Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Diritto canonico - Bettetini Sammassimo, Appunti di Diritto Canonico

appunti corso 2018/19 diritto canonico da frequentanti

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 20/06/2019

eman.98
eman.98 🇮🇹

4.3

(14)

52 documenti

1 / 52

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Diritto canonico - Bettetini Sammassimo e più Appunti in PDF di Diritto Canonico solo su Docsity! DIRITTO CANONICO ORDINAMENTO CANONICO Nel corso della storia, si ebbe la necessità di trovare un’omogeneizzazione delle norme canoniche. Le norme dei concili differivano l’una rispetto all’altra, e non sempre erano omogenee. Il primo tentativo riuscito di razionalizzazione risale ad un’epoca abbastanza recente (XII secolo, 1140), e si ebbe ad opera di un monaco bolognese, Graziano, e la sua opera si chiama Decreto, anche conosciuta come Condordia discordatium canonum, nel senso che non tutte le norme sono omogenee tra loro, e lui per primo provò a razionalizzarlo, eliminando tutte le discordanze all’interno del sistema normativo canonico. Effettivamente quest’opera fu la prima di diritto canonico, con cui esso riceve una sistematizzazione, così come il diritto romano fu sistematizzato dal Digesto. Aveva valore autoritativo meramente ufficioso, ma non ufficiale, perché non emanato da una pubblica autorità. L’opera di Graziano venne anche commentata, e quindi soggetta a commenti ed esplicazioni da parte di coloro che vennero chiamati decretisti (ovvero coloro che commentavano il Decretum di Graziano). L’opera comunque è essenzialmente privata, anche se assunse estrema importanza all’interno della Chiesa. La prima raccolta ufficiale di norme si ebbe in qualche decennio dopo (1214) quando Papa Innocenzo III diede valore ufficiale ad una prima raccolta normativa canonica, i Liber tertius, ovvero la compilatio tertia che ebbe valore di norma ufficiale rispetto al primus e secundus. Dopo pochi anni, nel 1234, per volontà di papa Gregorio IX, abbiamo l’emanazione di un’opera fondamentale per il diritto canonico, che è il c.d. Liber extra, o Decretales (che era una raccolta di decretali pontificie, quindi di leggi pontificie, leggi nate per dare soluzione a casi concreti), suddivisa per argomenti (persone, processo, diritto penale etc.) che raccoglieva tutta la normativa precedente non contenuta nelle compilazioni precedenti, e che era quindi extra compilationes, ovvero al di fuori delle 5 compilazioni precedenti (di cui la tertius aveva valore di legge ufficiale all’interno della Chiesa). Questa raccolta non solo assunse valore di norma ufficiale all’interno della Chiesa (norma che quindi vincolava tutti e ognuno), ma costituiva anche la struttura di tutto il diritto canonico dal 1234 sino al 1917, integrata da altre norme. Successivamente furono emanate altre raccolte ufficiali per integrare la normativa del Liber extra, per via dell’evoluzione del tempo e delle necessità giuridiche, e quindi dell’emanazione di nuove norme. Già nel 1298 abbiamo un’altra raccolta, voluta per Bonifacio XVIII, che pubblica il Liber sextus. Si chiama così per via dell’ideale continuazione delle 5 compilazioni antiche, e perché costituisce un’integrazione normativa delle Decretali di Gregorio IX, del cui riprende la medesima struttura. Dopo abbiamo un’altra raccolta ufficiale nel 1317, per via di Papa Giovanni XXII che promulga un altro corpus normativo ufficiale, con il nome di Clementinae, promulgate in seguito alla morte di Clemente V, che aveva lui stesso emanato le norme della Clementinae. Esse costituiscono un corpus normativo complementare, e anche esse hanno la stessa struttura del Liber extra, presentando delle integrazioni rispetto ad esse. Abbiamo poi altre 2 raccolte, una nel 1325, e un’altra privata. La prima, redatta ad opera di Giovanni XXII, si chiama Extravagantes di Giovanni XXII, ovvero norme fuori da raccolte precedentemente pubblicate da parte degli altri pontefici, e complementari anch’esse alle Decretali di Gregorio IX. Abbiamo quindi come corpus normativo del diritto canonico: decretales; liber sexuts; clementinae; extravagantes di Giovanni XXII. Queste raccolte di norme furono poi a loro volta raccolte in un unico corpus normativo, che prende il nome di Corpus iuris canonici, pubblicato ufficialmente nel 1582. La prima parte fu occupata da un atto normativo non ufficiale, ovvero il Decretum di Graziano, che nonostante l’inserimento all’interno del Corpus iuris canonici non assunse mai valore ufficiale di legge, ma solo come argomento di autorità per risolvere questioni giurisprudenziali. Il testo dell’edizione pubblicata nel 1582 comprende anche il commento e la glossa alla norma stessa: le norme canoniche contenute nel Liber extra etc. erano commentate dai decretisti, e questi commenti (estesi o in forma di glossa) assunsero valore normativo, ovvero equivalente a quello della norma commentata, riportando così il pensiero di vari autori (e il loro eventuale nome), avendo un’ufficializzazione della dottrina. Accanto a questo corpus normativo, venivano promulgate altre norme, che però non entreranno mai nel corpus iuris canonici, seppur vincolanti per la Chiesa. Dopo 4 secoli dalla pubblicazione del corpus iuris canonici ci si rende conto che c’erano molte norme non contemplate in esso. Il diritto canonico opta per un sistema codicistico modificando la prospettiva di 1000 anni di storia di raccolte normative canoniche, per optare per redigere un codice di diritto canonico, avendo normative generali astratte (come i codici, cosa per cui si differenziava inizialmente, per via di norme che si basavano su casi concreti). I lavori iniziarono attorno al 1904 (con papa Pio X) e terminò solo nel 1917 con il primo codice del diritto canonico, promulgata da papa Benedetto XV; infatti il codice si chiama Codice Pio Benedettino. Questo codice riguardava la tradizione occidentale della Chiesa cattolica, escludendo il regime giuridico delle chiese orientali, nel senso che le chiese orientali hanno una collocazione specifica all’interno “ad bonum commune”: la norma è emanata per una generalità di persone, per il bene di tutti. Il bene di tutti può essere anche il bene di una piccola comunità, che permette alla società più ampia di vivere conformemente al diritto. È una norma quindi rivolta al bene comune per la comunità per cui è stata promulgata; “ab eo qui curam comunitatis abet ordinata”: le norme sono emanate da colui che governa la comunità. La norma quindi deve essere promulgata e portata alla conoscenza della comunità dall’autorità legittimata ad emanare le norme stesse. Questa è una definizione sottesa alla tradizione canonica, data da Tommaso D’Aquino. LEGGE CANONICA La legge canonica è un atto del potere legislativo. Non vi è questa distinzione dei poteri come nell’ambito civile; nella Chiesa questa distinzione di poteri non si dà ontologicamente, ma è una distinzione di funzioni, perché nella Chiesa il potere è unitario: le potenze apicali all’interno della Chiesa hanno per diritto divino pienezza di potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il papa ha la pienezza quindi di tutti questi poteri, il vescovo limitatamente alla sua diocesi ha anche lui questa pienezza. Questo vuol dire che il papa è il supremo giudice della chiesa, legislatore ed amministratore. Il vescovo è amministratore, giudice e legislatore limitatamente alla sua diocesi. Quindi nel diritto canonico non vi è in senso stretto una distinzione di potere. Anche il codice del diritto canonico lo prevede esplicitamente, e vi è una distinzione di funzioni, nel senso che il potere è unitario, ma l’attuazione del potere si può distinguere in un’attuazione legislativa, esecutiva e giudiziaria; il papa può delegare le sue funzioni legislative, esecutive e giudiziarie, e lo stesso il vescovo, ma limitatamente ad una delle sue funzioni. La legge è quindi un atto del potere legislativo, e può essere: universale. Il romano pontefice (il papa) è colui che ha piena potestà in ambito legislativo, ed è l’unico soggetto che è autorizzato ad emanare norme universali; accanto a lui c’è il consiglio episcopale, che ha potestà anch’esso universale, ma sempre con il pontefice e mai senza il pontefice. La potestà quindi del collegio episcopale deriva dalla comunione con il pontefice, senza il quale non ne ha. Legge universale sono per es. gli atti del consiglio ecumenico approvati in seguito dal papa. particolare. Il soggetto dotato di potere legislativo legittimato ad emanare atti di diritto particolare è il vescovo alle conferenze episcopali per es. (collegi che raggruppano i vescovi di un territorio, solitamente nazionale). Gli atti normativi particolare vincolano però solo i fedeli di un dato territorio, non quindi universalmente. Il papa può emanare e comunicare atti che non sono di legislazione universale, nel senso che il legislatore universale non deve emanare per forza atti universali, ma può emanare anche leggi particolari (per es. i codici che valgono non per tutta la Chiesa, ma solo per quelli latini). Le norme emanate dal vescovo devono essere conformi con quelle del codice canonico e soprattutto con le norme emanate dal supremo legislatore della Chiesa (papa). L’organo in cui si può impugnare la legittimità di una norma inferiore che non è conforme alla norma superiore è il Pontificio consiglio dei testi legislativi, che è un organo della Curia romana che ha varie funzioni, tra cui appunto quello di rappresentare il Ministero della Giustizia della Chiesa. Abbiamo anche l’esercizio della legislazione delegata: anche la Chiesa prevede che non solo il legislatore universale può emanare norme in forma universale, ma anche suoi delegati. Titolo III Codice diritto canonico: Fonti di diritto: decreti generali: cann.29: “I decreti generali, con i quali dal legislatore competente vengono date disposizioni comuni per una comunità capace di ricevere una legge, sono propriamente leggi e sono retti dalle disposizioni dei canoni sulle leggi.”; can. 30 “Chi gode soltanto della potestà esecutiva non può validamente emanare il decreto generale, di cui al can. 29, a meno che in casi particolari a norma del diritto ciò non gli sia stato espressamente concesso dal legislatore competente, e adempiute le condizioni stabilite nell'atto della concessione”. La definizione è che sono disposizioni comuni, che valgono quindi per tutti. È determinato quindi da generalità, astrattezza e obbligatorietà. Sono delle leggi e sono retti dalle norme dei canoni sulle leggi: hanno quindi gli aspetti delle leggi, tranne per il nome. Come le leggi, sono dati ad una comunità capace di ricevere leggi, ovvero che sia una comunità con a capo un soggetto dotato di potestà amministrativa od esecutiva, che sia una comunità che ha la necessità per vivere della presenza di norme giuridiche, che sia una comunità stabile ed istituzionalizzata, e riconosciuta come tale dal diritto, e che riconduce il diritto ad una funzione sociale. Il soggetto attivo che emana il decreto generale, al can.29 è stato detto che è il legislatore: è chi gode della potestà esecutiva, ed è quindi uno o più organi che godono del potere esecutivo, per es. CEI (Conferenza Episcopale Italiana), ovvero una riunione dei vescovi di tutta Italia, normata sulla base del codice, che ha potestà solo esecutiva, quindi non può emettere leggi, salvo che, a norma del can.30, chi detiene la potestà legislativa superiore (il papa) deleghi a questi organi la possibilità di legiferare in una determinata materia. In questo caso il legiferare della CEI si avrà attraverso il decreto generale. La CEI in questo caso può legiferare solo entro i confini a cui viene delegato (come nel decreto delegato). decreti generali esecutivi: sono normati nei cann.31-33. Hanno come differenza dal decreto generale il fatto che sono emanati necessariamente dall’autorità esecutiva. Non c’è bisogno di una delega dall’apparato legislativo. Sono atti veri e propri dell’attività esecutiva, e si parla quindi di atti che sono generali ed astratti, ma essendo troppo generali ed astratti per essere applicati, è necessario che si emanino questi tipi di atti dettagliati nel contenuto della legge, chiarirlo, e determinano i procedimenti per eseguirlo. I decreti generali esecutivi quindi non hanno vita autonoma, perché dipendono dalla legge. Sono quindi definibili come atti imperfetti, perché sono al servizio delle leggi. Se viene meno la legge per eseguire la quale sono stati emanati, vengono meno anche i decreti stessi. I destinatari dei decreti generali esecutivi sono tutti i destinatari della legge per cui sono emanati. istruzioni: rispetto ai decreti generali esecutivi, differiscono per i destinatari. Essi, per le istruzioni, sono coloro che determinano i procedimenti nell’eseguire le leggi; sono quindi atti amministrativi rivolti ed emanati per la stessa autorità amministrativa. Non creano quindi un diritto oggettivo nuovo come i decreti esecutivi, e non spiegano neanche come applicare la legge, ma rendono chiare le disposizioni esistenti e precisano le procedure per applicarle. Non riguardano la comunità capace di ricevere una legge, ma sono indirizzati agli esecutori delle leggi. Non possono derogare né contraddire le leggi, ed anche essi sono legati alla sorte delle leggi. Tutti questi tipi di atti sono accumunati dal fatto che, oltre ad essere emanati dall’autorità esecutiva, dal fatto che sono generali, quindi hanno come destinatari la collettività capace di ricevere la legge. ATTI AMMINISTRATIVI SINGOLARI Titolo IV Codice diritto canonico: Comprende tutti gli atti amministrativi singolari, in cui viene messa in gioco l’autorità amministrativa, emanando atti che creano, modificano o estinguono situazioni giuridiche. Si distinguono: in ragione dell’iniziativa, nel senso che ci sono 2 modelli: decreti e precetti. Sono emanati dall’autorità di propria iniziativa, ma non in maniera arbitraria. rescritti (come privilegi, dispense e grazie). L’autorità lo emana a risposta di una richiesta. in ragione dell’oggetto, che possono essere: decisionale, se definisce una controversia, impone una pena o adotta un provvedimento; provvisionale se contiene un’autorizzazione, una licenza o un diniego. Can.49: precetto. “Il precetto singolare è un decreto mediante il quale s'impone direttamente e legittimamente a una persona o a persone determinate qualcosa da fare o da omettere, specialmente per urgere l'osservanza di una legge.” Quando viene emanato un atto amministrativo il destinatario ha alcuni diritti, e il dovere di eseguire l’atto. I diritti che ha a disposizione sono eventualmente di opporsi all’atto stesso qualora lo ritiene erroneo nel merito (in decernendo) o nella legittimità (in procedendo) (vale anche per il diritto civile). Quindi il destinatario può ritenere che quel provvedimento amministrativo in realtà sia erroneo nella sostanza o nella forma, o entrambi. Ciò vuol dire che eseguirlo presupporrebbe un danno per la persona, quindi per evitarlo il destinatario può impugnare l’atto amministrativo facendo ricorso, chiedendo che l’atto sia modificato o revocato. I ricorsi possono essere di 2 tipi: per via amministrativa, facendo ricorso per un’altra autorità amministrativa e quindi non si instaura un processo, oppure per la stessa autorità amministrativa che riveda l’atto emesso. per via giurisdizionale, facendo in modo che si instauri un processo in tribunale, per via quindi di un’autorità giurisdizionale. Per impugnare l’atto amministrativo l’unico interessato non è solo il destinatario, perché vi possono essere altri soggetti interessati a fare ciò, e ci deve quindi essere un interesse reale e concreto per essere legittimati ad impugnare quell’atto amministrativo. Vi è un principio che vale solo per il diritto canonico: can.333: “Il Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti; con tale primato viene contemporaneamente rafforzata e garantita la potestà propria, ordinaria e immediata che i Vescovi hanno sulle Chiese particolari affidate alla loro cura.” Contro la sentenza o il decreto del romano pontefice non si può fare ricorso, non si può mai impugnare; la prima sede non può essere giudicata da nessuno. Non si intendono solo quelli emanati direttamente dal romano pontefice, ma anche quelli approvati in forma specifica. Sono immediatamente esecutivi e non impugnabili; chi li impugna commette un reato penale (can.1372). In che maniera e perché può essere impugnato un atto amministrativo? (si parla di decreto ma si ha a riferimento ogni tipo di atto amministrativo) Per quanto riguarda la via amministrativa, per presentare un ricorso è necessario un interesse concreto e attuale per fare ciò. La procedura per fare ciò è molto complicata, e si cerca di risolverla in maniera pacifica per non arrivare al contenzioso, evitando quindi contese. La procedura è laboriosa perché gli precede una parte di confronto tra le parti per raggiungere una soluzione pacifica. Vi è quindi una fase previa senza la quale non si può presentare ricorso, la c.d. fase prodromica. Si tratta di una richiesta che la parte ritenutasi lesa deve presentare all’autore dell’atto amministrativo per chiederle la correzione o la revoca. Questa richiesta deve essere presentata entro 10gg utili da quando è stato ultimato il decreto al soggetto interessato. Chi ha emesso l’atto, e chi quindi riceve la richiesta di revoca o correzione dell’atto ha 30gg di tempo per rispondere correggendo l’atto, revocandolo o lasciando intatto l’atto. Una volta coretto o modificato, inizia a decorrere il termine per impugnare l’atto modificato o corretto. Il ricorso amministrativo è quindi essenzialmente di carattere gerarchico, nel senso che deve essere presentato all’autorità superiore; mentre la prima fase si chiama in opposizione, la seconda fase (e qui inizia il vero e proprio ricorso amministrativo) è innanzi all’autorità superiore di colui che ha emesso il decreto. Il ricorso può essere presentato, dal punto di vista procedurale, o al superiore, o all’autore dell’atto che si prenderà in carico l’obbligo di trasmetterlo ad un’autorità superiore. Il termine perentorio entro il quale bisogna presentare ricorso per l’atto emanato è di 15gg. Il superiore che giudica il ricorso ha divere opzioni: può confermare il decreto; può revocare l’atto; può correggerlo; può dichiararlo invalido. Il termine per pronunciarsi da parte dell’autorità amministrativa è di 30gg dalla ricezione dell’atto stesso. Il c.d. silenzio amministrativo è una figura giuridica creata dal diritto della Chiesa, assunta poi dagli ordinamenti civili, ed è un istituto per accelerare e responsabilizzare la pubblica amministrazione, nel senso che se dopo un certo lasso di tempo vi è la presunzione che abbia risposto, sia positivamente che negativamente, dipende dall’ordinamento giuridico (nel diritto canonico la risposta è presa per negativa). La pubblica amministrazione è comunque tenuta a rispondere, ma se non lo fa si presume che abbia risposto (can. 57). Vi è poi un decreto in via di riparazione dei danni nel momento in cui la Chiesa non risponde alla richiesta di ricorso e quindi dovrà a posteriori emanare un decreto di riparazione. Per quanto riguarda il ricorso in via giurisdizionale la situazione è particolare perché nella Chiesa non ci sono tribunali amministrativi. Can. 1400 presuppone l’esistenza di un tribunale amministrativo, ma questo canone è nato privo di “satelliti”, ovvero i tribunali amministrativi non esistono. Era prevista la sua esistenza quando è stato redatto il codice del diritto canonico, ma nella redazione finale i tribunali amministrativi non hanno trovato posto. Abbiamo quindi una norma che prevede un’ipotesi non realizzabile, perché si può impugnare solo per via gerarchica, a meno che non ci sia un tribunale per la chiesa, il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che permetta ciò. Questo è un tribunale simile al Tribunale di cassazione; è diviso in varie sezioni, e la seconda sezione gestisce la giustizia amministrativa, che però giudica solo per motivi di legittimità (ovvero solo in procedendo). La sentenza del tribunale è esecutiva e non può essere impugnata in alcun modo. Quindi nella Chiesa non vi è la possibilità di un ricorso in via giurisdizionale, a meno che non si tratti di un atto emanato da una congregazione, da un dicastero o da esso approvato, quando si dubiti che l’atto sia contrario ad una norma imperativa, quando quindi si ha una violazione della legittimità della norma. Vi è anche poi una discussione per quanto riguarda il risarcimento del danno posto in essere dall’atto amministrativo emanato. La Pontificia Commissione è un organismo della curia romana che interpreta autenticamente (e quindi in maniera vincolante) di norme che riguardano tutta la Chiesa. In quest’interpretazione si dice che un gruppo di fedeli non è legittimato a proporre ricorso, ma lo sono i singoli fedeli, ossia non si dà in questo caso all’interesse collettivo la possibilità di fare ricorso, ma solo l’interesse singolo. Quindi un gruppo di fedeli non può impugnare il provvedimento di (per es) il vescovo, ma lo può fare il singolo fedele. Possono farlo anche fedeli uniti insieme, ma non come gruppo ovvero con un rappresentante. Tutto ciò ovviamente solo se hanno subito un reale e concreto danno. Questo perché l’interesse deve essere attuale, concreto e reale, e questo vuol dire che una collettività agisce per motivi diversi, o comunque che abbia interessi diversi per agire. Quindi bisognerebbe valutare caso per caso. UFFICI ECCLESIASTICI Disciplina dell’ufficio ecclesiastico: cann 145-196. La nozione di ufficio è fondamentale perché è quella che permettere di svolgere degli atti validi ed in maniera consona. Can. 145: “Qualunque incarico costituito stabilmente per disposizione sia divina che ecclesiastica da esercitarsi per un fine spirituale.” L’amministratore diocesano è colui che sostituisce il vescovo dopo la morte sino all’elezione del nuovo. Elementi costitutivi dell’ufficio: un incarico conferito per un fine spirituale; L’ufficio ecclesiastico è l’ufficio per eccellenza che prevede solamente l’accettazione della carica divenendo romano pontefice. Can.180: “Se all'elezione di colui, che gli elettori stimano più adatto e preferiscono, si frappone un impedimento canonico, del quale si possa e si sia soliti concedere la dispensa, essi stessi con i propri voti lo possono postulare alla competente autorità, a meno che non sia disposto altro dal diritto.” Can.149: “Perché uno sia promosso ad un ufficio ecclesiastico, deve essere nella comunione della Chiesa e possedere l'idoneità, cioè essere dotato delle qualità, richieste per l'ufficio stesso dal diritto universale o particolare oppure dalla legge di fondazione. La provvisione dell'ufficio ecclesiastico fatta a colui che manca delle qualità richieste, è nulla soltanto se le qualità siano esatte espressamente per la validità della provvisione dal diritto universale o particolare oppure dalla legge di fondazione; altrimenti è valida, ma può essere rescissa per mezzo di un decreto dell'autorità competente o con sentenza del tribunale amministrativo.” Le qualità necessarie per essere titolari di un ufficio ecclesiastico sono previste dal legislatore sia in via generale sia in modo specifico per alcuni uffici in particolare, soprattutto per quelli che hanno cura d’anime. Le qualità richiesta sono: comunione ecclesiastica; idoneità. Le qualità richieste per la validità del conferimento sono quelle che, a norma del can.10, sono espressamente previste dalla legge per la validità della stessa provvisione. L’ufficio ottenuto tramite simonia è nullo. Gli uffici che comportano la cura delle anime richiedono nel titolare l’esercizio dell’ordine sacerdotale (ovvero l’essere parroco). La perdita dell’ufficio ecclesiastico può avvenire in maniera speculare rispetto al conferimento dell’ufficio stesso con norme abbastanza dettagliate a sottolineare la tutela anche della persona. I casi in cui si può perdere la titolarità dell’ufficio ecclesiastico sono: lo scadere del mandato (alcuni uffici sono conferiti ad tempus). La perdita dell’ufficio ha effetto soltanto nel momento in cui vi è l’intimazione da parte dell’autorità competente di revoca dell’ufficio; il raggiungimento dei limiti di età definiti. La perdita dell’ufficio ha effetto soltanto nel momento in cui vi è l’intimazione da parte dell’autorità competente di revoca dell’ufficio; rinuncia: esso è un atto fatto all’autorità competente sia per iscritto sia orale. Nel caso in cui sia fatta oralmente devono esserci necessariamente 2 testimoni, generalmente i vicari. Condizione necessaria però è la presenza di una giusta causa. Inoltre vi sono rinunce che devono essere accettate e rinunce che non devono essere accettate. Quest’ultima è efficace se fatta dinnanzi a 2 testimoni o fatta per iscritto, mentre la prima deve essere accettata dall’autorità legittima ma se questa non si pronuncia sulla richiesta, vi è un’eccezione alla regola del canone 57 (silenzio che presuppone una risposta negativa), e il silenzio è inteso come neutrale e non può essere fatto ricorso contro l’autorità competente. La rinuncia si può revocare se ancora l’autorità non si è espressa; trasferimento: è un atto che richiede il comune accordo tra le parti ma il presunto trasferito non ha un parere vincolante, infatti può essere fatto anche contro la volontà del titolare dell’ufficio soltanto qualora ci sia una causa grave. È un atto che deve essere intimato per iscritto. È un provvedimento che comporta la perdita di un ufficio ma al contempo del conferimento di un altro, perciò è sia negativo che positivo. È un provvedimento necessariamente doppio; rimozione dall’ufficio: è un provvedimento unilaterale da parte dell’autorità competente e nel caso si tratti di rimozione a tempo indeterminato è necessaria una causa grave. Negli uffici concessi discrezionalmente è sufficiente una giusta causa. anche nel caso del decreto della rimozione deve essere dato per iscritto. Ci sono dei casi stabiliti per legge di rimozione automatica dell’ufficio, per il fatto stesso previsto dal diritto provocano la rimozione automatica dell’ufficio ecclesiastico senza bisogno di un decreto. privazione. La differenza tra la rimozione e la privazione è che la rimozione richiede una grave e giusta causa oppure una giusta causa, ma essa è una sanzione amministrativa; la privazione dell’ufficio invece è una sanzione penale prevista al compimento di alcuni delitti previsti dal codice di diritto canonico. Per es. la scomunica è la pena susseguente ad un reato con la quale si priva il titolare dell’ufficio stesso ed intimata per iscritto (e può essere impugnata in ambito giudiziale). Qualora venga meno la potestà del soggetto titolare dell’ufficio ecclesiastico non viene meno l’ufficio stesso. Altra regola generale è che per avere effetto l’atto di perdita della titolarità deve essere resa nota alla parte: questo perché si tratta di un atto recettizio. Anche il pontefice nel caso specifico può intimare, nel caso specifico, la perdita dell’ufficio. Rimozione ex iure: perdita dello stato clericale, e della titolarità dell’ufficio, nei confronti di chi ha abbandonato pubblicamente la fede cattolica e poi il sacerdote che si sposa anche soltanto civilmente. COMUNITA’ DELLA CHIESA La Chiesa è un popolo di Dio, e si può definire come comunità di fedeli (caratterizzati da vincoli di filiazione e fraternità), e come una società con una sua struttura ben definita. Il primo dei sacramenti è il battesimo, disciplinato dal can.204: “I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo.”. È quindi una società che ha una struttura specifica, gerarchicamente organizzata. In questa società prende forma il modo di parteciparvi, che è appunto il battesimo. Non basta però essere battezzati, infatti il can.205 ricorda che bisogna essere in comunione con la società della Chiesa, che non è un mero affetto sentimentale, ma è una comunione che ha una sua realtà e constatazione giuridica ben determinata. Per essere pienamente nella Chiesa bisogna osservare i vincoli del governo ecclesiastico, ovvero che ci sia una comunione di fede, di sacramenti e di governo ecclesiastico. È necessario accettare tutte le verità di fede. La fede cattolica è molto esigente: non si può credere solo ad una parte del patrimonio dottrinale della Chiesa, o si crede a tutto o non si è credenti. In virtù del battesimo sussiste tra tutti i fedeli una vera uguaglianza che riguarda la dignità: la comune ricezione del sacramento del battesimo attribuisce a ciascuna persona della società ecclesiale uguale dignità all’interno della Chiesa stessa. Tutti sono chiamati a ricevere il corpo di Cristo e ad essere chiesa, ma ognuno edifica la Chiesa nel compito in cui si trova per vocazione divina. C’è quindi un principio di uguaglianza fondamentale (che si basa sulla ricezione del battesimo) e diversità funzionale (ognuno edifica la Chiesa secondo la sua vocazione, e si basa su vari principi, che sono principalmente i sacramenti e gli altri atti giuridicamente rilevanti. I sacramenti costituiscono elemento di diversità perché alcuni sacramenti conferiscono una diversità all’interno della Chiesa, per es. il sacramento dell’ordine. Gli altri atti giuridicamente rilevanti sono atti che danno compiti ai fedeli all’interno della Chiesa, che non devono per forza essere legati ad un principio sacramentale). La Chiesa è una società strutturata gerarchicamente sin dalle sue origini, e la gerarchia agisce in nome e per conto di Cristo. Nella Chiesa abbiamo una (apparente) duplicità di soggetti supremi: il romano pontefice; il collegio episcopale, ovvero s'intende l'insieme di tutti i vescovi con a capo il romano pontefice. È dotato di suprema potestà solo quando agisce con il suo capo, ovvero con il romano pontefice; senza il romano pontefice il collegio episcopale non ha nessun tipo di potere supremo. Il papa è da un lato successore di Pietro, dall’altro è vicario di Cristo, ovvero il papa è colui che rappresenta Cristo, che agisce in nome e per conto di Cristo. Per diretta investitura, e per diritto divino positivo, il papa è vicario di Cristo, nel senso che agisce in nome e per conto di Cristo. È capo del collegio episcopale, che è Funzioni dei cardinali: i cardinali eleggono il romano pontefice, costituendo un peculiare collegio. Come funziona l’elezione del pontefice? L’ultima normativa speciale che disciplina l’elezione del pontefice, dice che se il pontefice è defunto, si ha la sede papale vacante. Chi si occupa del governo della Chiesa cattolica in questo frangente sono i cardinali, ma non tutti: nel momento della sede vacante ai cardinali è affidato il governo della Chiesa solo per gli affari ordinari, o per quelli che non possono essere procrastinati. Tutti i capi dei dicasteri (i cardinali) e i membri dei dicasteri cambiano: i capi dei dicasteri della curia romana, compreso il cardinale segretario di stato e i prefetti, cessano dall’esercizio del loro ufficio. L’unica eccezione è il camerlengo di Santa romana chiesa, e il penitenziere maggiore (che si occupano delle problematiche della sopravvivenza dell’animo e del corpo della Chiesa), che continuano a svolgere gli affari ordinari, riferendo al collegio dei cardinali quello che avrebbero riferito al pontefice. Hanno il diritto di voto attivo per l’elezione del nuovo romano pontefice tutti i cardinali della romana chiesa, a parte quelli che prima del giorno della morte del papa abbiano già compiuto l’80 anno d’età. Entrano quindi nel conclave, ovvero la riunione dei cardinali in caso di sede vacante per l’elezione del nuovo romano pontefice. Il numero dei cardinali non deve superare i 120 cardinali; è escluso il diritto di elezione attiva da parte di qualsiasi altra trinità ecclesiastica, o la presenza di un elemento civile della società, di qualsiasi grado o ordine. Le modalità per eleggere un pontefice sono: acclamazione; compromesso; scrutinio, che è la modalità oggi utilizzata. Per la valida elezione si richiedono almeno i 2/3 dei suffragi, computati sulla base degli elettori presenti e votanti. i cardinali prestano principalmente aiuto al romano pontefice nei concistori, nei quali si riuniscono per ordine del romano pontefice e sotto la sua presidenza. I concistori si distinguono in concistori ordinali: vengono convocati tutti i cardinali, almeno quelli che sono a Roma, per essere consultati su qualche questione grave, e per compiere atti solenni (per es. la nomina di cardinali). Si possono celebrare particolari solennità, e può essere pubblico; concistori straordinari: si celebra quando ci sono peculiari necessità della Chiesa, oppure per trattare questioni particolarmente gravi, vengono convocati sempre tutti i cardinali. Il concistoro non è l’unica forma collegiale dei cardinali ai quali gli ultimi pontefici hanno fatto ricorso. È prevista, nella pastor bonus, una disciplina particolare: per mandato del sommo pontefice, i cardinali che sono a capo dei dicasteri (della curia romana) si riuniscono più volte all’anno per esaminare le questioni di maggiore importanza, per coordinare i lavori e perché possano scambiarsi notizie e prendere decisioni. Gli affari più importanti di carattere generale possono, se lo decide il pontefice, essere trattati dai cardinali riuniti in concistoro plenario, secondo la legge propria. Il concistoro ha quindi una legge propria, ma di questa legge propria non c’è traccia; sicuramente si è parlato di questa legge propria del concistoro nei lavori di codificazione. I cardinali vengono riuniti anche secondo altre modalità, in forma comunque collegiale, ma il pontefice continua a far riferimento ai cardinali per questioni di particolare importanza. San Giovanni Paolo II, da appena 1 anno dalla sua elezione, nel 1979 avvia una consultazione del collegio cardinalizio per trattare della riforma della curia romana, delle attività delle accademie pontificie (che sono 2, una per le scienze e una per le scienze sociali), e di questioni attinenti alla situazione economica della Santa sede. Queste assemblee non sono veri e propri concistori, ma sono comunque la convocazione dei cardinali in assemblee per trattare di questi argomenti. Tali assemblee non possono considerarsi un istituto precisamente definito, ma sono “una realtà di carattere sperimentale, priva di un proprio statuto e disciplinato di volta in volta, secondo le esigenze dei singoli incontri”. Questa prassi è stata riutilizzata fino al 1985, dopo la quale data non ne si hanno più notizie, anche se abbiamo ancora riunioni plenarie nel 1991, nel 1994 e nel 2001. Anche Papa Francesco ha ripreso la tradizione di papa Giovanni Paolo II: ha annunciato la costituzione di un consiglio di cardinali per essere aiutato nel governo della Chiesa universale, e per studiare ancora una volta un progetto di revisione della curia romana. Tale consiglio è stato effettivamente costituito con chirografo nel 2013. È chiamato C7, che poi si è allargato a C8. Attività dei cardinali come singoli: devono collaborare assiduamente con il pontefice. Perciò i cardinali che ricoprono qualsiasi ufficio nella curia, se non sono vescovi diocesani, sono tenuti all'obbligo di risiedere nell'Urbe; i cardinali che hanno la cura di una diocesi come vescovi diocesani, si rechino a Roma ogni volta che sono convocati dal romano pontefice; normalmente il pontefice si serve dei cardinali quali legati a latere, ovvero come suoi alter ego, oppure per affidargli incarichi pastorali come inviati speciali. In entrambi i casi devono seguire puntualmente le direttive del pontefice. MATRIMONIO CANONICO Can.1055: “Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento. Pertanto tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento.” Il matrimonio non è un istituto di diritto divino positivo, non riguarda solo la rivelazione cristiana, ma è un istituto di diritto naturale, perché il matrimonio è una realtà che da punti di vista diversi, riguarda il piano naturale, ed è poi stato elevato da Cristo come sacramento. Il matrimonio è una realtà che trova il suo fondamento nella natura dell’uomo stesso. Non tutte le forme di relazione coniugale possono essere considerate matrimonio dalla Chiesa, la quale considera solo alcuni tipi che presentano alcune caratteristiche specifiche, nel senso dev’essere una relazione fedele ed esclusiva di amore, frutto di un impegno iniziale assunto da i due coniugi. Queste due caratteristiche ne rispecchiano altre, che sono l’unità e l’indissolubilità. L’unità comporta un rapporto monogamico tra un uomo e una donna, ed è quindi anche esclusivo nel senso che una persona che non sia uno dei due coniugi è esclusa da questo rapporto. Proprietà estrinseca della caratteristica dell’unità del matrimonio è la fedeltà reciproca. L’indissolubilità del matrimonio fa parte dell’intrinseca struttura del matrimonio stesso, nel senso che il matrimonio non è indissolubile per legge, ma è indissolubile per sua natura; un matrimonio non indissolubile non è un matrimonio, poiché deve essere perpetuo, ed è intrinseca alla struttura stessa del matrimonio e proprietà essenziale, senza cui il matrimonio non sarebbe tale. Queste caratteristiche rispecchiano quindi l’etica cristiana di un matrimonio valido. L’unico vero matrimonio accettato dalla Chiesa è quello indissolubile. Queste non sono caratteristiche aggiunte per legge, ma sono intrinseche al concetto di matrimonio stesso. Il matrimonio è anche un’alleanza tra l’uomo e la donna, ed un consorzio. Nel matrimonio possiamo quindi distinguere due significati di esso, ovvero il matrimonio come atto, che è l’atto iniziale e presuppone impegno da entrambe le parti, e il matrimonio come rapporto per la vita dei due coniugi. Vi sono dei beni (bona) essenziali del matrimonio secondo la Chiesa, ed essi sono: beni della prole (bonum prolis): uno dei beni del matrimonio è la prole stessa, è uno dei beni che non può essere escluso dal matrimonio; beni della fedeltà (bonum fidei): è il bene della fedeltà, che è la conseguenza logica dell’unità ed indissolubilità del rapporto coniugale nel matrimonio. Se si esclude la fedeltà, il matrimonio crolla; beni del giuramento (bonum sacramenti): inteso come unità, come sigillo che vincola l’unità del rapporto. IMPEDIMENTI Il codice del diritto canonico dice che non tutti sono abilitati a contrarre matrimonio, nel senso che per farlo bisogna, oltre ad una generica capacità di agire, si richiedono altri requisiti oggettivi, che possiamo definire come impedimenti, ovvero se presenti non permettono di contrarre validamente e lecitamente matrimonio. Alcuni impedimenti sono di natura umana (ovvero imposti dal legislatore umano, e sono dispensabili), altri di natura divina, che sono invece indispensabili. Gli impedimenti percepiti dal diritto sono: la maggior età, per far rendere conto al soggetto dell’importanza del gesto che sta per compiere, avendo piena consapevolezza dell’atto. Si richiede quindi una maturità psicologica, oltre che una maturità fisica, perché uno dei beni del matrimonio è il bene della prole. Si stabilisce quindi un’età precisa per contrarre matrimonio, che consiste nel compimento dei 18 anni, età in cui si presume la maturità psicologica e fisica. L’età “fissa” è stata introdotta dalla legge, perché il diritto canonico non aveva un’età prefissata; poi con il codice del diritto canonico del 1917 si introdusse l’età minima, che al tempo era di 12 anni per la donna e 14 anni per l’uomo, età che poi è stata spostata. Il can.1083 specifica che le conferenze episcopali possono anche decidere diversamente, considerando la legislazione e la cultura del luogo, ma sempre per età superiori, e non inferiori. In Italia per es. si è stabilito che l’età minima per contrarre matrimonio è dei 18 anni, equiparandola quindi all’art.84 del codice civile, e come per il codice civile, anche per il codice canonico si può contrarre a 16 anni, ma solo se vi è l’autorizzazione civile, concessa per casi particolari e straordinari. Questo impedimento ha una sua regolamentazione nel diritto umano, anche se è di natura divina; il vincolo, o legame. È un impedimento di natura divina, che consiste nell’impedimento per cui una parte è già sposata con un altro soggetto. Caratteristiche del matrimonio sono infatti unicità ed indissolubilità, e sposando un’altra donna essendo già sposati si commette adulterio, proprio perché il matrimonio è unico. Il vincolo di legame è un impedimento di diritto divino che non ammette alcuna dispensa. Nel caso in cui si è sposati solo civilmente, ma ci si vuole sposare con un’altra donna in Chiesa, e quindi canonicamente, vi è impedimento di legame o di vincolo? Dipende. La Chiesa assume il matrimonio come si presenta in rerum natura, e di conseguenza si deve verificare se le parti che hanno contratto matrimonio civile abbiano contratto un vero matrimonio, anche se solo civilmente, perché in caso affermativo, esso è valido anche per la Chiesa. Vi sarebbe un difetto di forma, perché manca la forma canonica di celebrazione, ma la forma è comunque strumentale alla sostanza, ed in casi come questi il diritto canonico prevede l’istituto della sanazione, ovvero in vi amministrativa la Chiesa sana il vizio di forma, rendendolo valido anche per la Chiesa stessa. In questo caso quindi vi è impedimento di vincolo, perché vi è un matrimonio valido precedente non sciolto. Nel caso in cui invece il matrimonio civile non rispecchia l’ideale di matrimonio della Chiesa, le parti possono sposarsi con altre persone validamente e legittimamente per l’ordinamento canonico; l’impotenza, che è un impedimento di natura divina, perché il matrimonio è per sé ad generationis in prole, ovvero destinato alla generazione della prova. È impotenza all’atto fisico coniugale, e comporta quindi nullità, ma solo se dolosamente occultata all’altra parte. altri impedimenti essenzialmente di diritto umano, che possono rendere illecito o invalido l’atto matrimoniale. Essi sono stabiliti dal legislatore canonico per salvaguardare la santità dell’istituto matrimoniale e la coerenza con le norme di diritto canonico, oltre che salvaguardare la libertà delle persone di esprimere la propria volontà. Uno di questi consiste nel ricevimento del sacramento dell’ordine, che comporta invalidità dell’atto. Chi riceve il sacramento dell’ordine, nella tradizione latina, non si può sposare, e non solo commette reato canonico (attentato al matrimonio), ma invalida il contratto stesso. Si può accedere al matrimonio solo con dispensa pontificia, emanata dal pontefice stesso. Per le Chiesa cattolica orientale, invece esiste il clero uxorato, ovvero i sacerdoti, a certe condizioni, si possono sposare, mentre per la Chiesa cattolica latina, il sacramento dell’ordine comporta celibato. Un altro impedimento di natura umana è il voto pubblico perpetuo di castità, ossia non può contrarre matrimonio chi sia membro di un ordine religioso, che ha emesso quindi il voto di castità in maniera pubblica e perpetua (religiosi sono coloro che emettono i voti di povertà, castità ed obbedienza, assumendo un incarico particolare, obbedendo a dio in maniera povera e casta, all’interno di ordini religiosi). Chi contrae matrimonio contrae un matrimonio invalido sanzionato dall’ordinamento canonico. Questo impedimento è dispensabile da parte della legittima autorità, ovvero dal Pontefice. Questi impedimenti però possono essere superati, o per via naturale (per es. se l’ateo si converte pienamente) perché l’impedimento perda la propria urgenza, oppure se l’autorità concede la dispensa. Nel momento in cui si vuole concedere una dispensa è necessario che vengano sottoscritte le c.d. cautionis. La dispensa è un atto amministrativo singolare con il quale, in presenza di una causa si concede che un soggetto determinato sia liberato dall’impedimento. Ci deve però essere una giusta e ragionevole causa, che è definibile come la possibilità della parte di vivere a pieno la sua vocazione, ma questa causa deve essere bilanciata alla suprema lex. Per questo non la parte non cattolica, ma la parte cattolica deve sottoscrivere le cautionis, dove si assicura di impegnarsi a continuare a vivere secondo le norme cristiane e a crescere i propri figli secondo la stessa. Non si chiede niente alla controparte atea perché in ogni famiglia deve essere mantenuta la possibilità di mantenere la propria confessione religiosa, e quindi non bisogna chiedere a chi ha un’altra credenza di convertirsi. Il matrimonio celebrato senza dispensa è invalido, e senza licenza nei casi di matrimoni misti è illecito. Il can.1095 ci dà un ulteriore fattispecie di incapacità a contrarre matrimonio: “Sono incapaci a contrarre matrimonio: 1) coloro che mancano di sufficiente uso di ragione; 2) coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente; 3) coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio.” Questa fattispecie corrisponde all’incapacità psichica di contrarre matrimonio, ed ha valore retroattivo. La stipulazione del matrimonio necessità che le parti siano coscienti dell’accordo che stanno per contrarre, ovvero l’azione dell’intelletto e della volontà. Il matrimonio infatti è un patto o contratto, la cui causa è il consenso, ovvero l’atto di volontà delle parti che si indirizza alla peculiare donazione di sé, che si attua nell’assunzione dei diritti e dei doveri matrimoniali. La volontà è quella facoltà propria solo dell’uomo, che presuppone l’intelligenza e realizza la libertà. Perché il consenso sia un atto propriamente umano, deve essere emesso da un soggetto capace di intendere e di volere, e in grado quindi di porre in essere la complessa operazione di decisione umana. Sono incapaci di contrarre matrimonio, secondo il can.1095: coloro che mancano del sufficiente uso di ragione, ovvero i minus abens. È il soggetto che manca di comprensione astratta, che non riesce a capire cos’è il matrimonio o qualsiasi concetto giuridico, ed è un principio valido per tutti i negozi giuridici; coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti ed i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente. Consiste in un grave difetto di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri del matrimonio essenziali da dare ed accettare reciprocamente. È una valutazione non meramente stratta, ma critica dei diritti e dei doveri coniugali nei confronti di quella determinata persona con cui si è contratto matrimonio. Si parla quindi di maturità di giudizio, e di libertà di scelta. Rientra in questa fattispecie l’immaturità affettiva, che è l’incapacità a subordinare le proprie passioni ed i propri istinti a ragione e volontà, comportato dall’eccessiva dipendenza dai genitori, e comporta anche una mancanza del senso di responsabilità; coloro che per cause di natura psichica non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio. Si tratta quindi non di difficoltà, ma di impossibilità di assumere e quindi di adempiere agli obblighi essenziali del matrimonio. Si differenzia però la natura psichica dalla natura fisica, che comporta autentica incapacità. Il codice del 1917 non dichiarava formalmente i possibili casi di incapacità psichica nel matrimonio. Le norme da seguirsi erano desunte dalla definizione del consenso. Il codice del 1983 invece prevede appunto il can.1095 e quindi 3 fattispecie diverse. Pur rappresentando una novità nella legislazione canonica, il canone in questione è ritenuto riferibile al diritto naturale. Però non bisogna cadere in un automatismo: tra scienza medica e scienza giuridica esiste una differenza, ovvero un fatto moralmente rilevante può essere che non lo sia giuridicamente (per es. adulterio). Tutte le cause di incapacità devono comunque essere dimostrate in giudizio, attraverso la ricostruzione della storia delle parti, anche clinica; tramite la verifica della causa contrahendi; e bisogna mettere in evidenza le circostanze di sia prima che dopo le nozze. Inoltre bisogna utilizzare la perizia, per capire quale sia l’anomalia di cui si parla. ERRORE e DOLO Can.1098: “Chi celebra il matrimonio, raggirato con dolo ordito per ottenerne il consenso, circa una qualità dell'altra parte, che per sua natura può perturbare gravemente la comunità di vita coniugale, contrae invalidamente.” Il consenso del soggetto ingannato è nullo, e può chiedere la nullità del matrimonio. La disciplina generale, in materia di vizi del consenso, dice che l’atto posto in essere per timore grave, incusso ingiustamente, o per dolo, vale a meno he non sia disposto altro dal diritto. In materia matrimoniale il diritto dispone altro: il can.1098 si pone come norma speciale rispetto al can.125 di portata generale, ed in quando norma speciale, prevale su quella generale per gli atti giuridici in questione. Al contrario dei contratti generali, il contratto matrimoniale non può essere rescisso perché indissolubile, ma solo dichiarato nullo. Dottrina e giurisprudenza ritengono che il can.1098 è applicabile solo ai matrimoni celebrati dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, ossia dal 27 novembre 1983 in poi, in base al principio comune di non retroattività alle leggi positive, ovvero voluta dall’uomo; è quindi una norma irretroattiva. Gli elementi che compongono il dolo solo: errore: deve trattarsi di un errore dante causa al contratto, cioè il nubente, al momento del consenso, deve trovarsi in uno stato di errore, di giudizio falso circa una determinata qualità; qualità: la qualità su cui il nubente è in errore deve essere una qualità dell’altra parte. La caratteristica deve essere una caratteristica stabile e direttamente inerente alla stessa, non una semplice circostanza a lei relativa. Tale qualità deve essere adatta a turbare gravemente il consorzio di vita coniugale; dolo: l’induzione in errore deve essere stata effettuata dolosamente, cioè con volontà deliberata e con conoscenza del significato della propria azione; dolo specifico: la detta azione dolosa deve essere effettuata con lo scopo di ottenere la prestazione del consenso matrimoniale della comparte e non per altri scopi. oggetto mezzi actio dolosa dichiarazione delle parti e dei testimoni qualità (fisica o morale) documenti e testi errore determinante criterium aestimationis et reactionis TABELLA RIASSUNTIVA: error in qualitate dolus origine dalla stessa persona dell’errante dall’altra parte o da un terzo qualità qualunque quella adatta a turbare intentio qualità direttamente e principalmente intesa ad modum condicionis SIMULAZIONE Il matrimonio è prodotto dal consenso delle parti, che è ritenuto quindi la causa efficiente del matrimonio. Il consenso è un atto della volontà attraverso il quale i contraenti effettuano la donazione di sé stessi al fine di costituire fra di loro il rapporto coniugale. Oggetto materiale del consenso matrimoniale è il dono di sé: coloro che contraggono matrimonio infatti si donano e si ricevono scambievolmente. Oggetto formale del consenso matrimoniale è invece il fine per costituire il matrimonio, la volontà dei contraenti quindi deve essere rivolta alla costituzione di un consorzio di vita, perpetuo ed esclusivo, ordinato alla procreazione e all’educazione della prole, ed il bene dei coniugi, avente per i battezzati la dignità di sacramento. Sono quindi 4 elementi essenziali del matrimonio: indissolubilità (e quindi perpetuo); unità; apertura della prole; bene dei coniugi. L’ultimo inciso, “avente per i battezzati la dignità di sacramento” si intende che il matrimonio, se viene celebrato da due battezzati, è ornato della dignità sacramentale, perché diventa appunto sacramento. Can. 1101: “Il consenso interno dell'animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel celebrare il matrimonio. Ma se una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente.” Vi è quindi una presunzione semplice (c.d. iuris tantum) per cui ciò che uno prova e vuole all’interno viene esternato tramite l’atto del matrimonio e del suo consenso. Ma il secondo paragrafo vi è la possibilità che se una od entrambe le parti mentano, e quindi pongano in essere una simulazione, contraendo invalidamente. Si può provare che quindi uno o entrambi dei contraenti respingevano il matrimonio nel suo Il can.1103 parla di due diverse fattispecie: violenza fisica (o vis): è l’azione posta in essere da alcuno che materialmente costringe altri a fare qualcosa di non voluto. Vi è quindi un difetto completo del consenso: chi è costretto non ha alcuna possibilità di opporsi all’azione violenta. L’atto posto per violenza inferta dall’esterno alla persona, cui essa stessa in nessun modo può resistere, è nullo. violenza morale (o metus = timore): si intende la pressione operata da un terzo ed in forza della quale alcuno si senta costretto a porre un atto che diversamente non porrebbe. Il soggetto contraente effettivamente esercita la sua volontà consensuale, ma essa è viziata dall’azione costrittiva. L’atto posto per timore grave, incusso ingiustamente, o per dolo, vale, a meno che non sia disposto altro dal diritto; ma può essere rescisso per sentenza del giudice, sia su istanza della parte lesa o dei suoi successori nel diritto, sia d’ufficio. In materia matrimoniale, il diritto dispone infatti altro, per quanto disposto dal can.1103. La costrizione però deve essere grave, se no l’ordinamento non appresta la nullità come strumento di tutela. Il sospetto del timore non è sufficiente, perché deve essere obiettivo che per l’altra persona l’unico modo di scappare alla minaccia è di contrarre matrimonio. Come può essere esercitata in materia matrimoniale la violenza morale? tramite minaccia di mali fisici (per es. percosse, cacciata di casa); tramite minaccia di mali morali (per es. diffamazione); tramite abuso di autorità. L’azione costrittiva deve: provenire ab extrinseco, cioè da una persona e dal suo positivo comportamento. Quello che non può essere ritenuto è un timore che sia del tutto soggettivo, ossia che sia frutto di un mero autoconvincimento alle nozze; essere grave oggettivamente. È ritenuto grave quel timore che, nel caso concreto, fu l’effettiva causa per cui quella determinata persona celebrò un matrimonio per altro non voluto; non essere necessariamente intenzionale da parte dell’inducente. Esistono poi tesi particolari: il timore reverenziale (metus reverentiale): il rapporto colui che incute il timore e colui che lo subisce è un rapporto di soggezione lavorativa o di soggezione familiare, o di stima e riverenza. Il male che viene presentato e minacciato non è quasi mai oggettivamente grave, perché spesso coincide al timore di perdere stima o affetto di colui che lo incute. Questo tipo di metus può essere distinto in semplice (se è il momentaneo dispiacere), o qualificato (se ad esso si aggiungono altri mali). le mine suicidarus (le minacce di suicidio): il suicidio è visto come ultimo rimedio dell’amante per piegare l’altro alle sue volontà. Ci sono diversi modi per provare il metus: tramite la coazione. La coazione può essere provata con ogni mezzo di prova, e consiste nel provare che la persona è stata costretta a sposarsi senza vie di fuga. Essa può essere ottenuta anche per via indiretta, ossia per via indiziaria e per via circostanziale; tramite l’avversione. È l’indizio principale, ed è il presupposto per la coazione stessa; essa deve essere specificatamente indirizzata al matrimonio e alla persona dell’altro come coniuge, non rilevando invece che quella persona sia gradita o indifferente. tramite il criterium reactionis, ovvero la c.d. reazione. Quando la persona sposata per metus si accorge di essersi liberata dal pericolo, si verifica se la persona va avanti o meno col il rapporto maturato. Si verifica quindi come la persona reagisce quando scopre che il pericolo minacciato è passato. CONDIZIONE Il matrimonio può essere sottoposto a condizione in determinate circostanze. La condizione è un avvenimento futuro ed incerto da cui dipendono il verificarsi o meno degli effetti del negozio. Può essere: propria: quando l’avvenimento è futuro ed incerto; impropria: quando l’avvenimento è futuro ma certo, o quando l’evento è passato, ma incerto sulla sussistenza o meno dell’avvenimento. Il matrimonio in sé stesso è un negozio puro, che non ammette condizioni. Can.1102: “Non si può contrarre validamente il matrimonio sotto condizione futura. Il matrimonio celebrato sotto condizione passata o presente è valido o no, a seconda che esista o no il presupposto della condizione. Tuttavia non si può porre lecitamente la condizione di cui al comma2, se non con la licenza scritta dell'Ordinario del luogo.” L’amministrazione canonica prevede la possibilità che le parti possano validamente sposarsi con una condizione impropria, ossia il matrimonio può essere validamente celebrato sotto condizione passata (o anche presente), e se questa condizione si verifica, il matrimonio è valido, se non si verifica è invalido. La Chiesa richiede che, per apporre validamente e lecitamente una condizione (impropria), è necessario il permesso del vescovo, con la sua licenza. Se viene apposta senza la licenza scritta del vescovo, il matrimonio è illecito. La condizione è molto simile alla figura giuridica dell’errore in personam come vizio del consenso. FORMA DEL MATRIMONIO Il matrimonio canonico è un contratto formale che si perfeziona con il consenso, ed ha la necessità, per dare certezza alle parti del loro consenso validamente espresso, ha una forma particolare. Risponde anche ad un requisito di pubblicità, ovvero di rendere noto ai terzi l’avvenuto matrimonio. Il diritto canonico, sino al concilio di Trento, non conosceva una forma specifica della celebrazione del matrimonio (per lo meno obbligatoria); dal decreto Tametsi (1563) del concilio di Trento viene introdotta la forma obbligatoria della celebrazione del matrimonio, nel senso che se manca la forma, quel matrimonio è nullo. Vi è una forma ordinaria della celebrazione, ma anche diverse forme straordinarie. La forma di celebrazione del matrimonio ordinaria è obbligatoria qualora almeno 1 delle due parti sia cattolica. Se l’altra parte non è cattolica e neanche battezzata, la Chiesa permette che il matrimonio sia celebrato o in una chiesa, o in un altro luogo conveniente (ovvero celebrato per es. nel luogo di culto della persona non battezzata). La forma è comunque sempre strumentale alla sostanza. La forma ordinaria è molto semplice, e per la sua validità il matrimonio deve essere celebrato alla presenza di un ministro di culto (che può essere l’ordinario del luogo, un diacono, un sacerdote, un parroco etc.) e davanti a 2 testimoni. Il matrimonio non può, pur essendo un negozio che si perfeziona con l’espressione di volontà da parte dei due contraenti, ha bisogno di alcune formalità, cui compresa la presenza di almeno 1 testimone qualificato, e 2 testimoni semplici. Il sacerdote che assiste al matrimonio è un semplice convalidazione semplice (convalidatio simplix): richiede la ripetizione del consenso da parte di uno o entrambi dei coniugi, e gli effetti della convalidazione decorrono dalla convalidazione stessa (non retroagiscono al momento della prima celebrazione). Si ha in presenza di: un impedimento: nel caso in cui vi sia un impedimento che rende nullo il matrimonio, per la sua convalida si richiede che l’impedimento venga meno o si sia dispensati dall’impedimento stesso, e che si rinnovi il consenso dalla parte che è consapevole dell’impedimento (per es. quando si contrae matrimonio con un minorenne, e che si convalidi il matrimonio una volta dispensato il minore dal vescovo, se ovviamente ci sono i presupposti. Se invece la parte minorenne abbia raggiunto la maggiore età, anche in questo caso l’impedimento è cessato e non c’è bisogno della dispensa del vescovo, e c’è solo bisogno della convalida da parte dell’autorità ecclesiastica); un vizio del consenso: se il matrimonio è nullo a causa di un vizio del consenso, si convalida se la parte che non aveva dato il consenso, o l’aveva dato difettoso, ripete il consenso (in maniera valida), purché perseveri il consenso dell’altro coniuge. Gli effetti del matrimonio si verificano dopo la convalida del consenso, dando vita ad un altro matrimonio, che produce i suoi effetti ex nunc; un difetto di forma: deriva dall’assenza di testimoni (o qualificato o semplici), o l’assenza della delega del parroco che non può assistere al matrimonio. Il matrimonio nullo a causa di un vizio di forma, per diventare valido, deve essere nuovamente contratto secondo la forma canonica. In caso di mancanza di testimoni quindi, o di teste qualificato, o di delega al diacono o al sacerdote da parte del parroco, si deve celebrare di nuovo il matrimonio secondo la forma canonica. sanatio in radice: è un atto dell’autorità ecclesiastica che non richiede la ripetizione del consenso da parte degli sposi perché si presume la sua permanenza, ma gli effetti decorrono dal momento della celebrazione stessa, e quindi gli effetti retroagiscono al momento della celebrazione. PROCESSO MATRIMONIALE CANONICO Il processo è inteso come un dramma, perché si ha un intervento di vari soggetti secondo un copione prestabilito. Se un soggetto enuncia parole fuori dal copione crea un vizio processuale, ed il giudice può muoversi sul palco del processo solo ed esclusivamente esercitando gli atti a cui si può attenere secondo la legge. Una delle caratteristiche fondamentali del processo matrimoniale canonico (che è un processo speciale) era che la sentenza, per essere esecutiva, necessitava un secondo giudizio, una seconda sentenza, che doveva confermare il risultato della prima. Nel caso in cui la seconda sentenza aveva esito diverso, la prima sentenza non ha valore esecutivo. Quindi, abbiamo 2 sentenze di nullità che devono essere conformi tra di loro. Diversa è la disciplina del codice canonico, modificato da Papa Francesco, che dice che non è più necessario un doppio grado di processo: la sentenza di primo grado, se non impugnata dalle parti, è esecutiva (quindi direttamente eseguibile). Il nuovo processo matrimoniale canonico si è allineato con il processo ordinario, si è formalmente reso sempre più simile al processo ordinario. Si deve compiere una delimitazione della materia: come nel diritto civile esistono 3 grandi tipi di processo, nel diritto canonico i processi (chiamati cause) vengono divisi in 3 grandi branche: cause iurium, ossia tutte quelle cause che riguardano i diritti delle persone (in particolare dei fedeli), enunciati nel II libro del codice di diritto canonico; cause de statu personarum, ossia tutte quelle cause sullo stato delle persone (tra cui il processo di dichiarazione di nullità del matrimonio o quello di separazione dei coniugi); cause penales, ossia tutte le cause che riguardano i c.d. delicta. Non si parla di reati, ma di delicta, ossia di delitti. Le cause penali sottostanno solo a quelle cause della legge penale elencate nel VI libro del codice di diritto canonico. Le delimitazioni soggettive riguardano i soggetti che agiscono nel soggetto. Vi sono 3 soggetti all’interno del processo: giudice, come dominus litis. Egli ha 2 diverse funzioni: regolare l’attività delle parti e decidere in merito alle loro richieste; parti pubbliche: Sono 2: difensore del vincolo: è l’avvocato del matrimonio, e difende ragionevolmente la validità del vincolo matrimoniale. Il suo intervento è obbligatorio. promotore di giustizia: interviene raramente nelle cause matrimoniali, e solo se si tratta di tutelare il bene pubblico (ed il matrimonio, essendo un sacramento, è un bene pubblico di tipo spirituale). In questo caso non solo interviene, ma deve lui stesso promuovere l’azione, ed è paragonato al pubblico ministero nell’ambito del diritto penale. Egli ha una duplice valenza: di tutelare il bene pubblico istruendo delle azioni sullo stato delle persone (per es. nullità del matrimonio già divulgata ma non promossa giudizialmente), e può anche essere considerato, in alcuni tipi di cause (cause iurium) alla stregua di un consulente del giudice, perché è chiamato con il suo voto ad aiutare il giudice a conoscere la legge e valutarla per decidere nel migliore dei modi. La sua figura è molto importante più che nei tribunali inferiori, nel Tribunale della Rota Romana, perché in esso egli è richiesto che conosca, oltre che la legge canonica, anche la legge civile. Nella Rota ci sono 2 promotori di giustizia: uno per le cause latine, e uno per le cause orientali. parti private: sono le parti che chiedono di fare chiarezza all’interno di una controversia. Si possono dividere in: attore: nelle cause iurium è la parte che richiede il ripristino di un diritto; convenuto: nelle cause iurium è la parte che si oppone o comunque nega il diritto di ripristinare un diritto nella sfera personale dell’attore. La costante giurisprudenza rotale sostiene che il vero convenuto nelle cause di dichiarazione di nullità del matrimonio è il matrimonio, convenuto nel processo ed è impersonato e difeso dal difensore del vincolo, ed è quindi classificabile come vera e propria parte processuale a tutti gli effetti, tanto che il difensore del vincolo ha gli stessi diritti delle parti in giudizio ed anche di più. Tar questi diritti rientra il diritto di presentare nuove prove, di chiedere la non ammissione di altre prove e, una volta che è stata pubblicata la sentenza ed è passata in quasi giudicato, ha il diritto di proporre querela di nullità contro quella sentenza, anche per violazione del diritto di difesa sofferto dallo stesso. Tra le parti private, quella chiamata convenuta, specialmente se d’accordo con la domanda actorea (anche il convenuto sostiene che il matrimonio è nullo) è chiamato convenuto in maniera latu sensu. La legittimazione a intraprendere questo tipo di processo (c.d. legittimazione attiva) è del promotore di giustizia, o ai coniugi stessi. Nel caso di morte di uno dei due coniugi, può il coniuge superstite impugnare il matrimonio? Come regola generale non può essere impugnato; lo si può fare solo se è necessario e pregiudiziale alla risoluzione di un’altra controversia, sia in foro canonico che in foro civile. Solo allora può essere chiesta la nullità, perché è richiesta NON in via principale, ma in via incidentale. Può essere chiesta quindi dagli eredi o dal coniuge superstite (se vi è); solo questi soggetti sono legittimati a legittimare il matrimonio, e ne sono quindi esclusi gli ascendenti in generale e i discendenti dal 2° grado. La prima fase del processo è la fase introduttoria, definibile come una petitio iudicialis. Inizia con la presentazione del libello, che è un atto processuale di introduzione della causa stessa. Il giudice, prima di accettare la causa, deve verificare (per quanto gli è possibile) se sia possibile ristabilire la comunione materiale e spirituale tra le parti (come cita il cc), ma deve anche verificare se non sia possibile, per il bene spirituale delle parti, convalidare il matrimonio stesso (nei casi in cui, se il matrimonio è invalido, può essere sanato e quindi convalidato). Il contenuto del libello è: chi domanda; che cosa domanda; Dopo la sentenza di nullità del matrimonio, gli effetti decadono ex tunc (quindi a partire dalla sentenza di nullità), e le parti sono libere di contrarre un nuovo matrimonio, a meno che non vi sia posto tale proibizione proprio dalla sentenza; questa proibizione vincola le parti giudizialmente. Viene poi iscritta nel registro dei battesimi e dei matrimoni. Il matrimonio canonico ha effetti civili, una volta trascritto l’atto nei registri di stato civile, ed anche le sentenze matrimoniali canoniche possono avere effetti civili. La sentenza emanata dal tribunale ecclesiastico può essere dichiarata valida agli effetti civili, una volta che sia esecutiva nell’ordinamento canonico, ma bisogna richiedere questa esecutività nell’ordinamento civile, altrimenti avremmo uno stato civile che si basa su un presupposto non più esistente; questo però si può fare solo secondo alcuni presupposti di diritto (o perché le parti non lo vogliono, o perché è il giudice civile che nega che la sentenza canonica abbia effetto nell’ordinamento civile). Possiamo quindi avere situazioni in cui non si ha una coincidenza tra lo status canonico e quello civile. Gli effetti civili del matrimonio pongono la base sulla presenza di un vincolo matrimoniale canonico, ma se questo vincolo viene meno, non è detto che gli effetti civili vengono sciolti. Vale anche viceversa: nel caso di divorzio per es. e non richiesta la nullità matrimoniale canonica, si ha lo status di divorziati nell’ordinamento civile, ma di coniugati nell’ordinamento canonico. PROCESSO MATRIMONIALE CANONICO BREVIOR Vi è un altro tipo di processo matrimoniale altrettanto breve e sintetico: il c.d. processo matrimoniale più breve (brevior), ed è un processo matrimoniale ordinario semplificato. È un processo in cui il giudice è solo il vescovo (mentre nelle cause ordinarie può essere o il vicario giudiziale o il vescovo, per via della potestà vicaria), che è il giudice naturale della diocesi. Per questo tipo di processo, è necessario il verificarsi di 2 condizioni: la domanda deve essere presentata congiuntamente da entrambi le parti, o da uno dei coniugi, ma senza l’opposizione, ma con il consenso della controparte, nel senso che non vi deve essere un contraddittorio; devono ricorrere circostanze di persone o fattuali che rendono manifesta la nullità, senza che richiedano una base istruttoria particolarmente complicata ed approfondita; è necessario quindi che ricorrano fatti o persone, sostenute da testimonianze e documenti, che non richiedono un’inchiesta più accurata, e rendano palese la nullità del matrimonio. Il processo viene istruito da un giudice istruttore, il quale poi trasmette gli atti dell’istruttoria (della raccolta delle prove) con un suo giudizio al vescovo diocesano, ed egli, ricevuti gli atti, sentito il difensore del vincolo ed eventualmente le difese delle parti, se egli raggiunge la certezza morale sulla nullità del matrimonio, emette la sentenza. Se invece tale certezza morale non è raggiunta, rimette gli atti della causa al processo ordinario. Le diocesi fanno capo ad una chiesa metropolitana, che è una chiesa che fa da primus inter pares dalle altre diocesi, soprattutto in ambito giudiziale, perché è tribunale d’appello per le chiese suffraganee. Il giudice competente a ricevere l’appello è quindi il vescovo della diocesi metropolitana (e deve essere quello più anziano), e la sua sentenza si può impugnare solo davanti alla Rota romana (che è tribunale di terza istanza). Nel processo brevior ci si può appellare direttamente alla Rota romana, mentre nel processo ordinario matrimoniale ci si può appellare al tribunale di seconda istanza, e solo in seguito alla Rota romana. Contro la sentenza di primo grado ci si può quindi appellare o al tribunale di seconda istanza, o direttamente alla Rota. Riforma di Papa Francesco: il n.7 dei criteri fondamentali è: “Appello alla sede apostolica”: La misericordia, uno dei criteri fondamentali che assicurano la salus, richiede che il Vescovo diocesano attui quanto prima il processo breviore; nel caso poi che non si ritenesse pronto nel presente ad attuarlo, deve rinviare la causa al processo ordinario, il quale comunque deve essere condotto con la debita sollecitudine. MEZZI DI PROVA I processi, nel sistema di civil law, hanno come finalità di accertare la sussistenza o meno di alcuni fatti. In modo particolare, nel processo canonico, lo scopo perseguito è quello di accertare la verità sostanziale dei fatti, che è la sua caratteristica epistemologica, ovvero la sua caratteristica fondamentale. La Chiesa, per diritto proprio ed esclusivo, conosce le cause che riguardano le cose spirituali o le cose annesse ad esse. Le cose spirituali per eccellenza sono i sacramenti (che sono anche i beni della Chiesa). Il can.1059 dice anche che se la Chiesa giudica del sacramento e costituisce in merito, per quel che riguarda la conseguenza degli effetti civili, rilascia allo Stato la facoltà di decidere (per es. uno degli effetti meramente civili del matrimonio è la comunione dei beni tra i coniugi). Addirittura, la Chiesa, benché regoli tutti gli aspetti della vita del credente, in alcune materie costituisce il c.d. rinvio recettizio allo Stato, per cui lo Stato demanda il regolamento per una data materia ad un altro ordinamento. Il bene della Chiesa è il diritto divino: assume quindi un valore peculiare della salvezza delle anime, obiettivo che vuole raggiungere tramite la sua legge. Nella Chiesa vige quindi un istituto particolare che segna l’elasticità del diritto canonico: l’aequitas. È un valore molto forte, e vuol dire il diritto che la Chiesa richiede per la salvezza delle anime, e viene ritenuta quindi di carattere meramente pastorale. Nel processo canonico vige quindi il favor veritate, perché quello che si ricerca è la verità. Il processo di nullità matrimoniale quindi il favore alla verità è mirato alla salvezza delle anime, che proviene dalla stessa teologia di San Tommaso d’Aquino. Benedetto XVI disse quindi che lo scopo del processo è la dichiarazione della verità; il fine metagiuridico del processo (ovvero il fine non immediato, ma ultimo per cui è istituito il processo) è di far aderire i provvedimenti (giustizia formale) alla verità (giustizia sostanziale). Il valore dell’aequitas diventa una forma, uno strumento di giudizio del giudice, che permette di raggiungere e di conoscere la verità sostanziale perché si arrivi a riconoscere che in alcuni casi, l’applicazione della norma non può rientrare in quel caso concreto. L’aequitas viene anche definita come l’applicazione della norma astratta in caso concreto, definizione però volgare di tutto il concetto stesso. Questa ricerca della verità guida anche i vari mezzi di prova. Ce ne sono 2 fondamentali, che sono i cardini del processo di nullità del matrimonio: la dichiarazione delle parti. Viene normata dal codice di diritto canonico al can.1530ss. questo mezzo di prova occupa il primo posto tra l’elencazione e la descrizione di tutti mezzi di prova, e nell’attuale sistema canonico, può venire ad avere il valore di prova piena. La dichiarazione delle parti comprende ogni affermazione o negazione ad opera delle parti private ovvero pubbliche su fatti rilevanti nel processo. Tale dichiarazioni possono svolgersi ed essere compiuti in 2 momenti della vicenda della ricerca della verità: durante l’interrogatorio giudiziale (c.d. dichiarazione giudiziale), qualora queste siano favorevoli alla propria posizione processuale (pro se); durante l’interrogatorio giudiziale (c.d. confessione giudiziale), qualora queste siano sfavorevoli alla propria posizione processuale (contra se) le dichiarazioni extragiudiziali. Per essere tali devono essere rese prima del processo, devono essere intrise di credibilità, devono riguardare dei fatti storici e devono essere rese in giudizio tramite un altro strumento di prova, per es. attraverso documenti o testimoni. Una peculiarità dell’ordinamento canonico che lo distingue dall’ordinamento italiano è la sussistenza di un contratto è dimostrabile anche attraverso testimoni. Per la parte che dichiara fuori dal giudizio deve esprimere la verità, e se ne può avere la certezza attraverso il giuramento. La parte deve giurare, a parte nelle cause penali, perché l’imputato che viene interrogato non è soggetto all’obbligo di giuramento. I criteri di valutazione delle dichiarazioni delle parti, ci si rimanda, per il can.1534, ai criteri forniti dal codice di diritto canonico per la valutazione dell’interrogatorio dei testi. Per quel che concerne la valutazione sono quelli della credibilità soggettiva e della credibilità oggettiva (ovvero la condizione del dichiarante, la fonte della conoscenza, e la coerenza intrinseca ed estrinseca). La dichiarazione della parte fa prova piena se unita al valore delle circostanze. Il provvedimento separativo comporta una derogatio legis casualis et causalis, nel senso che si deroga al can.1151 che prevede la coabitazione, e viene applicata in quel caso preciso ed in presenza di una causa legittima. Anche nella dottrina previgente si tendeva ad utilizzare e a preferire l’utilizzo della via amministrativa perché più celere di quella giudiziale. Una sent. del 1925 della Rota dice che “uno dei più importanti dizionari di diritto canonico definisce la separazione una deroga alla regola enunciata dal can.1128 (il vecchio can. sulla coabitazione).” Ci troviamo di fronte ad un provvedimento autoritativo, sia per via amministrativa che per via giudiziaria. Le cause possono essere ricondotte alla stessa categoria, per cui le parti sono impossibilitate a realizzare uno dei pilastri del matrimonio, ovvero il bene della prole o il bene stesso dei coniugi. La separazione oggi è disciplinata dai can.1152ss, e la separazione può essere divisa in 2 grandi tronchi: separazione perpetua: a norma del can.1152 può essere domandata solo in caso di adulterio. Can. 1152: “Per quanto si raccomandi vivamente che ciascun coniuge, mosso da carità cristiana e premuroso per il bene della famiglia, non rifiuti il perdono alla comparte adultera e non interrompa la vita coniugale, tuttavia se non le ha condonato la colpa espressamente o tacitamente, ha il diritto di sciogliere la convivenza coniugale, a meno che non abbia acconsentito all'adulterio, o non ne abbia dato il motivo, o non abbia egli pure commesso adulterio.”. Il dato oggettivo è la commissione dell’adulterio da parte di uno dei due coniugi. Per adulterio si intende la concessione del c.d. ius in corpus a una terza persona. Il dato soggettivo è che può domandare la separazione non quello che ha tradito, ma quello che è stato tradito, salvo che: non abbia perdonato l’adulterio; non abbia acconsentito all’adulterio; ci sia traditi a vicenda. Sebbene sia raccomandato che il coniuge, mosso da carità cristiana, e sollecito per il bene della famiglia, non neghi il perdono alla comparte, in questo senso non si vuole limitare il diritto di chiedere la separazione, ma si vuole limitarne l’esercizio. Si vuole quindi muovere il coniuge alla misericordia. Il fatto che con l’adulterio si compie un’ingiuria verso il c.d. stato coniugale, in sé, verso la promessa che si è fatta, o verso lo stesso consenso; separazione temporanea (o provvisoria): è disciplinata dal can.1153, che porta una sorta di norma di chiusura omnicomprensiva di una serie di cause che possono essere valutate dal giudice. Queste cause sono così valutate: se uno dei due coniugi porti grave pericolo dell’anima o del corpo all’altro coniuge o alla prole, e renda la vita comune troppo dura, si offre una legittima causa di separazione, con decreto dell’ordinario del luogo o con anche per propria autorità con sentenza. La separazione può essere concessa dall’autorità amministrativa o da quella giudiziale. Il decreto della CEI ha previsto la possibilità che per le cause di separazione dei coniugi si demandi la conoscenza di queste all’autorità civile, perché si riteneva che l’autorità mettesse in atto tutte le cautele e le investigazioni necessarie. Attualmente questa norma emanata dalla Conferenza episcopale italiana dovrebbe essere rivalutata, perché la separazione è un provvedimento dell’autorità che indaga le cause, mentre lo stato italiano non regola le cause della separazione ma solo gli effetti. RIPASSO Il collegio episcopale è l’insieme di tutti coloro che hanno ricevuto l’ordinazione episcopale, ovvero tutti i vescovi del mondo. Quest’organo è importantissimo perché condivide la suprema potestà con il pontefice. Il collegio dei vescovi è l’organo, mentre la modalità in cui quest’organo si riunisce, convocato e presieduto dal pontefice, che è il concilio ecumenico, che è la principale modalità di cooperazione. Dal collegio episcopale è il sinodo dei vescovi. Il collegio episcopale è quello che ha la potestà, e può fare leggi; il sinodo invece è un organo consultivo; in questi ultimi anni papa Francesco lo sta molto valorizzando perché all’interno della Chiesa il ruolo consultivo ha sempre avuto notevole importanza, ma non ha lo stesso ruolo del collegio episcopale. Il sinodo dei vescovi non è un organo permanente: si riunisce in assemblee ordinarie o straordinarie quando convocato dal papa, ma ha appunto solo ruolo consultivo. Il collegamento tra il sinodo dei vescovi e le conferenze episcopali è che al sinodo vanno i rappresentanti delle conferenze o i loro delegati. La conferenza episcopale italiana (la cui conferenza episcopale italiana è presieduta dal Cardinal Bassetti) è la conferenza dei vescovi italiani, e normalmente è il raggruppamento dei vescovi di una determinata regione/paese/stato (dipende dalle situazioni). In Italia abbiamo la conferenza episcopale italiana. La potestà nell’ordinamento canonico può essere: ordinaria: fa capo all’ufficio ecclesiastico, e può essere propria: quando è propria del titolare dell’ufficio (per es. il vescovo ha la potestà ordinaria propria sulla propria diocesi); vicaria: se fa riferimento all’ufficio, ma la potestà non è del titolare, ma di un vicario episcopale della diocesi. Quello che può e deve fare è però stabilito ex lege, e non dal titolare dell’ufficio, e questa è la grande differenza tra la potestà vicaria e la potestà delegata. delegata: la potestà ha le sue radici nella delega, dove si stabilisce anche il modo e i tempi in cui la potestà è posseduta dal delegato. Il pontefice è il vescovo di Roma, è il primus inter pares, non ha un grado in più dell’ordine sacro, ma è vescovo come gli altri, ma essendo il vescovo di Roma è appunto il primo tra pari. Fa parte come tutti i vescovi del collegio episcopale, ma allo stesso tempo lo convoca e lo presiede, e ne ratifica le decisioni: senza questa ratifica il collegio episcopale non potrebbe fare niente.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved