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Diritto amministrativo - M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, Appunti di Diritto Amministrativo

Appunti da M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, ed. 2019, per l'esame di diritto amministrativo con la prof.ssa Marzia De Donno, Università degli studi di Ferrara (sede di Rovigo), Giurisprudenza. Gli appunti sono chiari, precisi e corretti.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 04/10/2022

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Scarica Diritto amministrativo - M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino e più Appunti in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! Il diritto amministrativo è la branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione e in particolare riguarda i rapporti che quest’ultima instaura con i soggetti privati nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività. Si tratta di un diritto di formazione recente, in quanto si compone di un corpo di regole e di principi che si è formato in Europa nel corso del XIX secolo, in parallelo all’evoluzione dello Stato di diritto. Da un punto di vista storico, il diritto amministrativo nasce dall’emergere di apparati amministrativi alle dirette dipendenze del sovrano, che si contrapponevano alla precedente organizzazione policentrica e pluralistica tipica dell’ordinamento feudale, che era invece fondata su rapporti personali di tipo pattizio e su ampie autonomie e privilegi riconosciuti a ordinamenti decentrati. La nascita dei contemporanei apparati amministrativi è accompagnata dalla nascita dello Stato moderno. L’ accentramento burocratico , cioè la formazione di uno Stato amministrativo, costituì proprio un modo per ricondurre a unitarietà, in capo al sovrano, il potere politico e statuale (l’esempio paradigmatico è il caso francese, con lo Stato assoluto, che dove assunse i caratteri dell’assolutismo illuminato, come Stato di polizia, promuoveva il benessere della collettività, offrendo ai sudditi provvidenze di vario genere). L’espansione dei compiti dello Stato e l’attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del sovrano e a strutture burocratiche fecero emergere a poco a poco la funzione amministrativa come funzione autonoma , separata da quella giudiziaria. Il modello dello Stato assoluto entrò in crisi con la Rivoluzione francese e con le costituzioni liberali approvate negli anni successivi, che segnarono la nascita dello Stato di diritto. Lo Stato di diritto si fonda sul trasferimento della titolarità della sovranità ad un parlamento eletto da un corpo elettorale, sulla separazione dei poteri con sistema di pesi e contrappesi, sul principio di legalità (che limita il potere normativo del governo e il potere amministrativo) e sull’idea che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela dei diritti verso la pubblica amministrazione innanzi ad un giudice imparziale e indipendente dal potere esecutivo, cosa che determinò la nascita dello Stato di diritto a regime di diritto amministrativo. Il modello dello Stato di diritto è di per sé neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza delle funzioni assunte come proprie dai poteri pubblici. Nel corso del XIX e XX secolo, si sono succedute una pluralità di fasi e di esperienze nei vari Paesi, che corrispondo ad altrettanti modelli di Stato: con le ideologie di impronta liberista in campo economico, emerse lo Stato guardiano notturno, caratterizzato da minime ingerenze dirette nei rapporti economici e sociali e compiti di tutela dell’ordine pubblico interno e difesa del territorio; con l’inizio del XX secolo, nuove ideologie e la trasformazione dello Stato in pluriclasse, determina la nascita dello Stato interventista (Welfare State), che promuoveva vari interventi di legislazione sociale; la parentesi fascista favorì una ulteriore espansione dello Stato in tutte le espressioni della società civile e dell’economia; la crisi economica degli anni Trenta fece nascere lo Stato imprenditore, gestore diretto di aziende di produzione ed erogazione di beni e servizi; la crescita esponenziale della spesa pubblica, determinò il riemergere di ideologie antistataliste a partire dagli anni Ottanta e il passaggio allo Stato regolatore, con politiche di deregolamentazione, di privatizzazione di molte attività assunte direttamente dai pubblici poteri (con la cessione sul mercato di pacchetti azionari di società in mano pubblica) e di liberalizzazione, volte a favorire l’apertura dei mercati alla concorrenza transfrontaliera all’interno del mercato unico europeo; infine, la crisi finanziaria e la recessione del 2008, ricondussero a misure di intervento pubblico diretto e indiretto da parte dello Stato salvatore, una rinascita dello Stato interventista. In conclusione, lo sviluppo storico è stato caratterizzato da un andamento ciclico nell’espansione e nella contrazione del campo di intervento dei pubblici poteri e dal consolidarsi degli apparati amministrativi, con l’emergere di un diritto speciale per le pubbliche amministrazioni. Per tradizione, la nascita del diritto amministrativo come disciplina autonoma si far risalire in Francia al celebre arret Blanco del 1873 , una sentenza in cui il Tribunal des Conflits, in una causa per danni proposta da un privato, anziché applicare le regole civilistiche, statuì che la responsabilità civile dell’amministrazione non può essere retta dai principi stabiliti nel Codice civile per i rapporti tra privati, ma è sottoposta a regole speciali che variano e si giustificano in relazione alla necessità di conciliare l’interesse pubblico con l’interesse dei privati. In Francia, la giustizia amministrativa si sviluppò dal sistema del contenzioso amministrativo (un sistema di ricorsi amministrativi interni al potere esecutivo, dunque una sorta di giustizia domestica) all’istituzione nel 1872 di un giudice speciale, il Conseil d’Etat, a cui venne attribuita in via permanente la funzione di giudice del contenzioso amministrativo. Il diritto amministrativo, dunque, si distingue anzitutto per essere un diritto avente natura giurisprudenziale . Fu lo stesso Conseil d’Etat, infatti, a elaborare e adattare i principi fondamentali di questo diritto. In modo simile, l’Italia migrò dal sistema del contenzioso amministrativo all’istituzione di un giudice speciale in senso proprio, ma non senza soluzione di continuità. Infatti, con la legge 2° marzo 1865, n. 2248, all. E , venne abolito il contenzioso amministrativo, ritenuto incompatibile con una visione liberale dello Stato, e vennero attribuite al giudice ordinario tutte le controversie tra privati e pubblica amministrazione relative alla tutela di diritti soggettivi. Solo nel 1889 , fu operata una correzione del sistema istituendo un giudice amministrativo a partire dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, che si autoattribuì la qualifica di giudice in senso proprio e intraprese l’opera di costruzione dei principi generali del diritto amministrativo , in assenza di una disciplina legislativa compiuta. Pertanto, il diritto amministrativo oggi non è composto soltanto da norme, ma anche da principi che dottrina e giurisprudenza hanno elevato a dignità di sistema, anche originati dai difetti strutturali della legislazione amministrativa e dalle incertezze interpretative che ne conseguono. Per dirimere contrasti giurisprudenziali, interviene l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con funzione nomofilattica e composto da giudici di tutte le sezioni giudicanti (dalla II alla VII). Il diritto amministrativo si caratterizza per l’ampiezza e varietà delle materie. Si distingue così tra diritto amministrativo generale, che ha natura trasversale ed è opera soprattutto della scienza giuridica, che ha elaborato i concetti giuridici che costituiscono il nucleo essenziale della dogmatica del diritto amministrativo, e diritto amministrativo speciale, costituito dai filoni legislativi che disciplinano i vari campi di intervento delle pubbliche amministrazioni (urbanistica, sanità, ambiente, beni culturali, ecc.). LA FUNZIONE DI REGOLAZIONE E FONTI DEL DIRITTO La funzione regolatrice della pubblica amministrazione , intesa come l’intervento dei pubblici poteri in campo sociale ed economico (social regulation e economic regulation) che mira a promuovere scopi sociali e a correggere i fallimenti del mercato con misure correttive di tipo autoritativo, ha assunto un ruolo crescente negli ultimi decenni in conseguenza della crisi della legge come fonte di disciplina dei rapporti giuridici. Il parlamento, infatti, è sempre meno in grado di elaborare testi legislativi completi e di operare tempestivamente a causa della velocità dei cambiamenti nel mondo contemporaneo. Pertanto, in molti casi, la legge si limita a porre i principi generali della disciplina e delega agli apparati amministrativi il compito di porre in via sublegislativa le regole di dettaglio. In questo modo, la funzione regolatrice della p.a. attenua almeno in parte il principio della separazione dei poteri. La pubblica amministrazione, infatti, con tutti gli strumenti formali e informali di cui dispone per orientare e condizionare l’attività dei privati, ha sia il potere di porre regole (seppur nei limiti stabiliti dalla legge) sia di applicarle nei singoli casi con provvedimenti individuali. Esse stesse sono peraltro soggetti regolati e sottoposti a un corpo più o meno esteso di norme. Si distingue perciò tra fonti sull’amministrazione , che hanno come destinatarie le pubbliche amministrazioni, che sono quindi sottoposte ai principi dello Stato di diritto, e fonti dell’amministrazione , che includono sia fonti normative in senso proprio , sia atti di regolazione aventi natura non normativa (atti amministrativi generali, direttive, circolari, ecc.), e sono gli strumenti a loro disposizione sia per regolare comportamenti dei privati sia per disciplinare i propri apparati e il loro funzionamento, nei limiti in cui la legge riconosca tale autonomia. La Costituzione è la fonte giuridica di rango più elevato ed è il parametro in base al quale la Corte costituzionale esercita il sindacato sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge. Oltre a definire i diritti di libertà dei cittadini e delineare l’assetto generale dello Stato-ordinamento, individua anche un’ampia serie di compiti dei quali lo Stato, e per esso la pubblica amministrazione, deve farsi carico nell’interesse della Passando alle Regioni , la Costituzione prevede tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi e i regolamenti. Lo statuto determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento: se è ordinario, è sottoposto all’approvazione a maggioranza assoluta da parte del consiglio regionale, con possibilità di sottoposizione a referendum popolare; se è speciale, è approvato con legge costituzionale. Le leggi regionali sono approvate dal consiglio regionale e promulgate dal presidente nelle materie attribuite dall’art. 117 alla competenza regionale concorrente e residuale (ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato). Invero, nelle materie di competenza regionale, entro certi limiti, lo Stato può legiferare, qualora una funzione debba essere esercitata in modo unitario a livello statale, in base al principio di sussidiarietà verticale. Infine, i regolamenti regionali sono addottati dalla giunta regionale e possono essere emanati, secondo il principio del parallelismo tra funzioni legislative e regolamentari, nelle materie attribuite alla competenza legislativa concorrente e residuale delle regioni. L’art. 114 Cost. qualifica gli enti locali come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni , secondo i principi fissati dalla Costituzione, e valorizza così il principio autonomistico già enunciato nell’art. 5, secondo cui la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali. Lo statuto degli enti locali , in base al t.u.e.l., viene approvato dal consiglio dell’ente locale a maggioranza di due terzi o, in mancanza, con delibera approvata due volte dalla maggioranza assoluta dei consiglieri. I regolamenti , invece, approvati dal consiglio comunale, sono emanati nelle materie di competenza degli enti locali nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto. A partire dagli anni Novanta, anche altri enti pubblici hanno acquisito una maggiore autonomia organizzativa e funzionale, che include generalmente anche la potestà di dotarsi di un proprio statuto e di regolamenti di organizzazione e di disciplina delle funzioni (es. università, camere di commercio, ecc.). Come detto, la funzione di regolazione delle pubbliche amministrazioni si esplica anche attraverso atti aventi natura non normativa. La distinzione tra atti normativi e atti non normativi è fondata su criteri formali e sostanziali che in realtà non sono univoci. I criteri propri degli atti normativi sarebbero i caratteri della generalità, astrattezza e novità (intesa come attitudine a sostituire, modificare o integrare norme preesistenti). Secondo altre impostazioni, sarebbero rilevanti la connotazione eminentemente politica dell’atto normativo, anziché il carattere meramente esecutivo e specificativo di scelte effettuate da altri atti normativi, oppure la finalizzazione a regolare in astratto rapporti giuridici, più che a far fronte ai bisogni pubblici concreti, infine la indeterminatezza dei destinatari. Tuttavia, la distinzione ha scarsa rilevanza pratica poiché il loro regime giuridico è in massima parte coincidente e le particolarità degli atti normativi (applicazione del principio jura novit curia, ricorso per cassazione e regole sull’interpretazione) sfumano, soprattutto se si guarda agli atti amministrativi generali. Gli atti amministrativi generali Di regola, i provvedimenti amministrativi hanno un contenuto concreto e si rivolgono a uno o più destinatari determinati, fissando autoritativamente il modo di essere di un rapporto giuridico tra p.a. e privato in relazione alla specifica situazione di fatto. Tuttavia, di frequente, la pubblica amministrazione ha il potere di emanare atti amministrativi aventi contenuto generale , che si rivolgono in modo indifferenziato a categorie più o meno ampie di destinatari, non necessariamente determinati nel provvedimento ma determinabili. Essi sono propedeutici all’emanazione di provvedimenti puntuali oppure trovano svolgimento in un’attività organizzativa degli uffici pubblici. Tali atti amministrativi generali sono soggetti a un regime giuridico che deroga in parte a quello proprio dei provvedimenti amministrativi e che ricalca quello degli atti normativi: non richiedono una motivazione, nel procedimento per la loro adozione non è prevista la partecipazione di soggetti privati e l’attività diretta alla loro emanazione è esclusa dal diritto di accesso. Analizzandone alcuni, ci sono: - bandi di concorso per l’assunzione di dipendenti nelle pubbliche amministrazioni o bandi/avvisi di gara relativi ai contratti delle pubbliche amministrazioni : i primi costituiscono l’atto di avvio del procedimento per la selezione di personale delle pubbliche amministrazioni, specificano i requisiti di partecipazione, le modalità e i termini per la presentazione delle domande, lo svolgimento delle prove, i criteri per l’attribuzione dei punteggi, mentre i secondi individuano l’oggetto del contratto, il tipo di procedura, i criteri per l’ammissione e la valutazione delle offerte, le modalità e i tempi di presentazione delle offerte. Hanno contenuto concreto in quanto esauriscono i loro effetti al completamento della procedura; - atti di pianificazione o programmazione : sono atti che presiedono all’esercizio strategico dei poteri amministrativi e prefigurano obiettivi, priorità, limiti, contingenti e altri criteri che presiedono all’esercizio dei poteri amministrativi e all’attività degli uffici pubblici (ad es., il rilascio dei permessi di costruire avviene nel rispetto dei piani regolatori comunali); servono altresì per creare i raccordi tra i diversi livelli di governo, secondo il metodo della pianificazione a cascata. In materia urbanistica, il piano regolatore costituisce lo strumento principale di governo del territorio da parte dei comuni. Fu previsto in origine dalla legge urbanistica del 1942 ed è disciplinato oggi dalle leggi regionali. Esso suddivide il territorio comunale in zone omogenee (zonizzazione) con l’indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili, in base a criteri e parametri definiti in modo uniforme a livello nazionale (es. attività edificatoria a fini abitativi, industriale, agricola, ecc.). Individua poi le aree destinate a edifici e a infrastrutture pubbliche o a uso pubblico, secondo un’operazione detta localizzazione. Si inserisce in un sistema articolato di strumenti di pianificazione. È un atto complesso che prevede il coinvolgimento del comune e della regione, ed è approvato all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione dei privati. Viene, infatti, adottato dal comune, con delibera del consiglio comunale, e pubblicato per 30 giorni per consentire agli interessati di prenderne visione e presentare osservazioni, su cui deve pronunciarsi il consiglio comunale con una nuova delibera. Il piano adottato è poi soggetto all’approvazione della regione, che può proporre modifiche al fine di una migliore tutela degli interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la conformità al piano territoriale di coordinamento provinciale. Le proposte di modifica sono comunicate al comune, il quale con delibera del consiglio comunale può approvare controdeduzioni delle quali la regione tiene conto in sede di approvazione definitiva. È discussa la sua natura giuridica. Prevale in giurisprudenza la tesi secondo cui avrebbe natura mista, ossia, da un lato, dispone in via generale ed astratta in ordine al governo e all’utilizzazione dell’intero territorio comunale, e, dall’altro, contiene istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione e destinazione di singole parti del comprensorio urbano. - ordinanze contingibili e urgenti : l’art. 77 Cost. attribuisce al governo il potere di emanare decreti- legge contenenti disposizioni di rango primario nei casi straordinari di necessità e di urgenza; a livello subcostituzionale, invece, numerose disposizioni di legge attribuiscono ad autorità amministrative il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti delle quali è discussa la natura amministrativa o normativa. Alcuni esempi sono il potere del prefetto di adottare provvedimenti per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, o il potere del dipartimento della Protezione civile di emanare ordinanze in materia di protezione civile. Le leggi attributive di questo tipo di poteri si limitano di solito a individuare l’autorità amministrativa competente ad adottarli, a descrivere in termini generali il presupposto che ne legittima l’emanazione e a specificare il fine pubblico da perseguire , mentre lasciano indeterminato il contenuto del potere e i destinatari del provvedimento, con la conseguenza che l’autorità competente è dunque titolare di un’ampia discrezionalità sia nel momento in cui apprezza in concreto se la situazione di fatto giustifica l’esercizio del potere di ordinanza, sia nel momento in cui individua le misure da adottare. Queste ordinanze operano in definitiva una deroga al principio della tipicità degli atti amministrativi e sollevano un problema di compatibilità con il principio di legalità in senso sostanziale. - direttive amministrative : il contenuto delle direttive amministrative non è costituito da prescrizioni puntuali e vincolati, ma limitato all’indicazione di fini e obiettivi da raggiungere, criteri di massima, mezzi per raggiungere i fini, attribuendo, quindi, ai loro destinatari spazi di valutazione e decisione più o meno estesi, che permettono di tenere conto in sede applicativa di tutte le circostanze del caso concreto. Si distingue tra direttive interorganiche (che sono lo strumento attraverso il quale l’organo sovraordinato orienta l’attività degli organi sottordinati, quale alternativa all’ordine gerarchico o quale strumento di relazione in un rapporto di direzione, e riguardano dunque i rapporti interorganici) e direttive intersoggettive (che si inseriscono in rapporti intersoggettivi e sono lo strumento attraverso il quale, ad esempio, il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione). - norme interne e circolari : al fine di disciplinare il funzionamento e i raccordi tra le varie unità operative, le organizzazioni complesse si dotano di regole interne. Un ordinamento giuridico sezionale, cioè in qualche misura separato dall’ordinamento generale statuale, si fonda, tra le altre cose, sulla presenza di norme interne emanate dagli organi preposti all’ordinamento speciale e rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne. Tali norme interne possono assumere la forma di regolamenti interni, istruzioni o ordini di servizio, direttive generali, ecc., mentre la forma usuale di comunicazione delle norme interne è costituita dalla circolare. Oggi, le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di esse acquisiscono sempre più spesso una rilevanza nell’ordinamento generale e la distinzione tra norme interne e esterne si è venuta attenuando, anche a causa dell’introduzione dell’obbligo generalizzato per le p.a. di pubblicare tali norme interne. Gli obblighi di pubblicazione hanno inoltre fatto sorgere nella generalità degli amministrati l’aspettativa che esse costituiranno una guida dell’azione amministrativa finalizzata all’adozione di atti che producono effetti diretti nei loro confronti. Una specie sui generis di norme interne è costituita dalla prassi amministrativa, cioè dalla condotta uniforme assunta nel tempo dagli uffici in relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni prese in casi analoghi. È il principio di coerenza che fa sì che i precedenti, una volta consolidatisi, acquistino una certa forza normativa e diventino vincolanti ove non sussistano ragioni particolari per discostarsene. Il mezzo principale di comunicazione delle norme interne è costituito dalle circolari, uno strumento di orientamento e di guida degli uffici che di fatto ha per questi un grado di cogenza talora superiore alle norme giuridiche anche di rango primario. Nella prassi ne sono emersi almeno di tre tipi: interpretative (che rendono omogenea l’applicazione di nuove normative da parte delle p.a. e quindi hanno oggetto l’interpretazione di queste), normative (che hanno la funzione di orientare l’esercizio del potere discrezionale degli organi titolari di poteri amministrativi e quindi hanno ad oggetto gli spazi di valutazione discrezionale rimessi dalla legge all’autorità amministrativa) e informative (emanate per diffondere all’interno dell’organizzazione notizie, informazioni e messaggi di varia natura). Infine, anche la soft law, costituita dall’insieme di strumenti, spesso informali, volti a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e dei soggetti amministrati, ha concorso nella funzione di regolazione a livello europeo e nazionale, mettendo in crisi le classificazioni tradizionali in tema di fonti normative e di atti normativi. Il grado di effettività della soft law dipende generalmente dall’autorevolezza dell’organo da cui essa promana e, infatti, la componente autoritativo-prescrittiva di questo tipo di fonti è recessiva rispetto a quella persuasivo-sollecitatoria. Molti Stati si sono dotati di strumenti che promuovono la qualità della regolazione (better regulation) e che perseguono una pluralità di obiettivi, tra cui il contenimento dell’iperregolazione, la riduzione degli oneri che gravano sulle p.a. e sui privati per adeguarsi alle nuove normative, il contenimento della rigidità del sistema economico, la differenziazione con regole semplificate per le piccole imprese. Uno di tali strumenti è l’analisi di impatto della regolazione, che obbliga le pubbliche amministrazioni a individuare tutte le destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata. Tali disposizioni richiamano implicitamente un’altra caratteristica, ossia l’autoritarietà (o imperatività) del provvedimento , intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti di terzi. L’art. 2, invece, pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso. I termini atto e provvedimento amministrativo sono utilizzati generalmente come sinonimi, ma la dottrina tende a definire più propriamente l’atto come ogni dichiarazione di volontà, di desiderio, di conoscenza, di giudizio, compiuta da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa (sono tali, quindi, anche i pareri, le valutazioni tecniche, le proposte, le intimazioni, le certificazioni, che spesso hanno solo una funzione strumentale o accessoria rispetto al provvedimento), mentre il provvedimento costituirebbe la subcategoria più importante degli atti amministrativi e sarebbe una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere, all’esito di un procedimento, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo (sono tali, quindi, un decreto di espropriazione, un’autorizzazione, una sanzione amministrativa, ecc.). La l. 241/1990 richiama in numerose disposizioni la nozione di procedimento amministrativo. L’esercizio del potere amministrativo avviene, infatti, secondo il modulo del procedimento, cioè attraverso una sequenza, individuata sempre dalla legge, di operazioni e di atti strumentali all’emanazione di un provvedimento produttivo degli effetti giuridici nei rapporti esterni. Invero, anche l’esercizio del potere legislativo e giudiziario avviene secondo la modalità del procedimento. Il procedimento, infatti, assolve a una pluralità di funzioni: da un lato, risponde ad esigenze di trasparenza, dall’altro, garantisce meglio la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti autoritativi dello Stato. Quanto al diritto privato, invece, l’attività che precede l’adozione di atti negoziali è tendenzialmente irrilevante per il diritto (salvo taluni casi di responsabilità precontrattuale). La funzione di amministrazione attiva pone la pubblica amministrazione in una situazione di tipo relazione con i soggetti privati destinatari del provvedimento, una relazione, peraltro, che è stata riconosciuta solo in epoca recente. Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era concepito come un’entità sovraordinata rispetto ai soggetti privati, tale da escludere la configurabilità di vincoli giuridici bilaterali, tipici dei rapporti privatistici. In una concezione moderna, più conforme all’idealo dello Stato di diritto, si riconosce l’esistenza di una relazione giuridica bilaterale in cui i termini dialettici sono, da un lato, il potere amministrativo e, dall’altro, l’interesse legittimo. La relazione giuridica bilaterale si sviluppa anzitutto nel procedimento finalizzato all’adozione di un provvedimento, ma talvolta continua anche dopo la sua emanazione (in particolare, nei rapporti di durata). Occorre approfondire i caratteri della relazione tra potere amministrativo e interesse legittimo. Il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo stragiudiziale. Il diritto potestativo stragiudiziale, che si differenzia dal diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale, si caratterizza per il fatto che la produzione dell’effetto giuridico discende in modo diretto dalla manifestazione di volontà del titolare del potere, il quale è quindi unilaterale e autosufficiente, mentre non richiede un previo accertamento giudiziale che verifichi la sussistenza nella fattispecie concreta degli elementi previsti in astratto a livello di fattispecie normativa. Un esempio di diritto potestativo stragiudiziale è anche il potere del datore di lavoro di licenziare un dipendente per giusta causa. La verifica giurisdizionale è prevista anche per i diritti potestativi stragiudiziali, ma è posticipata e l’iniziativa processuale spetta al soggetto passivo. Lo schema di produzione degli effetti giuridici tipica del diritto potestativo è la sequenza norma-fatto-potere-effetto giuridico , che si differenzia dal tradizionale schema norma-fatto-effetto giuridico, tipico delle relazioni ricostruibili in termini di diritto soggettivo-obbligo, in quanto viene meno l’automatismo nella produzione dell’effetto giuridico. Infatti, il verificarsi di un fatto concreto conforme alla norma attributiva del potere determina in capo a un soggetto, ossia il titolare del potere, la possibilità di produrre l’effetto giuridico individuato a livello di fattispecie normativa attraverso una dichiarazione di volontà. Pertanto, tra il fatto e l’effetto giuridico si interpone un elemento, cioè il potere, e il titolare di quest’ultimo è libero di decidere se provocare con una propria manifestazione di volontà l’effetto giuridico tipizzato dalla norma, dove, invece, nello schema norma-fatto-effetto giuridico, la norma definisce in termini astratti gli elementi della fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si ricollega e tutte le volte che si verifica un fatto concreto sussumibile nella fattispecie normativa si produce in modo automatico l’effetto giuridico. Questa tipologia di situazione giuridica soggettiva è stata elaborata dalla dottrina al fine di inquadrare la tutela giurisdizionale di tipo costitutivo, che individua appunto due tipologie di diritti potestativi, quelli stragiudiziali e quelli a necessario esercizio giudiziale, a cui si riferisce l’art. 2908 c.c. sulla tutela costitutiva. Come anzidetto, il potere amministrativo può essere ricondotto allo schema del diritto potestativo stragiudiziale. Infatti, la produzione dell’effetto giuridico discende in modo immediato dalla dichiarazione di volontà dell’amministrazione che emana il provvedimento e l’accertamento giurisdizionale può avvenire solo in via posticipata per iniziativa del soggetto passivo. Questo schema, nel caso del potere amministrativo, trova giustificazione nell’esigenza, ritenuta prevalente, di garantire la realizzazione immediata dell’interesse pubblico , la cui cura è affidata all’amministrazione . Inoltre, vi è da considerare che la posizione dei soggetti destinatari del provvedimento trova una tutela nella fase procedimentale, in quanto l’amministrazione è tenuta a ispirare la propria attività a criteri di correttezza, imparzialità e trasparenza. Rispetto allo schema del diritto potestativo stragiudiziale, però, il potere amministrativo presenta alcune specificità. Il primo, infatti, generalmente trova un fondamento consensuale di tipo pattizio, tanto che si può dire che l’unilateralità e immediatezza nella produzione dell’effetto giuridico trovano un temperamento nel fondamento in ultima analisi consensuale del potere. Inoltre, nei rapporti privati, la fattispecie normativa determina in modo rigido l’effetto giuridico prodotto attraverso la dichiarazione di volontà del titolare del diritto: il potere e l’effetto giuridico sono cioè interamente vincolati. Invece, il potere amministrativo, quanto al primo aspetto, trova fondamento diretto nella legge, cioè nella norma di conferimento del potere , piuttosto che nel consenso del soggetto passivo, e senza che sussista un rapporto giuridico preesistente, salvo, in senso figurato, il consenso del regime parlamentare. Inoltre, quando al secondo aspetto, il potere della p.a. non è sempre integralmente vincolato. Anzi, di regola, la legge attribuisce all’amministrazione margini più o meno ampi di apprezzamento e valutazione discrezionale che possono determinare una modulazione del contenuto e degli effetti del provvedimento. Ne consegue che, in presenza di una contestazione, il giudice potrà operare un sindacato pieno soltanto sugli aspetti vincolati del potere e non potrà, invece, sostituirsi al titolare del potere nell’operare la valutazione discrezionale. Le norme che si riferiscono alla pubblica amministrazione si distinguono in norme di azione e norme di relazione. Le norme di azione disciplinano il potere amministrativo nell’interesse esclusivo della pubblica amministrazione, ossia hanno come scopo quello di assicurare che l’emanazione degli atti sia conforme a parametri predeterminati e non hanno una funzione di protezione dell’interesse dei soggetti privati. Inoltre, seguono lo schema norma-fatto-potere-effetto. Le norme di relazione , invece, sono volte a regolare i rapporti intercorrenti tra l’amministrazione e i soggetti privati, a garanzia anche di questi ultimi, definendo direttamente l’assetto degli interessi e dirimendo i conflitti insorgenti tra cittadino e p.a. Inoltre, seguono lo schema norma-fatto-effetto. Si può dire, quindi, che la norma di azione segna i limiti interni al potere, volti a guidare l’attività dell’amministrazione, mentre la norma di relazione segna i limiti esterni, tracciando i confini tra la sfera giuridica dei soggetti privati rispetto a quella dell’amministrazione. Pertanto, le differenze si esprimono: sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, in quanto si distingue tra interesse legittimo, correlato alla norma di azione, e diritto soggettivo, correlato alla norma di relazione; sul piano delle qualificazioni giuridiche, per l’applicazione della categoria dell’illegittimità o dell’illiceità degli atti che violano l’uno o l’altro tipo di norma; sul piano della giurisdizione, in quanto si distingue l’attribuzione delle controversie al giudice ordinario (che dovrà accertare la conformità o meno del fatto rispetto alla norma di relazione) o al giudice amministrativo (che dovrà accertare la conformità non solo del fatto, ma anche dell’atto rispetto alla norma di azione). In realtà, questa distinzione è datata ed è legata ad una concezione dell’interesse legittimo ormai superata , che lo vedeva come una situazione giuridica soggettiva che riceve tutt’al più una tutela indiretta riflessa da parte dell’ordinamento e che non è inquadrabile nello schema del rapporto giuridico. In realtà, anche le norme che disciplinano l’attività amministrativa, quindi le norme di azione, hanno una valenza relazionale e una funzione di tutela dell’interesse del soggetto privato al mantenimento o conseguimento di un bene della vita, oltre che dell’interesse pubblico. È dunque preferibile utilizzare la formula di norma attributiva del potere. La norma attributiva del potere individua in termini astratti gli elementi caratterizzanti il particolare potere attribuito a un apparato pubblico. Essi sono: - il soggetto competente, la cui indicazione è necessaria in ragione della molteplicità e varietà di apparati in cui è articolato il sistema amministrativo (l’atto emanato da un soggetto o organo diverso da quello previsto è affetto da vizio di incompetenza); - il fine pubblico, correlato all’interesse pubblico primario affidato alla cura dell’apparato amministrativo, che può essere espresso o implicitamente ricavato dalla legge ed è, quindi, eteroimposto e non autodeterminato dall’amministrazione (l’atto emanato in violazione del vincolo del fine configura un vizio di eccesso di potere per sviamento); - i fatti costitutivi del potere, ossia i presupposti e requisiti sostanziali in presenza dei quali il potere sorge e può essere esercitato (ad esempio, è tale la conformità del progetto al piano regolatore, per il permesso di costruire). La fattispecie normativa può essere più o meno analitica; di conseguenza, il potere può essere più o meno vincolato o discrezionale : su un estremo si collocano i poteri integralmente vincolati, in relazione ai quali l’amministrazione deve solo verificare se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati e, in tal caso, emanare il provvedimento che produce gli effetti rigidamente predeterminati dalla norma; sull’altro estremo si collocano i poteri sostanzialmente in bianco, che rimettono al soggetto titolare del potere spazi molto ampi di apprezzamento, di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie per tutelare un determinato interesse pubblico. La discrezionalità emerge quando la norma autorizza, ma non obbliga a emanare un certo provvedimento. La presenza di concetti giuridici indeterminati determina ampi spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere. Essi possono essere di due tipi: empirici/descrittivi, che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto e involgono giudizi di carattere tecnico-scientifico e riguardano, quindi, valutazioni tecniche (ad es. la pericolosità di un edificio); normativi/di valore, che contengono un elemento di soggettività e involgono, dunque giudizi di valore, andando a coprire l’area della discrezionalità amministrativa (un film adatto). Con riguardo ai concetti giuridici empirici, l’indeterminatezza rende problematica la sussunzione della fattispecie concreta nel parametro normativo; con riguardo ai concetti giuridici normativi, è la stessa interpretazione del parametro normativo a presentare margini di opinabilità elevati, essendo legata ai valori e alla sensibilità soggettiva dell’interprete. Anche il concetto giuridico indeterminato presenta, tuttavia, un nocciolo di certezza, negativa e positiva, mentre la difficoltà sta nelle situazioni limite. Sorge il problema di individuare fino a che punto le valutazioni dell’amministrazione possano essere sindacate dal giudice. Si tratta, tuttavia, di un risvolto inevitabile, in quanto il parlamento è costretto a delegare ad apparati pubblici spazi più o meno ampi di valutazione al fine di far fronte alla complessità dei fenomeni economici e sociali e alla rapidità dei cambiamenti. - i requisiti formali degli atti e le modalità di esercizio del potere, ossia la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per l’emanazione del provvedimento finale, quindi il procedimento. L’interesse legittimo. Il termine passivo del rapporto giuridico amministrativo è l’interesse legittimo. Al pari del diritto soggettivo, esso trova un riconoscimento costituzionale nelle disposizioni dedicate alla tutela giurisdizionale (artt. 24, 103 e 113) ed è una situazione giuridica soggettiva dalla quale non si può prescindere, nonostante le critiche in sede dottrinale e le incertezze in sede applicativa. La distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo rileva in particolare sotto due profili: come criterio di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e, originariamente, come delimitazione dell’ambito della responsabilità civile della pubblica amministrazione, anche se tale profilo è stato superato con la sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, che ha aperto la strada alla risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. Il primo profilo rimane invece fondamentale. La Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che la giurisdizione amministrativa ha per oggetto gli interessi legittimi, mentre solo in casi tassativi può conoscere dei diritti soggettivi (giurisdizione esclusiva) e solo quando questi sono in qualche modo connessi a un rapporto nel quale l’amministrazione si presenta in veste di autorità. In origine, la legge 2248/1865, All. E, di abolizione del contenzioso amministrativo, attribuì al giudice civile la giurisdizione in tutte le controversie tra il privato e la pubblica amministrazione nelle quali si facesse questione di un diritto civile o politico, ossia di un diritto soggettivo, ancorché la controversia fosse correlata all’emanazione di un provvedimento. Nella prassi interpretativa, il giudice civile si dimostrò timido nel sindacare gli atti della pubblica amministrazione e nel qualificare la posizione del privato in termini di diritto soggettivo. Tale timidezza creò un vuoto di tutela di fronte a numerosi casi di illegittimità e abusi da parte dell’amministrazione. Da qui l’origine della legge del 1889 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, che mirava a integrare la legge del 1865, introducendo un nuovo rimedio per tutelare tutte le situazioni non qualificabili come diritto soggettivo. Essa venne investita del potere di decidere sui ricorsi contro gli atti o provvedimenti illegittimi aventi per oggetto “ un interesse d’individui o di enti morali giuridici ” . La giurisprudenza e la dottrina si dovettero confrontare subito con il problema di riempire di contenuto la formula “interesse”, posta dal legislatore come requisito per poter proporre il ricorso alla IV Sezione (nel senso che la previsione di una nuova forma di tutela processuale ha preceduto storicamente l’individuazione della situazione giuridica soggettiva che doveva essere tutelata), e ottenere l’annullamento tanto che, nel tempo, sono state offerte varie ricostruzioni, ormai superate, tra cui: - la teoria del diritto fatto valere come interesse, che propose di utilizzare quale criterio per incardinare la competenza della IV Sezione quello del petitum , ovvero della richiesta formulata dal ricorrente al giudice: l’annullamento del provvedimento al giudice amministrativo, mentre, invece, la richiesta del mero risarcimento del danno era riservata al giudice ordinario. In questo modo, la situazione giuridica soggettiva non mutava, si trattava sempre di diritto soggettivo, anche se fatto valere come interesse nel caso di competenza della IV Sezione, mentre la distinzione di giurisdizione rilevava solo in funzione del tipo di tutela (risarcimento o annullamento) che intendeva perseguire. La giurisprudenza, tuttavia, preferì ancorare il riparto della giurisdizione al criterio più oggettivo della causa petendi, cioè della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio. - la teoria dell’interesse legittimo come interesse di mero fatto, secondo cui si negava la consistenza di vera e propria situazione giuridica sostanziale all’interesse legittimo, accordandogli solo un significato processuale. Si trattava, pertanto, di un interesse di mero fatto, collegato alla norma d’azione volta a tutelare in modo esclusivo l’interesse pubblico. - la teoria del diritto alla legittimità degli atti, ossia la teoria secondo cui l’interesse legittimo altro non sarebbe che il diritto soggettivo avente per oggetto esclusivamente la pretesa formale a che l’azione amministrativa sia conforme alle norme che regolano il potere. - la teoria della degradazione o affievolimento del diritto soggettivo, secondo cui l’interesse legittimo va considerato come un diritto affievolito, cioè come la risultante dell’atto di esercizio del potere amministrativo (quindi, del provvedimento amministrativo) che incide su un diritto soggettivo. Tale categoria di diritti fa coppia con quella simmetrica dei diritti soggettivi in attesa di espansione, ossia diritti già attribuiti in astratto alla titolarità di un soggetto privato, il cui esercizio è però condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione, nei confronti del quale il titolare del diritto vanta un interesse legittimo. - la teoria dell’interesse occasionalmente protetto, che si basa sulla ricostruzione tradizionale secondo cui l’interesse legittimo è posto in una posizione subalterna e ancillare rispetto all’interesse pubblico. Se da un lato l’interesse del privato è oggetto di una tutela diretta e immediata da parte dell’ordinamento solo in presenza di un diritto soggettivo (parliamo di una norma di relazione), l’interesse legittimo può essere visto come l’interesse occasionalmente (e indirettamente) protetto dall’ordinamento attraverso una norma d’azione, che è volta a tutelare in modo diretto e immediato l’interesse pubblico. Il privato, invece, trova in essa solo una qualche protezione in via riflessa e indiretta, in quanto essa ha lo scopo primario della tutela dell’interesse pubblico. L’interesse legittimo, pertanto, si distingue dal diritto soggettivo proprio per il fatto che l’acquisizione (o la conservazione) di un determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma (d’azione), che tutela in modo diretto solo l’interesse pubblico, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di discrezionalità esclude infatti che il soggetto titolare sia in grado di prevedere ex ante l’assetto finale degli interessi posto dal provvedimento emanato. Queste ricostruzioni, tuttavia, sono connotate da una ideologia di fondo collegata a una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e fondata sul postulato di generale sovraordinazione della pubblica amministrazione, che esclude la possibilità di instaurazione di un rapporto giuridico in senso tecnico. Successivamente , si è iniziato ad attribuire all’interesse legittimo una connotazione sostanziale , contrariamente alla tesi secondo la quale la norma d’azione tutela il privato tutt’al più in via indiretta e occasionale. In particolare, l’impostazione tradizionale è entrata in crisi in seguito all’emergere di una nuova sensibilità, più in linea con i valori costituzionali e con l’ordinamento europeo, che tendono verso una maggiore e completa protezione delle situazioni giuridiche soggettive del cittadino. Infatti, la Costituzione attribuisce ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi una pari dignità , cosicché a entrambi l’ordinamento deve assicurare una tutela piena ed effettiva (art. 24). In particolare, l’interesse legittimo ha acquisito una valenza sostanziale in seguito al riconoscimento della sua risarcibilità ad opera della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 500/1999. La Corte ha, infatti, posto una linea di confine della risarcibilità all’interno dell’interesse legittimo in ragione della rilevabilità nella situazione concreta di una lesione a un bene della vita già ascrivibile in qualche modo alla sfera giuridica del privato titolare dell’interesse legittimo. La connotazione sostanziale dell’interesse legittimo emerge, poi, anche dal modo in cui la giurisprudenza ha inquadrato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo devoluta ora alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte costituzionale, infatti, nella sentenza n. 204/2004, ha inteso l’azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione rimediale, cioè come tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica tutela più tradizionale costituita dall’annullamento, in questo modo dichiarando implicitamente che l’interesse legittimo ha necessariamente per oggetto un bene della vita suscettibile di essere leso da un provvedimento illegittimo. Nel Codice del processo amministrativo, si trova ora anche l’azione di adempimento quale rimedio per la tutela del bene della vita, correlato all’interesse legittimo. In definitiva, il baricentro si è spostato dal collegamento dell’interesse legittimo con l’interesse pubblico, a quello con l’utilità finale o bene della vita che il soggetto titolare dell’interesse legittimo mira a conservare o ad acquisire , conquistando, quindi, una connotazione sostanziale . Il Consiglio di Stato ha definito l’interesse legittimo come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse del bene. In conclusione, la norma di conferimento del potere ha lo scopo di tutelare sia l’interesse pubblico curato dalla pubblica amministrazione, sia l’interesse del privato che mira a conservare o ad acquisire una utilità finale o bene della vita. Nel rapporto giuridico amministrativo, l’amministrazione titolare del potere cura, quindi, l’interesse pubblico, mentre il titolare dell’interesse legittimo mira al proprio interesse individuale, con libertà di scegliere le forme di tutela. Quindi, l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma di conferimento del potere , che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere. L’interesse legittimo acquista così una dimensione attiva , anche se costituisce il termine passivo del rapporto giuridico, poiché in capo all’amministrazione gravano una serie di doveri comportamentali. Il titolare dell’interesse legittimo fa valere nei confronti dell’amministrazione una pretesa a che il potere sia esercitato in modo legittimo e, per quanto possibile, conforme al suo interesse sostanziale alla conservazione o acquisizione di un bene della vita. Sulla base di queste considerazioni, strutturalmente l’interesse legittimo sembra riconducibile a una figura particolare di diritto (di credito) avente per oggetto una prestazione-comportamento da parte dell’amministrazione a favore del soggetto privato . Pertanto, l’interesse legittimo presenta sia una dimensione passiva di soggezione rispetto al potere esercitato, sia una dimensione attiva di pretesa a un esercizio corretto del potere, a cui corrisponde una duplice dimensione del potere, da un lato, attiva, se riferita alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico, dall’altro passiva, se correlata ai doveri di comportamento che gravano sull’amministrazione. Sotto il profilo funzionale, gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie. Gli interessi legittimi oppositivi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario, sacrificando l’interesse di quest’ultimo; pertanto, il privato cercherà di intraprendere tutte le iniziative volte a contrastare l’esercizio del potere. Gli interessi legittimi pretensivi , invece, sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del destinatario, dando soddisfazione all’interesse di quest’ultimo; pertanto, il privato cercherà di porre in essere in un clima collaborativo tutte le attività volte a stimolare l’esercizio del potere e a orientare la scelta dell’amministrazione. Le rispettive dinamiche nel rapporto giuridico amministrativo si riflettono sulla struttura del procedimento e del processo amministrativo. Nel caso degli interessi legittimi oppositivi, il procedimento si apre usualmente d’ufficio e la comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso degli interessi legittimi pretensivi, il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere l’obbligo di procedere e provvedere in campo all’amministrazione e che instaura il rapporto giuridico amministrativo. Nel caso di interessi legittimi oppositivi, il bisogno di tutela è legato all’interesse alla conservazione del bene della vita e tale bisogno è soddisfatto attraverso l’annullamento dell’atto impugnato. Nel caso di interessi legittimi pretensivi, invece, il bisogno di tutela è legato all’acquisizione del bene della vita e richiede, oltreché l’annullamento del provvedimento o, nel caso di silenzio- inadempimento, l’accertamento dell’inadempimento, anche l’azione di adempimento. Per quanto riguarda la tutela risarcitoria, con riferimento agli interessi legittimi oppositivi, essa ha per oggetto i danni derivanti dalla privazione o limitazione nel godimento del bene della vita, mentre nel caso degli interessi legittimi pretensivi, la tutela risarcitoria ha per oggetto i danni conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del bene della vita. provvedimento conclusivo del procedimento, pur considerando che, in ragione della diversa natura funzionale del diritto di partecipazione e della legittimazione processuale, l’ambito del primo è più ampio rispetto al secondo), l’elaborazione della nozione di interesse collettivo quale specie di interesse legittimo (che verte sulla distinzione tra interessi propriamente diffusi e interessi collettivi, che sarebbero invece riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati, rappresentativi della categoria o del gruppo, cui è stata riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione processuale autonoma per la tutela degli interessi della categoria) e il criterio della legittimazione ex lege (ad alcuni soggetti la legge ha attribuito una legittimazione speciale per la cura di interessi diffusi). Diversi sono gli interessi individuali omogenei o isomorfi, i quali mantengono il carattere di situazioni giuridiche soggettive individuali e acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a una pluralità di soggetti. Ciascun soggetto potrebbe agire autonomamente in giudizio ma molto spesso il danno individuale è di entità tale da scoraggiare l’esperimento di un’azione in sede giurisdizionale (small claims). Sono previste pertanto forme di tutela non giurisdizionale semplificate (le ADR). Di recente, è stata introdotta l’azione di classe (class action). L’art. 840-bis c.p.c. prevede ora che i diritti individuali omogenei possono essere azionati da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro. È stato introdotto inoltre il ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici da esperire innanzi al giudice amministrativo, che mira ad ottenere una pronuncia del giudice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio pubblico, promuovibile anche da associazioni o comitati costituiti ad hoc. Principi generali. Si distinguono i principi che presiedono alla distribuzione delle funzioni tra i vari livelli di governo e che sono rivolti al legislatore e i principi che hanno come destinatarie dirette le amministrazioni. Di questi ultimi, molti sono caratterizzati da interdipendenza e circolarità, nel senso che operano in modo sinergico con un effetto di rafforzamento reciproco. Quanto ai principi rivolti al legislatore. Dal punto di vista delle funzioni. Il principio fondamentale che presiede all’allocazione delle funzioni è il principio di sussidiarietà , menzionato nei Trattati europei e nella Costituzione. L’ art. 5 TUE enuncia il principio di sussidiarietà verticale con riguardo ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione al fine di contenere le spinte all’accentramento di funzioni in capo a queste ultime: l’UE agisce esclusivamente nei limiti delle competenze assegnate (tassatività), le quali non devono eccedere quelle necessarie per conseguire gli scopi dell’UE che non possono essere meglio curati dagli Stati membri (proporzionalità), mentre gli Stati membri sono titolari della generalità delle competenze residue. Nel diritto interno, è l’art. 118 che richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il principio autonomistico posto dall’art. 5, prevedendo che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino e che solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario possono essere attribuite ai livelli di governo più elevati. La l. 59/1997 disciplina con riferimento alle singole materie tali principi, definendo l’adeguatezza come l’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente le funzioni e il principio di differenziazione come il principio che mira a tenere conto delle diverse caratteristiche anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi. La l. 59/1997 menziona altresì i principi di efficienza, economicità responsabilità e unicità dell’amministrazione e di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per l’esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare. La Costituzione richiama inoltre la sussidiarietà orizzontale, che definisce i rapporti tra poteri pubblici e società civile, stabilendo che Stato e enti territoriali favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Dal punto di vista dei principi sull’attività. Secondo l’art. 1 l. 241/1990, l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario. La disposizione mette in luce la nuova impostazione che favorisce una amministrazione di risultato, che si aggancia al più generale principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e che pone l’accento sull’efficienza, l’efficacia e l’economicità, rispetto all’impostazione tradizionale che poneva l’accento sulla legalità formale. Il principio di efficienza mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e focalizza l’attenzione sull’uso ottimale dei fattori produttivi. Il principio di efficacia misura i risultati effettivamente ottenuti rispetto agli obiettivi prefissati in un piano o un programma. L’economicità si riferisce alla capacità di lungo periodo di un’organizzazione di utilizzare in modo efficiente le proprie risorse raggiungendo in modo efficace i propri obiettivi e, in qualche modo, condensa gli altri due principi. Il principio di pubblicità e di trasparenza è enunciato a livello europeo. Il TFUE precisa che al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile e si basano su un’amministrazione europea aperta, nella quale le determinazioni assunte devono essere rese accessibili a chi vi ha interesse. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuisce a ogni individuo il diritto di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale. Il principio di pubblicità e trasparenza rileva in due ambiti: il primo si riferisce all’organizzazione e all’attività della p.a., che è tenuta a mettere a disposizione degli interessati un’ampia serie di informazione, anche allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche; il secondo si riferisce al diritto di accesso ai documenti amministrativi, ampliato poi con l’introduzione dell’accesso civico. La pubblicità e la trasparenza così intese si ricollegano alla concezione dell’amministrazione come “casa di vetro” e sono volte a promuovere la verificabilità ex post dell’attività. A livello interno, il tema è affrontato dal d.lgs. 33/2013. Alcuni principi presiedono all’esercizio del potere discrezionale e sono il principio di imparzialità, di proporzionalità, di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di precauzione. Il principio di imparzialità, richiamato dall’art. 97 Cost. e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, consiste essenzialmente nel divieto di favoritismi, è posto a garanzia della parità di trattamento (par condicio) e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione, la quale non può essere influenzata da interessi politici, di gruppi di pressione privati (lobby) o da singoli favoriti per ragioni di amicizia o parentela, permeando sia l’attività sia l’organizzazione della p.a. Tale principio può entrare in tensione con il principio della responsabilità politica delle amministrazioni, che è volto a inserire queste ultime nel circuito politico amministrativo. I vertici delle pubbliche amministrazioni costituiscono il punto di raccordo tra politica e amministrazione e sono portati a perseguire obiettivi coerenti con le priorità della propria base elettorale. Il principio di proporzionalità, di origine tedesca, invece, richiede all’amministrazione di applicare in sequenza tre criteri: idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta. L’idoneità mette in relazione il mezzo adoperato con l’obiettivo da perseguire. La necessarietà mette a confronto le misure ritenute idonee e orienta la scelta su quella che comporta il minor sacrificio possibile degli interessi incisi dal provvedimento. L’adeguatezza consiste nella valutazione della scelta finale in termini di tollerabilità della incisione nella sfera giuridica del destinatario. Il principio di proporzionalità costituisce una specificazione del principio di ragionevolezza , che ha però un’estensione più ampia e assume rilievo generale nell’ambito del sindacato di legittimità dei provvedimenti amministrativi come figura sintomatica dell’eccesso di potere. Esso è anche un parametro che deve guidare il legislatore nel momento che alloca e disciplina i poteri dei vari livelli di governo, quindi, vincola anche la discrezionalità del legislatore. Il principio del legittimo affidamento mira a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica amministrazione con un suo atto o comportamento. Nel diritto interno, interviene a proposito del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, per l’esercizio del quale è richiesta all’amministrazione una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una considerazione del tempo ormai trascorso. Esso si ricollega al principio ancor più generale del diritto europeo della certezza del diritto, enunciato dalla Corte di giustizia dell’UE, che mira a garantire un quadro giuridico stabile e chiaro e ha anzitutto come destinatario il legislatore, ma implica anche che l’agire dell’amministrazione deve essere prevedibile e coerente. Il principio di precauzione, enunciato in materia ambientale nel TFUE ed elevato a principio di carattere generale nei campi di azione in cui intervengono interessi pubblici, comporta che, quando sussistono incertezze in ordine all’esistenza o al livello di rischi per la salute delle persone , le autorità competenti possono adottare misure protettive senza dover attendere che sia dimostrata in modo compiuto la realtà e la gravità di tali rischi. Costituisce un principio guida per il legislatore ma può trovare applicazione, entro certi limiti, anche come regola di esercizio della discrezionalità. Per quanto riguarda i principi che si riferiscono specificamente al provvedimento amministrativo, in aggiunta al principio di legalità, sono da nominare il principio della motivazione e il principio di sindacabilità degli atti. Il principio di motivazione è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE che sancisce l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni e dalla l. 241/1990, secondo cui l’obbligo di motivazione è il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale. Poiché attraverso la motivazione è possibile ricostruire le ragioni poste a fondamento della decisione, tale principio può essere messo in relazione con il principio di trasparenza e con quello di imparzialità della decisione. Il principio di sindacabilità degli atti amministrativi è sancito, invece, dalla Costituzione agli artt. 24 e 113, secondo cui gli atti amministrativi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre sottoposti al controllo giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice amministrativo. Infine, i principi relativi al procedimento amministrativo sono: - il principio del contradditorio, che è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, secondo la quale ogni individuo ha diritto di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio, ed è stato poi sviluppato nella l. 241/1990, che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo. Talora viene assimilato al principio del giusto processo elaborato negli ordinamenti anglosassoni e ora inserito nell’art. 111 della Costituzione. - il principio di certezza del tempo dell’agire amministrativo e di celerità, che viene enunciato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE e reso concreto dalla l. 241/1990 che individua per ciascun tipo di procedimento un termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento finale che conclude il procedimento amministrativo. Esso persegue due obiettivi: permettere al privato di programmare le proprie attività e promuovere l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. - il principio di efficienza enunciato dalla l. 241/1990, inteso come divieto per la p.a. di aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. - il principio di correttezza e buona fede, inserito al comma 2-bis dell’art. 1 l. 241/1990. IL PROVVEDIMENTO Il provvedimento è la manifestazione di volontà dell’amministrazione, tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei confronti del soggetto destinatario. È assunto all’esito di un procedimento tradizionale dell’integrazione della motivazione nel corso del giudizio e dunque dell’ammissibilità della motivazione successiva. Non assume rilievo autonomo, invece, la causa, essenziale nei negozi giuridici privati, in quanto i poteri amministrativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge. - la forma scritta, di regola (per gli atti collegiali, la verbalizzazione), ma in taluni casi è sufficiente la forma orale (ordini di polizia, proclamazione del risultato di una votazione). Nel caso di provvedimento sotto forma di accordo tra amministrazione e privato, l’art. 11 prevede a pena di nullità la forma scritta. L’art. 21 l. 241/1990 contiene un richiamo agli elementi essenziali la cui mancanza costituisce una causa di nullità. La norma, tuttavia, non li elenca in modo puntuale e vanno dunque individuati in via di interpretazione, tenendo presente che nel diritto amministrativo le ipotesi di nullità tendono ad essere limitate al minimo. Quanto alle regole sull’interpretazione, valgono quelle previste in via generale dal codice civile per l’interpretazione dei contratti, salvo alcune di esse, come l’art. 1370 sull’interpretazione contro l’autore e l’art. 1371 sull’interpretazione meno gravosa per l’obbligato nel caso di dubbio interpretativo, poiché prevale l’esigenza di garantire il perseguimento dell’interesse pubblico. Sul piano della redazione formale, l’atto amministrativo indica nell’intestazione l’autorità emanante, contiene nel preambolo i riferimenti alle norme legislative che fondano il potere, richiama gli atti endoprocedimentali rilevanti e sviluppa la motivazione, enuncia nel dispositivo la determinazione finale. Reca la data e la sottoscrizione e menziona i destinatari e l’organo giurisdizionale cui è possibile ricorre contro l’atto e il termine per la proposizione del ricorso. Tipologie di provvedimenti. Anzitutto, si distingue tra provvedimenti aventi effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario e provvedimenti aventi effetti ampliativi. Le principali subcategorie dei provvedimenti aventi effetti limitativi sono i seguenti: - i provvedimenti ablatori reali (= estinguono diritti reali), tra cui anzitutto l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale si manifesta il conflitto tra l’interesse pubblico, costituito nel consentire alla pubblica amministrazione di trasferire coattivamente il diritto di proprietà dal privato all’amministrazione o al soggetto beneficiario, e gli interessi privati, che vengono compensati con il diritto a un indennizzo (garantito dall’art. 42, co. 3, Cost.). La disciplina sostanziale e procedimentale è contenuta nel T.U. in materia di espropriazione per pubblica utilità. La Corte costituzionale è intervenuta in materia di indennizzo, stabilendo il principio del serio ristoro: esso non coincide necessariamente con il valore di mercato, ma neppure può essere irrisorio; occorre invece fare riferimento al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla sua potenziale utilizzazione economica. Altri provvedimenti ablatori reali sono l’occupazione preordinata all’espropriazione di opere dichiarate indifferibili e urgenti, la requisizione in uso di beni mobili e immobili per periodi di tempo limitati, che può essere disposta per gravi e urgenti necessità pubbliche militari o civili, e le servitù pubbliche; - i provvedimenti ablatori personali (o ordinatori), tra cui rientrano gli ordini amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi di fare o di non fare puntuali . L’ordine è un provvedimento che prescrive un comportamento specifico da adottare in una situazione determinata ed è lo strumento con il quale nelle organizzazioni improntate al principio gerarchico il titolare dell’organo o dell’ufficio sovraordinato impone la propria volontà e guida l’attività dell’organo o ufficio sottordinato (ordini che riguardano rapporti interorganici). Esso presuppone che l’ambito della competenza attribuito a quest’ultimo sia incluso nell’ambito della competenza del primo. L’impiegato civile dello Stato (il pubblico impiegato) deve eseguire gli ordini impartiti dal superiore gerarchico. Se l’ordine appare palesemente illegittimo, però, è tenuto a farne rimostranza motivata al superiore, il quale ha il potere di rinnovarlo per iscritto. In questo caso, l’impiegato deve darvi esecuzione, a meno che non si tratti di un atto vietato dalla legge penale. Altrimenti, la mancata osservanza dell’ordine può comportare l’adozione di sanzioni disciplinari e può indurre il superiore ad avocare a sé la competenza. Gli ordini amministrativi possono riguardare anche i rapporti intersoggettivi tra l’amministrazione e soggetti privati. Tra gli ordini di polizia, in particolare, emanati dalle autorità di pubblica sicurezza, vi è l’invito a comparire dinanzi all’autorità di pubblica sicurezza entro un termine oppure l’ordine di sciogliere una riunione, oppure il divieto di svolgimento di riunioni per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica. L’effettività di questo genere di provvedimenti è rafforzata da una figura di reato che punisce chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato da un’autorità amministrativa per ragioni di sicurezza pubblica o di ordine pubblico. Al di là della denominazione, anche altri atti previsti in numerose leggi hanno contenuto prescrittivo ordinatorio: l’AGCM può ad esempio vietare la continuazione di pratiche commerciali scorrette eliminandone gli effetti o il responsabile dell’ufficio comunale competente in materia edilizia può impartire all’interessato, ove riscontri la mancanza delle condizioni previste, di non effettuare l’intervento. Questi esempi introducono una sottospecie di provvedimenti ordinatori costituita dalla diffida, che consiste nell’ordine di cessare da un determinato comportamento posto in essere in violazione di norme amministrative, talora anche con la fissazione di un termine per eliminare gli effetti dell’infrazione. - le sanzioni amministrative, che sono volte a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione afflittiva e una valenza dissuasiva. Esse hanno l’obiettivo di garantire l’effettività e l’autosufficienza degli ordinamenti speciali rispetto all’ordinamento generale, ma in molti casi la loro deterrenza è accresciuta dalla previsione in parallelo di sanzioni di tipo penale. Sono previste dalle leggi amministrative sia in caso di violazione dei precetti in esse contenuti, sia nel caso di violazione dei provvedimenti prescrittivi emanati sulla base di tali leggi. Sussiste un certo grado di fungibilità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative e la dottrina ha dibattuto a lungo se e quale possa essere il criterio sostanziale di distinzione. Infatti, hanno entrambe l’analoga finalità di prevenzione generale e speciale di illeciti, ma se, da un lato, il legislatore italiano ha tradizionalmente impostato la distinzione sulla base di criteri formali, la Corte europea dei diritti dell’uomo, adottando un approccio sostanzialistico, ha precisato che talune sanzioni amministrative possono avere natura sostanzialmente penale, individuata sulla base dei criteri Engel (qualificazione giuridica formale attribuita, natura della sanzione, grado di severità). Tale approccio, adottato anche dalla Corte di giustizia, è stato assunto al fine di garantire il diritto a un equo processo e ai fini dell’applicazione delle garanzie previste da tale diritto. Le sanzioni amministrative possono essere ricondotte a più tipi: - sanzioni pecuniarie , consistenti nell’obbligo di pagare una somma di danaro determinata entro un minimo e un massimo, che può anche gravare a titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento e può essere estinto tramite il pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni dalla contestazione, cioè prima che abbia corso il procedimento in contraddittorio per l’accertamento dell’illecito, sgravando così gli uffici di un’attività istruttoria talora onerosa. - sanzioni interdittive , che incidono sull’attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento; - sanzioni disciplinari , che si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con le p.a. e sono volte a colpire comportamenti posti in violazione di obblighi speciali collegati allo status . Consistono nell’ammonizione, nella sospensione dal servizio dall’albo per un tempo determinato, nella radiazione. Si distinguono poi sanzioni in senso proprio, che hanno una valenza essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e sanzioni ripristinatorie, che hanno come scopo principale quello di reintegrare l’interesse pubblico leso dal comportamento illecito e secondo taluni non sono sanzioni amministrative in senso stretto. La sanzione amministrativa è comunque applicata di regola soltanto nei confronti del trasgressore, mentre la persona giuridica può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale. Una particolare responsabilità amministrativa è prevista a carico delle imprese e degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato e sorge direttamente in capo all’ente per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da amministratori e dipendenti. L’ente può sottrarsi solo se dimostra di aver adottato modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire la commissione dei reati, introducendo regole e procedure interne adeguate. L’ordinamento europeo è di matrice liberal-democratica, pertanto l’attività dei privati è, in linea di principio, libera. Tuttavia, nei casi in cui essa può interferire o mettere a rischio un interesse della collettività, si giustificano prescrizioni e vincoli particolari, posti dalle leggi amministrative, ma anche dal diritto europeo (tra cui la direttiva servizi), che devono rispettare in ciò il principio di proporzionalità. Il rispetto delle leggi amministrative è assicurato in un primo gruppo di casi da un semplice regime di vigilanza , che può portare all’esercizio di poteri repressivi e sanzionatori nei casi in cui vengono accertate violazioni. In questo caso, l’attività non richiede alcuna interlocuzione preventiva con una p.a. e può essere considerata come libera , anche se è condizionata e conformata da norme di tipo amministrativo (es. il pedone che non rispetta il Codice della Strada o il cittadino che deposita rifiuti in luoghi non consentiti). In un secondo gruppo di casi, invece, per agevolare i controlli dell’amministrazione, la legge grava i privati di un obbligo di comunicare (contestualmente o con un termine minimo) a una p.a. l’intenzione di intraprendere un’attività. Un regime generale di comunicazione preventiva è posto dall’art. 19 l. 241/1990 sulla SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Le attività sottoposte al regime della SCIA, anche se conformate da un regime amministrativo, sono libere. Essa riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo preventivo sotto forma di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta comunque denominato, a un regime meno intrusivo di controllo successivo, effettuato dall’amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell’attività. L’avvio può essere contestuale alla presentazione della SCIA allo sportello unico. Il privato deve corredare la segnalazione con un’autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività e, in caso di dichiarazioni mendaci, scattano sanzioni amministrative e penali. In caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di 60 giorni, l’amministrazione emana un provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti (quindi, un provvedimento ordinatorio). Lo schema del rapporto giuridico amministrativo nel caso della SCIA è, quindi, quello del potere e dell’ interesse legittimo oppositivo. Se il provvedimento è emanato dopo la scadenza del termine, l’atto è inefficace. In alternativa, la p.a. può invitare il privato a conformare l’attività entro un termine non inferiore a 30 giorni prescrivendo le misure necessarie. Peraltro, l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo anche dopo il termine di 60 giorni e può anche attivare il potere interdittivo di cui sopra se sussistono i presupposti previsti per l’annullamento d’ufficio che richiede una serie di apprezzamenti discrezionali e un termine di 18 mesi, ora 12 (aspetto ambiguo, in quanto il potere di autotutela ha per oggetto provvedimenti in senso proprio, mentre nel caso della SCIA non vi è un atto di assenso esplicito dell’amministrazione). Il campo di applicazione della SCIA è definito dall’art. 19 l. 241/1990: sostituisce di diritto ogni atto di tipo autorizzativo il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge , cioè ogni atto di tipo vincolato . Deve trattarsi inoltre di atti autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di programmazione del settore. Alcune esclusioni sono previste allorché entrino in gioco interessi pubblici particolarmente rilevanti o si tratti di atti autorizzativi imposti dalla normativa europea. Un elenco delle fattispecie motivo imperativo di interesse generale, come l’ordine e sicurezza pubblica (es. la previsione di tariffe obbligatorie minime o massime). Per quanto riguarda, invece, i casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato per ragioni correlate alla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche disponibili o altri motivi imperativi di interesse generale, il loro rilascio deve avvenire attraverso una procedura di selezione atta ad assicurare l’imparzialità. Anche dal punto di vista del diritto interno è imposto un ripensamento della ricostruzione dogmatica degli atti autorizzativi, soprattutto in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, dalla quale la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi non segna più la linea di confine della risarcibilità del danno conseguente a un’attività amministrativa illegittima. Perde, così, ai fini risarcitori, anche nel caso di diniego illegittimo del rilascio del provvedimento richiesto, la distinzione tra concessioni e autorizzazioni fondata sulla preesistenza o meno della titolarità in capo al soggetto privato di una situazione giuridica di diritto soggettivo. Assume, invece, rilevanza la distinzione tra atti autorizzativi discrezionali e vincolati o tra autorizzazioni discrezionali costitutive e autorizzazioni vincolate ricognitive. Nelle prime l’atto amministrativo è la fonte diretta dell’effetto giuridico, mentre nelle seconde l’effetto si ricollega direttamente alla legge, mentre all’autorità che emana l’atto è riservato in via esclusiva il compito di accertare la produzione dell’effetto giuridico. Sino a quel momento, l’avvio dell’attività è precluso, non tanto perché il privato non abbia già acquisito nella sua sfera giuridica il diritto a esercitarla, quanto perché l’ordinamento riserva, per ragioni di certezza, all’amministrazione il compito di verificare se sussistono in concreto i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma. La presenza o meno della discrezionalità assume, inoltre, rilievo in caso di diniego illegittimo dell’atto autorizzativo, ai fini della tutela giurisdizionale, in quanto la natura vincolata o discrezionale del potere condiziona la possibilità di vedere accolta da parte del giudice l’azione di adempimento. Gli atti dichiarativi. Gli atti dichiarativi sono una tipologia di atto amministrativo elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel quale il momento volitivo tipico dei provvedimenti è assente e al quale va invece riconosciuta una funzione meramente ricognitiva e dichiarativa finalizzata alla produzione di certezze giuridiche, finalità che è da sempre stata assunta dai pubblici poteri come propria (e che si realizza con la tenuta e l’aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici e la messa a disposizione agli interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certificazioni). Vi rientrano, quindi, le certificazioni, che sono dichiarazioni di scienza effettuate da una p.a. in relazione ad atti, fatti, qualità e stati soggettivi . Tuttavia, la l. 241/1990 prevede due modalità alternative alle certificazioni che dovrebbero essere preferite: da un lato, le p.a. sono tenute a scambiarsi d’ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti privati di questo onere (tanto che è stato introdotto il principio secondo il quale i certificati non hanno valore giuridico nei rapporti con le p.a.) e, dall’altro, le certificazioni possono essere sostituite con l’autocertificazione. Le dichiarazioni sostitutive di certificazione possono avere a oggetto la data, il luogo di nascita, la residenza, la cittadinanza, ecc., mentre le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà sono relative a stati, qualità personali e fatti dei quali l’interessato sia a conoscenza e che si riferiscono anche ad altri soggetti. In caso di dichiarazioni mendaci e di false attestazioni, possono essere irrogate sanzioni penali ed è negata la possibilità di conformare l’attività alla legge sanando la propria posizione. Viene altresì disposta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera. Tra gli atti dichiarativi rientrano anche gli atti paritetici, una categoria di atti elaborata dalla giurisprudenza allorché negli anni Trenta del secolo scorso il legislatore attribuì al giudice amministrativo in particolari materie la cognizione di diritti soggettivi in aggiunta ai tradizionali interessi legittimi (giurisdizione esclusiva). L’atto paritetico serviva in quel contesto a superare la regola della necessità di impugnare l’atto nel termine di 60 giorni, con la conseguenza che la pretesa del privato poteva essere fatta valere in sede giudiziale nel normale termine di prescrizione. Si tratta di un atto meramente ricognitivo di un assetto già definito in tutti i suoi elementi dalla norma attributiva di un diritto soggettivo. È quindi non autoritativo e non in grado di degradare diritti. Un’altra specie è costituita dalle verbalizzazioni, che consistono nella narrazione storico-giuridica da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenuti in sua presenza. Possono essere inclusi tra gli atti di un procedimento in senso proprio. Assume inoltre particolare rilievo in relazione alle attività deliberative degli organi collegiali, in quanto viene dato atto della presenza dei membri per la verifica del quorum, dell’andamento della discussione sui punti all’ordine del giorno, riporta le eventuali dichiarazioni di voto e l’esito delle votazioni. I provvedimenti possono essere classificati in base a ulteriori criteri: - la provenienza soggettiva: essi possono essere emanati da un organo monocratico o da più organi o soggetti (atto complesso). Gli atti collegiali , invece, sono emanati da organi formati da una pluralità di componenti designati con vari criteri. - i destinatari del provvedimento: gli atti amministrativi generali si rivolgono anziché a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti, determinabili in concreto solo in un momento successivo all’emanazione dell’atto. Gli atti collettivi si indirizzano a categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, i quali però, a differenza degli atti generali, sono già individuati singolarmente con precisione (es. lo scioglimento di un consiglio comunale si riferisce ai singoli componenti dell’organo collegiale). Gli atti plurimi, invece, sono rivolti a una pluralità di soggetti ma i loro effetti sono scindibili in relazione a ciascun destinatario (es. il decreto che approva una graduatoria di un concorso). La distinzione tra atti collettivi e atti plurimi rileva in particolare in sede di tutela giurisdizionale, poiché l’impugnazione proposta da uno dei destinatari dell’atto plurimo, proprio in virtù della scindibilità degli effetti, non può andare a beneficio né intaccare la situazione giuridica soggettiva degli altri destinatari. - la natura della funzione esercitata e l’ampiezza della discrezionalità: è stata elaborata in base a questo criterio la categoria degli atti di alta amministrazione , da distinguere dagli atti politici , non sottoposti al regime del provvedimento amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, infatti, esclude l’impugnabilità degli atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico. La linea di confine tra atto politico e atto di alta amministrazione è dibattuta. Gli atti politici sarebbero gli atti che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e sono emanati da un organo costituzionale (in particolare il governo) nell’esercizio di una funzione di governo. Gli atti di alta amministrazione, invece, hanno natura amministrativa anche se sono caratterizzati da un’amplissima discrezionalità. Tra di essi rientrano, ad esempio, i provvedimenti di nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri o dei direttori generali delle ASL. Questi atti operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa, devono essere motivati e sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo, il quale però esercita su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale. L’invalidità dell’atto amministrativo. L’invalidità trova una disciplina compiuta nella l. 241/1990 in seguito alle modifiche introdotte dalla l. 15/2005 e nel Codice del processo amministrativo. La teoria generale distingue tra norme che regolano una condotta (e impongono obblighi comportamentali o attribuiscono diritti) e norme che conferiscono poteri (es. quello di fare testamento, di contrarre un matrimonio, ecc.). I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti (e sono sanzionati dall’ordinamento con sanzioni penali, obbligo di risarcimento, ecc.), mentre gli atti posti in essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come invalidi (e contro di essi l’ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti). L’invalidità può essere definita come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale e può essere sanzionata, in funzione della gravità della violazione, con la nullità , ossia l’inidoneità dell’atto a produrre gli effetti giuridici tipici, o l’annullamento , ossia l’idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice che li rimuova con efficacia retroattiva . Nel diritto civile, la nullità ha carattere atipico, ossia sono sanzionati con la nullità tutti i casi di contrarietà a norme imperative. Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira a quello accolto dal codice civile, ma non vi coincide. Anzitutto, la nullità del provvedimento è prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative e la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime ordinario dell’annullabilità (come violazione di legge). Questa differenza si spiega in quanto nel diritto amministrativo le norme attributive del potere, in quanto finalizzate a tutelare un interesse pubblico e a garantire i soggetti destinatari del provvedimento, hanno di regola carattere imperativo, cioè non possono essere derogate dall’amministrazione (mentre in materia di contratto le norme di regola hanno carattere dispositivo e solo una minor parte di norme sono definite imperative). Sanzionare con la nullità ogni difformità tra provvedimento e norma attributiva del potere costituirebbe una reazione sproporzionata da parte dell’ordinamento. Pertanto, storicamente, si affermò il principio che equipara il provvedimento amministrativo invalido a quello valido ai fini della produzione dell’effetto giuridico tipico (salvo annullamento), mostrando favore alle prerogative dell’amministrazione e all’esigenza di consentire la realizzazione immediata della cura in concreto dell’interesse pubblico. Per quanto riguarda, invece, l’annullabilità, confinata nel diritto privato a ipotesi tassative, nel diritto amministrativo abbiamo una sorta di catalogo tendenzialmente aperto e non tipizzato di figure sintomatiche dell’annullabilità, che costituisce, quindi, il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido. L’invalidità può essere parziale se investe solo parte del provvedimento, ma tale evenienza si può avere solo nel caso di provvedimenti con effetti scindibili. Si ritiene applicabile, inoltre, il principio secondo il quale l’invalidità di una parte dell’atto si estende alle altre parti solo ove esse siano strettamente dipendenti da quella viziata. L’invalidità può essere, poi, propria o derivata. L’ invalidità derivata discende per propagazione dall’invalidità di un atto presupposto (es. l’illegittimità di un bando di gara determina a valle l’invalidità dell’atto di aggiudicazione o di approvazione della graduatoria dei vincitori). Può essere di due tipi: a effetto caducante, quando travolge in modo automatico l’atto assunto sulla base dell’atto invalido; a effetto invalidante, quando l’atto affetto da invalidità derivata conserva i suoi effetti fin tanto che non venga annullato. L’effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta causalità tra i due atti, cioè quando il secondo è una mera esecuzione del primo. Se invece l’atto successivo presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti che segnano una discontinuità fra i due atti, l’invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante. L’invalidità, inoltre, può essere originaria o sopravvenuta. In linea di principio, trova applicazione il principio tempus regit actum, secondo il quale l’invalidità di un provvedimento si determina in base alle norme in vigore al momento della sua adozione. Tuttavia, si pone talora la questione delle conseguenze del mutamento delle norme vigenti sui procedimenti avviati ma non ancora conclusi. Si parla, quindi, di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti nei casi di legge retroattiva, di legge di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. La l. 241/1990 ha razionalizzato le acquisizioni giurisprudenziali della IV Sezione del Consiglio di Stato, che dovette riempire di contenuto le scarne disposizioni della legge istitutiva del 1889, che attribuivano alla sua competenza i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge. La giurisprudenza interpretò la formula eccesso di potere non come straripamento di potere, cioè come sconfinamento nell’ambito di competenza di un’altra autorità amministrativa, bensì come sviamento di potere , ossia quando il potere viene esercitato per un fine diverso da quello posto dalla norma attributiva l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. Sul piano descrittivo, il vizio può essere per materia (attiene alla titolarità della funzione), per grado (attiene all’articolazione interna degli organi negli apparati organizzati secondo il criterio gerarchico), per territorio (attiene agli ambiti nei quali enti territoriali e articolazioni periferiche degli apparati statali possono operare) o per valore (quando riguarda provvedimenti che comportino esborsi di spesa). La specificità del regime giuridico proprio dell’incompetenza sta venendo meno rispetto a quello della violazione di legge , di cui ne è una specificazione. La giurisprudenza recente, infatti, ritiene anzitutto applicabile anche al vizio di incompetenza il comma 2 relativo alla dequotazione dei vizi formali. Inoltre, l’art. 21-nonies prevede ora in via generale la possibilità della convalida del provvedimento annullabile, che precedentemente era una specificità del regime dell’incompetenza. Sotto il profilo logico, invece, il vizio di incompetenza assume una priorità rispetto agli altri motivi, in quanto nel caso di suo accertamento assorbe anche gli altri motivi, che il giudice quindi non dovrà andare ad esaminare ulteriormente. La violazione di legge è considerata una categoria generale residuale. Raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in fonti di rango primario o secondario che definiscono i profili vincolati del potere. Si discute se includa anche la violazione dei principi generali dell’azione amministrativa, in quanto vi fa rinvio l’art. 1 l. 241/1990. In ogni caso, il sindacato sulla discrezionalità amministrativa in applicazione di un principio generale comporta un’operazione ermeneutica più complessa e dunque appare preferibile non operare una siffatta inclusione. La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella tra vizi formali e vizi sostanziali . L’art. 21-octies, co. 2 , enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, cioè una subcategoria di vizi formali, che, a certe condizioni, sono dequotati a vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento . Il provvedimento deve avere, però, natura vincolata e deve essere, perciò, palese che il suo contenuto dispositivo non sarebbe stato diverso da quello in concreto adottato. In questi casi, l’amministrazione non può annullare il provvedimento neppure in sede di esercizio del potere di autotutela. Lo stesso co. 2 dell’art. 21-octies individua nel secondo periodo una fattispecie particolare costituita dall’ omessa comunicazione dell’avvio del procedimento per la quale è previsto un regime in parte uguale e in parte diverso da quello del primo periodo. In questo caso, se l’esito del procedimento, ove tutte le norme sul procedimento e sulla forma fossero state rispettate, non cambia, il provvedimento non può essere annullato. Tuttavia, rispetto al primo periodo, manca il riferimento alla natura vincolata del potere (per cui può operare il principio della non annullabilità qualora risulti ex post che il potere, anche discrezionale, non aveva altra scelta legittima se non quella di emanare un atto con quel contenuto ed era quindi vincolato in concreto) e si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di dimostrare in giudizio che il vizio procedurale o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento. L’onere della prova in capo all’amministrazione comporta una deroga al principio che vieta all’amministrazione di integrare la motivazione nel corso del giudizio. Tuttavia, essendo una probatio diabolica, la giurisprudenza richiede al ricorrente l’onere di allegare in giudizio gli elementi che sarebbero stati prodotti nell’ambito del procedimento. La disposizione, quindi, si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (l’amministrazione di risultato), a scapito di quello del rispetto della forma. La norma ha, tuttavia, dato origine a dispute in dottrina e a una cospicua giurisprudenza non ancora consolidata. Ad esempio, è stato chiarito da un lato che la mancanza della motivazione in un provvedimento integralmente vincolato non può giustificare l’annullamento di quest’ultimo e ciò vale anche per i provvedimenti che presentano margini di discrezionalità allorché risultino in qualche modo dagli atti del procedimento le ragioni sottostanti . Sembra d’altro canto prevalente l’orientamento secondo il quale il difetto di motivazione non può essere assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma e non può essere dunque considerato un vizio non invalidante . È dubbio, inoltre, se la disposizione abbia rilevanza sostanziale o soltanto processuale. Se avesse rilevanza soltanto processuale, l’art. 21-octies, comma 2, rileverebbe solo ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’interesse a ricorre, che manca quando il ricorrente non possa attendersi una decisione diversa da quella già emanata. In questo caso, il provvedimento continua ad essere affetto da illegittimità, ma non può essere annullato dal giudice. Secondo un’altra interpretazione, la disposizione avrebbe tipizzato una fattispecie di irregolarità non invalidante del provvedimento, suscettibile di regolarizzazione attraverso la rettifica. In realtà, il disvalore della violazione delle norme sulla forma dell’atto e sul procedimento sembra essere maggiore rispetto a quello di una mera irregolarità, proprio per la funzione di garanzia riconosciuta agli aspetti formali. È dunque preferibile una terza interpretazione che qualifica come illegittimi anche i provvedimenti non annullabili ai sensi della disposizione, verso i quali l’annullamento costituisce, però, una reazione dell’ordinamento non proporzionata , visto che esso risulta sostanzialmente legittimo . L’eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso mette in condizione il giudice di operare un sindacato che va oltre la verifica del rispetto dei vincoli puntuali posti in modo esplicito dalla norma attributiva del potere e che può spingersi fino alle soglie del merito amministrativo. Esso riguarda l’aspetto funzionale del potere, cioè il perseguimento in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione (per questo è un vizio sconosciuto al diritto privato, nel quale i fini e i motivi sottostanti ai negozi privati sono irrilevanti). È per questo definito come vizio della funzione, inteso come la dimensione dinamica del potere che attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti in un passaggio nel quale possono emergere anomalie, che danno origine appunto all’eccesso di potere. La figura primigenia dell’eccesso di potere è lo sviamento di potere, che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma. Tale figura è peraltro difficile da provare. Ciò ha indotto la giurisprudenza a rilevare il vizio in via indiretta attraverso elementi indiziari, costituiti dalle figure sintomatiche. Le principali fattispecie sono: - l’errore o travisamento dei fatti , cioè l’errore, inconsapevole o volontario, dal punto di vista della percezione oggettiva della realtà materiale, sulla esistenza di un fatto o di una circostanza che risulta invece inesistente o viceversa; - il difetto di istruttoria , per il quale rispetto all’errore di fatto, non si può escludere che il quadro fattuale risulti esistente e che la scelta operata sia corretta, ma l’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito; - il difetto di motivazione , la quale deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter logico seguito; in particolare, deve dare conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni dell’interessato e può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo nel caso di istanza manifestamente inammissibile o infondata. Inoltre, quanto più ampia è la discrezionalità e quanto più gravosi gli effetti del provvedimento, tanto più è elevato lo standard quantitativo e qualitativo imposto alla motivazione, che non può neppure essere illogica o contraddittoria, perplessa o dubbiosa (cioè che non consente di individuare con precisione il potere che l’amministrazione ha inteso esercitare). Non è possibile per l’amministrazione integrare o emendare la motivazione. Se manca assolutamente, può essere qualificato come violazione di legge, in quanto prevista dall’art. 3 l. 241/1990. - illogicità, irragionevolezza e contraddittorietà . Si presume, che la p.a. agisca come soggetto razionale; pertanto, emerge un vizio di eccesso di potere tutte le volte in cui il contenuto e le statuizioni del provvedimento fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza apprezzabili in modo oggettivo. Una sottospecie dell’illogicità e della irragionevolezza è la contraddittorietà interna al provvedimento, che emerge se non vi è coerenza tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. La contraddittorietà può essere anche esterna, quando è rilevabile dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell’amministrazione che riguardano lo stesso soggetto. Se gli altri provvedimenti riguardano soggetti diversi, si ha la figura della disparità di trattamento. - disparità di trattamento , che va contro ai principi di coerenza e di uguaglianza che impongono all’amministrazione di trattare in modo uguale casi uguali. Perché possa essere censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia discrezionale. Inoltre, la comparazione deve riferirsi a provvedimenti legittimi, in quanto l’emanazione di un atto illegittimo a favore di uno o più soggetti non può fondare la pretesa di un altro a vedersi riconoscere sempre illegittimamente la stessa utilità. - violazione di circolari e norme interne (in particolare, la prassi amministrativa), le quali hanno come scopo quello di orientare l’esercizio della discrezionalità da parte dell’organo competente a emanare il provvedimento. Le ragioni per cui il titolare del potere ha ritenuto di disattenderle nel caso concreto devono essere esplicitate nella motivazione. - ingiustizia grave e manifesta , una figura che si colloca al confine tra sindacato di legittimità e di merito e richiede, perché non si debordi nel merito, che il carattere ingiusto sia di immediata evidenza per qualsiasi persona di sensibilità. Le figure sintomatiche, secondo alcune teorie, rilevano come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza essenzialmente processuale. Possono essere ricondotte allo schema delle presunzioni (le conseguenze che il giudice tra da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, in ambito civile) e sono situazioni che sulla base dell’esperienza consentono di dubitare che si sia attuata la divergenza dell’atto dalla sua finalità. Secondo altre teorie, invece, esse hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, cioè sono riconducibili alla violazione dei principi generali dell’azione amministrativa che presiedono all’esercizio della discrezionalità (principi di logicità, ragionevolezza, completezza dell’istruttoria, parità di trattamento, imparzialità, giustizia sostanziale, ecc.). Secondo una critica più generale dell’eccesso di potere, le figura sintomatiche sono state, invece, ricondotte alle clausole generali che fanno sorgere obblighi comportamentali nell’ambito del rapporto giuridico amministrativo intercorrente tra la p.a. e il cittadino. La nullità. La nullità, introdotta in via giurisprudenziale , ha ormai un fondamento legislativo e una rilevanza teorica equiparata all’annullabilità, anche se nella pratica costituisce un fenomeno quantitativamente marginale. L’art. 21-septies individua anzitutto quattro ipotesi tassative: - la mancanza degli elementi essenziali, la cui individuazione è rimessa all’interprete, non essendo elencati in modo preciso dalla legge; - il difetto assoluto di attribuzione (in contrapposizione al difetto relativo che è causa di annullamento); - violazione o elusione del giudicato , la quale ultima si verifica quando l’amministrazione, in sede di nuovo esercizio del potere in seguito all’annullamento pronunciato con sentenza passata in giudicato, emana un nuovo atto, ignora e palesemente trascura il sostanziale contenuto del giudicato e manifesta il reale intendimento dell’amministrazione di sottrarsi al giudicato (a differenza della sua violazione, che non è riconducibile in modo immediato al giudicato e non appalesa un intento elusivo, e inizialmente rendeva solo l’atto annullabile). Per entrambe le ipotesi, è esperibile il giudizio di ottemperanza da parte del ricorrente, ogni volta che faccia valere una difformità tra atto emanato e accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. - gli altri casi espressamente previsti dalla legge (nullità testuale). Sul versante processuale, l’art. 31, co. 4, del Codice del processo amministrativo disciplina l’azione per la declaratoria della nullità, che può essere proposta innanzi al giudice amministrativo entro un termine di decadenza breve di 180 giorni, in relazione all’esigenza di garantire stabilità all’assetto dei rapporti di diritto pubblico. A differenza dell’annullabilità, può essere rilevata d’ufficio dal giudice o opposta dalla parte resistente (la p.a.). Inoltre, l’art. 133 attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alla nullità dell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato, le quali vanno proposte nella sede del giudizio dell’ottemperanza. Il ricorso può essere Il procedimento amministrativo ha trovato una disciplina organica nella l. 241/1990 , nata su ispirazione del testo elaborato dalla commissione presieduta dallo studioso Mario Nigro, più volte modificata, in particolare dalla l. 15/2005 che ha inserito una disciplina del provvedimento. È una legge soprattutto di principi, molti dei quali già affermati dalla giurisprudenza, senza la pretesa di porre una disciplina esaustiva di tutti gli istituti, al fine di non ingessare il procedimento in schemi troppo rigidi. La l. 241/1990 non contiene né una definizione di procedimento, né una disciplina organica delle singole fasi, ma disciplina alcuni istituti fondamentali e fornisce una cornice generale che integra tutte le leggi amministrative settoriali che disciplinano i singoli procedimenti. Sotto il profilo soggettivo , essa si applica alle amministrazioni statali, agli enti pubblici nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico , mentre le disposizioni sul diritto di accesso hanno un campo di applicazione che include anche i gestori di pubblici servizi. Inoltre, regioni ed enti locali possono dotarsi di una propria disciplina sulla base dei principi in essa stabiliti. Sotto il profilo oggettivo, invece, la disciplina si applica nella sua interezza ai procedimenti di tipo individuale. Tuttavia, le disposizioni sull’obbligo di motivazione, sulla partecipazione al procedimento e sul diritto di accesso non si applicano agli atti normativi e agli atti amministrativi generali, mentre alcune categorie di procedimenti come quelli tributari non sono sottoposti a questa disciplina ma a regole contenute nelle discipline speciali. La l. 241/1990 delinea un nuovo modello di rapporto tra p.a. e cittadini . In particolare, colma la distanza tra i due soggetti, permettendo ai privati di fare ingresso nel procedimento attraverso gli strumenti di partecipazione e favorendo il ricorso a strumenti consensuali in luogo dell’esercizio unilaterale dei poteri autoritativi; viene attenuata la concezione individualistica e atomistica dei rapporti tra Stato e cittadino , permettendo di partecipare al procedimento anche i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati e aprendosi alle espressioni della società civile; supera il principio del segreto d’ufficio su gran parte delle attività interne che rendeva imperscrutabile l’operato dell’amministrazione, enunciando il principio di pubblicità e trasparenza e ponendo una disciplina sul diritto di accesso ai documenti amministrativi; fa cadere l’anonimato tra cittadino e apparati amministrativi, istituendo la figura del responsabile e consentendo di attribuire in modo più certo le responsabilità interne; contrasta la tradizionale separatezza tra le stesse p.a., privilegiando strumenti di collaborazione paritaria e di coordinamento e pone l’obbligo di scambiarsi reciprocamente atti e documenti. In definitiva, la disciplina della l. 241/1990 supera il modello autoritario dei rapporti tra Stato e cittadino e pone l’accento sui nuovi diritti di cittadinanza amministrativa (termine del procedimento, accesso ai documenti, interazione con il responsabile, ecc.), su ispirazione del modello della società aperta. Le fasi del procedimento. Il procedimento si articola in tre fasi: l’iniziativa, l’istruttoria e la conclusione. L’iniziativa è la fase di avvio del procedimento destinato a sfociare nel provvedimento finale produttivo di effetti nella sfera giuridica del destinatario. L’ art. 2 l. 241/1990 menziona e distingue tra obbligo di procedere , cioè di aprire il procedimento su istanza di parte o d’ufficio , e obbligo di provvedere , cioè di portare a conclusione il procedimento attraverso l’emanazione di un provvedimento espresso. Nei procedimenti su istanza di parte, l’atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza presentata all’amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole (e titolare di un interesse legittimo pretensivo). Tuttavia, non ogni istanza del privato fa sorgere l’obbligo di procedere, il quale sorge solo in relazione a sequenze procedimentali tipiche. Negli altri casi, tutt’al più può essere dato riscontro attraverso lettere di cortesia. In alcuni casi, il procedimento è aperto su impulso di pubbliche amministrazioni. Nei procedimenti d’ufficio, l’apertura del procedimento avviene su iniziativa della stessa amministrazione competente a emanare il provvedimento finale. È il caso per lo più dei poteri il cui esercizio determina un effetto restrittivo nella sfera giuridica del privato, che è titolare di un interesse legittimo oppositivo. Si pone, pertanto, la questione di individuare il momento in cui sorge l’obbligo di procedere. In molte situazioni, l’apertura del procedimento avviene all’esito di una serie di attività preistruttorie (ispezioni, attribuite in particolare ad autorità di vigilanza, che fanno sorgere l’obbligo di procedere se riscontrano violazioni; accessi a luoghi, richieste di documenti, assunzione di informazioni, rilievi segnaletici e fotografici, analisi di campioni; denunce ed esposti di privati, che tuttavia non fanno sorgere in modo automatico il dovere di procedere, rientrando nella discrezionalità dell’amministrazione di valutarne la serietà e la fondatezza), condotte sempre d’ufficio, dalle quali possono emergere fatti che rendono necessario l’esercizio di un potere. L’amministrazione deve dare comunicazione dell’avvio del procedimento anzitutto al soggetto destinatario diretto del provvedimento, ma anche a eventuali altri soggetti che per legge devono intervenire nel procedimento e soggetti individuati o individuabili che possono subire un pregiudizio, sempre che non sussistano ragioni particolari di impedimento. La comunicazione deve indicare l’amministrazione competente, l’oggetto del procedimento, il nome del responsabile del procedimento, il termine di conclusione, l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti. Nei procedimenti d’ufficio, essa è funzionale a garantire il contraddittorio; pertanto, l’omessa comunicazione rende annullabile il provvedimento finale, anche se l’art. 21-octies, co. 2, ha ora ristretto i casi. L’istruttoria del procedimento ha lo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti ai fini della determinazione finale. I fatti riguardano i presupposti e i requisiti richiesti dalla norma di conferimento del potere ovvero le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento. Gli interessi da acquisire, invece, entrano in gioco solo nei procedimenti relativi a poteri propriamente discrezionali, nei quali l’interesse pubblico primario deve essere ponderato unitamente agli interessi secondari (pubblici e privati). L’istruttoria è retta dal principio inquisitorio e il responsabile deve disporre il compimento degli atti necessari per accertare i fatti, ciò in quanto l’esercizio dei poteri avviene per curare interessi pubblici. Il responsabile deve anche verificare la documentazione prodotta dalle parti, che sono sgravate da oneri di documentazione per quanto possibile, e la veridicità dei dati autocertificati. Nella scelta dei mezzi istruttori, l’amministrazione può procedere con le modalità ritenute più idonee ma deve attenersi ai principi di efficienza e di economicità. Alcuni atti istruttori sono richiesti dalle leggi, in particolare i pareri obbligatori e le valutazioni tecniche. I pareri possono essere anche facoltativi e sono richiesti ove l’amministrazione ritenga possano essere utili ai fini della decisione. L’omessa acquisizione di pareri obbligatori rende illegittimo il provvedimento. Tuttavia, l’amministrazione competente deve rilasciarlo entro un termine di 20 giorni e, in caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza decisionale può procedere indipendentemente. In alcuni casi, i pareri obbligatori sono anche vincolanti. In generale, essi costituiscono una modalità di coordinamento tra amministrazioni che curano interessi pubblici distinti ma con ambiti di interferenza. Allo scopo di accelerare i tempi di conclusione dei procedimenti, la l. 241/1990 ha introdotto con l’art. 17-bis un meccanismo di silenzio-assenso tra amministrazioni, che stabilisce termini stringenti ( di regola 30 giorni ) per il rilascio di assensi, concerti e nullaosta, decorsi i quali l’atto si intende acquisito . Il termine può essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica motivate. In caso di mancato accordo tra amministrazioni statali, la questione viene rimessa al presidente del Consiglio dei ministri che decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento. Lo schema del silenzio-assenso non vale nel caso in cui il diritto dell’UE richieda l’adozione di provvedimenti espressi. L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali , quali la calendarizzazione di incontri con il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressi al fine di concludere accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, o la conferenza di servizi istruttoria. Le attività compiute e le risultanze vengono verbalizzate e i verbali fanno piena prova fino a querela di falso . L’istruttoria è aperta alla partecipazione dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento , anche ai portatori di interessi pubblici o privati, o di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati , ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento . La partecipazione si sostanzia nel diritto all’accesso procedimentale e nella possibilità di presentare memorie scritte e documenti. Sotto il profilo organizzativo, l’istruttoria è affidata al responsabile del procedimento, il quale ha anche il potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete, a supporto del soggetto privato, in linea con la visione collaborativa dei rapporti tra amministrazione e cittadino. Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile è tenuto ad attivare una fase istruttoria supplementare nei casi in cui sia orientato a proporre un provvedimento di rigetto. Al soggetto destinatario deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento ed entro 10 giorni egli può presentare osservazioni scritte. L’eventuale provvedimento finale negativo deve dare conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni. Nel caso di annullamento del provvedimento negativo e successiva emanazione di atto sostitutivo, l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato, a garanzia del privato rispetto al rischio di dinieghi ripetuti. Di norma, il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti, corredati da una relazione istruttoria, all’organo competente a emanare il provvedimento finale, il quale si deve attenere alle risultanze dell’istruttoria , salvo indicazioni delle ragioni contrarie nel provvedimento finale. Conclusa l’istruttoria, l’organo competente a emanare il provvedimento assume la decisione sulla base del materiale acquisito al procedimento e, se il potere ha natura discrezionale, della ponderazione degli interessi. L’art. 2 l. 241/1990 pone in capo all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Il procedimento non può essere indebitamente sospeso, rallentato o deviato, mentre l’arresto procedimentale è legittimo solo in casi eccezionali. Il provvedimento può essere emanato dal titolare di un organo individuale oppure da un organo collegiale. Talvolta, prima di emanare il provvedimento, l’amministrazione deve inviare all’autorità concertante lo schema di provvedimento per ottenerne l’assenso o proposte di modifica (specie nei rapporti interministeriali) e l’atto finale è sottoscritto da entrambe le autorità. Anche l’intesa tra Stato e regione è una decisione pluristrutturata ed è di tipo debole se il dissenso regionale può essere motivatamente superato dallo Stato, di tipo forte nei casi in cui sia indispensabile il doppio consenso. La determinazione è assunta sulla base delle regole vigenti al momento in cui è adottata secondo il principio del tempus regit actum. Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento , secondo una disciplina generale e completa prevista dall’art. 2, che rimette a ciascuna pubblica amministrazione, nei casi in cui i termini dei procedimenti non siano già stabiliti per legge, l’obbligo di individuarli per ciascun tipo di procedimento e di renderli pubblici. Di regola, non deve superare i 90 giorni e se le amministrazioni non provvedono a porre una propria disciplina si applica un termine generale di 30 giorni, come stimolo a individuare termini più congrui. L’art. 2, inoltre, dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo, che risponde sia all’interesse pubblico, sia all’interesse dei privati. Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a 30 giorni in caso di necessità di acquisire informazioni o certificazioni. Le leggi e i regolamenti che disciplinano i singoli procedimenti prevedono talora termini endoprocedimentali relativi ad adempimenti posti a carico dei privati o all’amministrazione. I termini finali ed endoprocedimentali hanno di regola natura ordinatoria , mentre solo nei casi in cui la legge qualifichi in modo espresso il termine come perentorio e a pena di decadenza il provvedimento tardivo è considerato viziato. Vi è da dire, tuttavia, che in alcune fattispecie di poteri che incidono negativamente su diritti di soggetti privati, la natura perentoria del termine si ricava in via interpretativa. I termini previsti per gli adempimenti a carico dei privati hanno invece natura più cogente: il loro decorso fa decadere il soggetto dalla facoltà di porli in essere o in caso di adempimento tardivo consente all’amministrazione di non tenerne conto, in particolare nei procedimenti di tipo concorsuale nei quali deve essere garantita la par condicio. Allo scopo di incentivare il rispetto dei termini per una serie di provvedimenti e di atti procedimentali è stato previsto che se sono adottati dopo la scadenza sono inefficaci. Il mancato rispetto del termine, oltre all’inefficacia, può provocare conseguenze di vario tipo: può far sorgere una responsabilità disciplinare nei confronti del funzionario o una responsabilità dirigenziale nei confronti del vertice della struttura (talvolta anche una responsabilità penale per rifiuto o omissione di atti d’ufficio), oppure può costituire motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del dirigente sovraordinato (è di regola si svolge in forma semplificata , cioè in modalità asincrona (l’amministrazione acquisisce cioè entro termini stabiliti le determinazioni motivate di competenza delle altre amministrazioni), che contraddice in parte la logica dell’istituto. Solo in caso di determinazioni di particolare complessità, la conferenza è convocata in forma simultanea. Essa deve concludersi entro 45 giorni dalla data della riunione. L’assenza alla conferenza determina un effetto di silenzio-assenso in relazione all’atto attribuito alla competenza dell’amministrazione non partecipante. La determinazione finale motivata è formulata sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti; pertanto, è possibile superare il dissenso espresso da singole amministrazioni (in contrasto con il principio dell’esclusività delle competenze delle singole amministrazioni). Contro la determinazione, i rappresentanti di amministrazioni che curano interessi pubblici di rango primario che abbiano espresso un motivato dissenso, possono proporre entro 10 giorni una opposizione al presidente del Consiglio dei ministri , il quale convoca una riunione per cercare di trovare una soluzione condivisa. Se il dissenso non è superato, la determinazione finale viene rimessa al Consiglio dei ministri. - la conferenza di servizi preliminare può essere invece convocata su richiesta motivata di privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato, in questo modo, sottopone uno studio di fattibilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese ancora prima di presentare formalmente le istanze necessarie. Oltre alla conferenza di servizi, l’ordinamento prevede altre forme di coordinamento: l’accordo di programma (promosso dal presidente della regione, della provincia o dal sindaco, finalizzato alla definizione e attuazione di opere o interventi che coinvolgono una pluralità di amministrazioni), gli accordi tra pubbliche amministrazioni per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune, l’autorizzazione unica (nella quale confluiscono una pluralità di atti di assenso attribuiti alla competenza di più amministrazioni) e lo sportello unico (un ufficio istituito con la funzione di far da tramite tra i soggetti privati e i vari uffici e amministrazioni competenti a emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari). Esempi di procedimenti. Relativi a provvedimenti ad effetti restrittivi. L’espropriazione per pubblica utilità. L’espropriazione per motivi di interesse generale è richiamata anzitutto nell’art. 42, co. 3, Cost. che precisa che l’espropriazione può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti (principio di legalità). La sua fonte è il T.U. in materia di espropriazioni, che enuncia anch’esso anzitutto il principio di legalità. Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni competenti a realizzare un’opera pubblica ed è dunque un potere diffuso e accessorio . Il procedimento è articolato in quattro fasi: - l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio : esso instaura un raccordo tra l’attività di pianificazione del territorio e il procedimento espropriativo e può essere posto all’esito delle procedure di pianificazione urbanistica o in seguito all’approvazione di un progetto di un’opera pubblica. È circondata da garanzie: è prevista la partecipazione dei proprietari ai quali deve essere inviato (personalmente o mediante avviso pubblico) con un congruo anticipo un avviso di avvio del procedimento affinché possano formulare entro 30 giorni osservazioni. Ha durata di 5 anni ed entro questo termine deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità. Costituisce atto impugnabile innanzi al giudice amministrativo in quanto già produttivo di effetti giuridici nei confronti dei proprietari. - la dichiarazione di pubblica utilità: è volta ad accertare la conformità dell’opera da realizzare all’interesse pubblico ma la sua importanza è stata dequotata in quanto ritenuta assorbita in altri atti. Ha durata di 5 anni (termine perentorio), suscettibili di proroga, oppure il diverso termine apposto nella dichiarazione, e se non interviene il decreto di esproprio entro la scadenza comporta l’inefficacia della dichiarazione. - l’emanazione del decreto di esproprio: determina il trasferimento del diritto di proprietà del soggetto espropriato al soggetto nel cui interesse il procedimento è stato avviato e l’estinzione automatica dei diritti gravanti sul bene espropriato , salvo quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata. L’efficacia del provvedimento, però, è subordinata alla notifica e all’esecuzione del decreto, che deve avvenire nel termine perentorio di 2 anni mediante l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio. - la determinazione dell’indennità di esproprio: il decreto deve indicare l’importo dell’indennità che è quantificato all’esito di una fase in contraddittorio con gli interessati . Infatti, divenuta efficace la dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della procedura deve formulare ai proprietari un’offerta. L’autorità procedente, valutate le osservazioni degli interessati, che possono indicare il valore da attribuire al bene, determina in via provvisoria la misura dell’indennità. Nei 30 giorni successivi i privati possono comunicare una dichiarazione irrevocabile di assenso , che condurrà ad una cessione volontaria , mentre se non accettano o decorsi inutilmente 30 giorni dalla notifica, l’autorità emana il decreto e deposita l’indennità provvisoria rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti. Da questo momento, il procedimento per la determinazione in via definitiva dell’indennità ha uno svolgimento autonomo, con un’ulteriore fase in contraddittorio con il privato, che prevede l’intervento di una commissione provinciale istituita presso l’ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva dell’importo. Il proprietario che intenda contestarla può avviare un procedimento innanzi alla Corte d’appello per ottenere una determinazione in via giudiziale dell’indennità, entro 30 giorni dalla notifica del decreto o della stima. Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale ma vengono promosse soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria, configurata come un diritto soggettivo dell’espropriando che può essere esercitato fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio. I vantaggi sono essenzialmente di tipo pecuniario, visto che sono previste maggiorazioni . Avviato il procedimento di espropriazione, l’amministrazione può avviare il procedimento di occupazione d’urgenza al fine di acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene e di intraprendere i lavori per la realizzazione dell’opera pubblica. Ciò può avvenire quando l’amministrazione ritenga che l’avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza, in relazione ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla legge obiettivo, per le quali l’urgenza è decretata per legge, e allorché la procedura riguardi più di cinquanta proprietari. Nei casi in cui l’opera pubblica non venga realizzata o non tutto il bene espropriato venga utilizzato , trattandosi di un potere accessorio, il soggetto espropriato ha il diritto di riacquistare la proprietà del bene. Il diritto di proprietà può essere infatti sacrificato solo nella misura strettamente necessaria per conseguire le finalità di pubblico interesse, secondo il principio di proporzionalità. In ciò consiste la retrocessione (totale o parziale), che può essere richiesta dopo 10 anni dall’esecuzione del decreto. Tuttavia, il comune ha un diritto di prelazione sull’area inutilizzata in caso di retrocessione parziale . È previsto un corrispettivo a carico del soggetto che richiede la retrocessione, determinato tra le parti o con la stessa procedura prevista per la determinazione dell’indennità di esproprio. L’ acquisizione sanante , invece, consente all’amministrazione che ha occupato sine titulo un bene per scopi di pubblica utilità, che ha visto annullati dal giudice amministrativo o che abbia annullato d’ufficio in pendenza di giudizio i provvedimenti emanati, di disporne l’acquisizione, non retroattiva, al suo patrimonio indisponibile. Il provvedimento deve prevedere un indennizzo corrispondente al valore venale del bene e un risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo . È richiesta una motivazione puntuale circa le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative. Le sanzioni pecuniarie e disciplinari. Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni è strutturato in modo da garantire il rispetto del principio del contraddittorio. Quanto alle sanzioni pecuniarie, il procedimento si distingue in più fasi: l’accertamento (che consiste in un’attività verbalizzata di raccolta e prima valutazione di elementi suscettibili di integrare una fattispecie di illecito amministrativo, in taluni casi in contraddittorio), la contestazione degli addebiti (l’ufficio competente procede alla contestazione con sufficiente precisione di elementi al trasgressore immediatamente o comunque con notifica nel termine di 90 giorni dall’accertamento, il cui decorso comporta l’estinzione dell’obbligazione; entro 30 giorni gli interessati possono presentare scritti e documenti e chiedere di essere sentiti personalmente; entro 60 giorni può procedere all’oblazione, cioè il pagamento di una somma ridotta che estingue l’obbligazione senza che si proceda all’accertamento definitivo dell’illecito) e l’ordinanza-ingiunzione (emanata con indicato l’ammontare della sanzione, in caso di provata violazione, dall’autorità procedente, che ingiunge al trasgressore il pagamento entro un termine di 30 giorni) o l’archiviazione con ordinanza motivata. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione entro un termine di 30 giorni dalla notifica innanzi al giudice ordinario , in quanto la situazione giuridica soggettiva del soggetto ha la consistenza di diritto soggettivo . L’obbligo di pagare sorge, infatti, nel momento in cui è commesso l’illecito e non quando è emanata l’ordinanza (l’obbligazione, infatti, si estingue in caso di omessa notificazione della contestazione nel termine prescritto). Attesa la natura vincolata del potere, la vicenda sanzionatoria può essere sussunta nella categoria delle obbligazioni pubbliche ex lege, secondo lo schema norma-fatto-effetto giuridico. La l. 689/1981, che disciplina il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, si pone in una relazione di specialità rispetto alla l. 241/1990. È un sistema organico e compiuto, autosufficiente, però subisce spesso deroghe nelle discipline di settore, tra cui la regola, in ambito di autorità amministrative indipendenti operanti nel settore finanziario, secondo la quale le funzioni istruttorie devono essere affidate a uffici o organi distinti dall’organo collegiale che assume la determinazione finale. Più in generale, le discipline di settore rafforzano il principio del contraddittorio. Una specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari previste per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vigilanza attribuiti ad apparati pubblici. Sono previste anche qui ampie garanzie del contraddittorio. In particolare, il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, che venga a conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente pubblico deve contestare per iscritto l’addebito senza indugio e comunque non oltre 20 giorni . Il dipendente è convocato con un preavviso di 10 giorni per esercitare il proprio diritto di difesa o può limitarsi a inviare una memoria scritta. Il procedimento, eventualmente dopo ulteriore attività istruttoria, si conclude con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione, entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito . I termini hanno carattere perentorio. Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente davanti al giudice ordinario previo esperimento di un tentativo di conciliazione presso un collegio istituito presso la direzione provinciale del lavoro o altre procedure eventualmente previste dai contratti collettivi nazionali. Nel caso di sanzioni irrogate a dipendenti esclusi dal regime di privatizzazione, la giurisdizione è del giudice amministrativo. Relativi a provvedimenti con effetti ampliativi. Le autorizzazioni. Tra i procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti ampliativi ci sono anzitutto i procedimenti di autorizzazione , che ricadono nel campo di applicazione della direttiva servizi , gestione, che ha acquistato un peso crescente in parallelo al declino del controllo preventivo sugli atti e in linea con la concezione più moderna dell’amministrazione di risultato. Il d.lgs. 286/1999 individua quattro tipi di controllo interno obbligatori per tutte le p.a. : il controllo di regolarità amministrativa e contabile (volto a garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa); il controllo di gestione (volto a verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, al fine di ottimizzare il rapporto costi-risultati); la valutazione della dirigenza pubblica (che consiste nella valutazione delle prestazioni dei dirigenti e delle competenze organizzative ed è funzionale a far valere la responsabilità dirigenziale e può determinare in alcuni casi il mancato rinnovo dell’incarico, la revoca o il recesso); la valutazione e il controllo strategico (preordinati alla valutazione dell’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi e altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti, e mira a verificare l’effettiva attuazione delle scelte e si concretizza nell’analisi della congruenza o degli eventuali scostamenti tra le missioni affidate, le scelte effettuate, le risorse assegnate, identificando gli eventuali fattori ostativi, le responsabilità e i possibili rimedi). L’oggetto del controllo può essere costituito da singoli atti emanati dall’amministrazione (controllo sugli atti), oppure sul complesso dell’attività posta in essere da un apparato e dai risultati conseguiti ( controllo sull’attività o sulla gestione). Il controllo sugli atti rappresenta una forma di verifica che limita l’autonomia dell’ente o organo competente. Può essere preventivo o successivo, di legittimità o di merito , a seconda che l’organo di controllo faccia riferimento a parametri normativi e a principi giuridici, oppure a canoni più generali di opportunità e convenienza. In caso di esito negativo, il controllo di legittimità preclude all’atto di produrre i suoi effetti, se si tratta di controllo preventivo, mentre se si tratta di controllo successivo, determina l’annullamento dell’atto con rimozione degli effetti ex tunc. Se il controllo è di merito, l’autorità può riformare direttamente l’atto oppure indirizzare all’autorità emanante una richiesta di riesame. In realtà, il controllo preventivo di legittimità sugli atti delle amministrazioni è stato in auge fino ad anni recenti, ma il sistema era poco compatibile con un’impostazione autonomistica dell’ordinamento che valorizza il principio di autoresponsabilità. Inoltre, la mole di atti da scrutinare rallentava l’attività amministrativa e rispecchiava il modello tradizionale di amministrazione per atti, piuttosto che della amministrazione di risultato. Il controllo preventivo è stato in gran parte soppresso con la riforma del Titolo V e ad esso sono subentrate altre forme di controllo. A livello statale, il controllo preventivo attribuito alla Corte dei conti è ormai limitato a un elenco tassativo di atti e il procedimento di controllo deve concludersi entro 60 giorni. Inoltre, in caso di esito negativo, il ministro può chiedere al Consiglio dei ministri che l’atto abbia comunque corso e che venga ammesso alla registrazione con riserva. Anche il controllo successivo su singoli atti è ormai quasi del tutto superato. A livello statale, la Corte dei conti può però deliberare motivatamente che singoli atti di notevole rilievo finanziario siano sottoposti al suo esame per un determinato periodo di tempo e può richiedere all’amministrazione il riesame entro 15 giorni. La richiesta però non sospende l’esecutività. Il controllo sull’attività, invece, è un controllo di tipo successivo che riguarda la regolarità contabile e finanziaria della gestione e l’efficienza, l’efficacia e l’economicità. La Corte dei conti esercita anche il controllo concomitante che si svolge nel corso della gestione dell’ente e ha per oggetto l’intera gestione finanziaria e amministrativa allo scopo di verificare il rispetto dei parametri di legittimità e dei criteri di efficacia ed economicità. La Corte individua in contradditorio le cause e comunica le proprie valutazioni al ministro competente. A livello decentrato, esercita un controllo successivo sul rispetto da parte di regioni ed enti locali del Patto di stabilità e dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’UE, verifica la sana gestione finanziaria e il funzionamento dei controlli interni. All’esito del controllo, le sezioni regionali riferiscono agli organi rappresentativi dell’ente e vigilano sull’adozione da parte dell’ente locale delle misure correttive. Analoghi controlli sono previsti nei confronti delle ASL. Il controllo della Corte dei conti ha una valenza collaborativa nei confronti delle amministrazioni. Il parametro di valutazione può avere natura tecnica (controlli tecnici) o natura giuridica (controlli di legittimità). La distinzione forse più rilevante è quella fra controllo di legittimità, che ha come riferimento norme e principi giuridici che presiedono all’attività dell’amministrazione pubblica, e controllo di merito, che involge un apprezzamento diretto del grado di soddisfazione dell’interesse pubblico (sull’opportunità e la convenienza). Le misure che possono essere emanate all’esito del controllo sono di vario tipo : ordini di adeguamento o di ripristino dello standard violato, annullamento o riforma di atti, sanzioni, esercizio del potere sostitutivo, scioglimento dell’organo, ecc., ma anche suggerimenti e indicazioni nel caso sia presente una funzione collaborativa. La responsabilità. Originariamente, vigeva il principio dell’immunità del sovrano sancito in tutti gli ordinamenti in epoca antecedente allo Stato di diritto. Tale principio venne poi via via eroso e si affermò la tesi secondo cui la p.a. è responsabile nei confronti di terzi in relazione agli atti di gestione, in quanto in questo ambito essa opera su un piano di parità con i soggetti privati. Il punto di arrivo è enunciato nell’ art. 340 TFUE , secondo cui in materia di responsabilità extracontrattuale l’Unione deve risarcire i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. Questa disposizione dà cioè per assodato che in base ai diritti nazionali la p.a. risponda per danni cagionati a terzi. I modelli prevalenti a livello europeo sono due: il primo si fonda sul principio della responsabilità personale del dipendente pubblico ed entro certi limiti può estendersi agli apparati pubblici al servizio dei quali opera, il secondo si fonda invece sul principio opposto della responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato in quanto datore di lavoro del dipendente che ha posto in essere l’illecito. Le esigenze da bilanciare sono quelle della rifusione piena dei privati dei danni subiti, sfavorire i comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici e evitare il rischio di un eccesso di deterrenza, che conduce ad una burocrazia difensiva. In Italia, la responsabilità della p.a. trova fondamento nell’ art. 28 Cost. che stabilisce che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti e in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici . Esso fu il frutto della riformulazione di una disposizione concepita dai costituenti per rafforzare la tutela dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione. L’idea originaria era cioè di istituire una nuova responsabilità di rango costituzionale per lesione di diritti fondamentali, ma gli emendamenti snaturarono l’articolo, la cui formulazione finale diede subito adito a dubbi interpretativi. La portata della disposizione fu ricondotta al modello già affermatosi nei decenni precedenti, in cui al primo posto vi è la responsabilità della p.a. , che risponde immediatamente e direttamente in base al rapporto organico intercorrente con il dipendente e in quanto dal punto di vista formale non è il dipendente ma l’amministrazione che per il suo tramite opera. L’amministrazione può tuttavia rivalersi in via di regresso sul dipendente . Solo per alcune categorie di dipendenti pubblici (giudici, cancellieri, ufficiali giudiziari, conservatori, ecc.) leggi speciali precostituzionali avevano previsto una responsabilità esclusivamente personale del dipendente. Da ultimo, è da osservare che in tempi recenti l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha fatto confluire sempre più la responsabilità della p.a. nel diritto comune, riducendo le aree di immunità e le deroghe rispetto al diritto comune (es. nella prova di aver adottato tutte le misure idonee in caso di danno per svolgimento di attività pericolosa). La responsabilità va analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto tra danneggiato e dipendente , il rapporto tra danneggiato e p.a. e il rapporto interno tra dipendente e p.a. di appartenenza . La responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Tuttavia, per prassi e convenienza, l’azione risarcitoria viene esperita soltanto nei confronti dell’amministrazione. Inoltre, la responsabilità della p.a. è più ampia, infatti si estende anche alla colpa lieve. Quanto al rapporto interno, l’amministrazione può esercitare poi una azione di regresso secondo i principi della responsabilità amministrativa. Per essere risarcibile, il danno deve essere riconducibile a una condotta colposa o dolosa dell’agente , deve essere qualificato come ingiusto e deve sussistere un nesso di causalità tra condotta ed evento pregiudizievole, ai sensi dell’art. 2043 c.c. La condotta può essere anche omissiva o conseguire da atti cui il dipendente è obbligato per legge o regolamento compiuti ma con ingiustificato ritardo, e deve essere riferibile all’amministrazione in base al rapporto organico, che si spezza solo quando vi siano finalità personali ed egoistiche al di fuori delle proprie incombenze. È necessario cioè un nesso di occasionalità necessaria tra attività illecita e mansioni del dipendente , che si verifica quando il dipendente abbia approfittato delle sue attribuzioni ponendo in essere condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente da parte dell’amministrazione. Originariamente, l’accertamento della colpa era precluso in quanto si riteneva che sarebbe risolto in un giudizio sulla discrezionalità della p.a., precluso dalla legge del 1865 che individua l’ambito della giurisdizione del giudice ordinario. Progressivamente, però, la giurisprudenza ha superato questa chiusura affermando invece il principio secondo il quale il potere discrezionale incontra un limite anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza, e non solo nelle disposizioni di legge e di regolamento , e quindi l’amministrazione nel suo operare le scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale di neminem laedere . Quanto al requisito dell’ingiustizia del danno, la giurisprudenza riteneva che potesse essere considerato tale solo il danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo. Tuttavia, ci fu una svolta con la sentenza n. 500/1999 delle SS.UU . , che ha abbattuto la barriera della irrisarcibilità del danno da provvedimento illegittimo, tendendo verso il diritto europeo che non conosce la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. La Corte ha operato una nuova interpretazione della nozione di danno ingiusto ex art. 2043 c.c., qualificando la norma come norma primaria volta ad apportare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui, e non più secondaria, volta cioè a sanzionare condotte vietate da norme primarie. Ciò significa che per la sua applicazione non è più necessario che si rinvengano altre norme primarie recanti divieti o costitutive di diritti, ma pone direttamente il criterio giuridico per stabilire se il danno possa essere qualificato come ingiusto, mentre non ha più rilievo la qualificazione formale della situazione giuridica come diritto soggettivo: è sufficiente che sia riscontrabile attraverso un giudizio prognostico una lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Diventa allora cruciale stabilire in quali casi un interesse è giuridicamente rilevante. Secondo la Corte, occorre operare una valutazione e comparazione tra interessi in conflitto alla stregua del diritto positivo, accertando con quale consistenza e intensità l’ordinamento assicura tutela all’interesse del danneggiato. Non tutti gli interessi legittimi sono quindi risarcibili. Nel caso degli interessi legittimi oppositivi, la connessione con un bene della vita, cioè la conservazione del bene o della situazione di vantaggio di fronte a un provvedimento che mira a sacrificarlo o limitarlo, è in re ipsa . Nel caso di interessi legittimi pretensivi, la cui lesione può derivare sia dal diniego illegittimo del provvedimento favorevole, sia dal ritardo ingiustificato nell’adozione di quest’ultimo, il collegamento con il bene della vita richiede un giudizio prognostico da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza , onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa (non tutelabile), bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, cioè una situazione che era destinata secondo un criterio di normalità ad un esito favorevole e risultava quindi giuridicamente protetta . Ne deriva che il giudizio prognostico ha per oggetto la fondatezza dell’istanza del privato volta a ottenere il provvedimento favorevole e dunque tende ad appurare se il bene della vita o l’utilità che il privato mira a conseguire gli deve essere riconosciuto. Tale giudizio richiede un esame della normativa di settore al fine di stabilire se vi sono margini di discrezionalità riconosciuti all’amministrazione (la discrezionalità esclude la spettanza del bene della vita). Il giudizio va condotto secondo un criterio di normalità, cioè prefigurando l’esito del procedimento. Solo nel caso in cui si deduca che il soggetto si trovi in una situazione di oggettivo affidamento, giuridicamente protetto, a conseguire il bene della vita (sostanzialmente, in caso di provvedimenti vincolati), negli interessi legittimi pretensivi sussiste un collegamento diretto con il bene della vita tale da renderli risarcibili. Se il risarcimento non è accertabile in termini di certezza assoluta, sarà risarcibile solo la perdita di chance. Gli enti pubblici sono persone giuridiche , dunque organizzazioni formali considerate come soggetti di diritto separati dalle persone fisiche che li compongono e dotati di una propria capacità giuridica, e si distinguono, al pari delle persone giuridiche private, in strutture prevalentemente associative (come gli ordini professionali, le federazioni sportive, le camere di commercio, ecc.) e altre di natura patrimoniale (ASL, enti previdenziali). La loro istituzione avviene però per legge nel caso di enti a statuto singolare (cioè disciplinati da una legge ad hoc, es. il CONI o l’ISTAT) o sulla base di delibere amministrative nel caso di categorie di enti previste da una legge generale (es. le università o le camere di commercio), in cui vengono individuate finalità, assetto organizzativo, poteri, ecc. Tuttavia, dal 1975, nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge. Per poter instaurare rapporti giuridici con soggetti esterni, le persone giuridiche si avvalgono di organi che possono essere definiti come centri di imputazione giuridica: la persona fisica titolare dell’organo ha il potere di esprimere la volontà della persona giuridica imputando direttamente in capo a quest’ultima l’atto e gli effetti da esso prodotti (=rapporto di immedesimazione organica). L’individuazione degli organi e delle loro competenze è operata dalla legge e dagli statuti dei singoli enti. Oltreché di organi, le persone giuridiche si avvalgono per la propria attività di uffici , cioè di unità operative interne, alle quali sono addette una o più persone fisiche. In un certo senso, gli organi sono anch’essi degli uffici, il cui titolare ha però anche il potere di emanare atti giuridici che impegnano l’ente nei rapporti esterni. Gli uffici propriamente detti, invece, svolgono un’attività che ha rilevanza meramente interna e natura strumentale rispetto a quella degli organi in senso proprio (es. ufficio contabilità, ufficio personale, ufficio contratti). Nelle amministrazioni pubbliche, l’organizzazione dei pubblici uffici è sottoposta a una riserva di legge relativa ed è disciplinata da fonti legislative e da atti organizzativi emanati dai singoli enti. Alcuni uffici sono obbligatori per tutte le p.a. Organi e uffici agiscono per mezzo di persone fisiche . Nel caso delle organizzazioni pubbliche, l’assegnazione di una persona fisica a un organo o a un ufficio richiede un atto formale : l’investitura nel caso del titolare, l’assegnazione negli altri casi, emanati dai vertici dell’apparato dal dirigente dell’ufficio del personale. La persona fisica e la persona giuridica sono da quel momento legati da un rapporto di immedesimazione (dal punto di vista interno) e dal rapporto di servizio (dal punto di vista esterno). Gli organi possono essere interni o esterni. Sono organi esterni quelli attraverso cui la persona giuridica opera nei rapporti con altri soggetti dell’ordinamento, mentre gli organi interni, o uffici , svolgono attività giuridiche propedeutiche alla formazione della volontà dell’amministrazione. Possono essere, inoltre, monocratici o collegiali, nel cui caso la volontà dell’apparto è espressa mediante delibere. Organi e uffici possono, infine, essere, in base alle funzioni, attivi , quando emanano atti correlati alle funzioni dell’ente o svolgono attività materiali; consultivi quando esprimono pareri ; oppure di controllo . Le amministrazioni pubbliche. Nel corso del XX secolo, a fianco alle amministrazioni di tipo tradizionale, come Stato e enti territoriali, sono stati istituiti enti pubblici di vario tipo e, in epoca più recente, soggetti formalmente privati ma sottoposti almeno in parte a regimi pubblicistici. Si pone il problema di delineare il perimetro della pubblica amministrazione. Manca una definizione legislativa di pubblica amministrazione alla quale si ricolleghi l’applicazione di un corpo di regole e principi omogeneo. Molte leggi amministrative settoriali individuano il proprio campo di applicazione con un elenco tassativo di enti, altre prevedono che si applichino alle p.a. senza darne una definizione. Sintetizzando i tratti caratterizzanti delle pubbliche amministrazioni, ricavandoli induttivamente dagli elenchi e dai criteri posti dalle principali normative speciali, si può anzitutto dire in negativo che esse si collocano al di fuori del mercato , nel senso che esse non producono beni e servizi resi sulla base di prezzi che consentano di realizzare i ricavi atti a coprire i costi e a produrre utili. Si caratterizzano piuttosto per produrre beni pubblici materiali o immateriali con finalità anche redistributive, con finanziamenti posti a carico della collettività attraverso la tassazione. Tali attività possono consistere sia nell’emanazione di atti o provvedimenti amministrativi, sia in attività materiali (come prestazioni sanitaria, istruzione, ecc.) sia nell’erogazione di denaro (es. trattamenti pensionistici). A livello europeo, la nozione di p.a. è quella del nucleo ristretto di incarichi e di figure professionali che partecipano in modo diretto o indiretto all’esercizio dei poteri pubblici e alla tutela degli interessi generali dello Stato. LO STATO. La struttura amministrativa portante dello Stato è costituita dai ministeri , al cui vertice si colloca il ministro, quale punto di raccordo tra politica e amministrazione e punto di collegamento con il circuito politico rappresentativo. Rispetto al passato, è mutata l’articolazione, il numero e la denominazione dei ministeri e il principio gerarchico è stato sostituito dal principio della distinzione tra politica e amministrazione. In base all’art. 95 Cost., spetta alla legge determinare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri, disciplinati in particolare nel d.lgs. 300/1999, che contiene l’elenco completo dei ministeri, pone una disciplina generale della loro organizzazione centrale e periferica, specifica le attribuzioni e le principali aree funzionali dei singoli ministeri . Ciascun ministero è disciplinato poi da un regolamento governativo . Accanto ai ministeri indicati dal d.lgs. 300/1999, possono essere preposti i ministri senza portafoglio , che sono a capo non di un dicastero ma di dipartimenti e esercitano solo funzioni delegate dal presidente del Consiglio dei ministri. Con funzioni di coordinamento sono istituiti i Comitati interministeriali . Si distinguono i ministeri con funzioni di ordine (interno, difesa, giustizia, esteri), con funzioni economiche e finanziarie (economia e finanze, politiche agricole, alimentari e forestali), con funzioni di servizio sociale e culturale (salute, istruzione, università e ricerca) e con funzioni relative alle infrastrutture e ai servizi collettivi (infrastrutture e mobilità sostenibile). L’organizzazione dei ministeri è di due tipi: i ministeri preposti a una pluralità di ambiti di interventi (come il ministero dell’Interno) seguono un modello dipartimentale , quindi sono formati da dipartimenti, mentre i ministeri con competenze più omogenee e circoscritte seguono il modello per direzioni generali . I dipartimenti assicurano l’esercizio organico e integrato di funzioni e compiti finali riguardanti grandi aree di più materie omogenee. Ai dipartimenti è preposto un capo di dipartimento che coordina gli uffici di livello dirigenziale generale afferenti al singolo dipartimento. I ministeri strutturati in direzioni generali, invece, possono prevedere come figura di coordinamento un segretario generale che funge da raccordo tra ministro e dirigenti preposti alle direzioni generali. Fanno parte dell’organizzazione di alcuni ministeri anche strutture periferiche, di regola a livello provinciale, che realizzano il decentramento burocratico. La principale struttura periferica è la Prefettura , che ha il compito di assicurare l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato e la leale collaborazione con gli enti locali . Il prefetto è sottoposto alle direttive del presidente del Consiglio dei ministri e dei singoli ministri. A livello regionale, il raccordo con lo Stato è assicurato dal commissario del governo , con sede in ciascun capoluogo, che dipende funzionalmente dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Rispetto allo Stato, i ministeri possono essere definiti come organi. Non hanno, quindi, propriamente una personalità giuridica, ma per consuetudine è loro riconosciuta una legittimazione sostanziale e processuale autonoma (la rappresentanza legale è dell’Avvocatura dello Stato), per cui sono assimilati agli enti in senso proprio. Afferiscono, inoltre, all’organizzazione dei ministeri le agenzie , ossia strutture preposte allo svolgimento di attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale. Godono di autonomia operativa ma sono sottoposte ai poteri di indirizzo e vigilanza di un ministro. Una specie particolare di agenzia è costituita dalle agenzie fiscali (Agenzia delle Entrate, Agenzie delle Entrate-Riscossione, ecc.), le quali, a differenza delle altre, hanno personalità giuridica di diritto pubblico autonoma. Il modello delle agenzie segue quello delle aziende , cioè strutture interne ai ministeri, istituite da questi all’inizio del secolo scorso per l’erogazione di servizi pubblici nazionali (azienda delle ferrovie dello Stato, ecc.). Quasi tutte furono trasformate dapprima in enti pubblici economici e poi in società per azioni. Le agenzie si differenziano dalle aziende perché sono titolari soprattutto di funzioni di regolazione e amministrative in ambiti particolari, piuttosto che di gestione di attività di tipo economico. Alla Presidenza del Consiglio dei ministri , dotata di autonomia e flessibilità organizzative più accentuate rispetto alle strutture ministeriali, afferiscono altre strutture, ossia una serie di dipartimenti e uffici posti alle dipendenze di un segretariato generale preposto alla gestione delle risorse umane e strumentali . Esse curano i rapporti con il parlamento, con gli organi costituzionali, con le istituzioni europee e con il sistema delle autonomie, il coordinamento dell’attività amministrativa del governo. Presso la presidenza del Consiglio dei ministri operano anche la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza Stato, città e autonomie locali. Inoltre, vi afferisce l’Avvocatura dello Stato , un organo ausiliario di rango non costituzionale che ha la funzione di consulenza generale e di rappresentanza legale in giudizio delle amministrazioni statali . È articolata nella avvocatura generali di Roma e nelle avvocature distrettuali, situate nei capoluoghi regionali ove hanno sede le Corti d’appello. Come noto, la Repubblica è costituita anche dai comuni , dalle province , dalle città metropolitane e dalle regioni , definiti come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, con pari dignità istituzionale . Il modello recepito è quello triangolare , visto che anche i comuni intrattengono rapporti istituzionali diretti con lo Stato, non mediati dalle regioni. Essi hanno infatti un radicamento storico che risale addirittura al Medioevo, mentre le regioni sono state introdotte nella Costituzione del 1948 e istituite solo negli anni Settanta. Gli enti locali e le regioni costituiscono una particolare categoria di enti pubblici . Si tratta di enti necessari , essendo istituiti obbligatoriamente in tutto il territorio nazionale, e sono enti ad appartenenza necessaria, poiché ogni cittadino, in base al criterio della residenza, trova un riferimento stabile in ciascuno di essi. Inoltre, sono enti a competenza generale , perché possono curare gli interessi della popolazione di riferimento con una certa libertà. Infine, sono enti inseriti integralmente nell’ordinamento amministrativo , poiché tutti i loro atti normativi e non normativi sono sempre e necessariamente atti formalmente amministrativi. La sola eccezione è costituita dalle leggi regionali, nelle materie e nei limiti stabiliti dall’art. 117 Cost. L’ordinamento degli enti locali è disciplinato dal T.U. sull’ordinamento degli enti locali approvato con d.lgs. 267/2000. La disciplina si ispirava inizialmente al principio dell’uniformità giuridica: essi erano, cioè, sottoposti a controlli di legittimità e di merito penetranti da parte dello Stato. Tale principio fu superato in epoca postunitaria con l’autonomia statutaria. La Costituzione li definisce ora come enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica (cioè nei limiti stabiliti dallo Stato). Maggiore autonomia è stata riconosciuta negli anni Novanta, con l’attribuzione di un maggior numero di funzioni in conformità al principio di sussidiarietà verticale . Il comune è l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo. Ad esso spettano tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Le funzioni sono conferite con legge statale o con legge regionale. Inoltre, essi svolgono anche alcune funzioni propriamente statali, in relazione alle quali al sindaco è attribuita la qualifica di ufficiale di governo (es. anagrafe, stato civile, servizi elettorali, leva militare, statistica, ecc.). Lo statuto del comune, nel quale si esprime la sua autonomia, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e specifica le attribuzioni degli organi, le forme di collaborazione tra comuni e province, la partecipazione popolare, l’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi. Può avere anche un contenuto facoltativo e un contenuto eventuale. Ai comuni è riconosciuta anche un’ampia autonomia regolamentare nelle materie di propria competenza. Gli organi di governo sono il consiglio, la giunta e il sindaco. Il sindaco è eletto direttamente dal corpo elettorale, per non più di due mandati quinquennali. È Le autorità indipendenti costituiscono una tipologia di enti pubblici che ha avuto diffusione a partire dagli anni Novanta, con l’affermarsi dello Stato regolatore. Rispetto alle amministrazioni di tipo tradizionale, si connotano per un marcato grado di indipendenza dal potere esecutivo, ma anche nei confronti degli interessi privati. La loro indipendenza trova origine dal dibattito sui poteri neutri e dalla tesi secondo cui non tutti gli apparati pubblici devono mantenere un collegamento stretto con il circuito politico rappresentativo, che risente spesso di logiche di breve periodo. Ciò assicura maggior stabilità e coerenza alle regole che disciplinano i singoli mercati e consente agli operatori di progettare e realizzare in un quadro di maggior certezza investimenti che hanno ritorni solo nel lungo periodo. Una seconda ragione dell’indipendenza si riallaccia all’esigenza di garanzie rafforzata alla tutela dei valori costituzionali nei settori sensibili. Una terza ragione riguarda la necessità di prevenire conflitti tra Stato imprenditore e Stato regolatore. Gli strumenti che tendono a garantire l’indipendenza si desumono dalle leggi istitutive delle singole autorità: il legame privilegiato con il parlamento piuttosto che con il governo (in tema di nomine dei componenti, per esempio), il carattere collegiale degli organi, la scelta dei componenti in base ai requisiti di professionalità e competenza e indipendenza, la durata in carica lunga che garantisce un disallineamento rispetto al ciclo elettorale, le incompatibilità successive, l’ampia autonomia organizzativa, funzionale e finanziaria delle autorità, l’inserimento nella rete europea, ecc. Le autorità derogano, entro certi limiti, al principio della separazione dei poteri, in quanto assommano poteri di regolazione, poteri amministrativi puntuali e poteri di risoluzione in via stragiudiziale di controversie. Inoltre, esercitano i loro poteri in forme paragiurisdizionali, quindi in modo simile agli organi giurisdizionali: in particolare, sono previste garanzie del contraddittorio rinforzate rispetto alla soglia posta dalla l. 241/1990, a garanzia della mancanza di un collegamento diretto al circuito polito-rappresentativo, e quindi quale fattore di legittimazione. Le autorità indipendenti possono essere suddivise in tre categorie: le autorità di tipo generalista (che esercitano i loro poteri in modo trasversale nei confronti di tutte le imprese o di altri soggetti pubblici o privati, es. l’AGCM e il Garante per la protezione dei dati personali), le autorità di vigilanza sulle imprese operanti in particolari mercati (ove si riscontrano fallimenti di mercato, in particolare, es. quelle preposte alla vigilanza e alla regolazione dei mercati finanziari), le autorità preposte alla regolazione dei servizi pubblici. Le società a partecipazione pubblica. L’ordinamento europeo ha un atteggiamento di neutralità rispetto alla proprietà pubblica o privata delle imprese, sempre che siano assicurate condizioni di parità concorrenziale. La scelta di incentivare o meno il fenomeno delle società in mano pubblica dipende dunque da scelte prettamente nazionali . Secondo le indicazioni dell’OCSE, in linea di principio, le società pubbliche devono essere sottoposte alle regole comuni del diritto societario, mentre sono ammesse deroghe solo se necessarie per il perseguimento degli interessi pubblici, quindi sulla base di una valutazione di stretta proporzionalità. Il d.lgs. 175/2016 , di riordino della disciplina in tema di società a partecipazione pubblica , si ispira, più che al principio di neutralità europeo, a quello di contenimento del fenomeno delle società a partecipazione pubblica, alle quali è imposto un divieto generale di costituire società, acquisire o mantenere azioni anche di minoranza in società commerciali aventi per oggetto la produzione di beni o servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Inoltre, elenca in modo tassativo le attività che possono essere svolte dalle società a partecipazione pubblica. Le società a partecipazione pubblica sono sottoposte a vincoli pubblicistici via via più intensi in base alla seguente graduazione: le società quotate, alle quali il d.lgs. 175/2016 si applica solo nei casi in cui le richiama espressamente; le società meramente partecipate (nelle quali le amministrazioni pubbliche detengono solo pacchetti azionari di minoranza), anch’esse sottoposte in massima parte al diritto comune; le società in controllo pubblico (detenute per la maggioranza, direttamente o indirettamente, dalle p.a.), alle quali si applicano gran parte dei vincoli pubblicistici; le società in house (così intimamente legate alla p.a. da poter essere equiparate a un ufficio interno della stessa), il cui regime è equiparato in gran parte a quello delle p.a.; le società a partecipazione pubblica di diritto singolare, le cui disposizioni speciali continuano a trovare applicazione anche dopo il d.lgs. 175/2016. La nuova disciplina prevede, inoltre, che le amministrazioni pubbliche che intendano costituire o acquisire partecipazioni societarie devono adottare un atto deliberativo che espliciti le ragioni e le finalità che giustificano la scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, dando conto delle possibilità di destinazione alternativa delle risorse e della compatibilità con i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. Lo stesso obbligo di motivazione analitica vale nel caso di alienazione delle partecipazioni. Vedi pagg. 347-357 per approfondimento. I servizi pubblici. Prima delle liberalizzazioni e privatizzazioni avviate dagli anni 70-80 in poi, l’erogazione dei servizi pubblici alla collettività era assicurata in gran parte da apparati pubblici (Stato interventista). Si trattava di servizi necessari per il benessere della collettività che il mercato non era in grado di offrire in quantità e qualità ritenute adeguate. Il modello originario di organizzazione dei servizi pubblici aveva due caratteristiche: l’introduzione per legge di un regime di riserva originaria dell’attività a favore dello Stato (che ne escludeva lo svolgimento da parte dei privati in regime di concorrenza) e la gestione diretta , tramite aziende speciali interne, o indiretta , tramite enti pubblici economici , del servizio da parte dei pubblici poteri. In alcuni casi, era consentito l’affidamento a soggetti privati terzi sulla base di una concessione amministrativa che ha una valenza organizzatoria. La dottrina elaborò inizialmente una concezione soggettiva di servizio pubblico , come le attività svolte dallo Stato a fini sociali in forme non autoritative . Progressivamente, con il superamento dell’impostazione statalista, la concezione soggettiva divenne recessiva rispetto alla concezione oggettiva oggi prevalente, più in linea con il principio di sussidiarietà orizzontale. Essa pone l’accento sul tipo di attività, connotata per la sua finalizzazione al benessere della collettività, a prescindere dal fatto che sia svolta da un soggetto pubblico o da privati. Con l’avvio dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione, il compito dello Stato non è più quello di erogare direttamente i servizi pubblici, ma garantire attraverso strumenti di regolazione che essi siano resi alla collettività , secondo livelli qualitativi e quantitativi adeguati , di regola da parte di privati (Stato regolatore). I servizi pubblici possono essere suddivisi in servizi aventi una rilevanza economica (trasporti, energia, telecomunicazioni) e servizi non economici (scuola, sanità, assistenza sociale). I primi sono suscettibili di essere esercitati in forma imprenditoriale e si prestano più naturalmente ad essere gestiti da soggetti privati in regime di concorrenza. Dei secondi in genere si fanno carico direttamente le p.a. con oneri a carico della fiscalità generale. Inoltre, si distingue tra servizi a fruizione collettiva necessaria (i beni non escludibili; vengono erogati sulla base di atti che instaurano una relazione bilaterale tra amministrazione e gestore e vengono erogati alla collettività gratuitamente) e servizi a fruizione individuale (il gestore intrattiene una relazione giuridica anche con gli utenti del servizio, ai quali viene richiesto usualmente un corrispettivo commisurato alle prestazioni effettivamente rese). I servizi a rete, infine, sono quelli erogati agli utenti attraverso infrastrutture fisse, spesso interconnesse (es. le reti ferroviarie e autostradali). In passato, erano gestiti da operatori monopolisti che erogavano anche i servizi. Ora, gli operatori di rete sono distinti dalle imprese che erogano i servizi e il gestore deve rendere accessibili le reti e le infrastrutture di base a tutti gli interessati in condizioni non discriminatorie, in base al principio della neutralità della rete. La disciplina europea in materia di servizi pubblici si fonda, secondo due direttrici principali, su alcuni principi posti dal TFUE e su numerose direttive di liberalizzazione riferite ai singoli servizi. Secondo la prima direttrice, i servizi di interesse generale costituiscono elementi essenziali per garantire la coesione sociale e territoriale e salvaguardare la competitività dell’economica europea. Secondo la seconda direttrice, le imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme dei Trattati e in particolare alle regole di concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento della specifica missione loro affidata: ciò vuol dire che sono sottoposte alle regole comuni in materia di concorrenza, mentre sono previste deroghe secondo il principio di stretta proporzionalità . Negli anni Novanta, le direttive di liberalizzazione hanno portato al superamento della prima delle due caratteristiche del modello originario di organizzazione (cioè la riserva originaria di attività), in quanto esse tendono ad assicurare che il raggiungimento degli obiettivi del servizio pubblico avvenga nel rispetto dei principi del mercato aperto alla libera concorrenza tra gli operatori. La disciplina dei servizi pubblici ha per oggetto tre fasi: l’assunzione, la regolazione e la gestione. - L’assunzione di un’attività come servizio pubblico è il frutto di una decisione politica , che constata l’insufficienza del mercato nell’offrire alla collettività determinati beni e servizi, mette in opera interventi di regolazione volti a garantire livelli minimi qualitativi e quantitativi delle prestazioni e, se necessario, mette a disposizione risorse pubbliche. La nozione di servizio pubblico si caratterizza per la sua storicità e la sua relatività (nel senso che muta il perimetro del servizio pubblico a seconda del contesto locale e delle specificità territoriali), pertanto non ne esiste una accezione univoca. - Individuata una attività come servizio pubblico, si pone il problema della regolazione, che è funzionale al raggiungimento degli obiettivi di interesse pubblico e all’attuazione in concreto dei principi giuridici in materia di servizi pubblici, tra cui il principio di doverosità (per cui i fornitori dei servizi sono sottoposti a obblighi di servizio stabiliti in modo puntuale in atti di regolazione o nelle convenzioni accessive alla concessione), il principio della continuità (l’erogazione non può essere interrotta arbitrariamente), il principio della parità di trattamento, il principio di universalità (quindi, a prescindere dalla localizzazione, dalla fascia sociale o di reddito), il principio dell’abbordabilità (cioè servizi a prezzi accessibili, talvolta con agevolazioni a favore di categorie di utenti più svantaggiate), il principio dell’economicità (il gestore deve essere posto nella condizione di svolgere l’attività in modo imprenditoriale, altrimenti l’amministrazione deve farsi carico degli oneri attraverso compensazioni e contribuzioni). - Ci sono varie forme di gestione dei servizi pubblici. Restando all’interno del perimetro della pubblica amministrazione, si ha gestione diretta allorché l’attività è svolta da strutture dell’ente titolare del servizio (aziende speciali o, a livello locale, i servizi gestiti in economia ), mentre si ha gestione indiretta allorché essa è affidata a un ente pubblico incaricato dello svolgimento del servizio. Un’altra forma ancora sostanzialmente interna è la società in-house , che può ricevere in affidamento il servizio attraverso una concessione o convenzione senza il previo espletamento di una gara. Una quarta forma è la società mista, a partecipazione pubblica e privata, che opera, quindi, una prima esternalizzazione parziale del servizio. Richiede l’avvio di una procedura competitiva che ha ad oggetto la scelta del socio che abbia le caratteristiche tecniche ed economiche migliori e l’affidamento della gestione del servizio alla società tramite il rilascio di una concessione. Alla scadenza della concessione il socio privato è tenuto a cedere la partecipazione a condizioni prestabilite al soggetto risultato eventualmente aggiudicatario di una nuova procedura competitiva. La società mista, quindi, è una forma di partenariato pubblico-privato, e può assumere due forme: partenariato di tipo istituzionale (in cui si instaura una relazione di tipo organizzativo tra soggetti pubblici e privati che interagiscono all’interno della società mista) o partenariato di tipo contrattuale (in cui un’amministrazione stipula con un’impresa un contratto, per acquisire un bene o un servizio, operando così un’esternalizzazione completa). La quinta forma è quella del partenariato di tipo contrattuale costituito dalla concessione del servizio a soggetti terzi selezionati sulla base di procedure competitive nei casi in cui per ragioni tecniche o economiche il servizio si presta a essere erogato da un solo gestore. Non prevede un coinvolgimento organizzativo diretto del soggetto pubblico nella gestione del servizio per cui è necessario che il contratto di servizio preveda strumenti efficaci di controllo sulla qualità del servizio. Un’ultima forma è la concorrenza era regolato non con strumenti contrattuali ma con atti normativi e provvedimenti amministrativi unilaterali, e le controversie erano attribuite alla cognizione del giudice amministrativo. La concezione pubblicistica entrò in crisi in epoca successiva alla Costituzione sia in seguito al riconoscimento pieno dei diritti sindacali e l’introduzione di meccanismi di contrattazione collettiva, sia in ragione dell’esigenza di promuovere flessibilità ed efficienza nella gestione degli apparati amministrativi in coerenza con una visione aziendalistica della p.a. Il campo di applicazione delle norme generali sull’impiego pubblico privatizzato, che valgono oggi per la maggior parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, è definito nell’ art. 1 del d.lgs. 165/2001 che individua un elenco delle amministrazioni pubbliche i cui dipendenti ricadono nel regime privatistico. In via di deroga, alcune categorie restano sottoposte al regime di diritto pubblico (personale militare e forze di polizia, magistrati, avvocati dello Stato, personale prefettizio, personale diplomatico, professori universitari, vigili del fuoco, guardie penitenziarie), alcune integralmente, altre solo parzialmente , ma per entrambe la disciplina viene adottata formalmente con provvedimenti unilaterali (decreti del presidente della Repubblica) e tutte le controversie sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Per il personale ricadente nel regime privatistico, invece, il sistema delle fonti dà origine in realtà a un diritto privato differenziato, ossia il rapporto di lavoro è disciplinato dal codice civile e dalla legge sui rapporti di lavoro subordinato, salvo quanto previsto dal decreto legislativo, che ha carattere imperativo. Si connota quindi per molteplici profili di specialità (come la regola sull’esercizio di fatto di mansioni superiori, che non dà diritto all’inquadramento superiore). In aggiunta, il rapporto è regolato dai contratti collettivi e dai contratti individuali . La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro , nonché le materie relative alle relazioni sindacali . Inoltre, poiché è stabilito che i contratti individuali, che instaurano il rapporto, devono garantire la parità di trattamento, i contratti collettivi assumono un’efficacia sostanzialmente erga omnes (anche verso coloro che non sono iscritti ai sindacati che hanno sottoscritto un contratto collettivo). La contrattazione collettiva, però, è ammessa entro uno spazio delimitato in modo rigoroso dal d.lgs. 165/2001, che esclude ad esempio materie attinenti all’organizzazione degli uffici, alle prerogative dei dirigenti, al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali, ai procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro, ecc. Il d.lgs. 165/2001, inoltre, prevede tre livelli di contrattazione . Il primo individua i comparti , ossia categorie di personale tendenzialmente omogenee (es. comparto enti locali). All’interno di ciascun comparto, sono costituite sezioni contrattuali per specifiche professionalità. Il secondo livello è costituito, per ciascun comparto, dai contratti collettivi nazionali. A valle, si collocano i contratti collettivi integrativi , che riguardano il personale di una singola amministrazione. Quanto ai soggetti della contrattazione collettiva, per la parte pubblica è istituito un organismo tecnico, cioè l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle p.a. (ARAN), che negozia con le rappresentanze sindacali nel rispetto degli indirizzi impartiti da tre comitati di settori. Le organizzazioni sindacali dei dipendenti pubblici, invece, sono individuate in base a un criterio di rappresentatività non inferiore al 5% per ciascuna organizzazione. I procedimenti di selezione e di avviamento al lavoro nelle p.a. propedeutici alla costituzione del rapporto sono regolati esclusivamente dalla legge o con altri atti normativi o amministrativi . In particolare, il concorso pubblico costituisce la regola generale, volta a favorire il merito e a contrastare il political patronage, cioè il reclutamento sulla base di criteri di affiliazione politica e partitica. Per tutte le amministrazioni è obbligatorio il reclutamento del personale tramite procedure selettive che rispettano i principi di pubblicità, trasparenza, oggettività e pari opportunità. Le sole eccezioni riguardano il personale con qualifiche più basse che può essere acquisito mediante l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento e l’assunzione degli invalidi, che avviene per chiamata numerica degli iscritti nelle liste. Lo stesso concorso pubblico vale come regola generale anche per l’accesso alla qualifica di dirigente di prima e di seconda fascia. Solo per la qualifica di dirigente di seconda-fascia (meno elevato) è previsto in alternativa il corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della p.a. Le fasi del procedimento concorsuale sono quattro: - l’avvio della procedura , deliberato dall’amministrazione che indice il concorso in base a una programmazione triennale di copertura dei posti previsti dalle piante organiche determinate da ciascuna amministrazione in relazione ai fabbisogni. Il bando di concorso contiene una serie di prescrizioni aventi per oggetto i requisiti per la partecipazione, il termine e le modalità di presentazione delle domande, la tipologia delle prove, il calendario, il punteggio minimo, i titoli di studio che danno diritto a punteggio. Il bando è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e con altre modalità atte a garantire la massima diffusione. - l’ammissione delle domande di partecipazione , che devono essere presentate entro 30 giorni dalla pubblicazione. La mancata ammissione costituisce provvedimento impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. Ove venga accolta la domanda cautelare, il candidato escluso viene ammesso alle prove con riserva. - la fase istruttoria-valutativa , affidata a una commissione esaminatrice composta da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso. Essa è preposta allo svolgimento delle prove e alla valutazione dei titoli. Prima delle prove, essa deve stabilire i criteri e le modalità di valutazione , al fine di assegnare i punteggi, allo scopo di rendere il più oggettivo possibile il giudizio valutativo. La commissione dà conto delle operazioni compiute in un verbale che riporta in particolare i giudizi valutativi. A conclusione, la commissione formula una graduatoria di merito in base ai punteggi ottenuti nelle singole prove. - la fase decisionale è a cura dell’amministrazione che ha indetto il concorso e consiste in un esame della regolarità della procedura e nell’approvazione della graduatoria di merito con l’indicazione dei candidati vincitori o comunque idonei. La graduatoria è pubblicata nel bollettino dell’amministrazione interessata e ne viene data notizia nella Gazzetta Ufficiale. Il provvedimento che approva la graduatoria conclude il procedimento ed è suscettibile di impugnazione innanzi al giudice amministrativo. I vincitori vengono assunti in servizio con un contratto di lavoro individuale o, nel caso di dipendenti pubblici non sottoposti al regime privatistico, con un provvedimento di nomina. Nei contratti individuali non vi è spazio per modulare il contenuto dei diritti e degli obblighi rispetto a quanto previsto nei contratti collettivi. Il rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a. è interessato da alcuni aspetti caratteristici , tra cui l’obbligo di esclusività che impegna il dipendente a dedicare tutte le energie lavorative all’amministrazione di appartenenza, mentre non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati. Si tratta di un obbligo che si ricollega al dovere di fedeltà alla Nazione. In via di deroga al principio di esclusività, per alcune categorie di dipendenti, è ammesso entro certi limiti il regime part time, e comunque non rientrano nel regime dell’incompatibilità alcune attività comunque retribuite, come la collaborazione a giornali e riviste, ma ogni incarico deve essere autorizzato all’amministrazione di appartenenza. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti, mentre può essere adibito a mansioni superiori solo in caso di vacanza di posto in organico ma per un periodo non superiore a 6 mesi e in caso di sostituzione di dipendente in aspettativa e gli deve essere riconosciuto il trattamento economico corrispondente. I dipendenti sono inquadrati in almeno tre aree funzionali e le progressioni all’interno avvengono secondo principi di selettività e di rispetto del principio del merito. Il trattamento economico è definito nei contratti collettivi e si distingue in trattamento fondamentale e accessorio , il quale ultimo viene attribuito in base a una valutazione della performance individuale, alla performance organizzativa relativa all’amministrazione nel suo complesso e alle singole unità, allo svolgimento di attività particolarmente dannose, disagiate o pericolose. Per premiare il merito e il miglioramento della performance, il contratto collettivo nazionale può prevedere risorse specifiche e spetta ai dirigenti la responsabilità di stabilire a chi attribuirle, ma è fatto divieto di distribuirli “a pioggia”. È previsto inoltre un sistema premiale composto da vari strumenti (premi annuali). La mobilità è sottoposta a regole particolari. Le amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali finalizzate alla copertura di posti vacanti, devono attivare la procedura di mobilità, cioè le amministrazioni devono rendere pubbliche le disponibilità di posti da ricoprire e i dipendenti interessati possono presentare domanda di trasferimento, senza che sia richiesto il consenso dell’amministrazione di appartenenza. La mobilitazione collettiva, invece, prevista per le eccedenze di personale, avviene attraverso un procedimento che prevede un’informazione preventiva alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali. Se non è possibile un diverso impiego il personale viene collocato in disponibilità, cioè resta sospeso il rapporto di lavoro con riconoscimento di un’indennità pari all’80% della retribuzione per massimo due anni. Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, le tipologie di infrazioni e le relative sanzioni sono rimesse alla contrattazione collettiva, ma anche la legge individua molte fattispecie che fanno sorgere la responsabilità disciplinare (es. falsa attestazione della presenza in servizio). Il procedimento per l’irrogazione della sanzione è regolato per legge e prevede che per la sanzioni di minore gravità è avviato dal dirigente attraverso la contestazione degli addebiti formulata entro non oltre 20 giorni. Il procedimento prevede una fase di contraddittorio e si conclude con l’archiviazione o l’irrogazione della sanzione entro 60 giorni . Per le sanzioni più gravi, il procedimento è promosso da un ufficio competente istituito da ciascuna amministrazione e sono previsti termini più lunghi. Inoltre, in ambito pubblico, è prevista la responsabilità per danno erariale. Le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici che ricadono nel regime di privatizzazione sono devolute al giudice ordinario, mentre restano devolute al giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti pubblici , perché involgono esclusivamente interessi legittimi. La figura del dirigente, vedi pagg. 397-402. I beni. Per svolgere le loro attività, le organizzazioni, comprese le p.a., hanno necessità di beni strumentali. Si tratta di beni che possono possedere a titolo di proprietà privata o ad altro titolo civilistico e che devono acquisire in molti casi seguendo le procedure a evidenza pubblica. In aggiunta, le p.a. gestiscono e sono titolari di alcuni tipi di beni, non per necessità funzionali proprie, bensì per metterli a disposizione della collettività (strade, musei, lidi, foreste). In linea di principio, non sembra sussistere una ragione ontologica perché per i beni della p.a. debba valere un regime diverso da quello del diritto comune. Il regime speciale dei beni pubblici trova un fondamento nel codice civile, che pone la distinzione tra beni demaniali, disciplinati esclusivamente da regole pubblicistiche, e beni patrimoniali (disponibili e indisponibili), che sono sottoposti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non diversamente disposto, alle regole del codice civile. Il codice, nell’individuare i beni che ricadono nelle due categorie, segue un criterio formale, tramite l’inclusione in elenchi. Anche i beni privati possono essere oggetto di un regime pubblicistico per profili particolari. La proprietà privata, infatti, può essere conformata dal potere pubblico allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Da tutto ciò ne deriva che i pubblici poteri possono assumere una duplice veste di Stato proprietario e di Stato regolatore rispetto ai beni: la veste di Stato proprietario rispetto ai beni dei quali le amministrazioni hanno la titolarità sulla base delle norme di diritto pubblico (beni demaniali) e del diritto privato (beni patrimoniali); di Stato regolatore rispetto ai poteri di conformazione del diritto di proprietà dei privati che sono attribuiti dalla legge a varie pubbliche amministrazioni al fine di tutelare interessi pubblici. Per effetto dei processi di privatizzazione e alienazione del patrimonio pubblico avviati negli ultimi anni, lo Stato ha dismesso in parte la veste di Stato proprietario a favore di quella di Stato regolatore. In base al criterio della minore o maggiore specialità del regime, i beni di proprietà privata e pubblica si prestano a essere collocati lungo una linea che pone a un estremo i beni privati sottoposti a un regime di diritto comune e all’estremo opposti beni pubblici sottoposti a un regime essenzialmente pubblicistico (demanio necessario). Tra i due organizzativa dotata di personale professionalmente preparato. Questo nuovo sistema tende a contrastare il fenomeno dell’eccessivo numero di stazioni appaltanti, spesso non adeguatamente attrezzate. L’ANAC gestisce anche il sistema di rating di impresa applicabile ai fini della qualificazione delle imprese attraverso il rilascio di una certificazione. Il sistema tende a valutare i requisiti reputazionali in base a indici quantitativi e qualitativi e mira a far sì che siano ammesse a partecipare alle gare soltanto le imprese affidabili. L’Autorità gestisce inoltre l’albo dei componenti delle commissioni giudicatrici che devono essere nominate per valutare le offerte relative a contratti aggiudicati in base al criterio del miglior rapporto qualità/prezzo. L’ANAC ha inoltre il potere di impugnare innanzi al giudice amministrativo gli atti emanati in violazione della normativa in materia di contratti pubblici, previo invio alla stazione appaltante di un parere motivato che indica le violazioni affinché essa entro 60 giorni adotti le misure correttive. Il Codice dei contratti pubblici enuncia alcuni principi generali . È stabilito infatti che l’affidamento dei contratti pubblici deve garantire la qualità delle prestazioni e deve svolgersi anche nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza, di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità. Altri interessi pubblici però comportano alcuni temperamenti (es. il bilanciamento tra economicità e rispetto degli obblighi in materia ambientale portano agli appalti verdi). Nel definire il suo ambito soggettivo e oggettivo di applicazione, il Codice si attiene al criterio che impone procedure tanto più rigorose quanto più i soggetti committenti operano in contesti non concorrenziali e quindi sono influenzati da logiche extraeconomiche. Alcuni committenti, quali lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli altri enti pubblici non economici, che sono definiti “amministrazioni aggiudicatrici”, operano infatti fuori dal mercato e si applica pertanto il regime più garantista e formalizzato previsto per le procedure di scelta del contraente. Le amministrazioni aggiudicatrici includono anche gli organismi di diritto pubblico, cioè soggetti pubblici o privati che in ragione della loro missione e dei collegamenti organizzativi con pubbliche amministrazioni, possono essere condizionati nella politica degli acquisti da ragioni extraeconomiche. Il Codice menziona inoltre le imprese pubbliche (imprese sulle quali le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare un’influenza dominante, essendo proprietarie o avendo una partecipazione finanziaria nell’impresa pubblica), che sono sottoposte a regole meno stringenti in quanto si assume che esse ispirino la loro azione a una logica essenzialmente economica. Alcune disposizioni del Codice si applicano infine alle imprese private che operano in virtù di diritti speciali o esclusivi concessi per legge o sulla base di un provvedimento di una p.a., e quindi sono meno sensibili alla pressione concorrenziale, e che sono incluse nella categoria più generale di enti aggiudicatori . Esse rientrano nel campo di applicazione del Codice solo ove operino nei settori speciali : energia elettrica e gas, acqua, servizi postali, porti e aeroporti, cioè settori non ancora aperti a una concorrenza piena. Per quanto riguarda, invece, l’ambito oggettivo, il Codice individua in un elenco alcune tipologie di contratti esclusi in tutto o in parte dalla disciplina generale (es. contratti di acquisto o locazione di beni immobili, contratti di acquisto e vendita di strumenti finanziari). Per questi contratti devono valere non di meno i principi desumibili dall’ordinamento giuridico dell’UE, come la libertà di circolazione dei beni e dei servizi, e in generale i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, ecc. Dai contratti esclusi vanno distinti i contratti estranei , che hanno per oggetto attività del tutto al di fuori dei settori di intervento delle direttive europee e ai quali pertanto si applica esclusivamente la disciplina privatistica . Il Codice indica poi altri criteri per individuare la disciplina di volta in volta applicabile. È previsto un regime diversificato per i contratti sopra soglia, cioè quelli di rilevanza europea, e per quelli sotto soglia, cioè che non superano l’importo minimo stabilito dalle direttive europee per i contratti aventi per oggetto forniture di beni, servizi o lavori. Un ulteriore criterio per individuare il regime applicabile si riferisce all’oggetto del contratto, che può essere la realizzazione di lavori, la fornitura di beni e la prestazione di servizi. La procedura di affidamento dei contratti pubblici è articolata in più fasi . È avviata sulla base di atti di programmazione volti a individuare le priorità , anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili. L’avvio è disposto dalla delibera a contrarre , un atto interno dell’amministrazione che individua gli elementi essenziali del contratto e i sistemi di selezione dei contraenti, a cui segue la predisposizione e la pubblicazione di un bando di gara, in conformità ai bandi-tipo predisposti dall’Autorità nazionale anticorruzione. L’amministrazione gode comunque di ampia discrezionalità quanto all’oggetto, i requisiti minimi di partecipazione e ai criteri di valutazione delle offerte, comunque secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in modo da garantire la par condicio e una concorrenza effettiva. La pubblicazione deve essere attuata in modo tale da favorire la massima diffusione delle informazioni e da assicurare termini minimi per la presentazione della domanda da parte delle imprese. Il bando può essere impugnato solo insieme all’atto conclusivo del procedimento, cioè all’aggiudicazione, a meno che non abbia un carattere immediatamente escludente. Per consentire la partecipazione anche di imprese di dimensioni inferiori o prive di tutti i requisiti, intervengono i consorzi stabili (3 imprese che si impegnano a operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici per almeno 5 anni), i raggruppamenti temporanei di imprese (istituiti con riferimento ad una singola procedura di gara non richiedono la costituzione di un’entità giuridica separata, in quanto l’impresa capofila assume la rappresentanza) e l’avvalimento (che consente a un’impresa di usufruire dei requisiti che non possiede rivolgendosi a un’impresa ausiliaria che si impegna a metterli a disposizione). La seconda fase è quella di selezione dei partecipanti , che avviene a seconda del sistema indicato nel bando, sulla base dei 3 sistemi individuati dal Codice: le procedure aperte sono quelle nelle quali ciascun operatore economico interessato può presentare un’offerta; le procedure ristrette sono quelle alle quali ogni operatore economico può chiedere di partecipare ma possono presentare un’offerta soltanto quelli che vengono invitati dalle stazioni appaltanti; le procedure negoziate, ammesse in via eccezionale nei casi tassativamente indicati dal Codice, nelle quali l’amministrazione consulta gli operatori economici da essa prescelti e negozia con uno o più di essi le condizioni del contratto. La terza fase è quella della valutazione delle offerte , che serve a individuare, tra i partecipanti, l’impresa con la quale l’amministrazione stipulerà il contratto. Il Codice individua due criteri per individuare l’offerta economicamente più vantaggiosa: il prezzo più basso , che assicura la massima oggettività nella valutazione, e il miglior rapporto qualità/prezzo , che invece richiede una valutazione discrezionale ma costituisce il criterio privilegiato dalle direttive europee. Il bando di gara dovrà contenere l’indicazione degli elementi qualitativi e per ciascuno di essi deve precisarne la ponderazione espressa in un numero di punti da attribuire. La valutazione è affidata a una commissione giudicatrice. La quarta fase è quella dell’ aggiudicazione . La commissione giudicatrice formula una graduatoria e viene dichiarata l’aggiudicazione a favore del miglior offerente , previo controllo della regolarità delle operazioni di gara, che si conclude con un atto di approvazione della stazione appaltante entro 30 giorni , superati i quali si forma il silenzio-assenso. L’offerta ha il valore di proposta contrattuale irrevocabile per un termine predeterminato, mentre il bando di gara ha il valore di mero invito a offrire. L’efficacia dell’aggiudicazione è subordinata a un ulteriore controllo avente per oggetto il possesso effettivo da parte dell’impresa selezionata dei requisiti di partecipazione. Divenuta efficace l’aggiudicazione, l’amministrazione procede con la stipula del contratto entro un termine , decorso inutilmente il quale l’aggiudicatario può sciogliersi dal vincolo contrattuale. Può accadere che il procedimento di aggiudicazione richieda l’attivazione di un subprocedimento di verifica allorché la stazione appaltante individui delle offerte anormalmente basse. Il subprocedimento avviene in contradditorio con l’impresa sospettata di aver presentato un’offerta fuori mercato o in perdita, che dovrà cercare di dimostrare che nonostante l’apparente anomalia l’offerta presentata è congrua. Da ultimo, è da aggiungere che nel caso di appalti nei quali la stazione appaltante non ha le conoscenze necessarie per individuare le soluzioni di un progetto e ha necessità di un confronto preliminare con le imprese, è possibile esperire un dialogo competitivo . Il bando di gara si limita allora a individuare in modo generico le necessità e gli obiettivi che si propone la stazione appaltante e i criteri di valutazione delle offerte. Successivamente la stazione appaltante invita le imprese ammesse alla procedura a un dialogo nel quale ciascuna discute con la stazione appaltante tutti gli aspetti dell’appalto e le soluzioni individuate. Il dialogo avviene separatamente e devono essere garantite la parità di trattamento e la riservatezza delle informazioni comunicate da ciascuna impresa. La fase del dialogo si conclude quando la stazione appaltante ha individuato la soluzione o le soluzioni meglio in grado di soddisfare le proprie esigenze. Conclusa la fase del dialogo, la stazione appaltante invita le imprese a presentare l’offerta finale in base alle soluzioni individuate nel corso della procedura. Le offerte sono poi valutate sulla base dei criteri fissati nel bando e all’esito si procede all’aggiudicazione. Esistono poi le aste elettroniche , che sono previste per i casi in cui l’aggiudicazione può avvenire sulla base di elementi espressi in valori numerici precisi tali da poter essere computati e raffrontati in modo automatico con mezzi informatici. Una procedura particolare, infine, che si riferisce alle forniture e ai servizi, è prevista per gli accordi quadro , contratti il cui scopo è quello di stabilire le condizioni e le clausole relative a singoli appalti da aggiudicare in un determinato periodo di tempo. L’accordo quadro è aggiudicato all’esito di una procedura che si svolge con le modalità ordinarie a seguito della quale vengono individuate una o più imprese. Gli accordi quadro sono stipulati dalle centrali di committenza che sono definite come amministrazioni aggiudicatrici che acquistano forniture o servizi, aggiudicano appalti di lavori o accordi quadro destinati ad altre amministrazioni. Per quanto concerne l’esecuzione del contratto, essa avviene secondo i principi generali del diritto privato. Il Codice contiene una disciplina speciale. L’esatto adempimento è garantito da idonee garanzie fideiussorie e assicurative. Vige poi il principio dell’invariabilità del contratto . Il Codice pone cioè la regola della tassatività delle varianti in corso d’opera, cioè delle modifiche alle prestazioni previste nel contratto, che altrimenti finirebbero per mutare l’oggetto del contratto, e che sono ammesse solo in pochi casi e non possono comunque determinare un aumento del valore del contratto superiore a un quinto, oltre il quale il soggetto aggiudicatore deve risolvere il contratto e procedere a una nuova gara. Le varianti sono inoltre sottoposte al controllo dell’ANAC. Inoltre, il contratto non può essere ceduto a soggetti terzi a pena di nullità, mentre il subappalto è circondato da una serie di cautele volte ad evitare il coinvolgimento nella fase esecutiva di imprese poco affidabili o riconducibili a organizzazioni mafiose. La facoltà di procedere al subappalto deve essere dichiarata dall’impresa già nel momento in cui presenta l’offerta e il contratto di subappalto deve essere consegnato all’amministrazione almeno 20 giorni prima della sua esecuzione. In generale, alla fase di esecuzione è preposto per conto della stazione appaltante un direttore dei lavori , che costituisce l’interlocutore principale dell’impresa aggiudicataria. L’andamento dei lavori è riportato in un giornale dei lavori , compilato ogni giorno da un assistente del direttore dei lavori e firmato dall’esecutore, che può anche iscrivere le riserve, cioè eccezioni e contestazioni relative all’andamento dei lavori e alle richieste del direttore dei lavori che possono determinare il riconoscimento a favore dell’esecutore di importi aggiuntivi che l’esecutore deve quantificare nella riserva. La verifica finale della conformità delle prestazioni eseguite a quelle pattuite avviene attraverso il collaudo , affidato dall’amministrazione a un proprio funzionario o talvolta a professionisti esterni, comunque in modo da garantire la terzietà. Le direttive europee hanno inciso anche sugli strumenti di tutela delle imprese che partecipano alle procedure. Anzitutto, è imposto lo standstill period , ossia il periodo di 35 giorni che deve passare tra la comunicazione alle imprese del provvedimento di aggiudicazione e la stipula del contratto, in modo da dar tempo alle imprese di esperire i mezzi di tutela. È previsto un ulteriore termine di 20 giorni o comunque fino alla pronuncia del giudice amministrativo in sede cautelare nel caso in cui l’impresa proponga ricorso giurisdizionale contro il provvedimento. È previsto, inoltre, un rito speciale accelerato, con termini processuali ridotti, incluso quello per proporre ricorso (30 giorni). Sono previsti, poi, altri strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione: la transazione, l’accordo bonario, l’arbitrato, il parere dell’ANAC. Le finanze. …. La giustizia amministrativa. motivi sono i profili di illegittimità dedotti nel ricorso e devono essere enunciati in modo specifico, cioè con il riferimento preciso alla norma o al principio violato e al tipo di vizio (motivi specifici). In base al principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, il giudice non può pronunciarsi d’ufficio su motivi non specificamente dedotti, ma ha il dovere di pronunciarsi su tutti i motivi formulati nel ricorso. Il processo amministrativo si ispira, inoltre, ai principi della parità delle parti, a cui sono riconosciute le medesime garanzie, nonostante nei fatti l’amministrazione sia in una posizione di sovraordinazione, del contraddittorio e del giusto processo. Inoltre, nel processo amministrativo, trovano ingresso le parti necessarie e le parti eventuali. Le parti necessarie sono, in aggiunta al ricorrente , il quale ha l’onere di dimostrare la legittimazione a ricorrere (cioè la titolarità della situazione giuridica soggettiva della quale si chiede tutela) e l’interesse a ricorrere (che consiste nel beneficio o utilità effettiva che il ricorrente potrebbe conseguire in caso di accoglimento, e che deve essere personale, concreto e attuale), l’amministrazione resistente (quella che ha emanato il provvedimento o nei cui confronti viene avanzata la pretesa) e il controinteressato, non sempre presente (il soggetto la cui posizione giuridica soggettiva sarebbe intaccata dall’accoglimento del ricorso, in base a un’analisi degli effetti del provvedimento impugnato). In ambiti particolari, è stata riconosciuta per legge la legittimazione a ricorrere a favore di associazioni ed enti privati, oltreché ad autorità indipendenti relativamente alle materie rientranti nella loro competenza. Il ricorrente deve notificare il ricorso, a pena di inammissibilità, all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati, e deve depositare poi il ricorso notificato entro 30 giorni. Il Giudice può ordinare l’integrazione del contraddittorio nel caso in cui individui ulteriori controinteressati. È da osservare che non esiste l’istituto della contumacia. L’amministrazione resistente e i controinteressati ai quali è stato notificato il ricorso si possono costituire presentando memorie, formulando istanze, indicando i mezzi di prova e i documenti a sostegno della loro posizione. In aggiunta, possono trovare ingresso parti eventuali , cioè gli intervenienti volontari ad adiuvandum e ad opponendum , che si affiancano rispettivamente al ricorrente e all’amministrazione resistente. L’istruzione probatoria è retta dal principio dispositivo, quindi le parti devono individuare e allegare i fatti rilevanti e fornire la prova dei medesimi, ma è attenuato dal fatto che il giudice può anche disporre d’ufficio i mezzi istruttori ritenuti necessari , secondo il metodo acquisitivo, ove il ricorrente fornisca almeno un principio di prova. Può chiedere chiarimenti o documenti, può ordinare anche a terzi di esibire in giudizio documenti, disporre ispezioni, ammettere la prova testimoniale e assumere tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. Altri principi sono quelli della concentrazione , della collegialità e dell’ oralità . L’articolazione del processo amministrativo è infatti più semplice rispetto a quella del processo civile e consiste generalmente in una fase cautelare, se proposta istanza cautelare, che consta in un’udienza in camera di consiglio, e in una fase di merito, incentrata sull’udienza collegiale pubblica di discussione orale, in vista della quale possono essere depositate memorie e repliche scritte. Non è prevista una fase istruttoria necessaria. La massima concentrazione si ha allorché il giudice ritenga di procedere alla definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata assunta all’esito della fase cautelare. I ricorsi amministrativi. I ricorsi amministrativi possono essere annoverati tra i procedimenti di secondo grado , cioè tra quelli che hanno a oggetto altri procedimenti. Hanno infatti natura di procedimenti di riesame , a iniziativa di parte , con funzione giustiziale. Il d.p.r. 1199/1971 individua tre tipi di ricorsi: in opposizione, gerarchico e straordinario al presidente della Repubblica. Il ricorso in opposizione è presentato allo stesso organo che ha emanato l’atto , ha carattere tassativo ed è disciplinato con rinvio alle disposizioni che disciplinano il ricorso gerarchico. Il ricorso gerarchico improprio ha anch’esso carattere tassativo e può essere proposto al di fuori di un rapporto di gerarchia, in particolare avverso gli atti di organi collegiali . Il ricorso gerarchico proprio , invece, è esperibile nei confronti degli atti non definitivi e ha carattere generale. Va proposto entro 30 giorni innanzi al superiore gerarchico , il quale cura l’istruttoria e assume la decisione. Il superiore può annullare o riformare l’atto impugnato e la sua decisione deve essere motivata. Se la decisione non interviene entro 90 giorni, il ricorso si intende respinto. Il ricorso straordinario al presidente della Repubblica ha anch’esso carattere generale e va presentato entro 120 giorni (quindi un termine più lungo), come rimedio parallelo (perché simile) e alternativo rispetto al ricorso giurisdizionale (che non è ammesso se è già stato proposto il ricorso straordinario). Può essere proposto solo per motivi di legittimità. Il ministro competente cura l’istruttoria e trasmette tutti gli atti al Consiglio di Stato che esprime il suo parere. Il parere è vincolante e la decisione finale è adottata con decreto del presidente della Repubblica su proposta del ministro competente. I controinteressati possono proporre opposizione al ricorso straordinario chiedendo che il ricorso sia trasporto nella sede giurisdizionale, innanzi al TAR competente. Giurisdizioni amministrative speciali. Alla Corte dei conti sono attribuite funzioni giurisdizionali nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge , in particolare la responsabilità erariale e contabile dei pubblici funzionari, il contenzioso in materia pensionistica, i giudizi di conto e i giudizi a istanza di parte in materia contabile . In particolare, il giudizio in materia di responsabilità erariale e contabile è promosso dalla procura regionale nel termine di prescrizione di cinque anni, all’esito di un’istruttoria aperta d’ufficio o in seguito a esposti e denuncia. Prima di emettere il decreto di citazione a giudizio, il procuratore notifica al presunto responsabile un invito a dedurre nel quale sono esplicitati gli elementi essenziali del fatto illecito. Deduzioni scritte difensive e documenti possono essere presentati entro un termine non inferiore a 45 giorni , scaduti i quali il procuratore entro un termine di 45 giorni emette l’atto di citazione o dispone l’archiviazione. La fase dibattimentale in udienza pubblica avviene davanti alla sezione regionale della Corte dei conti, la quale può disporre l’acquisizione di ulteriori elementi probatori. Contro le decisioni delle sezioni regionali è ammesso l’appello alle sezioni giurisdizionali centrali. Sono giudici amministrativi speciali le commissioni tributarie provinciali e regionali , composte da magistrati e figure professionali iscritti in appositi elenchi. Le controversie a loro devolute sono individuate in modo tassativo (es. imposta sui redditi, imposta sul valore aggiunto, imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili, imposta di registro, ecc.). Va qualificato come giudice amministrativo speciale anche il Tribunale superiore delle acque pubbliche composto da magistrati amministrativi e ordinari e da tecnici. È titolare di una competenza generale sui ricorsi giurisdizionali contro i provvedimenti amministrativi in materia di acque pubbliche e di una competenza speciale di merito in materia di contravvenzioni e di altri provvedimenti di polizia demaniale.
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