingue il mondo islamico è l’assenza di un vero dualismo tra potere religioso e potere politico, al contrario di quanto avviene nel mondo cristiano. Nell’Islam l’autorità è unica e ingloba tanto quella religiosa quanto il potere politico. Dopo la morte di Maometto (632), che già aveva avviato la costruzione di uno Stato islamico, l’Islam si espanse rapidamente con la conquista di territori enormi. I successori di Maometto si spinsero infatti a est, fino al fiume Indo, riducendo l’impero bizantino, nella sua parte asiatica, alla sola penisola anatolica. A ovest, venne occupato tutto il litorale africano; nel 711 varcarono lo stretto di Gibilterra e conquistarono tutta la Spagna fino ai Pirenei. Nell’827 i musulmani diedero inizio all’invasione della Sicilia e dell’Italia meridionale, sottraendole ai bizantini (che erano cristiani ortodossi), e nell’846 fecero incursione perfino a Roma; in senso lato, tuttavia, il IX e il X secolo possono essere definiti un periodo di consolidamento anziché di espansione. Nei territori conquistati, però, i Musulmani non imposero ai vinti la conversione all’Islam, ma si accontentarono di sottometterli al loro giogo militare e politico facendo pagare loro un tributo in cambio della libertà religiosa. Dopo Maometto, si aprirono delle dispute per la successione alla guida dell’Islam, che si conclusero con l’insediamento al potere dei primi quattro califfi, che uno dopo l’altro allargarono, dal 632 al 661, il dominio musulmano. Ai primi quattro califfi seguirono quelli della dinastia omayyade (661-750) e poi di quella abbaside (750-1258). Con gli abbasidi il califfato assunse sempre più connotazioni orientali: ne fu segno lo spostamento della capitale da Damasco a Baghdad. All’epoca in cui si svolsero le crociate, il dominio islamico era dunque vastissimo: dalla Spagna attraversava il Magreb e la penisola arabica fino al Pakistan. Comprendeva popolazioni differenti (persiani, turchi, curdi, aramei, berberi, spagnoli) ed era difficile da tenere sotto controllo. Non sorprende perciò che intorno al 1000 il potere degli abbasidi si fosse indebolito e che il controllo dei domini musulmani fosse passato nelle mani di popolazioni berbere a Occidente e turche a Oriente. Non si trattava più di un dominio esclusivamente arabo ma di un impero multietnico in cui la religione islamica e la lingua araba agivano come elementi unificanti e del quale differenti popolazioni, talvolta in conflitto tra loro, avevano assunto il controllo. Nel periodo delle prime crociate il mondo musulmano era particolarmente debole. Tra le cause, c’era la fondamentale divisione dell’islam tra sunniti e sciiti . I primi, che riconoscevano l’autorità spirituale del califfo di Baghdad, erano predominanti in Asia Minore, in Siria e nei territori della Persia a est. La dinastia fatimide era sciita e governava l’Egitto dal Cairo, la base del suo califfato. CAUSE POLITICHE: Dopo il crollo dell’impero carolingio nel IX secolo, il continente era afflitto dalla mancanza di un potere centrale. Conti, castellani e cavalieri erano in competizione per la supremazia a livello locale o regionale; nelle campagne, stremate dalle frequenti carestie, cavalieri in armi saccheggiavano i territori confinanti, ne razziavano il bestiame e gli averi, giungendo ad attaccare chiese e monasteri. Poiché, ad esempio, il potere del re in Francia non era che una parvenza (a 50 chilometri da Parigi il sovrano non poteva vantare alcuna autorità concreta), la situazione era favorevole ai tumulti sociali e agli individui desiderosi di arricchirsi. La stragrande maggioranza dei membri di questa società viveva nelle campagne. I centri urbani erano pochi e non ancora sviluppati; viaggiare sulle lunghe distanze era un’impresa perché le strade erano strette e impraticabili in inverno, anche se le reti fluviali offrivano ai commercianti un qualche servizio. La religione era l’unico principio ideale che potesse unire una comunità tanto disparata e, nella seconda metà dell’XI secolo, un dinamico gruppo di ecclesiastici assunse il controllo della Chiesa cattolica, avanzando per la prima volta istanze di rinnovamento cristiano. Prima di allora, il papato era un’istituzione divisa e chiusa in sé stessa, ma l’energia dei riformatori causò un brusco aumento dell’autorità papale. Dopo il Dictatus Papae, emanato da Gregorio VII nel 1075, il quale documento sanciva la suprema autorità del papa, si erano verificati aspri conflitti tra la Chiesa di Roma e quella bizantina. Nel 1059 uno scambio di scomuniche fra il patriarca d’Oriente e il pontefice di Roma provocò la rottura fra le due chiese che non si sarebbero più riunificate. Nel 1054 papa Leone IX inviò a Costantinopoli Umberto di Silvacandida per tentare di risolvere questa situazione, ma la visita terminò con una frattura insanabile: il 16 luglio 1054, il cardinale Umberto depositò sull’altare di Santa Sofia una bolla di scomunica contro il patriarca Michele Cerulario e i suoi sostenitori, designandoli come eretici: atto che però venne inteso come scomunica pure della Chiesa bizantina. A questo atto, Cerulario rispose in modo analogo scomunicando Umberto di Silvacandida e gli altri legati papali. Gli effetti del Grande Scisma, chiamato anche Scisma d’Oriente, furono però visibili solo alcuni decenni dopo. Inoltre, l’iniziativa delle Crociate rientrava in un preciso disegno del Papato: riportare la pace in Europa divisa da lotte fratricide, rafforzare la propria posizione nei confronti dell’Impero tedesco (infuriava proprio in quegli anni la lotta per le investiture: scontro che si verificò tra papato e impero riguardo la nomina dei vescovi, e più in generale sulle prerogative del potere spirituale e di quello temporale), ponendosi alla guida di una impresa di grande prestigio agli occhi delle masse cattoliche. pubblica del proprio impegno sotto forma di voto ed essere marchiati dal segno della croce. Grande ondate d’entusiasmo si propagarono da Clermont per tutta la Francia, rovesciandosi poi per tutti i paesi dell’Europa occidentale. Nei primi mesi del 1096, Pietro l’Eremita, un uomo di mezza età, che indossava un vecchio abito da monaco e un mantello da eremita, viaggiò attraverso la Francia settentrionale, predicando, chiamando seguaci strada facendo. La maggior parte erano contadini poveri, la gente ai margini della società, cavalieri poveri o senza lavoro, tra cui un certo Gualtiero Sansavoir. In Germania le prediche di Pietro attirarono migliaia di persone, finché non si trovò con venti o trentamila seguaci. Ottenne un successo enorme, anche dovuto alla durezza dei tempi: dal 1083 la peste dilagava in tutta Europa; nel 1094 inondazioni spazzarono Francia e Germania distruggendo i raccolti; l’anno dopo giunse la siccità e una conseguente carestia. In questi periodi, gli uomini del Medioevo si spingevano lontano e non potevano di conseguenza resistere all’appello di Pietro di entrare nell’esercito di Cristo, e di marciare con lui alla conquista di Gerusalemme. Molti di loro forse credevano di marciare verso la promessa di una Nuova Gerusalemme, quella città d’oro dove gli uomini “non patiranno più fame né sete”. Uomini e donne, giovani e vecchi, poveri e ammalati si unirono alla spedizione come pellegrini. Due gruppi non furono inclusi in questa prima crociata: i monaci, poiché il papa stesso lo vietò, in quanto i voti presi li legavano ai loro chiostri; e i re, anche se la loro assenza convenne indubbiamente a Urbano II, perché significava che il papato poteva mantenere una posizione di primo piano nella campagna. Re Guglielmo Rufo d’Inghilterra era in continuo conflitto con il clero del suo paese; l’imperatore Enrico IV di Germania non fu mai tentato di partecipare, a causa dell’ostilità di lunga data tra il suo impero e il papato, mentre re Filippo di Francia era stato espulso dalla Chiesa perché aveva avuto una relazione con Bertrada di Montfort, che era già sposata con il conte Folco IV d’Angiò. Filippo rifiutò di metter fine alla sua relazione (anche lui era già sposato) e fu debitamente scomunicato. In assenza dei re, il comando era lasciato nelle mani dei membri più autorevoli della nobiltà e cinque sono le figure di maggiore rilievo. Molti dei seguaci di Pietro erano così impazienti di partire che qualche giorno dopo Pasqua, Gualtiero Sansavoir e altre migliaia di francesi decisero di proseguire. Giunti in Ungheria, il re non li considerò come un esercito da cui diffidare, ma come una moltitudine di pellegrini da aiutare. Permise allora loro di attraversare il paese e fece del suo meglio per assisterli durante il tragitto. Tutto andò bene fino a quando non entrarono in territorio bizantino nei pressi di Belgrado. Qui il governatore locale fu colto di sorpresa: per il raccolto era ancora presto, i mercati avevano poco da vendere e i pellegrini iniziarono a patire la fame. Alcuni sbandati saccheggiarono un bazar in una piccola città ungherese, da dove era già passato il corpo principale della crociata. Furono allora presi dalle autorità, spogliati delle armi e dei vestiti e mandati nudi a raggiungere gli altri a Belgrado. Questi avevano già iniziano a saccheggiare la campagna alla ricerca di cibo, e quando il governatore militare inviò truppe per ristabilire l’ordine, molti francesi furono uccisi, mentre altri rimasero bruciati vivi in una chiesa dove si erano rifugiati. L’ordine fu però ristabilito e Gualtiero si rimise in marcia con i suoi uomini, verso Nis. Lì trovarono viveri e la collera si placò. I nuovi venuti furono scortati durante il viaggio dalle truppe bizantine e a luglio giunsero a Costantinopoli. Nel mentre, Pietro l’Eremita aveva lasciato colonia con un seguito ancora più grande, compresi un gruppo di cavalieri tedeschi e giovani di famiglie nobili; si era messo in marcia verso la frontiera ungherese lungo la stessa via presa da Gualtiero e gli altri, mentre alcuni suoi discepoli erano rimasti in Germania per reclutare altri soldati. Anche loro vennero accolti benevolmente dal re d’Ungheria finché giunsero alla piccola città dove gli uomini di Gualtiero si erano scontrati con le autorità, dove erano ancora appese alle mura delle città le armi di quegli uomini. Ben presto, l’ostilità contro gli ungheresi giunse a tal punto che una lite per la vendita di un paio di scarpe si tramutò in un combattimento all’ultimo sangue. La città fu attaccata dagli uomini di Pietro, circa quattromila ungheresi furono uccisi. Spaventati però dalla reazione di re Coloman d’Ungheria, cominciarono a cercare di attraversare il fiume Sava, in territorio bizantino. Il governatore militare del luogo decise allora di ritirarsi a Nis per radunare tutti i rinforzi possibili; lì aveva lasciato alcuni mercenari turchi, con l’ordine di cercare di ritardare il passaggio del fiume all’esercito di Pietro, ma quando i turchi tentarono nell’impresa furono catturati e uccisi. La notizia creò panico a Belgrado dove tutti gli abitanti fuggirono sui monti, lasciando la città aperta agli uomini di Pietro che vi entrarono senza resistenza, saccheggiandola e mettendola a fuoco. Carichi delle provviste, marciarono per una settimana attraverso le foreste della Serbia a giunsero a Nis. Qui chiesero il permesso di acquistare ancora viveri e il governatore acconsentì, esigendo in cambio solo alcuni ostaggi come pegno per la loro buona condotta. All’ultimo momento, però, dei tedeschi, che avevano litigato con alcuni abitanti del luogo, appiccarono il fuoco a dei mulini sul fiume. Il governatore inviò allora subito truppe per attaccare i crociati in partenza e seguì una battaglia. Pietro si affrettò a tornare indietro per ristabilire la pace, ma prima che potesse farlo il suo esercito si gettò all’attacco della città. I crociati erano una moltitudine disordinata e non poterono nulla contro soldati di professione: molti di loro furono uccisi, altri catturati insieme a donne e bambini; Pietro fuggì con circa altri cinquecento su una montagna, ma il giorno seguente molte altre migliaia li raggiunsero e, col passare dei giorni, rimessisi in marcia verso Sofia, furono raggiunti da altri sbandati. Il viaggio proseguì tranquillamente. Passarono da Sofia, dove i greci si dimostrarono gentili e l’imperatore Alessio inviò un messaggio a Pietro di benvenuto. Il viaggio verso Costantinopoli si concluse senza ulteriori incidenti. All’arrivo, però, gli uomini di Pietro iniziarono comunque a rubare, irrompendo nelle case e nei palazzi, tanto da costringere Alessio a trasportarli in Asia il prima possibile, tentando di convincerli ad attendere un esercito prima di attaccare i turchi. Vennero mandati nel grande campo militare di Kibotos, vicino Nicomedia e lì furono raggiunti da Gualtiero Sansavoir e i suoi uomini e da alcuni italiani giunti per conto loro. Per qualche motivo però i tedeschi litigarono con i francesi e scelsero come capo un nobile italiano, Rainaldo. Indisciplinati com’erano, iniziarono a saccheggiare le campagne: all’inizio non si avventurarono in profondità nel territorio controllato dai turchi, saccheggiando i villaggi nelle vicinanze abitati da greci cristiani. A settembre, tuttavia, un gruppo di migliaia di francesi partì avventurandosi fino a Nicea, capitale del sultano turco della regione, che non si trovava in città. Attaccarono i villaggi nei dintorni, torturando gli abitanti cristiani. Un piccolo gruppo turco venne facilmente respinto e i francesi tornarono a Kibotos carichi di bottino. Anche i tedeschi e gli italiani prepararono allora una loro spedizione e si misero in marcia al comando di Rainaldo, depredando e saccheggiando ma risparmiando i cristiani che incontravano. Riuscirono a prendere un castello non occupato per utilizzarlo come base per saccheggiare le campagne ma, ben presto, vennero circondati da un grande esercito turco e dovettero rifugiarsi nel castello. L’unico rifornimento d’acqua della zona proveniva da una sorgente in una piccola valle e presto la sete li fece impazzire. Dopo otto giorni, Rainaldo chiese condizioni di resa, ma i turchi promisero solo di salvare la vita a coloro che avessero abiurato la fede cristiana. Rainaldo ed altri accettarono e furono venduti come schiavi, gli altri furono uccisi. Quando giunse la notizia che i turchi stavano avanzando, molti membri dell’esercito rimasti a Kibotos, capitanati dal francese Goffredo Burel, decisero di marciare contro di loro, lasciando dietro solo donne, bambini e qualche preste e monaco. I turchi gli tesero un’imboscata fra i boschi: molti morirono colpiti dalle frecce, altri scapparono disordinatamente verso Kibotos, dove tutti vennero massacrati. Qualche ragazza e ragazzino furono risparmiati e pochi altri furono fatti prigionieri. Circa tremila persone riuscirono a rifugiarsi in un castello vicino alla spiaggia dove riuscirono a sostenere l’attacco dei turchi. Un greco riuscì a giungere a Costantinopoli portando la notizia del disastro, e Alessio mandò immediatamente una squadra di navi da guerra per soccorrere i sopravvissuti. I turchi, alla vista delle navi, si ritirarono e i resti della gente furono riportati nella capitale dove vennero disarmati e alloggiati nei sobborghi. Nell’estate del 1906, scoppiò in Europa una violenza antisemitica. Il primo a praticarla fu il conte Emich di Leisingen che attaccò, insieme ad alcuni suoi uomini, gli ebrei di Spira uccidendone una dozzina; quindici giorni dopo il conte di Leisingen marciò su Worms per attaccare il quartiere ebraico. Il vescovo della città aprì il suo palazzo per salvarli al massacro ma Emich e la sua banda irruppero dentro uccidendo uomini, donne e bambini. Il 25 maggio fu la volta di Magonza, dove anche qui ci furono rivolte antiebraiche. Gli ebrei cercarono di comprarsi con l’oro la misericordia di Emich, il quale accettò ma il giorno seguente ordinò ai suoi uomini di ucciderli tutti. Il prete Volkmar stava marciando verso est con i suoi seguaci quando gli giunse la notizia del massacro degli ebrei. Giunti a Praga iniziarono a trucidare tutti quelli che trovavano per poi proseguire verso l’Ungheria. Qui, il re Coloman, non aveva intenzione di permettere a nessuno di uccidere uno solo dei suoi sudditi e quando gli uomini di Volkmar cominciarono a dare la caccia agli ebrei ungheresi, diede ordine di disperdere i crociati. La stessa sorte toccò a Gottschalk e il suo esercito, i quali vennero distrutti sempre dal re d’Ungheria per il loro comportamento violento. Re Coloman rifiutò il permesso di attraversare il suo paese ad Emich di Leisingen. Per sei settimane si susseguirono combattimenti mentre i tedeschi iniziavano la costruzione di un nuovo ponte per aprirsi la strada: completato, entrarono in tessa ungherese ricacciando i difensori entro le mura. Poi, all’improvviso, una voce si sparse tra gli uomini di Emich gettandoli nel panico, tanto da causare un disordine che permise agli ungheresi di uscire per attaccarli e ben presto li sconfissero. Emich riuscì a scappare. Quando giunse in Occidente la notizia che le forze di Emich, di Gottschalk, di Volkmar e di Pietro l’Eremita erano stati annientati, la gente venne presa da tristezza e smarrimento, ma Dio non poteva rimanere per sempre irato con il suo popolo. Durante l’estate del 1096, i vari nobili e principi che avevano risposto all’appello di papa Urbano II si preparavano a partire. Quanto si stava preparando erano però una serie di spedizioni, in parte indipendenti, ognuna al comando del proprio signore. Questi eserciti differivano per grandezza e per indole e carattere dei diversi comandanti. Il primo principe a partire fu Ugo di Vermandois, figlio minore di Enrico I di Francia. Radunato un piccolo esercitò, partì per l’Italia. Inviò all’imperatore Alessio Comneno una lettera in cui richiedeva un benvenuto degno del suo stato. Alla lettera fece seguito un piccolo gruppo di cavalieri con una richiesta simile per il governatore bizantino di Durazzo, il porticciolo dove intendeva giungere con i suoi attraversando il mare da Bari. L’iniziativa di partire per la crociata fu importante perché a suo fratello, il re Filippo, era vietato in quanto era stato scomunicato poco tempo prima. Giunti a Bari, occupata dai normanni, tuttavia nessuno desiderava mettersi in mare poiché la fine di settembre e l’inizio di ottobre erano famosi per le burrasche. Ugo però si mise ugualmente in mare e una tempesta li colse: alcune navi affondarono, e le rimanenti furono gettate contro le rocce della costa illirica. Ugo fece naufragio a nord di Durazzo dove fu trattato comunque con il massimo rispetto, anche quando giunse a Costantinopoli. Ugo era il primo di molti principi occidentali giunti a Costantinopoli con un suo esercito e l’imperatore era ansioso di scoprire cosa intendessero fare. Non ci volle molto tempo prima che Ugo fece giuramento di fedeltà all’imperatore, che lo aveva abbagliato con la prospettiva di ricchezze per ottenere la sua fiducia. Seguì dopo Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, con i fratelli Baldovino ed Eustachio. Egli aveva raccolto buona parte del denaro che gli serviva per finanziare la crociata dagli ebrei del ducato. Baldovino, il fratello minore, non aveva speranze di ereditare beni in Occidente e se ne andò in Oriente per procurarsi fortune. A capo di un grande esercito, attraversarono l’Ungheria tranquillamente ma dopo le esperienze passare, il re Coloman non volle correre rischi e chiese che un tempo, Baldovino pensò di tenersi la città come nucleo del regno che intendeva costruirsi. Quando giunsero i cavalieri normanni in aiuto a Tancredi, Baldovino non gli permise di entrare in città e durante la notte, accampati fuori le mura, vennero massacrati da turchi che non erano andati molto lontano. La loro morte indignò i crociati, e ancor di più quando Baldovino decise qualche giorno dopo di lasciare la città a dei pirati cristiani. Si incontrò con Tancredi a Mamistra, ad est di Tarso. Appena saputo del suo arrivo, Tancredi lo attaccò ma venne respinto. Baldovino e Tancredi furono però costretti a riconciliarsi e il primo si affrettò a raggiungere il grosso dell’esercito che si stava avvicinando alla frontiera siriana poiché aveva sentito che sua moglie e i bambini erano molto ammalati. Sua moglie morì prima che potesse raggiungerli, mentre i figli poco dopo. Non si fece influenzare però dall’accaduto e di nuovo si separò dall’esercito con un suo contingente. Marciò ad est verso il fiume Eufrate attraverso una regione abitata da armeni: erano tutti cristiani e, come Baldovino avanzata, si sollevavano contro i turchi, massacrandoli e accogliendo i crociati. Il suo piccolo esercito si ingrossò allora durante il tragitto e ben presto conquistò tutta la regione fino al fiume. Su invito del principe armeno Thoros di Edessa, attraversò il fiume e acconsentì a diventare suo figlio adottivo e co-reggente di Edessa assieme a lui. Thoros era impopolare tra la popolazione e, con l’arrivo di Baldovino, non ci volle molto prima che la gente insorse contro il principe, assediando la cittadella dove viveva. Baldovino consigliò lui di arrendersi e venne imprigionato nel suo palazzo; dopo un po' decise di tentare la fuga ma venne scoperto dalla popolazione che lo uccise. Baldovino venne allora invitato a diventare Conte di Edessa. Riuscì ad allargare il suo stato conquistando o comprando piccoli stati vicini e questo allargò la sua autorità, rafforzata sposando una principessa armena del luogo. Trattò con rispetto ed equità anche gli abitanti musulmani del luogo, politica che indignò molti dei suoi seguaci, i quali iniziarono a tramare la sua caduta. Il piano era di deporlo e di mettere al suo posto il suocero armeno Thatoul. Ma qualcuno li tradì raccontando la cosa a Baldovino che fece arrestare e accecare i due principali cospiratori, mentre agli altri fece mozzare piedi e nasi. I sospettati furono messi in prigione e i loro beni confiscati. Il resto dell’esercito, intanto, giunse finalmente davanti Antiochia il 21 ottobre 1097. Prima di attaccare, i capi delle crociate preferirono attendere rinforzi. Passarono allora il tempo a saccheggiare i sobborghi e depredare le case di campagna e le ville fuori città. Man Mano che le provviste venivano meno i crociati erano costretti a cercarle sempre più lontano e questo diede ai turchi maggiori possibilità di uscire di notte e massacrare piccoli gruppi di cristiani. L’arrivo dei genovesi e la cattura del piccolo porto di San Simeone furono accolti con entusiasmo, anche perché si potevano far giungere provviste ora via mare. Nell’attesa dei rifornimenti, però, si decise di inviare Boemondo e Roberto di Fiandra in una grande spedizione per rifornimento di viveri. Il resto dell’esercito rimase per investire la città. La notizia giunse presto al comandante turco di Antiochia che lanciò un attacco notturno contro un gruppo di uomini di Raimondo accampati a nord del fiume Oronte. Raimondo reagì con rapidità e, raccolto un gruppo di cavalieri, attaccò nel buio, prendendo a loro volta di sorpresa i turchi. Nel mentre, l’esercito guidato da Boemondo e Roberto incontrò un grosso esercito musulmano, chiamato per liberare Antiochia. S’incontrarono l’ultimo giorno dell’anno 1097 e i crociati riuscirono ad avere la meglio, nonostante le numerose perdite che li costrinse ad abbandonare la spedizione. Gli abitanti cristiani dei villaggi fecero giungere tutti i generi commestibili che riuscirono a mettere da parte, e lo stesso fecero alcuni monaci delle colline siriane. Il cibo però non era mai abbastanza e la gente continuò a morire di fame. Verso la fine del 1098 molti uomini iniziarono a disertare, tra cui Pietro l’Eremita, che tuttavia non riuscì ad allontanarsi troppo e fu riportato indietro come un prigioniero, e anche Boemondo, il cui annuncio gettò nel panico l’esercito. Accettò allora di rimanere solo se, una volta presa Antiochia, gli venisse data la signoria della città. L’esercito turco in soccorso ad Antiochia giungeva da Aleppo e la notizia della venuta mise in subbuglio i crociati. Si decise allora di lasciare la fanteria a contendere la città mentre i cavalieri si sarebbero diretti contro il nemico che avanzava. I crociati non riuscirono però a sfondarli e Boemondo fu costretto alla ritirata, portandosi dietro i turchi entro una stretta lingua di terra fra l’Oronte e un lago, dove i turchi non potevano aggirargli. Boemondo ordinò allora di nuovo l’attacco ed ebbero la meglio. Ad inizio marzo, da Cipro iniziarono a giungere provviste e anche una grande flotta inglese con un carico di materiali d’assedio e genieri bizantini inviati in loro aiuto. Incominciarono però a giungere notizie dell’arrivo di Kerbogha con un grosso esercito turco e gruppi di disertori iniziarono a fuggire, cercando di mettersi in salvo raggiungendo la costa, tra cui Stefano di Blois. Nel mentre Boemondo, incominciò a persuadere Firuz, un armeno convertito all’Islam, personaggio dello stato maggiore d’Antiochia, di tradire Yaghi-Siyan, in cambio di una grossa somma di denaro. Firuz acconsentì e una notte, insieme al suo esercito, Boemondo entrò in città salendo nella Torre delle Due Sorelle. I crociati si riversarono allora dentro le mura accolti benevolmente dai cittadini greci ed armeni i quali detestavano i loro dominatori musulmani. Fu una strage crudele dove nessuno venne risparmiato. Avevano appena preso la città quando giunse l’esercito di Kerbogha, che li assediò. Riuscirono faticosamente a ricacciare indietro a prezzo di molte perdite. Qualche giorno dopo i crociati lanciarono un attacco contro i turchi ma furono respinti nella città senza successo. Si trovarono allora di fronte alla morte per fame ed alla resa; anche l’imperatore bizantino si rifiutò di aiutarli. Una settimana dopo la presa della città, un giovane, chiamato Pietro Bartolomeo annunciò di aver avuto una visione miracolosa: nella notte durante un terremoto, nella capanna dove si era rifugiato, due uomini gli erano apparsi. Il più vecchio disse di essere Sant’Andrea e che era venuto per mostrargli dove si trovava la lancia che aveva trapassato il costato di Cristo. All’istante era stato trasportato alla cattedrale di S. Pietro d’Antiochia, trasformata dai musulmani in moschea, dove l’apostolo gli aveva mostrato il luogo dove era sepolta la Sacra Lancia. Questa storia si propagò e preso qualcun altro ebbe una visione: una notte, Cristo, accompagnato dalla madre Maria e da San Pietro, comparve ad un prete di nome Stefano mentre era in preghiera. Se i crociati avessero smesso con le loro abitudini adultere, avrebbero presto ricevuto di nuovo la protezione divina. Qualche notte dopo, una meteora fiammeggiò sulla città dividendosi in tre e il giorno seguente Pietro Bartolomeo e un piccolo gruppo si recarono alla cattedrale per scavare nel pavimento della cappella dove doveva essere la Lancia. Dopo ore, Pietro saltò nella buca e mostrò a tutti l’oggetto appuntito. Alcuni, naturalmente, accusarono Pietro di essersi inventato tutto e di aver sotterrato lui stesso la lancia. Inoltre, una serie di altre presunte visioni miracolose fecero diventare molti scettici. Il 28 giugno i crociati uscirono da Antiochia marciando attraverso una porta che dava su un ponte fortificato sull’Oronte, portandosi dietro la Sacra Lancia. Quando vide l’esercito cristiano schierarsi per l’attacco, il capo turco inviò un messaggero per offrire una tregua ma ignorarono l’uomo. Al culmine della battaglia, tra le file dei crociati corse la voce che una compagnia di cavalieri era stata vista combattere sul fianco sinistro e che i comandanti erano stati riconosciuti come i santi guerrieri della cristianità, San Giorgio, San Demetrio e San Mercurio. Esaltati da tutto ciò, i crociati sbaragliarono le truppe nemiche. La vittoria della battaglia fu offuscata però da due avvenimenti: la morte del vescovo di Le Puy, ammirato e amato da tutti, e la diatriba tra Boemondo e Raimondo di Tolosa per il dominio della città. L’antagonismo tra i due si rifletteva nell’avversione tra normanni e francesi meridionali. Gli uomini di Raimondo catturarono la città di Maarat an-Numan nella Siria settentrionale e gli uomini di Boemondo la saccheggiarono. Di conseguenza l’odio tra i due capi e i loro uomini si accentuò, tanto che alcuni nobili scrissero direttamente al pontefice di raggiungerli per prendere il comando della crociata. Egli, al suo posto, inviò l’arcivescovo di Pisa, Daimberto, affinché agisse in suo nome. Le truppe, nel mentre, offrirono a Raimondo di riconoscerlo loro comandante se li avesse condotti a Gerusalemme. Raimondo allora acconsentì e nel 1099 condusse l’esercito verso la città santa, scalzo e vestito da pellegrino. Catturò senza difficoltà i porti di Tortosa e Marqiye e questi successi convinsero Goffredo di Buglione e Roberto di Fiandra a seguire gli esempi dati da Roberto di Normandia e Tancredi, che si erano già uniti a Raimondo. Anche con questi rinforzi non riuscirono a prendere la città di Arqa e i litigi riesplosero. Dopo la morte di Pietro Bartolomeo in un’ordalia, Raimondo pose fine all’assedio della città e condusse l’esercito lungo la strada costiera. Il governatore di Tripoli si affrettò ad assicurare i crociati della sua amicizia, offrendo loro denaro, cavalli, provviste e guide. Allo stesso modo fecero i cittadini di Beirut. Una dopo l’altra le città della costa mediterranea divennero amiche dei crociati o caddero in mano loro. Il governatore di Gerusalemme, venuto a conoscenza della loro venuta, aveva preso ogni precauzione per rendere sicura la città: aveva allontanano gli abitanti cristiani, aveva avvelenato i pozzi fuori città, aveva fatto portato in città i greggi e gli armenti della campagna come provviste per i soldati egiziani e sudanesi. Avevano inoltre mandato messaggeri in Egitto con la richiesta d’aiuto. Nonostante la paura di attaccare un luogo del genere, i capi crociati furono incoraggiati a farlo da un vecchio eremita cristiano che viveva nei pressi del Monte degli Ulivi. Questo li consigliò di attaccare il luogo immediatamente con fede in Dio e li assicurò che sarebbero stati vittoriosi. Il giorno seguente si lanciarono allora all’attacco e in un tempo breve superarono le difese esterne, ma lì furono fermati. Combatterono per ore ma alla fine dovettero ritirarsi. Fallito il tentativo di prendere la città d’assalto non rimaneva altro che assediarla. In loro soccorso arrivò anche una flotta di inglesi e genovesi, abbastanza per far fronte ad un lungo periodo d’assedio. Inviarono allora spedizioni in tutto il paese per cercare legname per costruire macchine d’assalto. Tuttavia, il vento caldo di temperature elevatissime dei mesi di maggio e giugno fece scarseggiare l’acqua e gli animali cominciarono a morire. Si cominciò a pensare che tutto ciò fosse causa dell’ira del Signore causata dalle ambizioni personali dei capi crociati di chi dovesse diventare il nuovo re di Gerusalemme. Nella notte del cinque luglio un prete chiamato Pietro Desiderio ebbe un incontro miracoloso con il defunto Ademaro di Le Puy che gli disse che se i crociati avessero messo da parte i loro egoismi, osservato un giorno di digiuno e camminato scalzi in processione intorno alla città, l’avrebbero catturata in nove giorni. L’intero esercito accettò, si proclamò un digiuno e l’otto luglio si unirono in processione attorno alle mura di Gerusalemme. I crociati, nei giorni seguenti, costruirono tre torri d’assedio, coperte da pelli di bue per proteggerle dal fuoco usato dai difensori. Il bombardamento iniziò e continuò pesante da entrambe le parti, senza però che i crociati riuscirono ad assalire la città. Il giorno seguente, tuttavia, si riuscì ad entrare nelle mura insieme ai suoi uomini e niente poté più salvare Gerusalemme e i musulmani si ritirarono nell’area del vecchio tempio, dove si trovavano la Cupola della Roccia e la sacra moschea di al-Aqsa ma i crociati uccisero tutti gli uomini, donne e bambini che trovarono. Solo il governatore e il suo corpo di Colore che vivevano in città o abitavano in case ad un solo piano oppure a due piani, mentre i ricchi abitavano in dimore sontuose chiamate “palazzi”. Il commercio più prospero consisteva nella fabbricazione di ricordi religiosi per i pellegrini che si recavano in gran numero a visitare i santi luoghi. Non era insolito, inoltre, che i figli delle classi più altolocati venissero sposati quando avevano cinque o sei anni con la speranza che un giorno avrebbero consumato il matrimonio mettendo al mondo figli dinasticamente desiderabili. Ad esempio. Baldovino III di Gerusalemme sposò, a ventisei anni, la principessa bizantina Teodora, tredicenne. Il matrimonio non durò però a lungo poiché Baldovino morì dopo quattro anni. Anche la medicina era più progredita d’Outremer: i medici avevano appreso questa scienza dagli arabi. Le istituzioni mediche più famose erano gestite dai cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni Battista a Gerusalemme, che dedicavano la loro vita all’assistenza e alla cura degli ammalati, con il dovere di porre i loro compiti militari sempre dopo quello medico. I templari, o Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone, furono fondati nello stesso periodo degli ospitalieri da un cavaliere burgundo, Ugo di Payens, con lo scopo di proteggere i pellegrini diretti a Gerusalemme ed altri luoghi santi dagli attacchi dei musulmani e dei predoni. Nonostante il piccolo gruppo iniziale, divennero presto ricchi e potenti, anche se avevano fatto voto di povertà. Sia l’ordine dei templari che quello degli ospitalieri erano divisi in tre classi: i cavalieri, tra i quali si sceglieva un Gran Maestro, che doveva essere nobile di nascita; i sergenti ed infine il clero. Votati alla povertà, castità ed obbedienza, col passare del tempo entrambi gli ordini divennero un corpo di veri e propri soldati di professione. Tuttavia, col passare degli anni, la loro rivalità originaria si tramutò in un accanito odio reciproco e col crescere della loro potenza finirono per considerarsi essi stessi la legge. Giunsero a considerare l’interesse dell’ordine molto più importante del bene comune. Templari e ospitalieri, ai quali si aggiunse più tardi l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, erano i soli ordini militari ma Gerusalemme era piena, invece, di grandi ordini monastici: le abbazie più importanti erano quelle agostiniane sul Monte Sion, sul Monte degli Ulivi e quella benedettina di Santa Maria Latina. A Baldovino I successe, nel 1118, suo cugino Baldovino II. Le vittorie dei crociati furono dovute anche alla profonda divisione dei loro nemici. Un motivo principale di questa disunione fu un dissenso religioso tra musulmani sunniti e sciiti. Durante la conquista della Persia i turchi selgiuchidi avevano preso sotto la loro protezione i califfi abassidi di Bagdad, e gli abassidi erano musulmani sunniti; i loro grandi rivali erano i fatimiti di Egitto, musulmani sciiti, e questo per i selgiuchidi si era dimostrato un pretesto per invadere la Siria. Questa violenza tra le due fazioni era ravvivata anche dall’esistenza dei drusi, una setta che credeva nella divinità di al-Hakim, un arabo, califfo di Gerusalemme tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, e dalla crescita di una setta conosciuta come gli Assassini che si specializzarono nell’uso del delitto come arma politica e religiosa. I musulmani, però, iniziarono a comprendere che, se volevano riguadagnare le tesse perse, dovevano appianare i loro dissidi. Nel 1119 i franchi, guidati dal nipote di Tancredi, Ruggero, che aveva ereditato il principato di Antiochia, incalzarono i musulmani di Aleppo tanto che gli abitanti dovettero stringere un’alleanza con il turco Ilghazi con il quale non erano in buoni rapporti. Quest’ultimo estese l’alleanza al governatore turco di Damasco. Ruggero, non aspettando l’arrivo di Baldovino, partito per venire in suo soccorso, il 29 giugno guidò il suo esercito contro i musulmani ma vennero o uccisi (tra cui Ruggero) o fatti prigionieri. Nel 1124 i franchi conquistarono Tiro con l’aiuto di una grossa flotta veneziana, ultima importante città costiera ancora in mano musulmana. Non molto tempo dopo ci furono due episodi con importanti conseguenze: fattori accidentali dovuto alle condizioni atmosferiche impedirono a Baldovino di prendere Damasco quando era sul punto di cadere. Accadde nel 1129, in un momento di debolezza musulmana. Tuttavia, cominciò a piovere a dirotto e il terreno si trasformò in un pantano, tanto che Baldovino dovette ammettere la sconfitta. L’altro episodio riguardò Jocelin, nuovo conte di Edessa, e il nuovo principe di Antiochia, figlio di Boemondo, i quali non andavano d’accordo, ognuno era invidioso dell’altro. Come risultato, quando Aleppo fu gettata nel caos dall’assassinio del suo sovrano, si sprecò un’occasione per conquistarla a causa del rifiuto dei due di cooperare. Il nuovo vicegovernatore di Mosul, Zengi, nominato dal sultano selgiuchida marciò allora su Aleppo per rivendicarla e divenne nuovo capo della Siria settentrionale. Nel 1130 Boemondo II, nuovo principe di Antiochia, venne ucciso da alcuni turchi danishmend; nel 1131 morì Baldovino (nell’agosto aveva marciato su Gerusalemme dopo aver sedato una ribellione nel nord della Siria ma, a una settimana dal suo ritorno, il re fu colto da una grave malattia e le sue condizioni peggiorarono rapidamente. Rendendosi conto di essere prossimo alla fine, chiese che lo aiutassero a percorrere i 300 metri che separavano il palazzo reale nel Tempio di Salomone dal palazzo del patriarca di Gerusalemme nel Santo Sepolcro) e, poco tempo dopo, anche Jocelin di Edessa. Folco, conte d’Angiò, venne fatto venire in Outremer per sposare Melisenda, figlia di Baldovino I, con l’intesa che questi sarebbero divenuti Re e Regina di Gerusalemme (all’avvicinarsi della sua ora, Baldovino convocò al suo capezzale il patriarca e alcuni tra i nobili più autorevoli. Dinanzi a questi testimoni, il re morente abdicò formalmente e poi affidò il regno non al solo Folco, ma anche a Melisenda e al piccolo Baldovino. In altre parole, decretò che Gerusalemme doveva essere governata da un triumvirato, non da un unico sovrano. Folco aveva la sua importanza perché rappresentava l’autorità militare e generava figli, ma Baldovino desiderava fermamente limitare la sua influenza e assicurarsi che anche Melisenda detenesse il potere. Nel giro di un mese, Folco, Melisenda e il piccolo Baldovino furono incoronati nella chiesa del Santo Sepolcro). In capo a tre anni, la coppia reale si trovò in seria difficoltà e il regno di Gerusalemme fu sul punto di affrontare la sua più grave crisi politica. Due degli uomini più influenti del paese, il conte Ugo di Giaffa e Romano di Le Puy, signore di Transgiordania, ordirono una cospirazione ai danni di re Folco. Il conte era figlio di Ugo II di Le Puiset che era partito per la crociata nel 1106-7. Sulla strada per il Levante, in Puglia, sua moglie lo aveva dato alla luce e il bambino era rimasto presso la corte del regno di Sicilia fino all’età in cui fu in grado di raggiungere la Terra Santa e nel 1120 reclamò a re Baldovino II la sua parte di eredità. Era imparentato con la casa reale per parte di padre, e i legami familiari e la successiva carriera lo resero un naturale alleato di Melisenda. Subito dopo il 1123 sposò Emma di Giaffa, la vedova di Eustachio Grenier. Verso il 1130, le tensioni tra il re e il conte Ugo iniziarono a farsi sentire. Il conte era diventato arrogante: rifiutava di ubbidire agli ordini reali e prese a sfidare apertamente il sovrano. Con la crescita del sostegno politico a Ugo e Melisenda, Folco iniziò a sospettare che il conte fosse per la regina qualcosa di più di un semplice amico. Le voci che circolavano mettevano naturalmente in dubbio il buon nome della regina e, se l’accusa di adulterio fosse stata espressa apertamente, il processo legale che ne sarebbe scaturito sarebbe stato barbaro. Su suggerimento del re, e forse per lealtà a sua madre, la contessa Emma di Giaffa, Gualtiero di Cesarea, trovò una soluzione. In un’assemblea alla corte reale di Gerusalemme, Gualtiero pronunciò la più sensazionale e incendiaria delle accuse: Ugo e certi suoi compagni avevano cospirato per uccidere re Folco. La corte decretò che la questione fosse risolta con un duello, com’era costume nella Francia e nella Germania del tempo, e si fissò una data per il processo. Ugo e Gualtiero dovevano affrontarsi, armati di tutto punto e a cavallo. Dovevano combattere finché uno di loro non fosse disarcionato. A quel punto colui che era rimasto a cavallo poteva finire l’avversario oppure scendere da cavallo e dare inizio alla lotta corpo a corpo. Ugo ritornò alle sue terre a Giaffa, ma il giorno designato per il duello non si presentò. Alcuni lo interpretarono come un’ammissione di colpevolezza. L’Alta Corte condannò l’assenza di Ugo, che fu dichiarato colpevole di tradimento e si vide confiscare le terre. Avuta notizia del verdetto della corte, Ugo salpò da Giaffa e raggiunse Ascalona; qui, chiese agli ascaloniti aiuto contro il re, i quali cosa furono disposti ad accordargli. Il conte dichiarò di avere sostenitori nel regno e di poter offrire qualcosa in cambio ai musulmani, contando probabilmente sul consenso di Melisenda. La città era soggetta sin dal regno di Baldovino II a un tributo finanziario annuale, la cui riduzione, se non addirittura cancellazione, era quindi quanto di meglio si potesse ottenere. L’accordo fu suggellato da uno scambio di ostaggi, come di consueto, e Ugo ritornò a Giaffa. Gli ascaloniti, approfittando dei dissensi esistenti tra i cristiani, organizzarono incursioni armate nel regno fino a Arsuf. Il re, furibondo, pose allora Giaffa sotto assedio. Il patriarca Guglielmo guidò una delegazione di nobili per mediare tra le due parti. Ugo e gli alleati che gli rimanevano furono condannati a tre anni di esilio, trascorsi i quali sarebbero potuti ritornare senza ulteriore discredito, anche se durante la loro assenza i redditi provenienti dai possedimenti del conte sarebbero serviti per pagare i debiti contratti. Ugo decise di recarsi in esilio nel regno di Sicilia ma, mentre si trovava in una bottega a Gerusalemme, aspettando di potersi imbarcare per l’Europa, un cavaliere bretone lo trafisse con la spada. La gente iniziò a dire che fosse stato il re ad aver incaricato lo sconosciuto per uccidere il suo rivale. Per placare il clamore generato, Folco ordinò che il prigioniero fosse condotto di fronte all’Alta Corte, l’istituzione che doveva giudicare i delitti capitali, ma si tenne lontano dalla seduta. La corte condannò il bretone alla mutilazione degli arti. Il bretone fu torturato affinché rivelasse se aveva operato per conto del re, ma perfino dopo la mutilazione sostenne di aver agito di propria iniziativa e che semmai si aspettava da Folco una ricompensa a cose fatte. Questa confessione placò la folla e mitigò l’ostilità verso il re. Ugo, intanto, si ristabilì lentamente dalle ferite e in direzione della Puglia per ottemperare alla sentenza che lo aveva condannato all’esilio. Fu accolto con da Ruggero II di Sicilia, il quale gli affidò generosamente la contea del Gargano, ma dopo qualche mese morì, senza mai fare ritorno in Terra Santa. Il rapporto tra Folco e Melisenda si incrinò, allora, sempre più: il re si era inoltre rifiutato di accettare la variazione decisa da re Baldovino II. Invece di esercitare il potere insieme alla moglie, l’aveva ignorato. Inoltre, Folco aveva dato potere ai suoi luogotenenti angioini a detrimento della nobiltà locale. Aveva licenziato il cancelliere reale e un visconte e li aveva sostituiti con i suoi uomini. Folco aveva tentato di emarginare la sua regina, ma Melisenda, grazie a un’incrollabile forza di volontà e alla resistenza portata avanti dal conte Ugo, difese l’eredità che le spettava e il potere dei nobili di Gerusalemme. Il figlio di Jocelin di Edessa, Jocelin II, inoltre, mostrava di voler rinnegare la fedeltà feudale dovuta a re Folco; anche ad Antiochia Folco ebbe difficoltà: dalla morte di Boemondo II la città era rimasta senza un principe ma solo una principessa, Alice, con sua figlia Costanza. Alice tentò di governare come reggente della figlia, durante la sua infanzia, così da escludere Folco dalla gestione di Antiochia, il quale ne era il reggente legittimo. In questo periodo Zengi ottenne il suo più grosso successo sconfiggendo un esercito franco vicino al castello di Montferrand, catturando il conte di Tripoli e costringendo Folco a rifugiarsi nella fortezza. Alla fine, Zengi lo lasciò andare in cambio della consegna del castello. Sembra che Folco desiderasse sinceramente riprendere i rapporti con la moglie. Oltre che a rimediare ai suoi insuccessi politici, il re ordinò per lei un dono generoso e scelto con cura. Il Salterio di Melisenda è un libro conservato oggi alla British Library. Contiene all’interno ventiquattro miniature a pagina intera con scene del Nuovo Testamento, un calendario con i santi del giorno e le celebrazioni, oltre alle preghiere, molte delle quali hanno capilettera riccamente decorati. Non conosciamo la reazione di Melisenda quando il Salterio le venne donato; ma condizioni ancora più sfavorevoli. Il viaggio dei crociati divenne ben presto un incubo, senza acqua né cibo, con un freddo pungente, con i turchi che li attaccavano da ogni parte. Raggiunta a fatica Attalia, gli abitanti non avevano provviste e non c’era spazio per sistemarli e furono costretti ad accamparsi fuori le mura, venendo allora attaccati nuovamente dai turchi. Molti morirono lungo il cammino verso la Siria. Nel febbraio del 1148 Luigi ed Eleonora arrivarono finalmente ad Antiochia, dove li aspettava il principe Raimondo. Quando fu indetta un’assemblea ufficiale di antiocheni e crociati per discutere una campagna diretta a nord, con grande dispetto e sdegno di Raimondo, la proposta fu rifiutata. Secondo le fonti, il desiderio di Luigi di andare in pellegrinaggio nei siti sacri lo spronava a proseguire per Gerusalemme. Più verosimilmente, alla decisione di partire da Antiochia potrebbe aver contribuito il deteriorarsi della situazione di Edessa, che era stato l’obiettivo primario della spedizione. Nell’ottobre del 1146, gli armeni locali avevano cercato di liberarsi dal governo musulmano, ma la loro ribellione era stata repressa. Le mura della cittadella erano state distrutte e molte migliaia di cristiani uccisi o ridotti in schiavitù. Vistasi fallire la sua strategia, Raimondo giurò inimicizia a re Luigi e alla nipote, con cui si dicesse avesse avuto un rapporto amoroso. Arrivato a Gerusalemme re Luigi visitò i luoghi santi accompagnato da Corrado III di Germania che vi era giunto con una nave bizantina. I due principi accettarono poi l’invito di Baldovino III di prendere parte ad una assemblea ad Acri, con tutti i più importanti crociati, in cui decisero di attaccare Damasco. Il governatore musulmano della città riunì allora quanti più uomini poté e inviò messaggi urgenti a Nur ed-Din, figlio di Zengi, per chiedere aiuto. I combattimenti si protrassero per oltre due giorni ed un numero sempre maggiore di cristiani fu ucciso; colpiti dalla sete a causa della mancanza d’acqua, i crociati dovettero battere in ritirata. Agli inizi di settembre Corrado se ne andò e rinnovò la sua amicizia con l’imperatore Manuele e firmò con lui un patto di mutuo soccorso contro i normanni e soprattutto contro Ruggero di Sicilia, che aveva devastato l’isola di Corfù e saccheggiato le città di Tebe e Corinto. Per consolidare questa alleanza il fratello di Corrado, Enrico d’Austria, sposò la nipote di Manuele, Teodora. Un terzo terreno di scontro, in questo periodo, sempre sostenute dal papato e dalla struttura della Chiesa in senso ampio, fu il Baltico e quelle zone confinanti con i territori Germanici che continuavano ad essere pagane. Le Crociate del Nord condotte dal XII al XV secolo vennero prima condotte da un esercito sassone, guidato da nobili germanici e danesi, che presero di mira i Venedi o Vendi (alias Slavi Occidentali), come loro obiettivo nel 1147. Nelle motivazioni il desiderio religioso di convertire i pagani si fuse con la brama di terre e lo spirito di vendetta contro le recenti incursioni nemiche. Questo fu tutto un nuovo aspetto delle crociate: la conversione attiva di non- cristiani in contrapposizione alla liberazione di territori tenuti dagli infedeli. I crociati si chiedevano, intanto, se avesse avuto senso uccidere i locali, perché in tal caso non ci sarebbe stato più nessuno da vessare con le tasse o da cui attingere i mezzi di sopravvivenza. La lotta fu senza convinzione e dopo un certo periodo gli slavi acconsentirono a convertirsi al cristianesimo e a liberare i prigionieri danesi. n secondo esercito crociato, di cui facevano parte molti vescovi e nobili della Germania settentrionale, nonché un nutrito contingente polacco, strinse d’assedio Stettino, a nord-est. L’evento si trasformò rapidamente in una farsa quando i difensori esibirono le croci sopra la loro cittadella – erano stati convertiti al cristianesimo una ventina d’anni prima. L’attacco fu quindi frutto di totale ignoranza da parte dei crociati oppure conseguenza del desiderio di conquistare una postazione strategicamente importante, indipendentemente dalla sua fede religiosa. Nella Spagna orientale, invece, gli interessi del papato, dei genovesi e dei sovrani locali si combinavano molto più agevolmente: i genovesi e re Alfonso VII di Castiglia e León avevano stipulato un accordo ufficiale per attaccare la città di Almería, nel profondo Sud della Spagna musulmana. Nello stesso periodo Eugenio aveva promulgato una bolla che invitava alla crociata le popolazioni italiche, incoraggiando anche i genovesi a combattere ad Almería. I partecipanti contavano di ottenere i privilegi spirituali promessi a un crociato, come pure ricompense economiche e commerciali oppure proprietà ben distinte dai primi: i genovesi avrebbero ottenuto un terzo della città, il re i due terzi. Anche Raimondo stipulò accordi con gli italiani per prendere d’assedio Tortosa l’anno successivo. La cittadella resistette per quattro giorni, ma capitolò in cambio di un’ingente somma di denaro. La flotta si diresse poi a nord per trascorrere l’inverno prima di concentrarsi sull’obiettivo seguente, Tortosa. Fu raggiunta da molti nobili dalla Francia meridionale, truppe capeggiate dai templari e dagli ospitalieri e perfino un drappello di veterani anglo-normanni che avevano combattuto a Lisbona. La città aveva mura possenti e una formidabile cittadella, ma un abile uso delle torri d’assedio da parte dei genovesi li portò praticamente alla vittoria. I difensori chiesero di avviare le trattative – se entro quaranta giorni non avessero ricevuto rinforzi dai musulmani di Valencia, si sarebbero arresi: i crociati acconsentirono. I cristiani riuscirono a cingere d’assedio Tortosa a sud e il 30 dicembre 1148, senza alcuna prospettiva di rinforzi, la città aprì le porte a una conquista pacifica. Nur ed-Din, durante la seconda crociata, ottenne i maggiori benefici: aveva preso Edessa, impadronito della maggior parte del territorio ad oriente dell’Oronte, stretto alleanza con i damasceni, ucciso Raimondo di Antiochia e fatto prigioniero, Jocelin di Edessa. Baldovino III di Gerusalemme firmò una tregua con Nur ed-Din permettendo così di avere il tempo per cercare nuovi capi per gli stati settentrionali. Jocelin II aveva lasciato un figlio che divenne il sovrano; Raimondo di Tripoli, dopo la sua morte, aveva lasciato anch’egli un figlio di dodici anni e il potere passò alla madre, mentre Baldovino ne divenne il tutore. Per Antiochia, si scelse come marito della vedova Costanza un cavaliere giunto con la seconda crociata di Luigi VII. Si chiamava Rinaldo di Chatillon. Il regno poi si divise in due fazioni, una che appoggiava Melisenda, madre di Baldovino III, che aveva governato come sua reggente, e l’altra dalla parte di quest’ultimo. Ma alla fine Melisenda perse e fu costretta a lasciare la politica. Morì nel 1161 e venne sepolta nel monastero di Santa Maria di Giosafat. Baldovino riuscì ad impedire a Nur ed-Din di prendere Damasco, offrendo aiuto ai damasceni, terrorizzati di essere assoggettati dal loro vicino musulmano. Il califfato fatimita d’Egitto era debole, causata dal comportamento di una lunga successione di visir corrotti e senza scrupoli, ognuno dei quali aveva ucciso il suo predecessore. Ovunque l’anarchia si era sostituita alla legge e all’ordine. L’Egitto possedeva ancora Ascalona e i franchi avevano sempre mostrato mire di conquista per questa città costiera e porto meridionale. Baldovino decise allora di attaccarla: come prima mossa fece costruire un castello a Gaza, bloccando la strada costiera dall’Egitto e isolando la città da ogni aiuto esterno; mosse contro la città con un grande esercito e si accampò sotto le mura. Dopo circa sette settimane, pochi cavalieri templari riuscirono ad aprirsi un varco dentro la città ma vennero uccisi. L’assedio continuò e circa un mese dopo, il 19 agosto, il comandante offrì la resa della città a Baldovino. Dall’altro lato, Damasco aprì le porte a Nur ed-Din e da allora dominò tutta la Siria settentrionale. Tuttavia cadde gravemente malato poco dopo la presa della città; la sua guarigione fu lenta, assicurando ai suoi nemici un po' di respiro. Inoltre, nel 1156 tutta la Siria fu colpita da un terremoto che distrusse le opere fortificate di molte città chiave e dei castelli strategici e gli uomini di Nur ed-Din non poterono muovere guerra ai franchi, occupati nelle riparazioni dei danni. Rinaldo, il nuovo principe di Antiochia, decise di invadere allora l’isola di Cipro. I suoi abitanti erano cristiani e faceva parte dell’impero bizantino. Godeva la pace da oltre un secolo, era fertile e prospera e, dopo la sconfitta della milizia locale, fu in balia degli uomini di Baldovino. Le atrocità continuarono senza tregua e solo quando giunse notizia che una flotta bizantina faceva rotta verso l’isola, si prepararono ad andarsene portando via la maggior parte dei ciprioti più importanti come prigionieri. Nel momento in cui le forze dell’Islam si erano unite sotto Nur ed-Din, Baldovino decise di allearsi con Manuele e le due potenze firmarono un trattato, cementato poi dal matrimonio di Baldovino con la principessa Teodora, nipote di Manuele. Con questo trattato Baldovino assicurava il suo appoggio a Manuele contro Rinaldo e così, nell’autunno del 1158 Manuele uscì da Costantinopoli alla testa di una imponente esercito, risoluto a punire prima gli armeni che avevano collaborato a distruggere Cipro, e poi il principe di Antiochia, il quale decise di sottometterglisi e di implorare il suo perdono che, alla fine, lo concesse. Una settimana dopo Manuele firmava una tregua con Nur ed-Don. Un anno dopo, Rinaldo di Chatillon fece un’incursione nel territorio di Nur ed-Din dove razziò ingenti mandrie di bestiame, ma venne catturato e rimase in prigione per sedici anni. Due anni dopo Baldovino s’ammalò e morì a Beirut, nel 1162. Non aveva figli e gli successe il fratello minore Amalrico, che decise di mantenere buoni rapporti con l’imperatore Manuele Comneno e di cercare di tenere sotto controllo l’Egitto, perché temeva che la debolezza del califfato e lo stato di anarchia potessero tentare Nurd ed-Din a cercare di impadronirsi del potere. Al tempo della caduta di Ascalona il visir era un certo Abbas e il califfo il giovane Al-Zafir. Il visir aveva un figlio, Nasr, con il quale sembra che il califfo avesse una relazione omosessuale. Ciò fece infuriare il padre di Nasr perché temeva che il califfo gli mettesse contro il figlio. Nasr infatti aveva acconsentito proprio di uccidere il padre, tuttavia, qualcuno al corrente di questo complotto, persuase Nasr che sarebbe stato meglio uccidere il califfo e prendere il potere. Nasr acconsentì e lo pugnalò a morte. Il visir Abbas annunciò che il califfo era stato assassinato dai suoi stessi fratelli, i quali furono da lui arrestati e messi a morte. Pose quindi sul trono il figlio dell’ucciso, un bimbo di cinque anni chiamato al-Faiz. Le mogli del califfo ucciso, non lasciatesi ingannare dalla versione del visir, organizzarono una rivolta contro i due, i quali fuggirono dal paese. Mentre attraversavano il deserto dei Sinai, incontrarono dei cavalieri templari che uccisero il visir e fecero prigioniero il figlio. Quest’ultimo chiese di farsi cristiano per salvarsi ma i templari, ricevuta un’offerta dalle quattro vedove del califfo per la sua consegna, l’accettarono. Nasr fu portato in Egitto dove venne impiccato. Nel frattempo, un armeno chiamato Ruzzik, assunse il visirato sotto l’autorità nominale del califfo di 5 anni e le cose tornarono alla normalità, fino alla morte del bambino. Gli successe il cugino di nove anni che fu obbligato a sposare la figlia di Ruzzik. La zia del nuovo califfo persuase alcuni suoi amici a pugnalare il visir, che però non morì subito. Prima di morire invitò la mandante ad andarlo a trovare e la uccise. Gli successe il figlio che non durò più di quindici mesi e fu assassinato a sua volta dal governatore dell’Alto Egitto, che tenne il potere per otto mesi prima di essere spodestato a sua volta dal proprio ciambellano, un arabo. Riuscì a salvarsi fuggendo dal paese e cercando rifugio in Siria alla corte di Nur ed-Din. Il nuovo visir compilò una lista di tutte le persone che avrebbero potuto essere una minaccia e li fece mettere a morte. Nur ed-Din, nel 1164, inviò un esercito con gli ordini di ristabilire l’ex visir Shawar a condizione che, appena questo lo fosse stato di nuovo, avrebbe fatto diventare il califfo un suo vassallo, facendo così dell’Egitto il suo alleato. Il generale curdo al comando portò con sé un nipote, Salah ed-Din Yusuf, e portarono a pieno compimento gli ordini che avevano ricevuto. Tuttavia, appena Shawar si ritrovò al potere denunciò l’accordo fatto con Nur ed-Din ed ordino al generale di ritornare in patria. Quest’ultimo rifiutò e occupò la città fortificata di Bilbeis, sul delta del Nilo. Shawar fece appello ad Amalrico perché l’aiutasse e questo fu ben lieto di farlo. Tuttavia Nur ed-Din, attaccando il principato di Antiochia, lo costrinse a tornare in patria e abbandonare l’assedio. Anche il generale decise di tornare e Shawar fu lasciato al potere. Due anni dopo, Nur ed-Din ordinò di invadere nuovamente Baldovino, il nipote di otto anni, morì nel 1186 e la guerra civile ancora una volta quasi sconvolse il regno. Com’era prevedibile, corse voce che Raimondo intendesse salire al trono ed egli stesso sembrò confermare i sospetti tentando di convocare la nobiltà a Nablus. Ma, a quanto pare, aveva sottovalutato l’entità del sostegno di cui Sibilla godeva e, quando un numero significativo di figure autorevoli, tra cui il principe Rinaldo e il patriarca Eraclio, si riunirono in occasione del funerale di Baldovino, furono proprio questi ultimi a prendere l’iniziativa appoggiando Sibilla. Il maggiore ostacolo era Guido, già estromesso dal re lebbroso per la sua palese mancanza di capacità di comando. A Sibilla venne chiesto di divorziare da lui prima di essere incoronata. Con la connivenza di Eraclio, la donna diede il suo consenso, a condizione di poter essere lei a scegliere il prossimo marito. Sibilla allora, rivolgendosi all’assemblea dei nobili, disse di scegliere come nuovo marito lo stesso Guido e, davanti ai presenti rimasti in silenzio, la regina gli pose la corona reale sul capo. Dopo essere stati incoronati re e regina di Gerusalemme, entrambi furono concordi nel continuare la pace col Saladino. Tutto ciò non venne rispettato da Rinaldo di Chatillon che, nel 1187, attaccò una grossa carovana che stava viaggiando a Damasco e portò i mercanti al suo castello di Kerak in ostaggio. Il Saladino allora inviò messi per chiedere il rilascio dei prigionieri ed un risarcimento per le perdite subite, ma Rinaldo non volle nemmeno riceverli. A Saladino non restò altro che la guerra. Il principe di Antiochia e il conte di Tripoli non vollero avere nulla a che fare con la guerra provocata da Rinaldo e, all’inizio, il regno di Gerusalemme fu lasciato solo a fronteggiare le forze musulmane. Queste, il primo luglio 1187, attaccò la città di Tiberiade che cadde quasi subito, ma la cittadella resistette. Lì si trovava la contessa di Tripoli, moglie di Raimondo di Tripoli, il quale era con l’esercito ad Acri. Questa mossa era destinata a richiamare Guido al dovere di mettere in salvo la moglie di un suo vassallo. I franchi, riuniti nel luogo di raccolta delle sorgenti di Sepphoris, tenevano duro, perché raggiungere Tiberiade avrebbe comportato una marcia di una trentina di chilometri attraverso un arido altopiano nel pieno dell’estate. Un consiglio di guerra, tenuto il 2 luglio, avallò questa strategia e i soldati andarono a dormire convinti di rimanere a Sepphoris. Nel pieno della notte, Gerardo di Ridefort, maestro dei templari, chiese di avere un colloquio in privato con il re e tentò più volte di convincerlo a combattere. Il problema era che, levando il campo, i franchi abbandonavano l’unico rifornimento d’acqua sicuro e per di più si offrivano alle forze musulmane come bersaglio in lentissimo spostamento. I cristiani si diressero a est e raggiunsero le sorgenti di Turan, a circa dieci chilometri di distanza. Sembrava il posto adatto per una sosta e invece proseguirono. In realtà le sorgenti di Turan non bastavano al fabbisogno dell’esercito cristiano e non c’era altra scelta se non quella di proseguire. A sud, invece, Saladino si era approvvigionato nel villaggio di Kafr Sabt e poteva tranquillamente servirsi della sua superiorità numerica per dividere le truppe, mandare uomini a prendere possesso di Turan e impedire la ritirata dei franchi. Saladino mandò avanti parte della cavalleria perché attaccasse i templari, una tattica che rallentò l’intera marcia. Di tanto in tanto gli arcieri a cavallo musulmani lanciavano frecce infuocate contro le linee cristiane, ma i franchi non osavano rompere i ranghi e attaccare, per paura di non essere in grado di ritrovare lo schieramento iniziale. Non era più possibile raggiungere Tiberiade quel giorno e Guido decise di porre il campo sull’altopiano. Le truppe di Saladino avevano ancora provviste in abbondanza poiché i cammelli trasportavano botti piene d’acqua attinta al lago di Tiberiade. La mattina del 4 luglio, i Franchi cercarono di spingersi fino al lago, per bere, e Saladino reagì facendo in modo che i suoi uomini appiccassero fuochi nella boscaglia circostante, con il calore ed il fumo che quindi si aggiunsero alla sete degli occidentali. Quando il caldo raggiunse il suo picco a metà giornata, agli arcieri di Saladino venne ordinato di scatenare un bombardamento devastante sul nemico. Nella confusione che seguì, la fanteria franca si disperse, abbandonando la loro posizione protettiva abituale attorno alla cavalleria. I superstiti si radunarono sulle pendici del Monte Hattin. La causa dei cristiani era persa; Guido stesso fu fatto prigioniero poco dopo e i musulmani si impossessarono della Vera Croce, un enorme oggetto d’oro tempestato di pietre preziose che conteneva il legno della croce su cui si credeva fosse stato crocifisso Cristo. Dopo la battaglia, Saladino poté vendicarsi di Rinaldo. Il sultano ordinò che re Guido e il principe fossero condotti davanti a lui. Esausti e assetati, i due guerrieri si inginocchiarono ai suoi piedi. Saladino diede a Guido una coppa di acqua alla menta, ghiacciata e rinfrescante – era segno che gli avrebbe risparmiato la vita – e il re, grato, l’accettò e bevve. Quando il re fece per passare la tazza a Rinaldo, Saladino lo rimproverò dicendogli che non aveva offerto da bere al principe. Poi diede a Rinaldo la possibilità di scegliere tra la conversione all’islam e la morte: il principe declinò la proposta e il sultano, che non aveva dimenticato l’offese perpetrate da Rinaldo, gli tagliò la testa. Il sultano infierì solo sui cavalieri templari e ospitalieri, il cui fanatismo religioso ne faceva le vittime predestinate della guerra santa: coloro che non accettarono di convertirsi all'islamismo vennero martirizzati dai muttawyah, i loro equivalenti musulmani. Una dopo l’altra le città di Outremer si arresero al sultano vittorioso; Tiberiade fu la prima, seguita poi da Acri, Nablus, Giaffa, Sidone e Beirut. I pochi cavalieri franchi rimasti si radunarono per un’ultima difesa di Gerusalemme. Data l’enorme disparità tra i due eserciti, i cristiani ben sapevano che la situazione era senza speranza, ma per dovere e per disperazione dovevano opporre resistenza. Il patriarca Eraclio, Baliano di Ibelin e la regina Sibilla guidarono la resistenza in una città gremita di rifugiati da tutto l’Oriente latino. Ordinarono che le mura venissero rinforzate e che fossero costruite catapulte per essere di supporto nella battaglia. L’assedio cominciò alla fine di settembre e per cinque giorni i musulmani accerchiarono la città alla ricerca di un punto debole. La situazione era così grave all’interno di Gerusalemme che Eraclio lanciò una vera e propria crociata e offrì ufficialmente la remissione di tutti i peccati a coloro che aiutavano a resistere all’attacco. Quando i cristiani capirono che tutto fosse perduto, Baliano chiese di essere ammesso alla presenza di Saladino, ma ottenne una irremovibile risposta. Forse aspettandosi una simile reazione, avanzò una proposta alternativa: se ai cristiani non fosse stata garantita la vita, giurò che avrebbero ucciso le mogli e i figli, distrutto tutte le proprietà, massacrato i 5000 musulmani prigionieri nelle loro mani e poi distrutto la Cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa. Poi sarebbero usciti a combattere senza altro scopo se non quello di uccidere il più gran numero di musulmani. Si giunse allora ad un accordo e, il 2 ottobre 1187, Saladino ottenne le chiavi della città. Non ci furono massacri; ai cristiani fu permesso di riscattarsi pagando una somma in denaro, relativamente bassa, ai vincitori. Molti di coloro che non poterono comprarsi la libertà, furono rilasciati senza riscatto. Nell’autunno l’Oriente era nuovamente musulmano. I franchi riuscirono ad arroccarsi in tre città e cinque grandi castelli: Tiro, Antiochia e Tripoli. Quando giunse in Europa, la notizia del disastro in Terra Santa fu appresa con orrore. Papa Urbano III, già malato, morì di apoplessia e ovunque la gente affollava chiese e cattedrali per pregare. A papa Urbano successe Gregorio VIII, che diffuse subito un appello per una nuova crociata promettendo a tutti quelli che avessero preso la croce il perdono di tutti i peccati e il paradiso se fossero stati uccisi. Morì poco meno di due mesi dopo mentre cercava di far rappacificare pisani e genovesi affinché le due città potessero prendere parte alla crociata. Clemente III, romano di nascita, fu eletto al suo posto. Intanto, oltre a pisani e genovesi, ovunque vi erano conflitti e finché la gente non fosse stata persuasa a fare pace non serviva a niente cercare di convincerli a partire in Terra Santa. Il re di Sicilia era in guerra con i bizantini, Enrico II d’Inghilterra era in guerra con Filippo Augusto di Francia. Enrico, capo dei plantageneti, regnava su una parte di Francia più vasta di quanta posseduta dallo stesso re Filippo; era duca di Normandia, Bretagna e Aquitania e conte d’Anjou, del Maine, Poitou, La Manche e di Auvergne. Ad aggravare le cose c’erano poi i due figli di Enrico, Riccardo e Giovanni: Riccardo era incline a cambiare fronte e combattere con imparzialità, prima con il padre contro il re francese e, quando gli conveniva, con Filippo Augusto contro il padre. Solo dopo la morte di Enrico II nel 1189 i re di Inghilterra e Francia furono pronti per una nuova crociata. Mentre fervevano questi preparativi, alcune spedizioni minori avevano già raggiunto il Mediterraneo orientale nella speranza di essere d’aiuto ai difensori sotto assedio della Terra Santa. Il loro obiettivo iniziale era il porto di Tiro, tenuto da Corrado di Monferrato. Re Guido era ancora prigioniero e il marchese aveva assunto il controllo de facto degli ultimi insediamenti rimasti del regno di Gerusalemme. Alla fine del 1187, Saladino fece un secondo tentativo di impossessarsi della città portuale. Il sultano tentò anche di giocare la carta affettiva con Corrado, proponendogli di liberare il padre, Guglielmo V detto il Vecchio, preso prigioniero a Hattin, in cambio della città. Quando i musulmani scortarono Guglielmo fino alla porta della città, Corrado rispose con un colpo di balestra. Saladino minacciò di uccidere il prigioniero e si dice che il marchese abbia ribattuto che sarebbe stata un’ottima cosa, perché un uomo malvagio avrebbe così fatto una bella fine e lui avrebbe avuto un padre martire. Pochi giorni dopo i cristiani forzarono il blocco navale e i cavalieri franchi sloggiarono dalle mura i musulmani, che avevano invece il loro quartiere generale sulla terraferma; il 1° gennaio 1188, Saladino si ritirò. Re Guglielmo II di Sicilia mandò una flotta e queste forze permisero ai cristiani di mantenere Tripoli e Antiochia, come anche di rinforzare Tiro. Il primo ad essere pronto a partire fu l’imperatore tedesco Federico Barbarossa. Sia come sovrano più anziano d’Europa che come uomo Federico era molto rispettato. Quando nel 1188 Federico prese la croce, una grande ondata di entusiasmo dilagò per l’Europa. Scrisse lettere al re di Ungheria, all’imperatore bizantino e al sultano selgiuchida attraverso le cui terre intendeva passare e ricevette cortesi risposte. Scrisse anche a Saladino. L’esercito con cui partì non era solo numeroso ma anche ben equipaggiato e disciplinato. Arrivati in territorio bizantino, l’esercito fu attaccato da banditi e briganti a causa della mancanza di un forte sovrano a Costantinopoli; Isacco Angelo era debole e, quando seppe dell’arrivo del re tedesco, fu colto dal panico che aumentò ancor più quando Federico occupò Filippopoli. Quando l’imperatore tedesco inviò messaggeri per prendere accordi per far passare l’esercito in Asia attraverso il Bosforo, Isacco li gettò in prigione. Federico decise allora di far giungere una flotta dalla Germania per attaccare Costantinopoli e di chiedere la benedizione del papa per una crociata contro i bizantini. Dopo qualche esitazione allora, l’imperatore bizantino rilasciò gli ostaggi e fece la pace con il Barbarossa. Ma a questo punto l’autunno era così inoltrato che si decise di aspettare la primavera e si stanziarono ad Adrianopoli durante l’inverno. Nel marzo 1190 si misero in marcia ma, arrivati nella terra del sultano, arrivarono cavalieri turchi che iniziarono a infliggere perdite agli uomini in marcia. Il 18 maggio i due eserciti si scontrarono fuori Iconium: le truppe di Qutb ed-Din, figlio del sultano, erano state rinforzate da nomadi turcomanni ma Federico ottenne comunque una grande vittoria. Quando il sultano seppe tutto ciò si recò a scusarsi per il figlio e a far pace con i tedeschi. All’inizio di giugno entrarono nel territorio controllato dai cristiani armeni. Federico, insieme ad un piccolo gruppo di amici e guardie, giunse sulle rive del fiume Salef prima degli altri e il vecchio imperatore fu o sbalzato dal cavallo nel fiume rimanendo stordito o forse fu trascinato dalla corrente mentre cercava di bere; la cosa certa è che annegò. La sua morte fu un colpo violento per i suoi seguaci e molti tornarono a casa. Il figlio di Federico cercò di condurre quanto era rimasto dell’esercito in Siria, ma venne preso da una febbre che gli impedì di proseguire. Mentre attraversavano la Siria trasportando le spoglie del loro territori tra Beit Nuba e Gerusalemme. Per tre settimane l’esercito rimase fermo insofferente, fino al 20 giugno, quando al campo giunse notizia dell’avvicinarsi di una carovana proveniente dall’Egitto con provviste per Saladino e Riccardo con i suoi crociati si diressero per catturare i musulmani e tutto ciò che trasportavano. La quantità di quel bottino bastò per rallegrare gli uomini e rese la loro delusione meno amara quando Riccardo decise di annullare l’attacco a Gerusalemme e tornare a Giaffa. Fallita la spedizione contro la città Santa riprese i negoziati di pace ma Saladino non era intenzionato a far includere Ascalona, ricostruita da Riccardo, in Outremer. Il 27 luglio, poi, Saladino sferrò un attacco contro Giaffa e dopo tre giorni i cristiani si arresero. Saputo dell’avvenimento, Riccardo, che si era spostato ad Acri per tornare in patria, raggiunse l’esercito e lanciò un violento attacco contro gli uomini di Saladin, riuscendo a riconquistare la città. Saladino decise di attaccare allora il re inglese prima che l’esercito crociato principale gli venisse in rinforzo. La notte del 4 agosto guidò l’esercito musulmano a distanza utile per l’attacco del campo cristiano, fuori le mura di Giaffa, e lo schierò per l’attacco da sferrare all’alba. Ma un genovese, uscito a passeggiare, sentì il rumore degli uomini e tornò a dare l’allarme così che, all’alba, Saladino trovò inglese, francesi e italiani pronti ad aspettarlo. Saladino rimase così colpito dal coraggio del suo avversario che quando il cavallo del re inglese morì ordinò a uno dei suoi servi di portare una coppia di cavalli, con la bandiera di tregua, per darli a Riccardo con i suoi complimenti. Verso sera i musulmani erano stremati e il sultano diede l’ordine della ritirata. Poco dopo la battaglia, Riccardo si ammalò e il due settembre, con il pensiero di dover tornare presto in patria a controllare i complotti del fratello, firmò un trattato di pace con Saladino della durata di cinque anni. Ai cristiani andavano le città costiere che giungevano fino a Giaffa, ma non Ascalona che doveva essere di nuovo demolita. I pellegrini dovevano avere libero accesso ai luoghi santi di Gerusalemme, Betlemme e Nazaret. Per quanto riguarda i risultati, la spedizione mancò l’obiettivo finale della riconquista di Gerusalemme. Fornì tuttavia ai franchi un controllo sufficientemente saldo del litorale e un territorio indipendente dal punto di vista economico. Cipro, Acri e Tiro in mani cristiane erano altrettante teste di ponte per le future crociate. Ripresosi dalla malattia, Riccardo salpò da Acri il 9 ottobre 1192. La sua nave naufragò nei pressi di Aquileia, in territorio veneziano. Cerco di sfuggire all’attenzione del duca Leopoldo, a lui ostile ma, passando per Vienna, venne riconosciuto e fatto prigioniero fino alla primavera del 1194 quando tornò in Inghilterra dopo aver pagato un enorme riscatto. Non vi rimase molto perché presto passò in Francia a difendere i suoi possedimenti feudali, fino al 1199 quando rimase ferito da una freccia e morì poco tempo dopo. Saladino era già morto a Damasco il 3 marzo 1193, a 54 anni, poco dopo la partenza di Riccardo. La quarta crociata fu un’idea di papa Innocenzo III, eletto nel 1198. Il motivo che lo spingeva a far questo era in parte un vero desiderio di aiutare i cristiani d’Oriente ma, in parte, perché desiderava ricostruire il Regno Latino e la Chiesa di Gerusalemme affinché lì fosse nuovamente asserita l’autorità di Roma. Gli avvenimenti di Roma del maggio 1212 mettono in luce il modo di pensare di Innocenzo e forniscono una dimostrazione della sua concezione di società cristiana come una collettività pronta ad agire in nome di Dio per sconfiggere i Suoi nemici – in questo caso la Spagna. La lotta contro i musulmani iberici era giunta a un punto critico: il papa sapeva che re Alfonso VIII di Castiglia coltivava il disegno di una battaglia campale nella Spagna meridionale, da combattersi la settimana dopo la Pentecoste, il 20 maggio. Innocenzo decise di organizzare un’enorme processione a Roma per garantire ai cristiani l’aiuto e la benevolenza del Signore. Innocenzo convocò tutta la popolazione di Roma per il 16 maggio: gli uomini, le donne e gli esponenti maschili del clero avrebbero dovuto raccogliersi in tre chiese diverse. Fu celebrata la messa e la processione si mise in movimento. La battaglia di Las Navas de Tolosa si concluse il 22 luglio 1212: la vittoria dei cristiani fu di cruciale importanza per il modo di pensare di Innocenzo III. Il papa lesse la lettera di Alfonso alla popolazione di Roma: il trionfo era la prova che la processione aveva avuto un’influenza determinante sull’esito finale. Quindi, se la spiritualità della popolazione riusciva a essere indirizzata adeguatamente, cioè con le preghiere di tutta la comunità, Dio sarebbe intervenuto in suo favore. Pur vedendo nella vittoria a Las Navas de Tolosa un elemento che dava nuovo vigore alla causa cristiana, Innocenzo III la considerò una ragione sufficiente per sospendere la crociata nella penisola e concentrarsi sulla Terra Santa. L’avanzata si fermò per un paio di decenni fino alla conquista delle isole Baleari (1235), di Cordova (1236), Valencia (1246) e Siviglia (1248). Protetto dalle montagne della Sierra Nevada, invece, il regno di Granada rimase in mani musulmane per più di due secoli, dimostrando che la Reconquista era lungi dall’essere completata. La nuova crociata doveva compiersi sotto l’autorità papale e nessun re doveva averci niente a che fare. Enrico VI di Germania aveva organizzato una sua crociata personale, giunta in Terra Santa agli inizi dell’estate del 1197, con il solo risultato di sfasciarsi nel settembre con la morte del re, nonostante la conquista di Tiro e Sidone. Il Re Giovanni in Inghilterra, succeduto al fratello, aveva ereditato le contese con Filippo Augusto di Francia; in Germania, Filippo di Svevia era occupato in una guerra civile con Ottone di Brunswick della casa dei Welf per il possesso della corona imperiale. Il papa aveva così via libera per reclutare il tipo di uomini che voleva per la crociata e inviò predicatori in Francia e Germania per persuadere i baroni a prendere la croce. Ci volle molto tempo per reclutare un numero di uomini sufficiente e, inoltre, c’era poco denaro per finanziarla. Dato che nessun nobile possedeva una flotta di navi, i crociati furono costretti a rivolgersi a Venezia, la quale chiese in cambio un’enorme somma di denaro. Nessuno sapeva dove trovarla ma si stipulò comunque un contratto e, durante l’estate del 1202 il nuovo esercito incominciò a raccogliersi a Venezia, a San Nicolò del Lido. Dopo la morte del Saladino, i suoi diciassette figli avevano iniziato a lottare fra loro per l’eredità e l’impero si era rapidamente disintegrato. Si considerava l’Egitto il punto più debole delle difese nemiche e i crociati concordarono che il tentativo andasse fatto sulle terre del Nilo. Ma i veneziani non erano entusiasti perché i loro ambasciatori stavano cercando di stipulare un accordo commerciale con il sultano, mentre il doge Enrico Dandolo stava mercanteggiando sul costo del viaggio con i crociati, senza dire loro che i suoi emissari si trovavano al Cairo. Quando i crociati gli dissero che non riuscivano a procurarsi l’intera somma, colse l’occasione e finse di essere contrariato e che non avrebbe fornito navi finché la somma non fosse stata pagata. Non potendo fare nulla, il doge impose allora le sue condizioni: affermò che avrebbe fornito le navi a condizione che prima di salpare per l’Egitto avessero preso per lui la città di Zara sulla costa dalmata. Gli zaratini erano stati sudditi di Venezia, ma si erano liberati dalla sua signoria. I veneziani erano da anni in guerra con il re d’Ungheria, nel cui territorio si trovava la città e volevano rioccuparla. Ma l’Ungheria era un paese cattolico e quando il pontefice seppe del piano lo proibì. Tuttavia, i crociati non si trovavano in condizione di discutere con il doge e perciò accettarono. La flotta salpò nel novembre 1202 e due giorni dopo fu sferrato l’attacco. La città cadde e fu saccheggiata dai crociati. La stagione era però ormai troppo inoltrata per imbarcarsi e i crociati passarono l’inverno a Zara. Quando papa Innocenzo seppe l’accaduto li scomunicò all’istante ma più tardi li perdonò, sapendo che non avevano avuto altra scelta, ma mantenendo la pena per i veneziani. Durante l’inverno Filippo di Svevia inviò a sua volta messi al doge con una proposta. Nel 1197 aveva sposato Irene, la sorella dell’imperatore bizantino Isacco, il quale si era dimostrato talmente incapace che il fratello Alessio lo aveva deposto usurpandogli il trono e gettandolo in prigione. Il figlio, anche lui di nome Alessio, era fuggito con la sorella Irene in cerca di rifugio. Filippo chiese allora al doge se fosse stato possibile, prima di andare in Egitto, di dirottare l’esercito crociato a Costantinopoli e mettere sul trono il cognato, Alessio, al posto dell’usurpatore. Appena fosse diventato imperatore, avrebbe poi pagato ai veneziani la somma dovuta dai crociati, rifornendoli di tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno per la campagna, e mettendo anche a disposizione truppe bizantine per la spedizione. Il doge accettò l’offerta ma alcuni crociati si rifiutarono e si diressero per proprio conto in Terra Santa. Tuttavia, la maggior parte, che non vedeva di buon occhio i bizantini (invidiavano le loro ricchezze, il fatto che vedevano come barbari gli occidentali, ecc.), accettò. Fu più difficile ottenere il consenso del papa ma gli venne detto che il nuovo imperatore avrebbe posto fine allo scisma tra chiesa ortodossa e chiesa di Roma. Quando Alessio raggiunse allora i crociati a Zara nell’aprile del 1203, gli fu dato l’ordine di salpare. Arrivarono a fine giugno ma i cittadini di Costantinopoli non diedero alcun segno di entusiasmo, come era stato detto loro; anzi, le speranze di entrare pacificamente in città di annullarono. Il 17 luglio i crociati presero, senza troppa difficoltà, la torre di Galata e si diressero sotto le mura di Costantinopoli. L’imperatore bizantino fuggì insieme alla figlia, trovando rifugio politico alla corte del sultano di Rum. Il cieco Isacco Angelo venne rimesso sul trono ed inviò un’ambasciata al figlio Alessio per dirgli che poteva perciò cessare i combattimenti. I crociati accettarono di andarsene solo quando Alessio fosse stato nominato co-imperatore col padre e i bizantini accettarono. Il primo agosto il ragazzo venne incoronato come Alessio IV Angelo nella chiesa della Santa Sapienza. Successivamente ordinò al clero di riconoscere la suprema autorità del Papa ma questo rifiutò e non c’era modo di obbligarlo a obbedire. Cercò di raccogliere il denaro per i veneziani ma non ve ne era abbastanza e fu costretto a chiedere al doge di attendere per il pagamento, tassando maggiormente la popolazione. Tutto ciò creò malumore nel popolo, aumentato anche dalla presenza dei crociati fuori le mura che disturbavano il vivere quotidiano degli abitanti di Costantinopoli. A febbraio, allora, la gente si sollevò e Alessio venne deposto e strangolato. Un nobile di nome Murzuflo s’impossessò del trono mentre il vecchio Isacco Angelo morì di dolore nella prigione dove era stato nuovamente gettato. Era chiaro che, oltre una rivolta contro Alessio, era una rivolta antioccidentale e antipapale, e perciò i crociati decisero di attaccare la città. Contemporaneamente all’organizzazione delle loro risorse, i crociati pianificarono anche la futura divisione della loro conquista. I comandanti delinearono il «Patto di Marzo», in cui fu concordato che il bottino doveva essere messo in comune e i primi introiti sarebbero serviti a pagare il rimanente debito con i veneziani. La futura identità dell’imperatore latino e del patriarca doveva essere decisa da un comitato di sei francesi e sei veneziani, decisione che rispecchiava la parità dell’impegno dispiegato dai due gruppi. Un altro comitato avrebbe assegnato le terre dell’impero di Bisanzio ai conquistatori anche se, naturalmente, ai veneziani sarebbe stata garantita una posizione di preminenza economica. La necessità di dare stabilità al nuovo impero venne riconosciuta con la decisione di rimandare il viaggio in Terra Santa al 1205; infine tutti giurarono di impedire violenze contro le donne e i religiosi durante e dopo la conquista. I bizantini misero in mare le loro galee e combatterono per impedire ai crociati di raggiungere le mura, ma senza successo. Una volta aperta una breccia nelle mura esterne, la resistenza crollò e nel tardo pomeriggio la città era in mano ai crociati. Mentre la conquista dei palazzi fu relativamente disciplinata, il grosso dell’esercito ignorò completamente il solenne giuramento di comportarsi con moderazione. Per tre giorni percorsero Costantinopoli violentando, uccidendo, saccheggiando ovunque. Incendi si propagarono per interi distretti. I veneziani ebbero la parte del leone; un francese, chiamato Baldovino di Fiandra, fu eletto imperatore. Fu incoronato con il rito latino il 16 maggio 1204. Gran parte della Grecia e di altre tentò, senza successo, di convertire la Bosnia al cattolicesimo romano. Nel 1225 Papa Onorio III incoraggiò gli Ungheresi a muovere una crociata contro il Banato di Bosnia. Questa finì con un fallimento dopo che i crociati vennero sconfitti dall'impero Mongolo nella battaglia di Mohi. Nel 1234 Papa Gregorio IX incoraggiò nuovamente una crociata, ma anche questa volta si risolse in una disfatta, quando gli Ungheresi vennero respinti dai bosniaci. I primi crociati avevano sognato di diventare soldati di Cristo e avevano creduto di essere chiamati da Dio a liberare i santi luoghi dagli infedeli. Quando Innocenzo II escluse i re dalla sua crociata, lo aveva fatto perché credeva che la sua autorità spirituale sarebbe stata un’arma più potente contro i musulmani del potere secolare dei sovrani europei. Altri andarono oltre questa idea del pontefice, predicando la forza dei poveri e dei puri di spirito, tanto che venne presa seriamente l’idea di una crociata di bambini, ritenuti potessero addirittura operare miracoli. Nella primavera del 1212 un pastorello di circa dodici anni chiamato Stefano si presentò con un folto gruppo di ragazzini nell’Abbazia di Saint-Denis, dove re Filippo Augusto teneva la sua corte, affermando di avere una lettera datagli da Cristo in cui gli era ordinato di predicare una nuova crociata. Il re naturalmente rifiutò ma Stefano viaggiò in giro per la Francia predicando e promettendo di condurre i figlioli di Dio in Terra Santa. A fine giugno, circa trentamila bambini si ritrovarono a Vendome e, da lì, Stefano condusse la sua crociata a Marsiglia. La maggior parte aveva meno di dodici anni e il viaggio fu lungo e faticoso; alcuni morirono in marcia, altri invece tornarono a casa. A Marsiglia furono ben accolti e il mattino seguente due mercanti del luogo si offrirono di fornire sette navi per portarli, senza ricompensa, in Terra Santa. Secondo la tradizione i due si chiamavano Ugo il Ferro e Guglielmo il Porco. I bambini salparono e di loro non si seppe più nulla per diciotto anni. Non molto dopo la partenza di Stefano, un ragazzo tedesco di nome Nicola, della Renania, seguì il suo esempio, incominciando a predicare una crociata ai bambini tedeschi. Anche lui promise che il mare si sarebbe prosciugato davanti a loro e che Dio li avrebbe condotti in trionfo alla Terra Santa, convertendo i musulmani in cristiani. In poco tempo una grande folla di giovani si riunì a Colonia e si divisero in due gruppi prendendo vie diverse. Nicola guidò il gruppo maggiore attraverso la Svizzera e da lì nell’Italia settentrionale. Fu un viaggio terribile dove molti morirono lungo la strada. Quanti giunsero a Genova furono trattati gentilmente e quando ancora una volta il mare non si aprì miracolosamente davanti a loro, molti accettarono l’offerta delle autorità civiche di restare come cittadini genovesi. Nicola rifiutò e continuò il suo viaggio con il resto dei seguaci a Pisa, poi a Roma, dove il papa li invitò a tornare a casa. Solo pochissimi vi riuscirono e forse anche lo stesso Nicola non sopravvisse. Il padre fu sequestrato da alcuni genitori dei bambini che lo accusarono di aver incoraggiato il figlio e venne poi impiccato. Il secondo gruppo di bambini si diresse ad Ancona e successivamente a Brindisi, dove il mare ancora non volle aiutarli. Anche se alcuni si imbarcarono per la Terra Santa, la maggior parte iniziò in viaggio verso casa, dove solo pochi riuscirono a tornare. Nel 1230 un prete giunse in Francia raccontando che da giovane aveva fatto parte di un piccolo numero di ecclesiastici che avevano accompagnato i bambini quando erano salpati da Marsiglia. Non erano giunti molto lontano, poiché, al largo della costa della Sardegna, due delle navi avevano fatto naufragio e tutti quelli a bordo risultarono dispersi. Le altre cinque navi riuscirono a superare la tempesta ma vennero circondate, dopo due giorni, da navi da guerra saracene giunte dall’Africa. I due mercanti di Marsiglia avevano avvisato i turchi della loro venuta e molti bambini vennero venduti come schiavi in Algeria, altri in Egitto ed altri ancora a Bagdad dove diciotto di loro, che avevano rifiutato di convertisti all’Islam, erano stati martirizzati. L’uomo che raccontò i fatti era sfuggito al destino perché, come sacerdote, era persona istruita e il governatore dell’Egitto lo aveva preso a casa sua, insieme ad altri, come interpreti e insegnanti, concedendogli di praticare la loro religione. Alla fine a questo fu permesso di tornare a casa per riferire la loro storia. Mentre i bambini facevano il loro tentativo, papa Innocenzo progettava un’altra crociata. Nell’aprile 1213 emanò la bolla Quia maior: sosteneva che, se l’avesse voluto, Dio avrebbe potuto salvare Gerusalemme ma, a causa dei peccati degli uomini, egli aveva inviato una prova che ne saggiasse la fede, offrendo un’occasione di salvezza a coloro che avessero combattuto per lui. Per gli individui che rifiutavano quell’offerta, era destinata invece la dannazione eterna. Per far convergere sulla crociata l’attenzione spirituale di tutta la Chiesa cattolica, Innocenzo organizzò poi il IV Concilio Lateranense, che ebbe luogo per parecchi giorni di seguito nel novembre 1215. Il papa ordinò ai crociati di radunarsi a Brindisi nel giugno 1217 ed espresse il desiderio di essere personalmente a capo della spedizione, ma non visse tuttavia abbastanza a lungo per poter vedere la realizzazione del suo progetto: morì il 16 luglio 1216. Gli successe Onorio III che si dedicò anch’egli all’idea di una nuova crociata. Ungheria e Austria risposero all’appello, mentre la Francia era occupata alla guerra contro gli albigesi. Il re ungherese e il duca Leopoldo VI d’Austria presero la croce con l’intento di unire i loro eserciti ma, ancora una volta, si presentò la difficoltà di trovare navi: Venezia, Genova e Pisa si rifiutarono e Leopoldo, alla fine, trovò messi propri di trasporto. Giunsero in Outremer nel settembre 1217 e li raggiunse re Ugo di Cipro, figlio di Amalrico II e succeduto a Guido, morto senza eredi. I franchi d’Outremer non furono molto soddisfatti di vederli perché, dalla morte di Saladino, i musulmani erano stati troppo occupati per pensare alla guerra, sia a causa dei litigi per il controllo dell’Impero, sia per i commerci intrattenuti con i vicini cristiani. Entrambe le parti non desideravano buttare via il benessere creato dalla pace in cambio delle dubbie glorie della guerra. Al tempo della quinta crociata il re di Gerusalemme era Giovanni di Brienne, che li accolse benevolmente e suggerì una campagna unita sotto il suo comando. Sebbene l’esercito non fosse molto numeroso, fu il più formidabile che i cristiani avessero mai riunito dai tempi della terza crociata. Al-Adil, fratello di Saladino, agì ritirandosi e l’esercito crociato ottenne perciò molto poco. Presa e saccheggiata la città di Beisan, si diresse senza una meta precisa verso nord per ritornare infine ad Acri. Il solo vero risultato di questa inutile campagna fu la cattura di una grossa giara di terracotta che credevano essere uno dei vasi d’acqua usati al matrimonio di Cana. La reliquia andò al re Andrea d’Ungheria. Durante l’inverno intrapresero due altri incursioni in territorio bizantino senza però riuscire a ottenere niente. Il re d’Ungheria ricevette poi la notizia che Boemondo IV di Antiochia avrebbe sposato la sorellastra di Ugo di Cipro a Tripoli e partì per unirsi agli invitati, ma pochi giorni dopo capodanni Ugo morì improvvisamente. Il re tornò allora ad Acri e, presi accordi con il sultano di Rum, per attraversare tranquillamente il suo territorio, ritornò in patria con il suo esercito. Leopoldo rimane in Outremer, ma anche con il suo aiuto i franchi non erano abbastanza forti per sferrare un attacco contro i musulmani e passarono l’inverno a rafforzare le fortificazioni di Cesarea, mentre i templari costruivano un castello ad Athlit, sulla costa. Solo con l’arrivo, nella primavera del 1218, di un altro gruppo di crociati, specialmente olandesi e tedeschi, si pensò ad una nuova spedizione. L’obiettivo fu l’Egitto. Se si fosse riusciti a prenderla, tutta la Palestina meridionale, compresa Gerusalemme, sarebbe caduta in mano cristiana. Il piano consisteva nel prendere il porto di Damietta e lì attendere i rinforzi dell’Europa. Leopoldo d’Austria, i capitani ungheresi che non erano tornati in patria, e i Gran Maestri degli ordini militari, si posero sotto il comando di Giovanni di Brienne. L’esercito sbarcò sulla costa occidentale del Nilo e riuscirono ad avere la meglio. Alla notizia, al-Adil morì per un collasso. I franchi decisero comunque di non lanciare un attacco immediato contro la città e mentre, invece di assediare il luogo, sistemavano l’accampamento, una parte di loro decide di lasciare l’Egitto per tornare in patria. Con l’arrivo dell’inverno e delle piogge la vita si fece più difficile, e il morale peggiorò sempre di più. Giunse anche un esercito papale, comandato però dal cardinale Pelagio, a cui il papa aveva riconosciuto ampi poteri e non ci volle molto perché l’esercito si dividesse in due fazioni ostili. A febbraio Pelagio ordinò di attaccare le truppe del sultano al-Kamil, nipote di Saladino ma giunse la notizia che quest’ultimo era fuggito con il suo esercito, forse per una cospirazione contro di lui da parte di qualche emiro. I crociati allora completarono l’isolamento di Damietta, che fu tagliata fuori da ogni possibilità di rifornimenti. Al-Kamil riprese il potere e, nel mentre che i combattimenti continuavano, il freddo prima e il caldo sole poi, portarono molte malattie. Fu in questo periodo che Francesco d’Assisi fece visita i crociati, il primo di molti francescani a viaggiare in Oriente. Chiese il permesso di visitare il sultano e fu invitato al campo musulmano attraverso le file cristiane con la bandiera di tregua. Fece appello al sultano di farsi cristiani, che rifiutò immediatamente, ma che in cambio gli offrì doni che vennero rifiutati. Venne poi ricondotto al campo cristiano. Si valuta che quasi il 20% della popolazione egiziana fosse di fede copta, una forma di cristianesimo monofisita, che negava cioè la doppia natura di Cristo, riconoscendogli solo quella divina, diviso dalla Chiesa d’Occidente da una essenziale questione teologica. Alcuni membri della corte papale nutrivano la speranza di una grande alleanza cristiana contro le forze dell’islam: Giacomo di Vitry scrisse da Acri nel 1217 che: «Tra i cristiani d’Oriente, fino alle lontane terre del Prete Gianni, ci sono molti re che, alla notizia dell’arrivo della crociata, accorrono in aiuto e dichiarano guerra ai saraceni». Il Prete Gianni era una figura leggendaria che si pensava che fosse a capo di un impero cristiano in Oriente, un’idea che si basava sulle reminiscenze dell’opera di evangelizzazione condotta dall’apostolo Tommaso in India. A invasione dell’Egitto già iniziata, i crociati presero contatto con i copti e verso la metà del 1219 Pelagio ricevette una profezia, scritta in arabo. Si trattava di una sorta di trattato nestoriano del IX secolo aggiornato fino a includere la conquista di Gerusalemme da parte di Saladino, seguito dalla profezia secondo cui un esercito proveniente da ovest, guidato da un uomo alto con il volto scavato, avrebbe conquistato Damietta e l’Egitto. Sarebbe inoltre arrivato un re dalle montagne a conquistare Damasco, mentre il re degli Abissi avrebbe distrutto La Mecca. Gli «Abissi» significava abissini: il potente regno cristiano d’Etiopia. Pelagio pensò di essere lui quell’uomo; fece allora tradurre il documento in latino e lo mandò in Europa. Verso la fine dell’estate l’Egitto fu minacciato dalla carestia e questo obbligò il sultano a chiedere la pace. La chiese offrendo di cedere Gerusalemme, la Palestina e la Galilea, e di ritornare la Vera Croce se i cristiani si fossero ritirati dall’Egitto. Pelagio, appoggiato dagli ordini militari, tuttavia rifiutò persino di prenderla in considerazione perché non disposto a venire a patti con i musulmani. Il 5 novembre 1219 Damietta cadde in mano cristiana. Gli egiziani si ritirarono a monte del Nilo, ad al-Mansura. Nel 1220 Giovanni di Brienne ebbe un litigio con Pelagio sul futuro della città conquistata e salpò per Acri; i gruppi di diverse nazionalità stavano quasi per combattere tra di loro fin quando non giunsero alcuni tedeschi al comando del duca di Baviera e, nel 1221, decisero di attaccare finalmente il nemico. In quel periodo il Nilo era in piena e i crociati si posizionarono in una zona dove i musulmani avrebbero potuto inondarli. Pelagio fu allora costretto a chiedere la pace, che venne concessa solo alle condizioni del sultano: abbandonare Damietta in cambio di una tregua di otto anni e della restituzione della Vera Croce. Quest’ultima non fu comunque trovata e la quinta crociata terminò con una ritirata dei crociati ad Acri. frattempo, fecero incursioni nel territorio nemico in Palestina. Nel frattempo, fecero incursioni nel territorio nemico in Palestina. In una di queste scorrerie, il conte di Bretagna raccolse un ricco bottino. Un nutrito gruppo di nobili condotto, invece, dal conte di Bar e dal duca di Borgogna attraversarono il territorio egiziano presso Gaza. Cavalcarono di notte, fermandosi poi a riposare e ad aspettare l’alba. Sconsideratamente, i crociati si erano accampati in una stretta valle sabbiosa, fattore che avrebbe compromesso la capacità di manovra dei cavalli. I perlustratori musulmani ne avevano individuato la presenza e, alle prime luci dell’alba del 13 novembre, vennero attaccati. I crociati cercarono di resistere, ma presto furono sopraffatti dalla fatica e dalla superiorità numerica degli avversari. Molti cavalieri furono fatti prigionieri e mandati nelle principali città di Egitto, dove furono fatti sfilare per le strade e bersagliati di escrementi di animali. Pochi mesi dopo, fu estromessa anche la guarnigione della Torre di Davide a Gerusalemme. Nella primavera del 1240, preoccupato dalla forza dei suoi correligionari in Egitto, il sovrano di Damasco cercò alleanza con i franchi. Tebaldo decise di ricorrere alla diplomazia e stipulò un trattato con cui riprendeva il controllo dei castelli di Beaufort e di Sidone e si assicurò il riconoscimento dei diritti cristiani sulle terre a ovest del fiume Giordano, anche se in realtà il territorio era ancora in mano al governante musulmano di Transgiordania. Tebaldo cercò di garantirsi anche il rilascio dei prigionieri della battaglia di Gaza, attraverso una tregua con il sultano ayyubide di Egitto, ma a questa si opponevano gli ordini militari, che non intendevano trattare con lui. Altri crociati occidentali volevano vendicarsi dei musulmani, incuranti del pericolo che facevano correre ai compagni prigionieri. Tebaldo si rese conto di avere perso il sostegno della maggioranza dell’esercito. Nel settembre del 1240 ritornò in Francia. In poche settimane i prigionieri furono comunque liberati e, nel frattempo l’esercito di Riccardo di Cornovaglia, era giunto in Terra Santa. Come Tebaldo, Riccardo preferì tentare un approccio diplomatico. La tregua precedente fu riconfermata e Riccardo decise di rifortificare il castello di Ascalona, che aveva un’ottima posizione strategica, prima di ritornare in Occidente nel maggio del 1241. Malgrado gli scarsi successi militari, la crociata dei Baroni riuscì a sfruttare le divisioni all’interno del Medio Oriente musulmano sulla scorta dell’impresa di Federico II e portare il regno di Gerusalemme alla più grande estensione mai raggiunta. Il 17 ottobre 1244, la disfatta subita però dall’esercito cristiano nella battaglia di La Forbie segnò un colpo senza eguale per la causa franca. I chorasmi erano un gruppo tribale nomade turco spinto verso occidente dall’invasione mongola della Persia. Questi guerrieri musulmani presero contatto con il sultano del Cairo che promise loro sostegno in caso di un’invasione della Terra Santa. Nell’estate del 1244, i chorasmi penetrarono nel Levante franco e massacrarono migliaia di cristiani. Appena Gerusalemme venne cinta d’assedio, la maggior parte degli abitanti fuggì, mentre i sacerdoti del Santo Sepolcro rifiutarono di abbandonare la loro chiesa. Mentre il clero celebrava la messa, i chorasmi irruppero nell’edificio e presero a massacrare i presenti. Poi gli invasori scoperchiarono le tombe dei re di Gerusalemme e, alla ricerca di tesori, dispersero le ossa di eroi delle crociate come Goffredo di Buglione e re Baldovino I. La forza dei chorasmi indusse i musulmani di Damasco e di Homs ad allearsi con i franchi che rimanevano. La coalizione levantina incontrò il nemico, che aveva ottenuto rinforzi dall’Egitto, a La Forbie, presso Gaza. Di fronte a un esercito numericamente molto superiore, gli alleati dei cristiani furono rapidamente scacciati dal campo ed i franchi furono sopraffatti. I cristiani superstiti si stanziarono allora lungo la costa. Il patriarca Roberto di Gerusalemme inviò, allora, un’ambasceria in Europa per invocare aiuto. L’interminabile tensione tra il papato e Federico II escludeva il coinvolgimento tedesco, Enrico III d’Inghilterra era troppo spaventato dai francesi per collaborare e gli spagnoli erano occupati nella loro Reconquista. Luigi IX di Francia fu pronto, invece, a prendere la croce, anche come ringraziamento per la sua guarigione da una grave malattia. Il sovrano francese provvide a lasciare tutto in ordine nel suo regno; in particolare, stipulò la pace con Enrico III d’Inghilterra per impedire un’invasione durante la sua assenza e, per la reggenza in sua assenza, scelse sua madre Bianca di Castiglia. Nel 1238 Luigi aveva acquistato la corona di spine portata da Cristo durante la crocifissione, frammenti della Vera Croce, la santa spugna e frammenti della Sacra Lancia, tutti venduti dall’imperatore latino di Costantinopoli, che era senza un soldo. Lo straordinario valore degli oggetti suggerì a Luigi la costruzione di un monumento degno di ospitarli, la Sainte Chapelle di Parigi. Luigi IX, negli anni, divenne un uomo profondamente religioso. Digiunava regolarmente, assisteva ogni giorno a due messe; si circondava in ogni occasione di ecclesiastici che cantavano le ore. Tuttavia, a volte, aveva dei terribili scatti d’ira e diventava intollerante con chi considerava malvagio. Luigi fece vela con la flotta per Cipro, nel 1248, e qui il re e i nobili più importanti decisero come loro obiettivo la conquista d’Egitto. Poco prima di Natale, giunsero due messi del comandante mongolo di Mosul, con una lettera piena di complimenti e di appoggio alla crociata cristiana. Luigi inviò immediatamente una sua ambasciata alla corte del gran khan, con il compito di cercare un’alleanza militare. Vennero accolti gentilmente e tornarono con una lettera in cui si suggeriva che Luigi inviasse annualmente doni al gran Khan. Il re rimase deluso ma non perse le speranze per il futuro. Alla metà di maggio si imbarcarono per l’Egitto ma, a causa di una tempesta, il re arrivò con pochi compagni, prima che gli altri riuscissero a raggiungerlo. Sulla spiaggia trovarono i soldati musulmani e Luigi sbarcò con i suoi pochi uomini riuscendo a respingere la cavalleria egiziana. La popolazione di Damietta, presa dal panico, lasciò la città e, quando giunsero i franchi, la trovarono deserta. Luigi non aveva alcuna intenzione d’invadere l’Egitto mentre il Nilo era in piena, perciò rimasero a Damietta ma presto venne meno il cibo e le malattie fecero i loro morti. A metà novembre si incamminarono verso il Cairo; a loro si erano aggiunti dei crociati inglesi, guidati dal conte di Salisbury, e francesi, al comando del fratello minore del re, Alfonso di Poitiers L’anziano sultano Ayub morì dopo tre giorni e la sultana, un’armena nata schiava, nascose la morte del marito. Quando si seppe la realtà, la moglie ebbe il potere così saldamente in mano che si evitò qualsiasi tipo di crisi. Luigi ordinò di accamparsi sulla riva del fiume, dalla parte opposta della città di Mansura. Per settimane cercarono di costruire una diga attraverso il fiume, su cui l’esercito potesse passare, ma con gli egiziani che li attaccavano non riuscirono a fare molto. Un egiziano, però, si offrire di mostrare ai crociati un guado attraverso il canale Bahr ad-Saghir, se gli avessero pagato cinquecento bisanti in anticipo. L’uomo mantenne la parola e il giorno dopo il re guidò l’esercito attraverso il fiume. Nonostante il divieto di attaccare prima di aver ricevuto ordine, Roberto di Artois, fratello di Luigi, guidò una carica di circa quattrocento cavalieri contro l’accampamento egiziano. All’inizio ebbero successo ma, invece di attendere i rinforzi, si lanciò dietro agli egiziani in fuga ma, appena giunti nelle strade di Mansura, divennero facili bersagli per i nemici. Guglielmo di Salisbury, Roberto di Artois e la maggior parte dei loro seguaci vennero uccisi. I mamelucchi attaccarono ben presto anche il resto dell’esercito, ma furono trattenuti e Luigi ordinò un contrattacco. La battaglia si protrasse per tutto il giorno e, alla fine, entrambi le parti pretendevano di aver vinto. Ma, con il passare delle settimane divenne più chiaro che i crociati correvano il pericolo di perdere la guerra. Alla fine di febbraio, il figlio ed erede del sultano, Turanshah, giunse al campo egiziano ed organizzarono immediatamente un blocco sui tratti del Nilo. La maggior parte delle barche che portavano provviste a Luigi furono prese o distrutte e il cibo cominciò a scarseggiare. In aprile, Luigi fu costretto ad ammettere la sconfitta e iniziò la ritirata. I musulmani si posero allora al loro inseguimento. Dopo il primo giorno di marcia Luigi s’ammalò a tal punto da non reggersi in piedi. Il re e tutto l’esercito vennero fatti prigionieri e il giovane sultano fu attento a far giustiziare solo persone senza importanza, risparmiando tutti colore che un giorno avrebbero potuto essere riscattati per grandi somme di denaro. Ben presto però il giovane sultano, ultimo discendente di Saladino, si inimicò i mamelucchi, i quali decisero di ucciderlo con estrema brutalità. Al suo posto prese il potere un mamelucco di grado elevato e alla fine si giunse a un accordo: Luigi promise di pagare il riscatto di 400.000 lire tornesi per sé e per i nobili e di cedere Damietta a condizione che tutti i prigionieri fossero rilasciati. Appena fu rilasciato, Luigi tornò ad Acri dove annunciò di rimanere in Outremer. Nel mentre, il mondo musulmano fu rigettato nel caos poiché la rivoluzione dei mamelucchi in Egitto e l’assassinio del sultano non erano state ben accolte dagli altri membri della dinastia yubita, che governavano a Damasco. Luigi, alla fine, si alleò con i suoi precedenti nemici dell’Egitto e, in cambio, tutti i rimanenti prigionieri furono rilasciati, e Luigi poté cessare il pagamento di metà del riscatto promesso. Dopo quattro anni, fu obbligato a tornare in patria; salpò da Acri nel 1254. Nel 1267 si sentì abbastanza libero per preparare un’altra avventura in oriente, ma solo nel 1270 fu pronto a salpare. Era deciso a fare ammenda per la disfatta della sua prima crociata. In quel periodo, tuttavia, la salute del re era ormai precaria. Considerata la profonda religiosità del re, gli ordini mendicanti esercitarono questa volta una profonda influenza sulla campagna: il desiderio di convincere i mongoli, i musulmani e i cristiani orientali ad abbracciare il cattolicesimo fu un aspetto fondamentale dei rapporti tra l’Europa e il resto del mondo. Fu persuaso da suo fratello, Carlo d’Angiò, a fare vela contro l’emiro di Tunisi, dopo che gli era stato detto che il sovrano era pronto a convertisti alla fede cristiana. Nonostante vari pareri contrari, Luigi decise di andare e diciotto giorni dopo, al culmine dell’estate africana, giunsero a Cartagine. Le epidemie esplosero nelle navi cristiane e, quando il conte d’Angiò giunse una settimana dopo, Luigi era già morto. Con l’avvento al potere dei mamelucchi in Egitto i giorni dei franchi in Terra Santa erano contati. In origine erano schiavi turchi comperati quand’erano bambini e allevati come soldati. Giungevano in età virile senza conoscere legami familiari e senza alcun sentimento patriottico, ma completamente dediti al servizio dei loro padroni. Molti, quando arrivavano all’età per poter combattere, ottenevano la libertà, ma la loro educazione li avevano già legati saldamente al padrone; erano un corpo di guardia personale sulla cui fedeltà poteva fare totalmente affido. Con il crescere del loro potere crebbe anche il pericolo che il governo passasse nelle loro mani. Dieci anni dopo l’assassinio di Turanshah un altro mamelucco divenne sultano, Rukn ad-Din. Quasi subito dopo la partenza di Luigi il Santo, una guerra civile era scoppiata in Outremer per il possesso di un monastero dedicato a San Saba, che si trovava ad Acri, su una collina tra il quartiere veneziano e quello genovese. I pisani parteggiarono per i veneziani e così i templari; gli ospitalieri e uno o due dei nobili più potenti in Terra Santa, per i genovesi. Ci furono sanguinose battaglie, tra le flotte italiane rivali e scontri per le poche città rimaste in mano franca. Mancava un governo centrale forte. Poco dopo la partenza del re francese, morì il figlio di Federico II; il figlio di due anni divenne il capo della casa Hohenstaufen e fu acclamato re Corrado III di Gerusalemme. Ma il re, naturalmente, non prese possesso del regno e l’Outremer fu lasciata senza un capo. I nobili cercarono di fare del loro meglio ma erano incapaci di controllare le diverse fazioni che rivaleggiavano per la supremazia. Nel 1254 i franchi d’Antiochia fecero un’alleanza con i mongoli, che tenevano in considerazione la cristianità anche se con diverse usanze. L’alleanza era intesa contro i musulmani. Hulagu, fratello del gran khan e a capo della Persia, distrusse prima l’antica setta musulmana degli assassini e poi conquistò Baghdad. Proseguì poi contro i musulmani della Siria; il primo obiettivo fu Aleppo e gli I cristiani implorarono allora una tregua al sultano, per cercare di salvare Acri, e mandarono richieste d’aiuto ai cristiani in Europa. Qalawun acconsentì, e la tregua doveva durare dieci anni. I re di Francia e Inghilterra, intanto, erano ancora occupati nei loro affari interni e il papa riuscì a raccogliere un piccolo esercito di contadini italiani che, privi di lavoro, accettavano di andare ovunque sotto pagamento; i veneziani accettarono di trasportarli ad Acri a spese del papa. Quando questi giunsero ad Acri, gli abitanti avevano avuto tempo di riprendere le loro comuni abitudini di vita e di rinnovare i vecchi contatti con i vicini musulmani. I nuovi arrivati, vedendoli a stretto contatto con i loro nemici, s’infiammarono d’ira e, dopo circa tre settimane, esplosero le violenze per tutta la città, uccidendo chiunque sembrasse musulmano. Quando ebbe termine, alcuni degli agitatori furono arrestati e puniti, ma il danno era stato fatto. Nel 1290 Qalawun morì e salì al trono il figlio, al-Ashraf Khalil, che preparò l’attacco contro i cristiani. Quando, nel 1291, il nuovo sultano comparve sotto le mura di Acri, i franchi raccolsero ogni combattente per difendere la città. I genovesi erano assenti perché avevano concluso un trattato di pace separato con il sultano. I cristiani avevano un solo vantaggio, cioè dominavano il mare e le provviste giungevano regolarmente da Cipro. Così donne e bambini furono portati in salvo nell’isola. Le fortificazioni di Acri furono sottoposte a un bombardamento devastante e incessante. Il 18 maggio il sultano ordinò un assalto generale contro la città. Alla fine tutte le torri vennero prese e i musulmani si riversarono dentro. Le altre città franche subirono presto lo stesso destino: Tiro, Sidone, Beirut, Haifa. I templari non erano poi abbastanza numerosi per difendere i tre castelli isolati rimasti in mano loro; abbandonarono Tortosa e Athlit per difendere l’isola fortificata di Ruad. Riuscirono a difenderla, finché la persecuzione del loro ordine in patria, Francia, li costrinse ad abbandonare anche quest’ultimo, simbolico appiglio, al largo della costa di quella che era stata una volta Outremer (il 3 agosto 1291). Al-Ashraf era così determinato a impedire ai cristiani di ritornare in Terra Santa che fece distruggere tutto nella regione. Tuttavia, non riuscì a far scomparire le tracce da loro lasciatevi in duecento anni di occupazione. Molti dei loro castelli si ergono ancora sulle cime, oppure lo splendore delle chiese come quella del Santo Sepolcro o la Cattedrale di Tortosa. Il 13 ottobre 1307 funzionari reali fecero irruzione nei priorati e nelle commanderies dei templari in tutta la Francia e arrestarono centinaia di cavalieri1. Erano accusati di compiere rituali di iniziazione profani come negare la divinità di Cristo, considerato un falso profeta; sputare sulla croce; adorare falsi idoli e compiere altri atti omosessuali. Fu una mossa assai controversa da parte della corona francese, perché i templari erano i guerrieri più temuti e più potenti di tutto il mondo cristiano. La decisione di perseguire i templari può essere spiegata dalla personalità del loro principale avversario, Filippo IV detto il Bello, sovrano di Francia. Si pensava che, a causa delle costose guerre contro l’Inghilterra e le Fiandre, Filippo doveva ai templari ingenti somme di denaro: era forte il sospetto che, alla base di un’iniziativa tanto radicale, ci fosse la necessità di arricchire le sue misere finanze. Da decenni, i templari suscitavano critiche per la loro ricchezza e per la loro avidità. Il clero, in particolare, non vedeva di buon occhio i loro notevoli possedimenti terrieri nell’Europa occidentale e mal sopportava il fatto che fossero esenti dalle tasse ecclesiastiche. Nel 1307, il problema principale dei templari riguardava la percezione che di loro avevano i fedeli. Con l’espulsione dei cristiani da Acri nel 1291, molti ebbero la sensazione che l’ordine avesse fallito nel suo compito della difesa della Terra Santa. Preso di mira l’ordine, Filippo fece confiscare le proprietà dei templari e la corona diede inizio a una propaganda contro i cavalieri. Il re si era convinto della colpevolezza dei cavalieri e legittimò l’uso della tortura come mezzo per estorcere la confessione. Alcuni ammisero di aver rinnegato Dio, altri di esserci baciati sulla bocca. Tuttavia, il nuovo papa Clemente V cominciò a dimostrare impazienza per la grande interferenza di Filippo negli affari della Chiesa e, nel giro di poco tempo, sospese l’Inquisizione francese e mandò propri cardinali a interrogare i templari, i quali ritrattarono tutti le confessioni sostenendo che erano state loro estorte con la violenza. Diversamente da Filippo il Bello, re Edoardo II d’Inghilterra e re Giacomo II d’Aragona rifiutarono categoricamente di sostenere l’idea che i templari fossero colpevoli. Nel maggio del 1310, l’arcivescovo di Sens, uno stretto collaboratore della corona, convocò un concilio per giudicare le accuse mosse individualmente ai templari. Il 12 maggio ordinò che cinquantaquattro cavalieri, tutti dichiaratisi innocenti, fossero caricati su carri e bruciati vivi in un campo vicino al convento di Saint-Antoine fuori Parigi. Per qualche tempo la commissione papale riuscì a contenere l’ardore di Filippo, ma Clemente, sempre più debole, fu praticamente obbligato a chiudere la questione al Concilio di Vienne, nel marzo del 1312. Il 22 marzo Clemente tenne una riunione segreta in cui venne deciso di sopprimere l’ordine e il 3 aprile se ne diede l’annuncio ufficiale. I fratelli che avevano confessato ed erano stati assolti dovevano diventare cavalieri ospitalieri, mentre molti di quelli che avevano rifiutato di ritrattare furono imprigionati: le terre dei templari furono affidate agli altri ordini militari; nel corso di un paio d’anni, tuttavia, re Filippo riuscì a incamerare una grande quantità dei possedimenti templari in Francia. ULTIME CROCIATE: Agli inizi del XIV secolo alcuni mercenari catalani, provenzali e aragonesi iniziarono ad ingerirsi negli affari bizantini. Invitati, in un primo tempo, per combattere i Turchi, essi si insediarono in diverse regioni della Grecia e seminarono il terrore, sia fra i Cristiani sia presso i Musulmani. Parallelamente ai “Catalani”, i Cavalieri dell’Ospedale gerosolimitano si insediarono nell’isola di Rodi, che trasformarono in una testa di ponte nella lotta contro i Mamelucchi e i Turchi ottomani. Sotto il loro governo la città di Rodi, capitale dell’isola, venne dotata di mura e di una cittadella dove risiedeva il Gran Maestro dell’Ordine. Successivamente arrivò il momento delle spedizioni principesche, il cui scopo era – quello di proteggere quel che restava dell’impero bizantino di fronte alla crescente potenza dell’Impero ottomano. La dinastia ottomana, derivata dall’antico impero selgiuchide, conduceva una politica espansionista a danno dei piccoli principati turchi e dei regni cristiani d’Anatolia e dei Balcani. Conseguentemente, l’obiettivo della Crociata si evolse. Il recupero della Terra Santa rimase nei voti di tutti, ma una parte sempre crescente dei responsabili politici europei considerarono che era più urgente mettere un freno all’avanzata ottomana. Nel 1343 e nel 1345 papa Clemente VI lanciò due spedizioni allo scopo di difendere la città greca di Smirne. Il principe Umberto II il Vecchio, conte di Vienne, ottenne un successo militare, ma, inaspettatamente, si ritirò subito dopo aver conseguito la vittoria, consentendo, poi ai Turchi di riprendere la loro offensiva. Due decenni più tardi, nell’estate del 1366, il conte Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, sbarcò sotto i bastioni di Gallipoli sull’Ellesponto, la prima città occupata dai Turchi sul suolo europeo. La posizione era strategica poiché consentiva di impedire al sultano di alimentare i suoi sforzi nei Balcani. Ma per Amedeo l’impresa rivestiva anche un carattere personale: l’imperatore bizantino, Giovanni V Paleologo, non era altro che suo cugino e l’Acaia, una provincia bizantina del Peloponneso, venne rivendicata da un ramo cadetto della sua famiglia. Nel mese di agosto di quell’anno la città cadde nelle mani dei Savoiardi, ma nello stesso tempo si venne a sapere che l’imperatore era stato catturato dai Bulgari, anch’essi ortodossi, ma politicamente opposti ai Paleologhi. Amedeo VI decise quindi di dirigersi nel Mar Nero, assediò la città di Varna in Bulgaria e riuscì a far liberare il suo imperiale cugino. Dopo una serie di feste sontuose, il conte rientrò in Europa coperto di gloria ma anche alquanto indebitato. La Grecia non fu il solo paese che attirò i crociati occidentali. L’anno precedente alla spedizione savoiarda, il 1365, Pietro I di Lusignano condusse un attacco contro Alessandria, ricco porto egiziano. Questa volta, l’avversario fu lo Stato dei Mamelucchi, che controllava ancora la Terra Santa. Sostenuta da papa Urbano V, la spedizione del re di Cipro ebbe come scopo quello di mettere in crisi l’Egitto, per obbligarlo ad allentare la tenaglia sulla Palestina. La prima fase dell’operazione ottenne un significativo successo, in quanto il porto egiziano venne conquistato nell’ottobre del 1365 e messo al sacco. Dopo questo evento, i volontari al servizio del re si reimbarcarono e misero la vela verso l’Europa, mentre Pietro di Lusignano e i suoi consiglieri avevano previsto la condotta di una campagna molto più lunga. Temendo di essere accerchiati dalle truppe egiziane che stavano giungendo per dare man forte alla città di Alessandria, anche i Ciprioti furono poi costretti a reimbarcarsi e rientrare nel loro paese. Ancora una volta, i Crociati si ritirarono dopo una prima vittoria, senza preoccuparsi delle condizioni del paese che lasciavano dietro di loro. In generale, per la massa dei Crociati della fine del Medioevo la gloria personale contava quanto – se non più – della difesa del Cristianesimo o della salvezza dell’anima. Non mancava, peraltro, qualche moralista, come il militare francese Filippo de Mezieres o il poeta inglese John Gower. Entrambi non hanno mai smesso di ricordare che queste spedizioni condotte per la “vana gloria” miravano a uno scopo essenzialmente profano e, pertanto, non possedevano alcun valore per la causa sacra. Concretamente, imprese come queste furono destinate all’insuccesso e non servirono altro che a deteriorare i rapporti tra i Cristiani orientali e i vicini musulmani. A tale riguardo il Mezieres parlò con cognizione di causa, in quanto aveva partecipato ai combattimenti davanti a Smirne (1345) e ad Alessandria d’Egitto (1365) prima di dedicarsi alla scrittura e alla politica (fu consigliere di Pietro di Lusignano, quindi dei re francesi Carlo V e Carlo VI). Quello che egli propugnava, non è una nuova spedizione principesca, ma un’impresa molto più ampia, pianificata a lungo termine e coinvolgente tutte le nazioni cristiane. Per Filippo di Mezieres, la crociata non poteva avere successo se non avessero prevalso in Europa condizioni di pace, specialmente fra la Francia e l’Inghilterra. Fino a quando i combattimenti della Guerra dei Cento Anni furono nel loro parossismo, gli affari orientali passarono in secondo piano nell’agenda dei re e dei principi. Fatto comunque che non impedì alla guerra santa di essere, a volte, al servizio della politica nazionale. Questo fu proprio il contesto nel quale il re di Francia Carlo V e papa Urbano V tentarono di coinvolgere le compagnie di vecchi mercenari che seminavano il terrore nel regno dei gigli, nei momenti di tregua o di pace. Nel 1365 il connestabile Bertrand du Guesclin entrò in Spagna alla testa di “molti soldati delle compagnie, inglesi, guascone, bretoni, normanne e di altre nazioni, che si trovavano nel regno di Francia”. L’obiettivo dichiarato fu quello di combattere i Saraceni, ma, una volta attraversati i Pirenei, i Francesi si schiereranno sotto le bandiere del re d’Aragona contro il re di Castiglia, Pietro I il Crudele. Se quest’ultimo ricevette il sostegno del re mussulmano di Granada, egli fu molto legato con gli Inglesi. Du Guesclin liberò la Francia di una parte importante di briganti e mercenari e mettendo a mal partito un alleato dell’Inghilterra. Per contro, quando il papa negoziò con l’influente capo dei mercenari Arnaldo Regnaud de Cervole, soprannominato l’Arciprete (che darà la sua adesione alla crociata del Conte Verde), per inviarlo in Crociata e allontanarlo dal territorio di Avignone, l’impresa si risolse in un fallimento. Il capo mercenario avrebbe più semplicemente sviato il denaro ricevuto allo scopo di organizzare una spedizione per difendere l’Ungheria dai Turchi, prima di farsi assassinare da uno dei suoi uomini nel 1366. Alla fine del XIV secolo re Carlo VI di Francia e Riccardo II d’Inghilterra cercarono di concludere un accordo fra i loro Paesi. Uno dei compiti meno evidenti fu quello di fare accettare quest’idea alla percorse il mar Nero e il mar d’Azov prima di rientrare in Fiandra, dove supervisionava i cantieri navali del duca di Borgogna. Wallerano risalì invece il Danubio, visitò i paesi che si affacciavano sul fiume e fornì sostegno per un certo periodo al principe valacco Vlad III Dracula. Entrato in disaccordo con i Valacchi, Wallerano rientrò a sua volta in Fiandra e dettò i suoi ricordi allo zio cronista Jean de Wavrin. Nell’ottobre 1458, con la bolla Vocavit nos pius, il pontefice Pio II riunì a Mantova un congresso dei rappresentanti dei principi cristiani per intraprendere un’azione contro i Turchi Ottomani di Maometto II che avevano conquistato Costantinopoli e stavano per prendere possesso di tutto l’Impero bizantino. A tal fine, il 19 gennaio 1459 il papa istituì un nuovo ordine religioso cavalleresco, l’Ordine di Santa Maria di Betlemme, e il 18 giugno dello stesso anno partì per Ancona per condurre personalmente la crociata. Il 19 luglio, dopo un viaggio lentissimo a causa del caldo e delle infermità, il papa giunse finalmente nel capoluogo dorico, dove trovò circa cinquemila volontari, affluiti da varie parti d’Europa, ma solo due galee delle quaranta promesse da Venezia. Dal ducato di Borgogna, il 21 maggio 1464, partì dal porto di Ecluse una piccola flotta di una ventina di navi al comando dell’ammiraglio Goffredo di Thoisy e del suo secondo Jacquot de Thoisy. Sei vascelli vennero affidati ad Antonio di Borgogna. Il corpo di spedizione, dopo aver costeggiato le coste spagnole e fatto una sosta al santuario di San Giacomo di Compostela, ricevette la notizia della morte del papa, avvenuta il 15 agosto, e dell’annullamento della Crociata contro i Turchi. A questo punto, il duca richiamò in patria la piccola flotta, che rientrò in Fiandra. Il 29 maggio 1453 il sultano Mehmet II si impadronì di Costantinopoli dopo un lungo assedio e in tale occasione né i principi dei Balcani né i crociati venuti dall’occidente furono in condizione di proteggere la capitale bizantina. Le ultime isole e principati greci vennero conquistati uno dopo l’altro fino al XVI secolo. Sebbene punteggiata da successi che permisero ai loro autori di trarne gloria e fortuna, i crociati tardivi rallentarono al massimo la conquista ottomana dell’area. Per quanto riguarda le altre destinazioni, l’azione di cavalieri occidentali non fu quasi mai determinante. A un anno dal trionfo di Mehmet, il duca Filippo il Buono di Borgogna, uno degli uomini più potenti di tutta Europa, fece generose promesse di organizzare una crociata per riconquistare Costantinopoli e per scacciare gli infedeli. Teatro di questo evento fu la festa del Fagiano (febbraio 1454). Filippo convocò la nobiltà borgognona nella città di Lilla, nella Francia settentrionale, a un sontuoso banchetto per informarla dei suoi progetti. Due mesi dopo Filippo espresse di nuovo la sua intenzione a Ratisbona, dove parlò del suo dovere cristiano. Nell’estate 1456, tuttavia, l’entusiasmo del duca aveva cominciato a scemare. La clausola che legava la sua crociata alla partecipazione del re di Francia rimaneva lettera morta perché le rivalità nazionali avevano un ruolo sempre maggiore nel frustrare le speranze di una guerra santa. Mehmet, intanto, esaltato dal suo trionfo, avanzava verso la città di Belgrado nei Balcani. Malgrado i suoi recenti successi, la ferma resistenza delle truppe ungheresi guidate da Giovanni Hunyadi e dal frate francescano Giovanni da Capestrano tennero a bada l’avanzata dei turchi per tre settimane e poi in una battaglia campale li sconfissero clamorosamente. Questo successo fu fondamentale per resistere all’avanzata ottomana per altri cinquant’anni almeno. Intanto, nel corso dei secoli XIV e XV la penisola iberica rimase suddivisa in quattro regni cattolici: Aragona, Castiglia, Navarra e Portogallo, caratterizzati da una forte instabilità politica e dinastica. Nel 1469 l’erede al trono di Castiglia, Isabella, sposò Ferdinando, erede d’Aragona e si posero così le basi per l’unificazione dei due regni. La mutata situazione internazionale contribuì a creare un clima favorevole verso la decisione di Ferdinando e Isabella di cancellare definitivamente l’ultimo baluardo islamico in terra iberica: nel 1453, dall’altra parte del Mediterraneo i turchi ottomani del sultano Mehmet II entrarono a Costantinopoli. La caduta del millenario bastione orientale della cristianità contribuì ad alimentare nuovamente l’entusiasmo verso l’idea di crociata contro i musulmani in tutta Europa e in particolare in Spagna mentre la stessa attività dell’Inquisizione non faceva che aumentare il sentimento di intolleranza nei confronti dell’Islam. Tra il 1455 e il 1457 vennero lanciate contro il Regno di Granada ben sei spedizioni senza però ottenere risultati rilevanti. La mancata conquista di Granada non impedì ad ogni modo la definitiva riconquista cristiana di Gibilterra (1462) né valse a spegnere l’ardore crociato. I re cattolici proseguirono nella loro strategia che consisteva nell’isolare Granada mediante l’occupazione dei capisaldi avversari. Con la caduta dei principali centri del sultanato, Granada era rimasta sola. Ferdinando diede inizio al blocco nella primavera del 1490 ordinando di fare terra bruciata intorno alla città. Al termine della pausa invernale, l’esercito cristiano si presentò davanti alle mura di Granada alla fine di aprile del 1491. Nel luglio di quell’anno tuttavia, a causa di un incidente, l’accampamento degli assedianti andò in fumo a causa di un incendio e, per dare ricovero al suo esercito, Ferdinando ordinò la costruzione di una cittadina in muratura, battezzata Santa Fe. La resa della città avvenne il 2 gennaio 1492 quando Muhammad XII consegnò Granada ai re cattolici. ARMATE CROCIATE E MUSULMANE: Lungo tutto il periodo delle Crociate, le armate europee consistettero di un insieme di cavalleria pesante, arcieri, balestrieri, frombolieri, e regolari di fanteria armati di lancia, spada, asce, mazze ferrate e altre armi. La maggior parte dei cavalieri giurava fedeltà a un condottiero in particolare, e, siccome molti crociati erano comandati da numerosi nobili, quando non proprio da re ed imperatori, gli eserciti crociati ebbero generalmente a costituirsi quale misto piuttosto variegato di nazionalità e lingue. Le armate islamiche consuetudinariamente seguivano il medesimo sistema reclutatore degli Europei, e si distinguevano in guardie d'élite (ascari), reclute feudali, truppe alleate, volontari, e mercenari. Unità di cavalleria dell'esercito musulmano includevano arcieri a cavallo, fanteria con picche, balestre ed archi prevalentemente equipaggiata di scudi circolari. La cavalleria selgiuchide tipicamente indossava un'armatura lamellare composta da file sovrapposte di piastrine in metallo o cuoio indurito. CONSEGUENZE DELLE CROCIATE Come impresa militare le Crociate furono un fallimento ma ebbero alcune importanti conseguenze: • accentuarono la crisi del sistema feudale, mentre favorirono l’ascesa del ceto borghese, che poté arricchirsi grazie ai rinati traffici commerciali; • emanciparono l’Europa dal monopolio mercantile dei Bizantini e degli Arabi, grazie alle Repubbliche marinare, che seppero conquistare i mercati del Levante; • avviarono, grazie al contatto con le civiltà araba e bizantina, un generale risveglio della cultura, in particolare in Italia.
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