Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riforme processuali penali in Italia: dal fascismo al nuovo codice (2010), Dispense di Diritto Processuale Penale

Appunti per una relazione sulle riforme processuali penali in italia, dal periodo fascista al nuovo codice. Il testo ripercorre la storia della riforma processuale penale italiana, dal 1944 al 1989, attraverso le polemiche, i progetti di riforma e le iniziative che hanno caratterizzato questo lungo e appassionante itinerario. Il documento mette in evidenza i principali argomenti esposti nelle discussioni sulla riforma del processo penale, dai motivi politico-sociali che hanno ispirato le riforme ideali, ai messaggi esistenzialisti che hanno spinto a una riforma radicale.

Tipologia: Dispense

2011/2012

Caricato il 28/11/2012

gessbrain
gessbrain 🇮🇹

1 documento

1 / 22

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riforme processuali penali in Italia: dal fascismo al nuovo codice (2010) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana Ferrara, 13-14 novembre 2010 Appunti per la relazione di 1. Premessa. La letteratura penalistica è ancora priva di una riflessione sulla storia recente del nostro diritto processuale. Una riflessione utilissima per il giurista positivo, tanto più in una fase di grande instabilità normativa come l’attuale. Molte monografie (degli anni 60 e 70) informano sugli istituti di volta in volta considerati con resoconti stilati sulla scorta delle codificazioni precedenti (del 1865, del 1913). Le monografie successive alla riforma del 1988 appaiono meno orientate alla ricostruzione storica degli istituti. L’abbandono del modello processuale cosiddetto misto ha creato uno stacco rispetto alla tradizione precedente, sicché si reputa inutile mettere a confronto istituti considerati privi di una reale base di comparabilità. Francamente non è un male, considerato il carattere manierato, meramente compilativo e spesso superficiale di molte fra le ricostruzioni fornite dagli autori dei decenni passati. Del resto, non ci si può improvvisare storici. E, quasi sempre, il giurista positivo che si esercita nella comparazione diacronica lo fa da dilettante. Ben vengano, dunque, le iniziative degli storici sul passato recente del nostra procedura penale. Sono l’occasione per un dialogo molto istruttivo. Penso, ad esempio, a Mario Sbriccoli e ai suoi studi sulla giustizia penale durante il fascismo1; a Marco Miletti, autore di una bella monografia sul codice del 19132; penso ai saggi raccolti nel volume curato da Loredana Garlati sull’eredità del codice Rocco3 e l’elencazione potrebbe continuare. Segue questa scia l’idea lanciata dagli amici ferraresi di ripercorrere la storia delle riforme processuali nell’Italia repubblicana, con la tutela dei diritti individuali a far da filo conduttore. Una storia lunga fatta di slanci ideali e proiezioni ottimistiche nel futuro, ma anche di misoneismi e conseguenti impulsi di ritorno al passato. Comunque sia, una storia istruttiva per lo studioso, se non altro perché permette di evidenziare talune costanti della crisi che ha caratterizzato e caratterizza l’esperienza giuridica italiana nel settore della giustizia penale. Certo, non è una 1 Si veda, in particolare, il saggio Le mani in pasta e gli occhi al cielo, la penalistica italiana negli anni del fascismo, in Quaderni fiorentini, vol. XXVIII, Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, 817 ss. 2 Un processo per la terza Italia: il Codice di procedura penale del 1913, Giuffrè, 2003. 3 L’inconscio inquisitorio, Giuffrè, 2010. gran consolazione apprendere che, già negli anni ’50 del secolo scorso, si lamentava l’eccessiva durata dei processi, si denunciava il ruolo marginale della difesa specialmente nella fase istruttoria, si segnalava l’insufficiente tutela della libertà personale. E’ però di grande interesse ripercorrere gli argomenti esibiti nelle polemiche di quegli anni; soffermarsi sugli sfondi politico-sociali che hanno fatto da scenografia ai progetti di modifica della procedura penale dalla metà degli anni ‘40; meditare sul senso di fallimento che l’attuazione di ogni grande riforma prima o poi produce. Le principali riviste penali offrono abbondante materiale per la nostra riflessione. Materiale poco studiato, soprattutto con riguardo agli anni ’40 e ‘50. Eppure è proprio nel periodo successivo alla caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra che il tema della riforma processuale penale è per la prima volta affrontato con le speranze e le paure tipiche dei momenti di grande svolta storica. Il periodo che va dal 1944 al 1955 (anno della prima grande riforma processuale) merita di essere rivalutato come il periodo nel quale si gettano le basi ideali delle riforme processuali penali. Dagli anni ’60 in poi la storia è assai meno misteriosa, ma merita anch’essa di essere raccontata, non foss’altro a vantaggio dei giovani che si avvicinano allo studio del diritto processuale penale. Ai meno giovani bastano pochi cenni per evocare le tappe di questo lungo e, per molti versi, appassionante itinerario; il “progetto Carnelutti” e il suo impatto nel dibattito sulla riforma del processo penale; lo storico convegno del 1964, svoltosi in due tempi fra Lecce e Bellagio; le riforme di stampo garantista propiziate da una coraggiosa giurisprudenza costituzionale che seppe essere segnavia per il legislatore. E poi la legislazione dei due decenni successivi: quella segnata dall’emergenza antiterrorismo degli anni ’70 e quella, ad inizio degli anni ‘ 80, segnata dall’emergenza antimafia, ma anche da una grave caduta di legittimazione della magistratura (a seguito del caso Tortora) fino alla riforma processuale del 1988. Quanto ai due decenni che ci separano dall’entrata in vigore del “nuovo” codice, la memoria è sin troppo fresca, al punto che farne la storia è impresa ardua, per eccesso di vicinanza all’oggetto osservato. Tuttavia, le involuzioni e i tentativi di controriforma, seguiti da aperture di segno garantista, in breve, le vicissitudini normative che hanno caratterizzato sin qui la vigenza del codice 1988, permettono di abbozzare una periodizzazione utile per individuare le linee di tendenza di una riforma processuale che si rivela permanente. Il tema dei diritti individuali può essere affrontato in termini per così dire obiettivi, alla luce del principio di proporzionalità, al fine di stabilire fin dove possa spingersi l’esercizio di poteri coercitivi per ragioni di giustizia. Oppure può essere declinato in termini personalistici, sul piano dei poteri, delle facoltà, dei diritti spettanti ai soggetti processuali. E’ quest’ultimo, come si vedrà alla fine del principalmente dagli autori che hanno partecipato alla breve esperienza della Commissione Carnelutti. Ad essi si aggiungono, più tardi, studiosi come Giandomenico Pisapia e Delfino Siracusano che avranno un ruolo importante nei passaggi successivi della riforma. Nel frattempo, fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, matura una nuova generazione di giuristi, cresciuta studiando la giurisprudenza elaborata dalla nostra Corte costituzionale; una generazione ormai interamente conquistata – per questa via – ai valori della costituzione repubblicana. C’è un evidente cambio di stile nella letteratura processualpenalistica degli anni Settanta. Basterà qui ricordare gli studi di Mario Chiavario su processo e garanzie della persona; di Ennio Amodio sulla motivazione della sentenza penale; di Massimo Nobili sul principio del libero convincimento; di Vittorio Grevi sul nemo tenetur se detegere, di Paolo Ferrua sul principio di oralità, di Giulio Illuminati sulla presunzione di innocenza. Questi lavori, tutti concepiti quando si discuteva e, per così dire, si “sognava” un nuovo modello processuale, hanno tratto linfa dalla tensione ideale di quegli anni; al contempo hanno accompagnato e favorito la riforma, fornendo il supporto teorico e tecnico-giuridico per le soluzioni che si andavano elaborando. Il terzo periodo (dal 1989 ai giorni nostri) si apre nel 1989, precisamente il 24 ottobre. Il primo codice dell’Italia repubblicana, come ripetuto più volte, con una frase divenuta una sorta di refrain. Esso entra in vigore un anno dopo la sua pubblicazione, in un’Italia politicamente instabile (fra il 1986 e il 1989 la guida del governo cambia per ben quattro volte), con una magistratura in crisi di legittimazione (le polemiche intorno al caso Tortora sfociarono nel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati) in un contesto internazionale che incubava trasformazioni (la fine dell’Unione sovietica) destinate, di lì a poco, a riflettersi anche sulla situazione politica interna. L’eccesso di vicinanza impedisce di cogliere in poche, sintetiche battute il senso di questo ventennio, già ricco di vicissitudini che attendono di essere strutturate in racconto. La riforma del 1988 ha subito ben presto un serio ridimensionamento ad opera della Corte costituzionale che, con le note sentenze del febbraio e del maggio 1992, forse per una sorta di ratio compensandi, si è mostrata sensibile alle esigenze della magistratura requirente, più che alle ragioni del garantismo. Ne è scaturito uno squilibrio tra le forze impegnate nel processo che ha molto acuito i contrasti fra accusa e difesa: contrasti degenerati, verso la metà degli anni ’90, in aperta ostilità fra magistratura e classe forense. Credo che la febbrile attività di riforma della riforma, l’incessante produzione di novelle che ritoccano aspetti settoriali del codice di rito trovi spiegazione anche nello squilibrio esistente fra i soggetti del processo. Almeno in parte, giacché – a partire dagli anni ’90 – anche le legislazioni processuali di altri ordinamenti (Francia, Spagna, Germania, Austria) hanno l’aspetto di cantieri sempre aperti. Altro tratto di questo periodo, peraltro logicamente connesso con l’accennata situazione di continua instabilità normativa, è la crescita di peso del formante giurisprudenziale: quanto più complessa e articolata è la legge statale, tanto più importante diventa l’abilità combinatoria dell’interprete. Ciò si riflette sulla qualità e sullo stile della letteratura odierna, comprensibilmente alla rincorsa dell’ultimo orientamento giurisprudenziale e al commento dell’ultima novella legislativa. Risiede qui, a mio avviso, la ragione dello slittamento della produzione letteraria verso temi settoriali, accentuatamente specialistici e tendenzialmente compilativi. Rare o quasi inesistenti le opere con pretese di sistemazione concettuale sul tipo di quelle prodotte dalla dottrina degli anni ’60 e ‘70. Eppure non mancherebbero spunti per rivisitazioni di temi classici o per riflettere su temi nuovi, quali quelli suggeriti dal valore crescente che per il nostro diritto interno vanno assumendo le decisioni dell’Unione europea così come i Patti e le convenzioni internazionali. 3. La riforma processuale nel primo periodo (1944-1961). – Conviene far coincidere l’inizio del primo periodo con le leggi processuali successive alla caduta del fascismo. Due anni abbondanti prima del referendum istituzionale dal quale nascerà la Repubblica italiana. La scelta si giustifica, perché già in quel periodo la legge processuale subisce modifiche ispirate all’affermazione dei diritti inviolabili della persona. E’ il periodo dell’Italia in guerra, con la parte settentrionale ancora occupata dai tedeschi, dove si pensa a un giudice speciale5 per giudicare i capi del fascismo. Insomma, non proprio il clima ideale per riforme processuali di stampo liberale. Eppure risale all’inizio del 1944 la prima significativa riforma, che assoggetta a controllo giudiziario i poteri coercitivi della polizia6. Nell’agosto dello stesso anno vedono la luce disposizioni legislative di impronta garantista in tema di durata della “custodia preventiva”7. Nel successivo mese di settembre, il potere di archiviazione del pubblico ministero viene assoggettato al controllo del giudice istruttore8 e la difesa dell’imputato nel dibattimento viene meglio garantita9. 5 L’alta corte di giustizia istituita con il d. lgs. lgt. 13 settembre 1944, n. 198. 6 R.d.l. 20 gennaio 1944, n. 45 recante Norme relative al fermo di indiziati di reato e di individui pericolosi per l’ordine sociale e la sicurezza pubblica 7 Art. 6 d. lgs. lgt. 10 agosto 1944, n. 194. 8 L’art. 6 d. lgs. lgt. 14 settembre 1944, n. 288 modifica l’art. 74 c.p.p. 1930. 9 L’art. 7 modifica gli artt. 468 e 469 c.p.p. 1930, sopprimendo i limiti temporali originariamente previsti per le arringhe difensive. Si coglie in codesti provvedimenti una prima reazione alla cultura giuridica autoritaria del ventennio: provvedimenti provvisori, concepiti nella prospettiva di una riforma dell’intera legislazione penale allora percepita come imminente oltre che doverosa. Tale proposito è formulato expressis verbis nell’art. 1 del d. lgs. lgt. del settembre 1944: “Fino a quando non siano pubblicati i nuovi codici penale e di procedura penale sono apportate le modificazioni di cui agli artt. seguenti al codice penale e al codice di procedura penale”. Del resto, che la caduta del fascismo – per le circostanze nelle quali era avvenuta – comportasse il ripudio degli eccessi autoritari dei quali la giustizia penale era intimamente compenetrata è opinione diffusa anche presso giuristi di stampo conservatore. “Il problema della riforma dei codici pubblicati fra il 1930 e il 1942 si presentò come immediato atto impulsivo sin dal mattino del 26 luglio 1943”, ammette Remo Pannain. Anche se subito dopo aggiunge “Quel giorno tutto era spiegabile e giustificato. Poi subentrò la freddezza e la riflessione e il problema cominciò ad essere discusso in maniera diversa”10. In effetti, il primo impulso era stato quello di un ritorno al passato. La Commissione istituita nel gennaio 1945 dal ministro Tupini si espresse a maggioranza per un ritorno al codice del 1913 “con l’impegno di aggiornarlo”11. Le componenti accademica e giudiziaria della commissione erano invece favorevoli al mantenimento della legislazione vigente, debitamente depurata delle spigolosità autoritarie che il fascismo vi aveva introdotto. Fra gli avversari del ritorno al passato si distinse, in particolare G. Leone. Significativo, a tal riguardo, un suo intervento del 1945 che si apriva così: “Questo scritto mira a dimostrare come, ad onta delle opposte apparenze, il tradizionale complesso di principi giuridico-penali, di assodata origine liberale, sia stato, durante il ventennio trascorso, energicamente e quasi universalmente difeso e tenuto fermo dai giuristi italiani”12. Questa posizione, condivisa e difesa da altri autorevoli giuristi dell’epoca, come Remo Pannain13, Francesco Santoro Passarelli14, 10 Notizie e spunti sulla riforma dei codici penali, in Arch. pen. 1945, p. 5. 11 Così riferisce Pannain nello scritto citato alla nt. precedente, p. 57. 12 G. Leone, La scienza giuridico-penale nell’ultimo ventennio, in Arch. pen. 1945, 23. Dello stesso tenore gli interventi svolti dal medesimo autore in La giustizia del 22 gennaio 1945 e su Il Domani d’Italia, del 10 febbraio 1945. 13 La riforma della legislazione, in Annali della Facoltà giuridica di Camerino, 1944, 35 ss. 14 E’ tempestiva la riforma?, in Il Domani d’Italia, 3 febbraio 1945. Come detto in precedenza, Carnelutti non partecipa alle discussioni e diatribe dottrinali sfociate nella riforma del 195524. Resta assai misteriosa la ragione che lo spinge, già molto anziano, a dedicare le proprie energie alla riforma del processo penale. A spiegarla, almeno in parte, contribuisce la circostanza che Giovanni Leone, divenuto proprio nel 1955 presidente della Camera dei deputati, era stato costretto ad abbandonare il campo. Egli non poteva più esercitare – sul piano dottrinale – l’influenza avuta nelle discussioni degli anni precedenti25. Nessuno, fra i giuristi dell’epoca, aveva osato o era stato in grado di occupare la posizione di preminenza che Leone si era conquistato. All’inizio degli anni ’60 ci provò e ci riuscì Francesco Carnelutti, il quale – oltretutto – nutriva scarso apprezzamento verso il collega-rivale napoletano26. 4. Il secondo periodo: dal progetto Carnelutti all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1962-1989). – Il convegno veneziano voluto da Carnelutti segna dunque una ripresa d’interesse sulla riforma processuale penale. Qualche mese più tardi, nel gennaio del 1962, il ministro della Giustizia Gonella, presente a quel convegno, istituirà una commissione per la riforma del codice di rito penale e chiamerà proprio Carnelutti a 24 Vedi tuttavia l’intervento al convegno dell’aprile 1953, dove Carnelutti (sorprendentemente, se si pensa all’iniziativa che intraprenderà circa 10 anni più tardi) invita a diffidare del modello accusatorio, “pericoloso perché siamo troppo intelligenti in Italia”; cfr. Atti del convegno fra le più urgenti riforme del c.p.p., Giuffrè, Milano 1954, 81. 25 Leone viene eletto presidente della Camera il 10 maggio 1955 e riceverà altri due mandati nelle legislature successive (fino al 15 maggio 1963). 26 Il difficile rapporto fra due grandi processualisti emerge con tutta evidenza nello scritto A proposito di alcuni giudizi del prof. Carnelutti, pubblicato da Leone in Riv. it. dir. e proc. pen. 1962, 15 ss. Con toni caustici, Leone rimprovera il collega di aver recensito il suo Trattato di diritto processuale penale, senza nemmeno averlo letto. Ma la critica più severa (e amara) è riservata al modo sprezzante col quale Carnelutti, nella prefazione dei suoi Principi del processo penale (Napoli, Morano, 1960, 2), parlava di Leone come colui “che insegna, nientemeno, la nostra materia all’Università di Roma”. presiederla27. In realtà, dominata dall’invadente personalità del presidente, quella commissione opererà con scarso senso della collegialità28. Dopo una prima riunione nel febbraio 1962, Carnelutti si impegna a redigere molto rapidamente uno “schema originale” che, riveduto dal magistrato di cassazione Nicola Reale e da Giuliano Vassalli, sarà poi ampiamente emendato e presentato alla Commissione nelle successive riunioni del maggio e del settembre 1962. L’iniziativa di Carnelutti segna una netta rottura rispetto alle discussioni degli anni precedenti, limitate – come s’è visto – all’alternativa di un ritorno al passato (codice del 1913) ovvero di una riforma del codice esistente per adeguarlo ai principi della costituzione. Non aveva raccolto adepti l’idea di un nuovo codice di rito penale, reso necessario dal mutato clima politico nell’Italia repubblicana, conquistata ai valori democratici29. Carnelutti muove dall’esigenza di un profondo cambiamento, benché nemmeno lui sembri preoccuparsi della ragione politica della riforma. “Io sono convinto – scrive nell’Introduzione allo schema del suo progetto – che lo studio del diritto processuale perseguito in Italia negli ultimi trent’anni consenta, anzi esiga, una modificazione dei principii, sui quali è fondato il codice vigente, così profonda che non è possibile provvedere a un restauro del codice stesso, del quale è invece necessaria una coraggiosa ricostruzione”. Composto di 227 articoli, lo schema carneluttiano si segnala soprattutto per la netta separazione funzionale tra “inchiesta 27 Il nesso fra il convegno veneziano e l’idea di una nuova commissione per la riforma processuale è attestato dallo stesso Carnelutti nella Avvertenza al volume Verso la riforma del processo penale, Napoli, Morano, 1963, 5, che riproduce il progetto da lui redatto. Sulla commissione Carnelutti e sull’atmosfera che vi si respirava è di notevole interesse l’eccezionale testimonianza offerta dal prof. Giuliano Vassalli nell’Introduzione al volume L’inconscio inquisitorio, cit., 9 ss. 28 Come ammette lo stesso Carnelutti nell’Avvertenza citata alla nota precedente. L’esperienza di codesta Commissione è efficacemente ricostruita da O. Mazza, L’illusione accusatoria: Carnelutti e il modello dell’inchiesta preliminare di parte, in L’inconscio inquisitorio, cit. 153 ss 29 L’idea trova pochi fautori: fra questi, Giuseppe Guarneri, autore sottovalutato, docente di procedura penale all’Università di Parma, che nel saggio Osservazioni sul progetto di modificazioni per l’aggiornamento del Codice di procedura penale, in Arch. penale, 1950, 453 ss. denuncia il considerevole iato tra diritto vigente e diritto preannunciato dalla carta costituzionale e reputa del tutto insufficienti le iniziative fin lì discusse e intraprese per colmarlo. preliminare del pubblico ministero” (finalizzata alla elaborazione dell’accusa) e “fase definitiva del processo di cognizione” (finalizzata alla decisione di merito). Si abbandona così il modello – ispirato al code d’instruction criminelle del 1808 – divenuto tradizionale anche in Italia grazie al suo affermarsi nelle tre codificazioni dell’Italia unitaria (1865, 1913 e 1930). Nelle parole dell’autore, l’esigenza di cambiamento ha radice intellettuale (“lo studio del diritto processuale”) più che politico- costituzionale. A enfatizzare il valore politico della rivoluzionaria proposta di riforma contribuirà poi, con efficaci argomenti, Franco Cordero, uno dei membri della commissione Carnelutti. L’occasione è data dal convegno dedicato ai Criteri direttivi per una riforma del processo penale, organizzato dal centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e destinato a svolgersi in due tempi: nel maggio 1964 a Lecce e nel successivo ottobre a Bellagio. Nella mozione conclusiva del convegno si prende atto della difformità d’opinioni registrata intorno al modo di condurre la fase preliminare del processo. Tutti concordano sull’opportunità di abolire il dualismo istruttorio (all’istruzione formale, affidata al giudice istruttore, si affiancava l’istruzione sommaria, affidata al pubblico ministero). Le opinioni differivano tuttavia con riguardo al modo per attuare la semplificazione. Tre orientamenti si dividevano il campo: (a) abolire l’istruzione sommaria e mantenere l’istruzione formale con adeguate garanzie per la difesa (proposta Pietro Nuvolone alla quale aderiva anche Giovanni Leone); (b) abolire l’istruzione formale e generalizzare l’istruzione sommaria, con le garanzie difensive imposte dall’art. 24 cost. (proposta dei magistrati Giuseppe Altavista e Girolamo Tartaglione); (c) introdurre l’inchiesta preliminare di matrice carneluttiana (proposta di Franco Cordero)30. In quello stesso periodo riprendono, febbrili, iniziative di riforma sul terreno parlamentare. Lo schema di Carnelutti non si traduce in proposta legislativa. Si afferma però l’idea che il codice vada ricostruito, riscritto per intero, non revisionato in alcune sue parti. La pur ampia riforma del 1955 appare a tutti insufficiente ad attuare i principi della Costituzione e a garantire i diritti inviolabili dalla stessa riconosciuti. Fra il 1963 e il 1974 si contano una diecina di deleghe legislative proposte al parlamento dai molti governi susseguitisi. Le tredici direttive elencate nel disegno di legge delega presentato alla camera dei deputati dal ministro Bosco il 10 ottobre 30 Per bravura di relatori ed efficacia di interventi, il convegno di Lecce-Bellagio raggiunse vette qualitative forse non più eguagliate nei dibattiti (numerosissimi) sulla riforma processuale. Gli atti sono pubblicati a cura del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale nel volume Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Giuffrè, Milano 1965. La mozione conclusiva è riportata alle p.p. 405-406. preliminare di nuovo codice38. A fine settembre del 1988 è pronta la versione definitiva del nuovo codice, pubblicata poi il 24 ottobre sulla Gazzetta ufficiale. La rapidità di redazione si spiega col fatto che la commissione Pisapia attinge largamente ai lavori svolti sulla legge delega del 1974 e sfociati nel progetto preliminare del 1978. Ma ciò non spiega tutto. Credo che il varo del nuovo codice sarebbe stato assai più difficile e faticoso, se – come accennato in precedenza – la magistratura italiana non fosse precipitata in una forte crisi di legittimazione. Le discussioni e le polemiche seguite al caso Tortora (1983) e la conseguente iniziativa referendaria sulla responsabilità civile dei magistrati (1987) prepararono, a mio avviso, il terreno per attuare quella riforma processuale della quale si parlava da quasi trent’anni. Entrato in vigore il 24 ottobre 1989, il nuovo codice di rito penale rivela una notevole affinità con l’idea carneluttiana dell’inchiesta di parte. L’idea-guida è quella di una compiuta attuazione del diritto di difesa, alla ricerca di un equilibrio nei rapporti di forza fra accusa e difesa. Il pubblico ministero è signore incontrastato dell’indagine preliminare, ma le conoscenze da lui acquisite servono, di regola, al solo fine di preparare l’accusa e poi sostenerla con prove e buoni argomenti davanti al giudice del dibattimento. Ben presto si capirà che questo nuovo equilibrio non regge. 5. Il terzo periodo: l’esperienza del primo codice dell’Italia Repubblicana (1989-2010). – Ventun anni ci separano dall’entrata in vigore del codice di procedura penale. Un tempo che offre abbondante materiale di riflessione nella prospettiva che qui interessa, quella della riforma processuale attuate nell’Italia repubblicana sotto il segno dei diritti individuali. Un lungo periodo, durante il quale si sono registrate numerose revisioni della legge processuale. Chi credeva che il nuovo codice avrebbe contribuito a stabilizzare le norme regolatrici del processo penale è stato smentito. Dopo la riforma, cresce l’instabilità normativa39 e si accentua altresì l’incertezza sugli scenari futuribili. Comprensibilmente, l’avvento del nuovo codice scioglie quella tensione ideale, quel senso di utopia, che aveva attraversato gli anni precedenti, almeno a partire dallo “schema Carnelutti”. All’euforia 38 In data 29 gennaio 1988 il testo del progetto preliminare viene trasmesso dal consiglio dei ministri ai due rami del parlamento per l’esame da parte della commissione incaricata di esprimere il parere di conformità alle direttive della legge delega. 39 Un giornalista de Il sole – 24 ore (edizione del 30 novembre 2009, p. 9) ha calcolato che, nei suoi primi vent’anni, il codice ha subito complessivamente 1.016 modifiche, 846 per iniziativa del legislatore e 170 a seguito di pronunce della Corte costituzionale. del nuovo si contrappone ben presto il timore dell’ignoto. L’entusiasmo della fase progettuale lascia posto alle reali necessità di far funzionare la “macchina della giustizia”40. La riforma diventa terreno di scontro fra chi intende difenderla e magari completarla in senso garantistico e chi la avversa, perché vi ravvisa un cedimento al delitto, letale per la società. Di qui i molti tentativi, spesso riusciti, di riformare la riforma, con interventi settoriali, quasi sempre “giustificati” da concrete vicende processuali. La lunga sequela di modifiche che ne risulta, priva di un’ideale linea-guida, risulta difficile da illustrare. E’ tuttavia possibile distinguere alcune fasi nell’evoluzione normativa di questo ventennio di procedura penale. Per comodità espositiva suggerisco una suddivisione in quattro tempi: il “triennio sperimentale” (fino al 1992); “l’epoca di Mani pulite”, dal 1992 al 1997; “l’epoca del giusto processo”, dal 1997 al 2001; “l’epoca dell’ossessione securitaria e l’apertura allo spazio giuridico europeo”, dal 2001 ai giorni nostri. a) Il triennio sperimentale (1989-1992). La legge-delega del 1987 (art. 7) attribuiva al Governo il potere di emanare “norme integrative e correttive, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dagli artt. 2 e 3” entro tre anni dall’entrata in vigore del codice. Consapevole delle difficoltà che l’applicazione della nuova legge processuale avrebbe incontrato nella pratica, il legislatore aveva opportunamente sancito l’ultrattività della legge-delega. Ciò al fine di consentire quelle correzioni o aggiunte, in corso d’opera, che la pratica applicazione della nuova legge avesse richiesto. Di questa chance il governo profitterà una sola volta, per aggiustamenti numerosi ma di scarsa importanza41. Ben più importanti sono le novità che stanno maturando nel confronto fra i soggetti processuali. 40 Nell’interessante saggio ospitato dal 50° volume dei Quaderni fiorentini (Pensiero giuridico e innovazione nel processo di produzione del diritto, 1997) Ennio Amodio è incline a vedere nella circostanza che la fase post-codicem fu gestita dagli apparati ministeriali la ragione del repentino fallimento del nuovo codice. Diversamente sarebbero andate le cose – secondo Amodio – se gli accademici, i “giuristi”, non fossero stati estromessi dal dialogo con le istituzioni nella delicata fase di prima applicazione della riforma (cfr., in particolare, p. 380-383). A me pare, però, che la reazione negativa al nuovo codice venne, all’epoca, più dai magistrati attivi negli uffici giudiziari, che da quelli operanti presso l’ufficio legislativo del ministero della giustizia. 41 Con il d. lgs. 14 gennaio 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate). Con l’entrata in vigore del codice cambiano i rapporti fra le forze coinvolte nell’amministrazione della giustizia penale. Ora sono soprattutto i magistrati del pubblico ministero a lamentare l’irragionevolezza del nuovo impianto codicistico. Criticano apertamente la rigida separatezza fra fase preliminare e fase del giudizio. Denunciano l’assurdità di taluni divieti probatori che rendono difficoltoso sostenere con successo l’accusa in giudizio. Il disagio si traduce nella sollecitazione a sollevare questioni di illegittimità davanti alla Corte costituzionale, allo scopo di superare la divisione tra indagine preliminare e dibattimento, sulla quale poggiava il nuovo ordinamento processuale. Nel 1992, con tre note sentenze (nr. 24, nr. 254 e nr. 255), la Corte attua una vera controriforma del nostro diritto processuale. Il governo va nella stessa direzione, quando, a pochi giorni dalla strage di Capaci, approva un decreto-legge che accresce l’importanza dell’indagine preliminare nell’economia del giudizio penale. Ne esce ingigantita la posizione del pubblico ministero, dominus non solo della fase investigativa, ma dell’intero processo. Ne esce correlativamente mortificata la posizione del difensore. b) L’epoca di “Mani pulite” (1992-1997). Non sapremo mai come sarebbero finiti i processi per fatti di corruzione politica successivi al 1992, se l’accertamento delle responsabilità penali fosse avvenuto secondo le regole originariamente previste nel codice del 1989. Certo è che, grazie alla segnalata controriforma, i pubblici ministeri sono stati molto agevolati nella loro funzione accusatoria. Di efficacia davvero formidabile si rivelò, in particolare, la possibilità – dischiusa da Corte cost. 254/1992 – di usare come prove d’accusa dichiarazioni raccolte unilateralmente dal pubblico ministero, non verificate nel contraddittorio dibattimentale. E’ altrettanto certo che lo squilibrio fra le parti processuali derivante dal rinnovato contesto normativo fu all’origine di un conflitto patologico fra accusa e difesa: un conflitto fra funzioni che divenne anche un conflitto fra magistratura e avvocatura, fra ANM e Camere penali. Del resto, anche di fronte all’opinione pubblica, un simile squilibrio di posizioni poteva essere giustificato solo con il classico argomento del “pericolo sociale”, del “nemico da combattere” (il politico corrotto, il mafioso, etc.). Quando il senso del pericolo si attenua o svanisce, quello squilibrio appare inaccettabile, perché anche l’opinione pubblica poco sensibile alle ragioni del garantismo intravede il rischio dell’eccesso di zelo che degenera in arbitrio. assicurate per il procedimento penale (oltre al procedimento di prevenzione ante delictum, il pensiero va alle procedure di controllo sull’immigrazione clandestina regolate dal d.lgs 286/1998, ripetutamente modificato dai vari “pacchetti sicurezza”). Il diritto penale della sicurezza apre una nuova stagione dei diritti individuali, per la cui tutela si rivela sempre più importante il ruolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. Pur guardata con sospetto da parte della dottrina processualistica (Ferrua), la Corte di Strasburgo ha sviluppato nel tempo una giurisprudenza attenta alla “sostanza” dei diritti individuali. La circostanza poi che la Corte EDU si pronunci sulla conformità con le norme convenzionali del concreto comportamento tenuto dall’autorità pubblica attribuisce alle sue decisioni un carattere di duttilità ignoto alla sentenze della nostra Corte costituzionale. Penso dunque vada salutato con favore il riconoscimento delle nostre alte Corti (di cassazione e costituzionale) rispetto sia all’effetto delle sentenze europee sui giudicati interni44, sia al rango “para-costituzionale” delle norme convenzionali e dei principi in esse affermati45. Tale riconoscimento segnala, al contempo, un diverso sguardo alla tematica dei diritti individuali. Alla lunga, gli argomenti della Corte di Strasburgo sui limiti di tutela dei diritti individuali (argomenti orientati al principio di proporzionalità più che al criterio di ragionevolezza) contamineranno anche la giurisprudenza dei giuristi italiani. 5.Conclusioni. E’ ora di tirare le fila al termine del lungo itinerario. Poche battute sono sufficienti a svelarne il senso. Caduto il fascismo, con l’Italia ancora in guerra, si avverte subito l’esigenza di purgare l’ordinamento processuale degli elementi autoritari tipici del passato regime. L’orientamento 44 Si vedano le sentenze emesse nei noti casi Sejdovic (2006), Dorigo (2007) e Drassich (2009) con le quali si riconosce che la condanna dello Stato italiano da parte della Corte EDU sia idonea a risolvere l’efficacia del giudicato interno. 45 Si vedano le sent. 348 e 349/2007 che – facendo leva sull’art. 117 comma 1 cost. – attribuiscono ai principi convenzionali il rango di “norme interposte”, suscettibili di fungere da parametro per il giudizio di legittimità della legge italiana. Va peraltro segnalato che, a partire dal 1° dicembre 2009, le norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo sono divenute parte integrante del diritto comunitario, grazie al loro recepimento nell’art. 6 del Trattato di Lisbona (come riconosce la stessa Corte cost. nella sent. 138/2010). individualistico della Costituzione repubblicana accentua la necessità della riforma, inizialmente perseguita nell’illusione che sia sufficiente una revisione parziale del codice Rocco. Al centro degli sforzi riformistici è principalmente il diritto di difesa, del quale si reclama l’attuazione “in ogni stato e grado del procedimento”, come scritto nell’art. 24 comma 2 cost. L’enfasi sulla garanzia difensiva sposta ben presto l’asse dell’interesse (e delle discussioni) sui rapporti di forza interni al processo. L’attuazione dei diritti individuali diventa così una funzione della dialettica accusa/ difesa e della scelta fra stile inquisitorio e modello accusatorio. Di qui il carattere fortemente ideologico che le dispute sulla riforma processuale assumono in Italia. Soprattutto a partire dall’inizio degli anni ’60, con la svolta segnata dall’iniziativa Carnelutti, il tema dei diritti individuali è per così dire assorbito e confuso nella disputa fra accusatorio e inquisitorio. Attuare il processo di parti, sembra la via esclusiva per salvaguardare i diritti individuali minacciati o compressi dall’attività giudiziaria e di polizia. Correlativamente, negli anni ’60 e ’70, la giurisprudenza costituzionale sul processo penale si sviluppa prevalentemente intorno all’art. 24 comma 2, spesso combinato con l’art. 3 cost. Le questioni di legittimità vengono esaminate alla luce del criterio (marcatamente politico) della ragionevolezza, anziché in base a quello (più connotato in senso giuridico) della proporzionalità fra diritto violato e scopo perseguito dalla misura restrittiva46. L’iniziale fallimento della riforma processuale entrata in vigore nel 1989 ha accentuato il contrasto fra i soggetti processuali. I conflitti e le polemiche seguiti all’esperienza di Mani pulite hanno trovato una composizione momentanea nella riforma costituzionale del “giusto processo” (1999). L’evoluzione del sistema penale in senso preventivo (soprattutto a partire dal 2001), il diffondersi di un’ideologia securitaria e il coevo sviluppo di modalità investigative che sfruttano l’uso di moderne risorse tecnologiche aprono prospettive nuove per i diritti individuali, quali la segretezza e libertà nelle comunicazioni, il diritto alla tutela dei dati personali, il diritto all’uso riservato delle tecnologie informatiche, finora collocate in secondo piano nella considerazione dei giuristi italiani. L’apertura dell’Italia allo spazio giuridico europeo e i nuovi scenari della cooperazione giudiziaria internazionale pongono nuove sfide sul terreno dei diritti individuali. La loro tutela trova risposte adeguate nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, capace di fungere da modello (soprattutto quanto a modalità argomentative) anche per i giudici italiani. 46 Questo è, ad esempio, il criterio preferito dalla Corte costituzionale tedesca, già a partire dai primi anni ’50.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved