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Diritto canonico programma per non frequentanti, Dispense di Diritto Canonico

Riassunti per studenti non frequentanti relativi al corso di diritto canonico. Il programma è strutturato sui libri indicati dalla professoressa nella sua pagina.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 29/06/2024

federica-piras-17
federica-piras-17 🇮🇹

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Scarica Diritto canonico programma per non frequentanti e più Dispense in PDF di Diritto Canonico solo su Docsity! LA CHIESA TRA STORIA E DIRITTO Cristianesimo e diritto. Assimilazione, condizionamenti Il cristianesimo si incontra presto con il diritto e finisce per l'esservi pienamente coinvolto. La sua diffusione si realizza nella realtà dell'impero romano con un'autorità politica centrale e una legislazione ammirate in ogni epoca. La nuova religione assimila la mentalità e la pratica giuridica sin dalle persecuzioni quando utilizza strumenti del diritto romano per quello che riguarda la propria organizzazione, amministrazione dei beni, struttura gerarchica. La compenetrazione con il diritto si determina soprattutto quando diviene religio licita nel 313 e religione dell'impero nel 380. Le ragioni della giuridicizzazione del cristianesimo sono oggetto di discussione senza che una tesi riesca a prevalere sull'altra. La più convincente ritiene che il diritto sia connaturato al cristianesimo pur non potendosi negare il ruolo svolto dall'incontro con la romanità. Il grado di compenetrazione con il diritto dipende dal contesto geopolitico nel quale il cristianesimo si diffonde, provoca effetti aggiuntivi, incide sulla sua natura religiosa, e nel tempo si modifica, cresce, si affievolisce e si stempera. Un momento decisivo del processo di giuridicizzazione è quando Costantino diviene arbitro nelle vicende interne della chiesa, pur essendo ancora pontifex maximus. Guida e garante del paganesimo, si erge a difensore dell'unità cristiana, considera tale unità un grande valore politico esercita i diritti e poteri ecclesiastici. L’imperatore sollecita la chiesa a risolvere le controversie dottrinali aperti in africa da Donato il quale ritiene necessario un nuovo battesimo per gli eretici convertiti e considera invalidi i sacramenti amministrati da chierici indegni. Si tratta di un episodio minore che anticipa i rapporti tra stato e nuova religione perché a Roma e ad Arles due sinodi episcopali condannano il donatismo, Costantino recepisce le deliberazioni dei vescovi ed emana leggi contro di scismatici condannandoli all’esilio. In questo momento inizia la commistione con il diritto pubblico ma la compenetrazione tra impero e chiesa giunge a compimento con l'esplosione della crisi ariana. L'insegnamento di ario mette a rischio l'identità del cristianesimo ma ha effetti deflagranti anche per l'impero dove per la prime volta province e distretti si dividono e si combattono per motivi teologici. Poiché l'insegnamento di ario si diffonde e conquista consensi si prospetta l'esigenza di un consiglio generale che definisca una dottrina varia e cogente per tutti. Costantino convoca il Concilio a Nicea nel 325 e questo va a risolvere le questioni religiose concludendosi con la condanna di ario e l'approvazione del simbolo di Nicea, il credo cristiano che non cambierà più. La chiesa si apparenta in questo modo all'impero e al suo capo finendo col farsi plasmare dalla mentalità ed alla cultura giuridica che sfiora la sfera della dottrina e della teologia. La gerarchia indulge all'uso del metodo giuridicizzante anche nel definire i principi e verità teologiche. Se questa opera è necessaria per mantenere l'unità delle genti cristiane è vero che si attenua all'orizzonte misterico nel quale la rivelazione si inserisce, diminuiscono la flessibilità e la delicatezza con questo dovrebbe parlare dell'ambiente e della dimensione del divino. Anche le eresie e subiscono il peso della mentalità legalistica divengono arzigogolate complicate fino a Riuscire incomprensibile a chi non conosce bene la teologia. L’intreccio con il diritto prosegue senza soste con risvolti ambigui e fecondi al Tempo stesso. La chiesa esercita la sua influenza umanizzando il diritto romano, recupera e fa rivivere la tradizione romanista quando il grande affresco della respublica gentium christianarum quando il diritto canonico diviene lex communis in universo al pari del diritto civile. Il diritto Romano e il diritto canonico sono strumenti utili per civilizzare popoli e terra d’Europa per creare istituzioni ecclesiastiche stabili, disciplinare la chiesa e le strutture. Il diritto canonico regola la vita delle comunità monastiche, determina la rinascita della cattedra di Roma e l'istituzione pontificia che diviene la più grande istituzione di respiro universale. Rivive nell'elaborazione medievale dei penitenziali che anticipano gli studi psicologici, determinano pentimento e conversione, pongono le basi per un diritto penale più umano. Diritto divino e diritto umano, il principio di stabilità Il diritto canonico presenta una peculiarità che influenza direttamente o indirettamente molti suoi istituti, il magistero ecclesiastico, i rapporti tra sfera spirituale e sfera temporale. Essa consiste nel fatto che l'uomo conosce come prime e indefettibile regole quelle derivate dallo ius Naturalis percettibili dalla propria coscienza che possono essere conosciute con la ragione. Al diritto divino Naturale si aggiunge il diritto divino positivo che comprende i principi resi espliciti attraverso la rivelazione e le scritture che la chiesa interpreta e trasmette con il magistero. Nell'individuazione del diritto divino naturale e positivo come eterno e immutabile sta il senso della svolta storica determinata dal cristianesimo che riflette il bisogno di stabilità e certezza che un uomo è la società sentono per costruire un ordine è proiettato nel futuro non soggetto ad ogni fluttuazione a qualunque mutamento dei rapporti di forza tra gli uomini. I principi del non uccidere non rubare non dire falsa testimonianza, principi legati al matrimonio come istituzione naturale stanno lì a testimoniare un comune sentire umano. Ma per i cristiani esistono altri principi di diritto divino contenuti nell'atto di fondazione della chiesa la sua natura sacramentale la struttura ministeriale l'indissolubilità del matrimonio, la salvezza delle anime che le permettono di agire nella storia senza mai mutare i propri caratteri essenziali. La solidità di questi principi è di rilevanza per l'evoluzione dell'occidente perché unifica popolazioni incerte e insicure sulla strada da seguire plasma collettività e società attorno ad un idem sentire niente affatto scontato ed evita che ciascuno spezzone di umanità si disperda senza riuscire a comporsi in una sola famiglia. Il diritto divino permette di fare scelte senza perdersi nel dubbio, dare un senso all'evoluzione Storica senza abbandonare l'umanità a sé stessa. L’affermazione del diritto di vino produce anche equivoci ed errori dei quali oggi noi siamo consapevoli che sono il frutto di una lettura formalistica delle scritture soprattutto nell'età di mezzo. Si può sbagliare nell'individuare un Precetto di diritto divino dove non c'è e si può non vederlo quando c'è. Si pone il problema di interpretare la scrittura in sintonia con i tempi e le forme storiche dell'evoluzione umana. La lettura storicizzata della scrittura fa emergere principi di diritto divino che prima non erano evidenziati o lo erano in modo sfocato dentro e fuori la chiesa. Così il primato pontificio trova la sua definizione giuridica teologica del concilio vaticano primo del 1870 mentre soltanto nel 1888 con l’enciclica in plurimis inviata i vescovi del brasile, leone 13º dichiara che il traffico degli schiavi e la schiavitù devono considerarsi in opposizione diretta alla legge di Dio e di natura che nessun altro commercio è più disonesto e scellerato Il diritto divino fonda la storia e si svela progressivamente con essa, il cristianesimo si conferma come religione dell'evoluzione dando voce al bisogno di stabilità dell'uomo indicando le regole necessarie alla sua sopravvivenza e al suo sviluppo. Tanto forte e l’esigenza di stabilità che non viene mai meno neanche quando l’uomo separa l’ordine giuridico dalla religione, afferma l’esistenza di un diritto naturale inviolabile prima nelle dell'autorità competente. Analoga situazione si presenta ai fini della nomina dei parroci perché la persona interessata deve distinguersi per sana dottrina e onesta di costumi deve essere dotata di zelo per le anime di ogni altra virtù e qualità sono richieste per la cura di fedeli. Le fonti del diritto canonico Anche la questione delle fonti del diritto canonico è molto complessa per ragioni che non si riscontrano negli ordinamenti civili. Per il fatto che la chiesa fonda la propria identità sulla scrittura nella quale sono contenuti i principi di diritto divino inderogabili, perché la storia della chiesa si sviluppa lungo 2 millenni con l'accumulo di fondi di ogni tipo e natura con svolte normativa e che influiscono su istituti canonistici sulla composizione del ordinamento. L’ultima svolta del secolo 20º porta all’elaborazione del Codex Iuris canonici il quale pur non essendo fonte unica del diritto riassume le fonti precedenti in un corpo unitario che giova all’opera del legislatore e dell’interprete. Inoltre il diritto canonico conosce una gerarchia delle fonti molto articolata che va dal diritto universale al diritto latino e orientale, al diritto particolare di competenza dei diversi soggetti. Infine esistono atti del magistero ecclesiastico che determinano indirizzi dottrinali pastorali ma hanno anche contenuti Giuridici. In una scansione storico-giuridica sulle principali fonti del diritto canonico il primo posto spetta alle scritture nella conformazione riconosciuta dalla chiesa. Il Canone scritturistico approvato nel 1564 dal concilio di Trento accoglie 45 libri dell’antico testamento comprensivi di 21 testi storici e normativi, 7 di contenuto sapienziale, 17 di carattere profetico. Il nuovo testamento raccoglie 27 testi ovvero i 4 vangeli, gli atti degli apostoli, 14 lettere di paolo 2 di Pietro 3 di Giovanni 1 di Giacomo 1 di giuda e si conclude con l’apocalisse di Giovanni. Scritti in ebraico i libri veterotestamentari sono tradotti in greco dal III secolo AC mentre quelli del nuovo testamento sono scritti direttamente in greco con l'eccezione del Vangelo di Matteo scritto in aramaico. L'intera scrittura è tradotta in latino da San Girolamo nel IV secolo e la traduzione è dichiarata autentica a Trento con il decretum de editione et usu sacrorum librorum. I testi biblici costituiscono un patrimonio ispirato da Dio ma formulato in termini umani e ad essi si aggiunge la sacra tradizione nella forma trasmessa dagli apostoli e interpretata dal magistero ecclesiastico. Le fonti esterne del diritto canonico sono costituite dalle norme che nel tempo formano il patrimonio giuridico della chiesa e sono state raccolte in diverse collezioni fino alle grandi compilazioni complessive. Le prime raccolte di fondi sono le collezioni pseudo apostoliche virgola ossia la didachè contenente precetti morali liturgici regolazione dei rapporti tra gerarchia straordinaria e ordinaria virgola e la tradizione apostolica che concerne la liturgia per le ordinazioni e la trattazione di istituti e norme ecclesiastiche. Nella didascalia degli apostoli del III secolo sono trattati i doveri del vescovo dell’ordinazione e dei diaconi della cura dei poveri della disciplinare i fanciulli. Infine i canoni apostolici composte da ottanta o cinquanta canoni disciplinari relativi alle sanzioni da adottare contro le colpe del clero. Lungo il medioevo le raccolte normative riflettono la crisi e la dispersione della vita ecclesiastica nelle varie province d'occidente punta sono di questo periodo la collectio dionisiana collectio hispana collectio dioniso adriana. Punto di svolta nella raccolta dei fondi canonistiche è il decretum di graziano redatto attorno al 1140 con l’obiettivo di raccogliere testi normativi di diversa origine natura e autorevolezza e per attenuare o eliminare difficoltà interpretative consigliarne il significato è dare omogeneità ad un complesso normativo che estende racconta tenze anche a materie Temporali. Graziano utilizza testi di diverso genere: canoni apostolici canoni di concili generali in particolare dal IV al Secondo Concilio lateranense del 1139 virgola lettere Decretali dei Papi testi dei padri della Chiesa libri penitenzisinogici sinodi episcopali e via di seguito. Pur non essendo il decretum un corpus organico esso diviene il modello per le successive raccolte in particolare le raccolte di decretali e costituisce la base per lo studio e l’applicazione del diritto canonico in tutta Europa. Nel periodo di maggior potenza della chiesa le segretarie papali sono elementi di unificazione e razionalizzazione del diritto canonico. Decretali e le relative raccolte con la disciplina di innumerevoli questioni riflettono l'intreccio inestricabile creatosi tra chiesa e società nonché la rilevanza del diritto canonico di fronte all'impero e diventano punti di riferimento ineludibili per la produzione normativa e il suo studio. ➢ Agli inizi del 1200 si diffondono: le collezione se extravagantes che raccolgono le decretali pontificie in più volumi ➢ Nel 1234 viene promulgato il Liber extra e sarà conosciuto come le decretali di Gregorio IX ➢ Bonifacio VIII emana il Liber Sextus concepito come opera unica e universale e trasmessa alle scuole di Bologna a Parigi a Salamanca ➢ ancora vedono la luce Le Clementine, Le Extravagantes Ioannis Le Extravagantes Communes alla fine del 15º secolo. Con la conclusione del periodo teocratico si attenua la spinta propulsiva del diritto canonico perché il papato vive le due crisi (cattività avignonese e scisma d'occidente) che precedono la frattura della cristianità ad opera di Lutero il quale contesta il ruolo del diritto canonico e addossa a Roma la responsabilità di utilizzare la legislazione per deformare la natura originaria della Chiesa. Per rispondere alle critiche della riforma il Concilio di Trento torna a soffermarsi sul ruolo del diritto canonico ribadendone il significato nella vita della Chiesa intesa come società perfetta virgola modifica ciò che appare storicamente superato. Viene approvato e pubblicato nella forma più compiuta il corpus iuris canonici nel 1582 che raccoglie le principali collezioni giuridiche precedentemente emanate dal decretum Gratiani fino alle extravagantes comune e che rappresenta la raccolta ufficiale di leggi ecclesiastiche valida fino al 1917 anno di promulgazione del codex iuris canonici. Il codex conclude l’opera di armonizzazione e semplificazione del contesto normativo della chiesa e mutua dalla società moderna e dalle codificazioni civili seguite al codice di napoleone del 1804 l’esigenza dell’unitarietà delle leggi della loro omogeneità e chiarezza. In questo senso la scelta del 1917 è del tutto positiva ed è confermata dal nuovo codex Iuris canonici promulgato nel 1983 a seguito delle trasformazioni intervenute nella chiesa con il concilio vaticano II. Istituzione pontificia ed evoluzione storica Se si mettesse tra parentesi l'istituzione pontificia il cristianesimo e la chiesa cattolica non sarebbero quello che sono oggi. Il cristianesimo sarebbe privo della pietra miliare più salda che si è costruita storicamente. Senza il papa anche i protestanti mancherebbero di un riferimento nel quale si specchiano Magari per criticarlo e confermare la propria diversità. Gli ortodossi riconoscono al papa una grande autorità ma non quella universale giurisdizione che si è attribuita. Per i cattolici invece il papa è fattore di rendita per la stabilità della fede, è garanzia che la chiesa non devierà mai dai principi teologici elettrici suoi propri. Anche i cattolici criticano gli aspetti negativi della storia del papato ma lo fanno con lo spirito di chi parla della propria famiglia riconoscendo il ruolo ineguagliabile che l'istituzione pontificia ha svolto per l'occidente e l'umanità. La storia dei papi è per il cristianesimo quello che la divina commedia di dante è per la letteratura. Però per comprendere la storia dei papi occorre abbandonare stereotipi e pregiudizi guardarle in un'ottica evoluzionistica, tenere presente i ruoli che pontefici hanno svolto. Il Papa è in primo luogo vescovo di Roma e se si crede, successore di Pietro ma nella storia è tante altre cose. È capo dei cristiani perseguitati e martiri, e martire egli stesso interlocutore dell'imperatore bizantini poi di regni barbarici che il papato integra nella romanità e nella cristianità fondatore dell'impero d'occidente e suo tutore per secoli, capo temporale di uno stato pontificio senza il quale Roma sarebbe spazzata via dalle bande di qualche signorotto locale o principe straniero virgola ancora capo di una chiesa che ad un certo momento si mette al di sopra dell'impero e di ogni potere temporale e tale rimane sino ai giorni nostri dal punto di vista Spirituale e morale. Con la modernità e il potere del papa si rimpicciolisce perde temporalità e ricchezze ed attualmente è limitato ad un Fazzoletto di Terra così piccolo che non di si può costruire nulla per non deturpare l'ambiente. Ma più il papa ha perso in temporalismo più ha guadagnato in prestigio. Oggi nel mondo nessuno sa se esista e che sia il capo di altre comunità o chiese cristiane, soltanto gli ortodossi conoscono i rispettivi patriarchi perché essi sono come dei papi in forma ridotta, ma tutti conoscono il vescovo di Roma tutti sanno che il papa cosa fa cosa dice e tutti vogliono accoglierlo nel proprio paese. Per questo motivo chi voglia capire la storia dei papi deve studiarla con attenzione e obiettività ricordando che il papa è stato papa re capo spirituale politico mecenate e letterato qualche volta condottiero punto di congiunzione degli equilibri del mondo e in ciascun ruolo ha dimostrato grandezza e debolezze pregi e difetti capacità e incapacità. Dentro questa parabola c'è il senso del divenire della chiesa. Nella seconda fase scompaiono i martiri ed emergono i pontefici strateghi della formazione del cristianesimo della diffusione in Europa. Che il papa diventa una personalità politica tratta con gli imperatori è punto di riferimento delle chiese cristiane anche se lo spostamento dell'impero in oriente lo lascia solo a Roma lo impoverisce e lo arricchisce al tempo stesso. Lo impoverisce perché il suo primato è insidiato dal patriarca di Costantinopoli che si insuperbisce essendo vicino all’imperatore. Lo arricchisce perché a Roma chi governa in realtà è il papa a lui si rivolgono i popoli civili e popoli barbari che invadono le terre cristiane e con esse il papa combatte viene a patti tratta l'integra nella cristianità costruisce all'occidente. Il papato del secondo millennio conosce cadute e traguardi gloriosi in alcuni periodi la santità si misura col contagocce alcuni pontefici sono discutibili e il papato si confonde a volte con il potere e l’intolleranza ma vi sono delle costanti che non vengono meno. Il patrimonio di fede e di dottrina resta integro come alle origini e se si aggiungono negatività gli orpelli destinati a cadere non ci sono deviazioni o corruzione Dottrinali. I papi difendono sempre e comunque la cristianità e l’Europea dagli assalti continui dell'islam combattente in spagna a Lepanto e a Vienna. Alimentano l’identità religiosa e culturale di un’Italia che il giorno in cui diviene indipendente sa di essere nazione da sempre e di aver bisogno di uno stato che la governi. Dentro queste costanti c'è ancora di tutto. Ci sono i papi alteri della teocrazia che unificano l’Europa il governo in concorrenza con l'impero organizzano la curia Romana come istituzione centralizzata che viene copiata da imperatori re. Sono papi con destini personali molto diversi. Ci sono poi papi dalla cattività avignonese che si protrae dal 1305 al 1377 protagonisti di un curioso conflitto spirituale di interessi perché canonizzano molti francesi e quelli combattivi e litigiosi del grande scisma d'occidente che inizia nel 1378 e termina nel 1414/ 1443 e tra Loro Santi non se ne trovano come non se ne trovano fino a Pio V il papa di Lepanto. Però Avignone e lo scisma impartiscono due reazioni che la chiesa non dimenticherà: Roma è la sede del papato e nessun pontefice se ne andrà più se non costretto dei rivoltosi o dare imperatori che fanno violenza al papa. Inoltre il Papa non vuole più sentir parlare di conciliarismo e assemblearismo perché a guidare la chiesa sarà soltanto lui con i cardinali ridimensionati con una curia polifunzionale. Nel frattempo lo stato della chiesa si rafforza e si estende, si inaugura il papato rinascimentale con i suoi fasti e i suoi peccati a cominciare dal nepotismo che riempie brutte pagine di storia. Il nepotismo risponde anche ad un'esigenza politica perché il papa immerso in un governo sempre più LEZIONI DI DIRITTO CANONICO IL POPOLO DI DIO La struttura sociale: la Chiesa come Popolo di Dio Una delle operazioni di più alto valore sta nella traduzione sul piano del diritto positivo di una categoria del tutto estranea alla cultura del giurista. Si vuole fare riferimento alla categoria del Popolo di Dio, fatta propria dal legislatore ecclesiastico in occasione del Concilio Vaticano II e assunta dalla codificazione canonica del 1983, al punto che il Libro II è per l’appunto intitolato De Populo Dei. La nozione corrisponde ad una peculiarità che consente di distinguere l’ordinamento giuridico della Chiesa rispetto agli ordinamenti giuridici degli Stati. La categoria ben si presta ad indicare il carattere tutto proprio della Chiesa, la quale si presenta in modo del tutto atipico, manifestando al tempo stesso i caratteri dell’associazione e della fondazione. Il termine Popolo fa riferimento, infatti, al substrato personale, alla comunità di uomini uniti da un’identità condivisa e dal perseguimento di comuni finalità; il riferimento a Dio sta a significare non un qualunque popolo, ma quello costituitosi a seguito della chiamata divina, nella quale erano predeterminate le finalità che egli avrebbe dovuto perseguire, i mezzi con cui perseguirle, l’autorità costituita. Si deve poi considerare l’universalità di questo popolo, aperto a tutti e non solo ai discendenti di Abramo. Sul terreno del diritto questo comporta la singolarità data dal riconoscimento di diritti anche in capo a chi, non avendo ricevuto il battesimo, non è ancora incorporato nella Chiesa e giuridicamente costituito persona. Difatti, ai non battezzati in genere e ai catecumeni in particolare, sono riconosciuti alcuni diritti fondamentali: si pensi al diritto di libertà religiosa. Si deve infine considerare che l’unità fondamentale di questo popolo, che non nasce da fattori sociologicamente ricorrenti nella società (si pensi all’identità nazionale), ma dalla fede e dalla partecipazione alla vita divina attraverso l’azione sacramentale. Il peculiare fondamento dell’unità del Popolo di Dio dà ragione ad una eguaglianza sostanziale e una diversità funzionale che caratterizza la condizione giuridica delle persone, all’interno dell’ordinamento canonico. Una uguaglianza sul piano della fede, del battesimo e della comune dignità dei redenti; una diversità funzionale per i ministeri, l’esperienza di fede, responsabilità di missione. Christifideles e i diversi stati di vita Il libro secondo del codice si apre con una nozione fondamentale, quella di christifidelis o di fedeli. È contenuta nel can.204, par.1, il quale afferma che “i fedeli sono coloro che, essendo incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti Popolo di Dio e perciò chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo. Strutturalmente connesso è il can.96, il quale stabilisce che “mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani sono propri”. In passato, sotto la vigenza del codice canonico 1917, parte prevalente della dottrina riteneva che il termine “persona” volesse dire “soggetto di diritto”. In realtà questo termine stava – e ancora oggi sta- ad indicare l’individuo umano membro della Chiesa. Tale termine non è assunto dal legislatore canonico in un senso strettamente tecnico-giuridico, per cui i non battezzati non sarebbero soggetti di diritto nell’ordinamento canonico. Tuttavia, sussistono anche ragioni sostanziali per sostenere che soggetto di diritto nell’ordinamento canonico non sia solo il battezzato. È indubbio che, a differenza dei fedeli, i non battezzati non godono nell’ordinamento canonico della pienezza della capacità giuridica; se non altro, essi hanno soggettività giuridica canonica perché attualmente destinatari di norme canoniche che conferiscono loro dei diritti: primo fra tutti quello di richiedere e ricevere il battesimo, che riflette la volontà di Cristo a che tutti gli uomini siano salvi. L’ordinamento canonico è aperto, nel senso che tutti gli uomini in potenza ne fanno parte. Cristo è venuto a salvare ogni uomo e la Chiesa è chiamata a portare il suo messaggio di salvezza a tutti. A fronte di questa attitudine però si pongono situazioni di parziale estraneità dall’ordinamento stesso, o meglio, di una soggezione solo potenziale. Il primo caso è dato da coloro che hanno ricevuto il battesimo, ma non fanno parte della Chiesa cattolica. Questo accade in previsione del can.205, il quale pone dei criteri per accertare la piena comunione con la Chiesa, cioè l’appartenenza ad essa, e costituiti dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico. Il battezzato che non professa la fede cattolica, cioè che non crede tutte le verità che sono contente nel deposito della fede e proposte dal magistero infallibile della Chiesa, così come il battezzato che non accetta uno o più dei 7 sacramenti. Dal can.205 discendono conseguenza importanti, a partire da quella della determinazione dell’ambito di obbligatorietà della legge ecclesiastica: questa infatti non si applica ai cristiani non cattolici, cioè ai battezzati che non appartengono alla Chiesa cattolica. Il secondo caso è costituto da coloro che non sono battezzati. Non sono soggetti all’ordinamento giuridico canonico, mancando del presupposto essenziale. Tuttavia, se sono soggetti a disposizioni di diritto naturale possono essere destinatari di norme canoniche. È questo il caso del matrimonio tra un battezzato cattolico ed un non battezzato che, se contratto senza dispensa, è invalido. Addirittura il non battezzato è legittimato in casi eccezionali ad amministrare il sacramento del battesimo, purché intenda fare ciò che fa la Chiesa: ciò significa che in tal caso egli è destinatario delle disposizioni canoniche che regolano l’amministrazione di tale sacramento. Il codice contiene una esplicita previsione normativa riguardante i catecumeni, cioè coloro che si stanno preparando nella dottrina cristiana, avendo fatto richiesta di ricevere il battesimo. Costoro pur non avendo ancora ricevuto il sacramento sono uniti da speciali vincoli alla Chiesa, sia in ragione della richiesta di esservi incorporati attraverso il lavacro battesimale, sia in ragione della vita di fede, di speranza e di carità che conducono. Infine, il codice fa una distinzione dei fedeli tra chierici, laici e religiosi. Nel can.207 è detto che “per istituzione divina vi sono nella Chiesa i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri fedeli sono poi chiamati laici. Dagli uni e dagli altri provengono i fedeli che, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa, sono consacrati in modo speciale a Dio e danno incremento alla missione salvifica della Chiesa”. A fronte della veduta eguaglianza fondamentale che accomuna tutti i battezzati nella Chiesa sussiste una ineguaglianza funzionale tra fedeli e una diversità per stati di vita. La prima e fondamentale diversità relativa alla struttura gerarchica che la Chiesa ha per volontà del suo fondatore parte dalle premesse che non si tratta soltanto di una forma di organizzazione di governo, ma comporta una partecipazione specifica al sacerdozio di Cristo. A tal proposito occorre ricordare quanto emerso nel Concilio Vaticano II, per il quale esiste un sacerdozio comune e un sacerdozio ministeriale o gerarchico. Essi, pur essendo ordinato l’uno all’altro partecipando ognuno a modo proprio all’unico sacerdozio di Cristo, tuttavia differiscono essenzialmente e non solo di grado. In ragione di questa differenza essenziale si giustifica una radicale differenza nella condizione giuridica tra fedeli laici e fedeli chierici: a quest’ultimi soltanto è dato un potere sulla Chiesa-Corpo Mistico di Cristo che è radicato nel potere sacramentale sul Corpo stesso di Cristo, che ha chiunque abbia ricevuto l’ordine sacro e appartenga alla categoria dei chierici. Peraltro tutti i fedeli sono giuridicamente eguali in quanto battezzati e hanno medesimi diritti e doveri nella missione della Chiesa. In ragione però del sacramento dell’ordine sacro, che solo alcuni di essi ricevono, nella Chiesa quindi si distinguono le posizioni giuridiche dei ministri sacri o chierici e laici dall’altro. Da tale distinzione discendono conseguenze giuridiche diverse, sia in relazione alla determinazione delle condizioni dei fedeli appartenenti all’una e all’altra categoria, sia in relazione alla disciplina delle funzioni. Ad esempio, il canone 129 stabilisce che solo i chierici sono abili alla potestà di governo, mentre i laici possono solo cooperare nell’esercizio della stessa. D’altra parte è proprio dei fedeli laici che vivono nel mondo di esercitare funzioni mondane. Mentre i chierici sono consacrati e destinati a servire il popolo di Dio. I fedeli laici hanno il compito di animare cristianamente le realtà temporali, facendo crescere il mondo in maniera conforme al disegno di Dio. L’ordine sacro distingue 3 gradi: diaconato, presbiterato ed episcopato. Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo Capo, i diaconi vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità. La seconda diversità tra i fedeli della chiesa deriva dalla sua struttura carismatica ed al tempo stesso istituzionale. Sotto questo profilo viene in rilievo una tripartizione: se si guarda al carisma, cioè il dono gratuito dello Spirito che abilita a chi lo accoglie ad un particolare servizio ecclesiale, si possono distinguere i chierici, cioè coloro che sono chiamati a svolgere il ministero sacro; i religiosi, cioè coloro che professando i consigli evangelici ed emettendo voti, scelgono una radicale sequele di Cristo rinunciando spontaneamente a ciò che pure è buono nella condizione umana. Infine i laici, cioè coloro che vivono da cristiani nel mondo, cercando di sviluppare le potenzialità positive e cominciando a costruire già ora il regno di Dio. Lo statuto giuridico comune: i doveri e i diritti fondamentali Nei canoni dal 208 al 223 è delineato lo statuto comune a tutti i fedeli – chierici, laici e religiosi – all’interno dell’ordinamento giuridico della chiesa. Per la prima volta nella storia della Chiesa il legislatore ha formulato in maniera organica “Obblighi e diritti di tutti i fedeli”, riflettendo così un preciso processo di maturazione della riflessione canonistica sul problema della configurabilità nell’ordinamento canonico di diritti e doveri fondamentali, cioè comuni a tutti e dotati di un certo grado di resistenza passiva all’abrogazione o alla derogazione, superiore rispetto a quello presentato da qualsiasi altra disposizione di legge. Le disposizioni sono aperte all’affermazione di un principio d’eguaglianza, il quale ha fatto formalmente ingresso nella legislazione canonistica con il codice ora in vigore. Il can.208 afferma che “fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti di ciascuno”. Questa affermazione risponde essenzialmente ai principi di ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Tuttavia, l’affermazione del principio di eguaglianza è strettamente connesso al manipolo di libertà, diritti e doveri fondamentali di tutti i fedeli. Giacché non vi possono essere libertà, doveri e diritti comuni se i fedeli non godono – in quanto tali – di una effettiva posizione di eguaglianza nell’ordinamento canonico. Sotto questo profilo, oggi, il diritto canonico non presenta più la Chiesa come una società giuridicamente organizzata per ceti; l’ordinamento giuridico canonico fa proprio il principio giuridico dell’eguaglianza di tutti i consociati, sicché le differenze di trattamento giuridico sul piano del diritto positivo discendono, non tanto dallo status, quanto dalle differenti funzioni che ciascuno è chiamato a svolgere. In ragione della partecipazione dei laici all’unica missione della Chiesa, essi hanno anche una loro specifica funzione nella Chiesa. I laici possono presiedere associazioni pubbliche di fedeli, vale a dire erette dall’autorità ecclesiastica ed aventi fini propri di questa; possono partecipare ai concili particolari e provinciali; possono prendere parte al sinodo diocesano. Quanto alla loro funzione nel mondo, i laici hanno il dovere di contribuire alla santificazione del mondo, oggetto si previsione normativa in diversi canoni. Il can.226, comma 1, dispone che coloro che vivono nello stato coniugale sono tenuti al peculiare obbligo di lavorare all’edificazione del popolo di Dio attraverso il matrimonio e la famiglia. Al can.227 è poi detto che è diritto dei fedeli laici a vedersi riconosciuta quella libertà nelle cose civili che spetta a tutti i cittadini. In particolare è prescritto come i laici si preoccupino di informare le proprie azioni allo spirito evangelico. Si tratta di norme di principio chiamate a costituire criteri di interpretazione delle più specifiche disposizioni riguardanti i fedeli laici. Tra queste, quelle sull’obbligo e sul diritto dei fedeli laici di conseguire una adeguata formazione religiosa. A proposito del matrimonio, il diritto canonico non tende più a definire il fedele laico in relazione allo status coniugale: in effetti il matrimonio è la condizione di vita più comune tra i laici, ma non esaurisce la condizione laicale. Nella disciplina del matrimonio e diritto di famiglia, il diritto vigente tiene conto di una duplice prospettiva, interna ed esterna alla società famigliare. All’interno della famiglia i coniugi debbono essere apostoli reciprocamente, con la testimonianza della fede e debbono essere i primi annunciatori di Cristo ai propri figli. Verso l’esterno, i coniugi devono offrire viva testimonianza della santità e della indissolubilità del matrimonio. La cooperazione dei laici alle funzioni gerarchiche I fedeli laici oltre ad avere un proprio modo di partecipare alla funzione profetica, sacerdotale e regale di Cristo, possono essere anche chiamati a collaborare con i ministri sacri, cioè chierici, all’esercizio delle 3 funzioni che di costoro sono proprie. Per quanto attiene alla funzione proferita, o di insegnamento, essa appartiene a tutto il popolo di Dio e ad ogni fedele, in ragione del carattere missionario della Chiesa. La funzione di insegnare è esercitata in modo ufficiale, autentico, autorevole, pubblico dai chierici. Esiste poi un modo non ufficiale e privato di esercitare la funzione di insegnare, che è quello proprio dei fedeli comuni. Tuttavia, esistono dei casi nei quali i fedeli laici sono chiamati a cooperare al munus docendi proprio della gerarchia. Il can.759, dopo aver affermato che i fedeli laici in forza del battesimo e della confermazione sono testimoni dell’annuncio evangelico con la parola e con l’esempio, precisa che essi possono essere chiamati a cooperare con il Vescovo e con i presbiteri nell’esercizio del ministero della Parola. Si configura una partecipazione del laicato all’insegnamento pubblico della Rivelazione divina. Con il can.766 si dispone che i laici possono in certe circostanze e a determinate condizioni predicare in una chiesa o in un oratorio, rimanendo esclusa solo l’omelia, forma eminente della predicazione, che facendo parte della liturgia è riservata ai chierici. Un altro caso di partecipazione dei fedeli laici alla funzione di insegnare si ha nelle associazioni pubbliche di fedeli aventi come scopo l’insegnamento della dottrina cristiana. Una modalità peculiare di cooperazione nella funzione di insegnare è rinvenibile nell’insegnamento scientifico e dottorale di una scienza sacra, in particolare della teologia. Difatti, il can.229, par.3 prevede che i laici idonei possono insegnare le scienze sacre. L’esplicito riferimento del diritto canonico al mandato da conferirsi da parte dell’autorità ecclesiastica significa che la funzione di insegnare è svolta in nome e nell’interesse dell’autorità stessa e che tale funzione è collegata al munus docendi della gerarchia. Quanto alla funzione di santificare gli uomini, o munus santificandi, per renderli partecipi della santità di Cristo e abilitarli a rendere a Dio il culto accettabile, è partecipata da ogni fedele in virtù del sacerdozio comune che a tutti discende in forza del battesimo. Una speciale funzione di santificazione, specie nella celebrazione dei sacramenti e nella preghiera liturgica spetta a quanti, avendo ricevuto l’ordine sacro, partecipano al sacerdozio di cristo con il sacerdozio gerarchico o ministeriale. Nel can.835 sono precisate le varie funzioni connesso con il munus santificandi. Nello stesso canone è poi distinta la peculiare forma in cui tutti i fedeli partecipano al munus santificandi in ragione del sacerdozio comune. È detto che nella funzione di santificare hanno una parte loro propria anche i fedeli comuni partecipando attivamente secondo modalità proprie nelle celebrazioni liturgiche. Il diritto canonico prevede anche casi nei quali i fedeli comuni possono cooperare alla funzione di santificare propria della gerarchia. Il can.230, p.1 dispone che i laici di sesso maschile, che abbiano l’età e le doti determinate dalla Conferenza episcopale possono essere stabilmente assunti mediante rito liturgico ai ministeri di lettori e di accoliti. Si tratta dei c.d. ministeri istituti, cioè ufficialmente determinati per speciali compiti e mansioni all’interno della comunità ecclesiale, distinti dai ministeri di fatto, che costituiscono una categoria aperta di servizi alla comunità ecclesiale, accessibili a determinate condizioni da tutti i fedeli. Più complessa è la funzione regale o di governo della Chiesa, la c.d. munus regendi. Occorre premettere che nel par.1 del can.129 è detto che sono abili alla potestà di governo, denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che hanno ricevuto l’ordine sacro, cioè i chierici, aggiungendosi che nell’esercizio della potestas regiminis i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto. A questa disposizione occorre aggiungere anche quella contenuta nel par.1 del can.228, per il quale i laici che risultano idonei sono giuridicamente abili ad essere assunti dai sacri pastori in quegli uffici ecclesiastici e in quegli incarichi che sono in grado di esercitare secondo disposizioni di diritto. L’ufficio ecclesiastico è qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione divina, da esercitarsi per un fine spirituale. Da questo se ne deduce che gli uffici ecclesiastici possono essere conferiti anche a laici. Dunque, tra questi occorre distinguere quelli strettamente clericali, che richiedono come condizione presupposta per la loro titolarità ed il loro esercizio la recezione dell’ordine sacro, e quelli meramente laicali per i quali non è richiesto l’ordine sacro. Si deve precisare che se non tutti gli uffici non strettamente riservati ai chierici comportano l’esercizio della potestas regiminis, tuttavia sussistono casi nei quali il diritto canonico configura la possibilità per i laici di affidare loro uffici ecclesiastici che comportano la titolarità ed esercizio di tale potestas, sia in ambito amministrativo che in quello giudiziario. Nell’ambito amministrativo si può ricordare, a titolo d’esempio, la partecipazione dei laici ai consigli pastorali; nell’ambito giudiziario si deve notare che i laici possono essere assunti all’ufficio di giudice e di uditore. In rapporto a quanto detto, non è agevole comprendere il senso del canone 274, per il quale solo i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio non richieda la potestà d’ordine o di governo ecclesiastico. Questa disposizione canonica sembra contraddire quanto precedentemente detto. Per sciogliere il problema interpretativo, una prima dottrina canonistica ha ritenuto che solo i chierici, in quanto insigniti nell’ordine sacro, avrebbero una abilità permanente alla potestas regiminis, sicché i laici potrebbero soltanto collaborare in qualche modo con i chierici nell’espletamento delle funzioni relative. Secondo altri sussisterebbe nella Chiesa una duplice giurisdizione: una sacramentale, quindi conferibile esclusivamente agli ordinati in sacris, l’altra non sacramentale, detta ecclesiale, che potrebbe essere conferita anche a chi non ha ricevuto l’ordine sacro, quindi anche ai laici. Una terza posizione sostiene che solo gli ordinati in sacris avrebbero nell’ordinamento canonico una pretesa giuridicamente tutelata ad ottenere uffici ecclesiastici implicanti la potestà d’ordine o di giurisdizione, giacché l’ordine sacro sarebbe conferito proprio a tale scopo. I laici, oltre a poter avere quegli uffici ecclesiastici non comportanti esercizio della potestas regiminis, potrebbero anche ottenere uffici ecclesiastici. Il dubbio posto dal can.274, par.1 tuttavia potrebbe essere più semplicemente sciolto ritenendo che, in via di principio e generale, gli uffici ecclesiastici che comportano esercizio della potestà di governo sono riservati ai soli chierici, fatta eccezione per i casi nei quali il diritto ammette anche fedeli laici ad uffici ecclesiastici con potestas regiminis. Si tratta di una potestà di governo per il cui esercizio non è necessaria la sussistenza del presupposto dell’ordine sacro. L’espressione contenuta nel can.129, par.1 starebbe piuttosto ad indicare la sussistenza possibile di forme di partecipazione non piena alla potestà in questione. Le associazioni di fedeli In nome del diritto di libertà di associazione, il codice detta un’ampia ed articolata disciplina del fenomeno associativo nella Chiesa. In particolare, nei cann.298-299 è sancito il diritto dei fedeli di formare associazioni per perseguire insieme fini di pietà, di culto, di apostolato, di carità; associazioni che possono essere erette, lodate o comandate dalla competente autorità ecclesiastica. Il codice distingue tra due tipi di associazione: private e pubbliche. Le associazioni private sono quelle istituite per iniziativa dei fedeli; le seconde sono quelle costituite direttamente su iniziativa delle autorità ecclesiastica o con lo scopo di insegnare la dottrina cristiana in nome della Chiesa, di incrementare il culto pubblico ovvero di perseguire altri fini che l’autorità ecclesiastica riserva alla propria competenza. Si tratta di una distinzione da ricollegare alla più generale distinzione operata dal codice canonico tra persone giuridiche private e persone giuridiche pubbliche, in ragione della quale in sostanza le persone private nascono per libera ed autonoma iniziativa dei fedeli, agiscono in nome proprio per il perseguimento delle finalità che liberamente si sono poste negli statuti; mentre, le persone giuridiche pubbliche sono costituite dalla competente autorità ecclesiastica, agiscono in nome di questa, esercitano funzioni autoritative ed entrano a comporre la struttura istituzionale della chiesa. La distinzione ha riflessi sul piano interno, cioè sulle loro attività, patrimonio. In particolare, i beni appartenenti a persone giuridiche pubbliche entrano a comporre il patrimonio ecclesiastico (bona ecclesiastica). Tra le disposizioni di carattere generale si devono ricordare la necessità di avere il consenso dalla competente autorità affinché una associazione di fedeli possa dirsi cattolica; la necessità di avere propri statuti, di prevedere modalità di iscrizione e dimissione dei soci. Alle associazioni di fedeli laici si applicano alcune disposizioni speciali. In particolare, è incoraggiata la loro costituzione per il perseguimento di fini spirituali, specialmente quelle che si propongono l’animazione cristiana. Coloro che presiedono associazioni di fedeli laici devono preoccuparsi di favorire la cooperazione con altre associazioni di fedeli, affinché siano di aiuto alle diverse opere cristiane, soprattutto quelle esistenti sullo stesso territorio. I responsabili di tali associazioni devono curare la debita formazione dei consociati nell’esercizio dell’apostolato loro proprio: non solo una formazione cristiana generale e specifica, ma anche una preparazione professionale specifica per quanto riguarda le attività sociali delle associazioni che svolgono diverse forme ecclesiali organizzate dal servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale. Preoccupazione dominante del provvedimento è quella di garantire l’identità cattolica delle organizzazioni caritative in questione, evitando improprie confusioni con altre realtà. Nell’art.1, par.3 del provvedimento è detto che “Oltre ad osservare la legislazione canonica, le iniziative collettive di carità a cui fa riferimento il presente Motu Proprio sono tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l’osservanza dei suddetti principi”. La tutela dell’identità avviene attraverso diverse disposizioni: la riserva dell’uso della denominazione cattolico, che può essere concessa solo dalla competente autorità ecclesiastica. Il dovere delle persone addette alle opere in questione di essere esemplari nella vita cristiana e di testimoniare la fede nell’esercizio delle opere. Infine, l’obbligo per le iniziative di carità soggette alla disciplina del Motu Proprio di seguire nella propria attività i principi cattolici. La disposizione si riferisce evidentemente a quelle attività socioassistenziali o sanitarie, assunte per propria iniziativa o per incarico di pubbliche istituzioni, i cui obiettivi possono essere raggiunti con modalità diverse. Caso diverso è quello in cui la prestazione stessa è contraria ai principi cattolici: si pensi all’attività di consulenza socio-psicologica o medica destinata all’aborto. In questo caso è specificamente interdetta agli organismi cattolici l’assunzione di impegni che comportino la prestazione di servizi che in qualche misura possano condizionare l’osservanza dei principi cattolici. IL GOVERNO DELLA CHIESA Premessa La Chiesa, costituita sulla terra come societas gerarchicamente ordinata, ha ricevuto dal suo Fondatore il compito di predicare il Vangelo a tutte le genti (munus docendi) e di amministrare i sacramenti, segni e strumenti della grazia divina che perpetuano la presenza di Cristo nella storia per la santificazione degli uomini (munus sanctificandi). Su questi elementi si fonda l’ordinamento ecclesiale, nel senso che questa missione e i mezzi di salvezza su cui essa si sviluppa differenziano la Chiesa da qualsiasi altra società o associazione. La sacra potestas Come ha precisato il C.V.II “Cristo Signore ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri. I ministri che sono rivestiti di sacra potestà servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza”. Nella Chiesa la sacra potestas, che discende dall’originario mandato apostolico e di cui sono titolari supremi il Collegio episcopale – del quale fanno parte tutti i Vescovi – e il Pontefice, si distingue in potestà d’ordine, potestà di magistero e potestà di giurisdizione, detti anche tria munera Ecclesiae, corrispondenti al triplice ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. In questa triplice potestà si manifesta il prolungamento dell’azione di Cristo nella Chiesa. Quindi, l’origine della S.P. discende dall’appartenenza al Collegio episcopale, successore del Collegio apostolico, cui si accede attraverso consacrazione episcopale e comunione gerarchica col Capo del Collegio e con le membra. Nella consacrazione è data una partecipazione dei sacri uffici o munera, ma perché si abbia una libera potestà, ossia libera nel suo esercizio, deve accedere la canonica o giuridica determinazione o missio canonica da parte dell’autorità gerarchica, che può consistere nell’attribuzione di un particolare ufficio o nell’assegnazione di una parte di fedeli per il loro governo pastorale. L’esercizio della potestas implica la comunione gerarchica col capo del Collegio e con le membra, con la quale si intende una realtà organica che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità. Il potere della Chiesa ha quindi carattere personale in forza della consacrazione, che imprime un carattere indelebile alla persona ordinata in sacris, ma al tempo stesso presenta una forte dimensione istituzionale in virtù degli stretti vincoli di comunione che legano tra loro i membri del Collegio episcopale e i loro più stretti collaboratori, i presbiteri. L’ordinato compimento di tria munera, o pubbliche funzioni, richiede una complessa organizzazione ecclesiastica, nella quale tali funzioni sono ripartite in distinte sfere di competenza la cui unità elementare e proiezione giuridica è costituita dal concetto di ufficio ecclesiastico, definito come “qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale”. La potestà d’ordine La potestà d’ordine è quella rivolta alla santificazione degli uomini mediante l’azione liturgica, l’amministrazione dei sacramenti e altri mezzi di grazia. Essa viene conferita mediante il sacramento dell’ordine e ha carattere personale, nel senso che viene conferita ad una persona imprimendo alla stessa un carattere indelebile. La sua peculiarità consiste nel fatto di conferire al suo titolare la facoltà di compiere segni sacramentali, la cui efficacia non dipende dalla qualità dei ministri, ma dal fatto che questi realizzano alcune funzioni specifiche dell’azione di Cristo come capo della Chiesa. La potestà di magistero La potestà di magistero consiste nel compito, ricevuto dalla Chiesa e affidato in modo particolare agli Apostoli e ai suoi successori (Pontefice, Vescovi e loro collaboratori, i presbiteri), di “predicare il Vangelo a tutte le genti” e di “annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale”. Si tratta di un duplice compito: a) l’annuncio della verità rivelata che Cristo ha affidato alla Chiesa perché la custodisse santamente; b) la riaffermazione di quei principi morali, insiti nella natura dell’uomo e nel profeto divino della creazione. Un tempo la potestà di magistero si rivolgeva essenzialmente ai credenti per insegnare loro le verità di fede. Oggi il magistero della Chiesa tende sempre più di frequente a rivolgersi anche all’esterno della comunità dei credenti, per riaffermare principi morali che per la dottrina cristiana sono fondati sulla natura stessa dell’uomo (esempio: problemi di bioetica, condizione della donna, limiti della ricerca scientifica). In questa prospettiva il magistero tende ad attenuare i propri originari caratteri di potestas, divenendo il principale strumento o canale di dialogo con la cultura contemporanea. All’interno della Chiesa tutti i fedeli hanno il diritto e il dovere di contribuire all’annuncio della salvezza, il che vale particolarmente per i laici, impegnati nei vari ambiti della realtà temporale. La potestà di giurisdizione La potestà di giurisdizione o potestas regiminis è il potere di governare i fedeli nella vita sociale della Chiesa. In passato un processo di progressiva assimilazione della Chiesa agli Stati aveva portato ad una sostanziale divaricazione tra potestà d’ordine, riservata agli ordinati in sacris, e quella di giurisdizione, per la quale ultima, in quanto ritenuta funzionale alle esigenze di governo della societas cristiana, non si riteneva di per sé nemmeno necessario il conferimento previo della prima. Come detto precedentemente, l’origine della sacra potestas discende dall’appartenenza al Collegio episcopale, successore del Collegio apostolico che conferisce la pienezza dell’ordine. Anche la potestà di giurisdizione risulta legata alla dimensione ontologica del sacramento dell’ordine. Questa caratteristica segna in modo peculiare il sistema di governo della Chiesa, il cui ordinamento si sviluppa essenzialmente sulla base del sacramento dell’ordine, riservando agli ordinati in sacris gli uffici con potestà di governo. Una tecnica di trasferimento delle funzioni largamente utilizzata nell’organizzazione ecclesiastica è realizzata dall’istituto della delega dei poteri, attraverso la quale una parte delle funzioni inerenti ad un ufficio di governo vengono affidate ad un altro soggetto perché le svolga in nome o per conto del primo. Si distingue tra potestà ordinaria e potestà delegata. La potestà ordinaria è quella che dallo stesso diritto è annessa a un ufficio e può essere propria, se esercitata dalla persona titolare dell’ufficio, o vicaria, se esercitata in rappresentanza di altri, vale a dire se spettante in virtù di un ufficio costituito per esercitare funzioni in nome di un altro ufficio, con la possibilità sempre riconosciuta a quest’ultimo di avocare a sé la competenza decentrata agli uffici con potestà ordinaria vicaria. Con ciò non si deve però pensare che il funzionamento e l’operatività del Concilio ecumenico dipendano dall’applicazione del mero principio di maggioranza. Ogni espressione della collegialità episcopale va coniugata con la concezione della Chiesa come comunione, che implica una forte aspirazione all’unità, destinata ad esprimersi all’interno del Collegio nella ricerca di una tendenziale unanimità, di cui pure è garante il Pontefice, nelle decisioni che coinvolgono tutta la Chiesa. • Il Romano Pontefice Il R.P. è Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro e che deve essere trasmesso ai suoi successori. In forza di questo suo primo titolo il Papa è titolare dell’ufficio episcopale sulla diocesi di Roma, che esercita attraverso il Cardinale vicario e gli uffici del Vicariato di Roma. In quanto successo di Pietro, egli è “capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”. Come capo del Collegio episcopale, gli competono le funzioni all’interno del Collegio; come vicario di Cristo egli è titolare di una potestà ordinaria vicaria o ministeriale, che ha il suo fondamento in una diretta concessione divina e che va distinta dalla suprema potestà di governo su tutta la Chiesa universale. Infine, il pontefice è Pastore della Chiesa universale e in forza di questo ufficio egli ha la potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, il che significa che non incontra limiti in alcuna altra autorità umana, ma non che tale potestà sia illimitata, in quanto essa incontra i limiti derivanti dal rispetto del diritto divino, naturale e rivelato, e in particolare di quelle sue disposizioni attinenti alla costituzione gerarchica della Chiesa e alla salvaguardia del depositum fidei ad essa affidato. Il primato della potestà ordinaria si estende su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti. Nell’esercizio del munus di supremo pastore della Chiesa egli è poi sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa. A differenza dell’episcopato, l’ufficio del Sommo Pontefice ha carattere elettivo: ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. All’elezione del Papa procede il collegio dei cardinali riuniti in conclave, al quale hanno diritto di partecipare tutti i cardinali che non abbiano ancora compiuto ottant’anni. La materia è già ora disciplinata dalla costituzione apostolica Universi Dominici gregis, promulgata da Giovanni Paolo II nel 1196, che innovando la precedente disciplina per adeguarla alle nuove esigenze ha disposto che il Conclave si svolga nella Città del Vaticano in settori ed edifici determinati, chiusi agli estranei. Alcune modifiche e integrazioni sono state apportate da Benedetto XVI, il cui primo provvedimento emendato prevede che, dopo una serie di scrutini infruttuosi, vadano votati soltanto i nomi dei due cardinali che nell’ultimo scrutinio abbiano ottenuto il maggior numero di voti: questi due soggetti, se cardinali, non possono più votare e sarà eletto chi raggiungerà la maggioranza dei 2/3. Con un altro provvedimento, Benedetto XVI ha disposto che il Sacro Collegio dei cardinali possa anticipare l’inizio del conclave senza necessariamente attendere i rituali 15giorni, se consta della presenza di tutti i cardinali elettori. La sede apostolica diviene vacante per morte del papa o per sua legittima rinuncia all’ufficio. La rinuncia è avvenuta raramente, tuttavia l’eventuale rinuncia, per essere valida, deve essere fatta liberamente e debitamente manifestata. • La Curia romana Nell’esercizio delle sue funzioni di governo sulla Chiesa universale, il Pontefice è assistito dalla Curia romana, cioè quel complesso di organi e autorità che costituiscono l’apparato amministrativo della S.S. che coordina e fornisce l’organizzazione necessaria per il corretto funzionamento. È composta da dicasteri e altri organismi coordinati dalla Segreteria di Stato, cui presiede il cardinale Segretario di Stato, nominato dal Pontefice e suo principale collaboratore. La curia romana è attualmente disciplinata dalla costituzione apostolica Praedicate Evangelium di Papa Francesco del 2022. Essa rappresenta il punto di arrivo di un percorso riformatore iniziato nel 2013 quando il Pontefice ha costituito un Consiglio ristretto di cardinali al fine di studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor Bonus. La Praedicate Evangelium ha assemblato organicamente in un'unica fonte del diritto i numerosi provvedimenti che durante il pontificato di Benedetto 16 e quello di Francesco hanno aggiornato singoli comparti della curia romana. Un primo aspetto su cui si concentra la riforma è quello della missionarietà. La curia romana è chiamata ad annunciare e a testimoniare il vangelo e la misericordia di dio nel momento in cui si svolge le sue attività (art.3 e art.5). I primi articoli della P.E. si soffermano sull'indole pastorale delle attività curiali per rimarcare le peculiarità di queste ultime e manifestino l'esigenza che il personale della uria romana oltre alla dedizione e alla rettitudine di vita sia al contempo qualificato affinché operi con professionalità (art.7). Un ulteriore tratto distintivo della curia Romana voluta da Francesco è la sinodalità in modo da sviluppare prassi informate al dialogo e al confronto. Il metodo sinodale deve proiettarsi anche ad extra curiae ma pur sempre ad intra Ecclesiae cosi da realizzare un altro principio cardine della riforma. Il punto più innovativo della riforma concerne il ruolo dei laici nelle strutture di governo apicale della chiesa. In Forza del principio di eguaglianza battesimale curiale Compie la propria missione in virtù della potestà ricevuta dal romano pontefice in nome del quale opera con potestà vicaria nell’esercizio del suo munus primaziale. Per tale ragione qualunque fedele può presiedere un dicastero o un organismo. Mediante tale affermazione il legislatore sempre a prendere posizioni circa la complessa questione dottrinale relativa alle relazioni tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis: stabilendo che pure i laici se uomini che donne possono esercitare quest’ultimo nell’ambito della curia romana. Tale apertura dirimerebbe la questione della capacità dei laici di ricevere uffici che comportano l’esercizio della protesta di governo nella chiesa purché non richiedano la ricezione dell’ordine sacro e indirettamente avvallerebbe la conclusione che la potestà di governo nella chiesa non viene dal sacramento dell'ordine ma dalla missione canonica. Segue: le istituzioni curiali Tra gli obiettivi perseguiti dalla riforma vi è quello di razionalizzare tanto il numero dei castelli preesistenti quanto le funzioni attribuite alle istituzioni curiali con l'obiettivo di evitare sovrapposizioni di competenze e di rendere il lavoro più efficace. Il vero il confronto tra Pastor Bonus e predicate Evangelium rivela come il numero degli enti curiali non sia stato ridotto: se la costituzione del 1988 ne annoverava 28 quella vigente ne annovera 29. Lo sforzo razionalizzatore si è concentrato sui pontifici consigli: 9 confluiti in nuovi dicasteri anteriormente istituiti da Francesco oppure uniti ad ex congregazioni della curia romana. Predicate Evangelium rimedi le anteriori categorie strutturali congregazioni tribunali pontifici consigli ed uffici ora secondo l’espressione istituzione curiale per indicare la segreteria di stato i di castelli gli organismi di giustizia e quelli economici. In particolare la costituzione apostolica prevede: a) Segreteria di Stato, che coadiuva il Sommo Pontefice, favorisce il coordinamento tra dicasteri, organismi e uffici senza pregiudizio della loro autonomia (Prima Sezione), cura i rapporti con gli Stati e Organizzazioni internazionali (Seconda Sezione), sovraintende al personale diplomatico della Santa Sede (Terza Sezione). b) Dicasteri , che corrispondono ad una sorta di ministeri nel governo della Chiesa universale. Predicate Evangelium introduce un'innovazione in quanto antepone nell'enumerazione dei dicasteri per le romano pontefice che si occupa delle questioni fondamentali dell'evangelizzazione e dello sviluppo di un efficace annuncio del vangelo, nonché della cosiddetta missione ad gentes nei territori di prima evangelizzazione. Segue poi il dicastero per la dottrina della fede. Ad esso spetta a promuovere tutelare la dottrina sulla fede e i costumi in tutta la chiesa aiutando il papa e vescovi nell’annuncio del vangelo del mondo. Tra i dicasteri figura quello per il servizio della carità a riprova di come Francesco abbia cuore questa istituzione curiale che esprime uno degli aspetti più peculiari del ministero petrino. Sono poi definite le competenze del culto divino e la disciplina dei sacramenti, delle cause dei santi, per i vescovi, per il clero, per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, per il laici, la famiglia e la vetta, per la promozione dell’unità dei cristiani, per il dialogo interreligioso, per la cultura e l’educazione, per il servizio della Il gruppo umano integrale e per la comunicazione. Infine vi è il dicastero per i testi legislativi che promuove di fondo nella chiesa la conoscenza e l’accoglienza del diritto canonico della chiesa latina è quello delle chiese orientali. c) Organismi di giustizia, in particolare la Penitenziaria apostolica, competente per le materie che concernono il foro interno e le indulgenze, che peraltro non può considerarsi un tribunale in senso proprio in quanto vi si ricorre non per chiedere giustizia ma per implorare una grazia; il Supremo Tribunale della Segnatura apostolica rappresentala massima istanza della giustizia amministrativa nella Chiesa, risolve i conflitti di competenza tra tribunali e i vari dicasteri della Curia e vigila sulla corretta amministrazione della giustizia all’interno della Chiesa; il Tribunale della Rota romana, organo superiore di giustizia nell’ordinamento della Chiesa e garante dell’unitarietà della giurisprudenza canonica. d) Organismi economici. La ribadisce la nuova struttura di coordinamento vigilanza e controllo degli affari economici e amministrativi della santa sede costituita con il moto proprio fidelis dispensator et prudens articolata in consiglio per l'economia segreteria per l'economia e ufficio del revisore generale. Segnatamente al consiglio per l’economia compete la vigilanza sulle strutture e le attività amministrative finanziarie delle istituzioni curiali e degli uffici, delle istituzioni collegate con la santa sede o che fanno riferimento ad essa mentre la segreteria per l’economia svolge la funzione di segreteria papale esercitando il controllo in materia amministrativa economica e finanziaria di tali enti e provvedendo a tutto ciò che riguarda la posizione e la gestione lavorativa del personale dei collaboratori degli enti soggetti alla legislazione proprio della santa sede. L’ufficio del revisore generale si occupa della revisione contabile sede di bilancio annuali dei singoli enti sia del bilancio consolidato della santa sede. Tali organismi si collocano accanto all'APSA che mantiene le fondamentali e tradizionali attribuzioni di amministrazione del patrimonio immobiliare e immobiliare della santa sede al fine di reperire le risorse La nomina o promozione al Collegio cardinalizio spetta al pontefice, che sceglie liberamente a tal fine gli uomini costituti almeno nell’ordine del presbiterato e che si siano distinti in modo eminente per dottrina, costumi e prudenza. Il Pontefice procede alla nomina dei cardinali mediante proprio decreto, ovvero mediante la c.d. nomina in pectore, con cui il Pontefice ne annuncia pubblicamente la creazione riservandosi il nome. I Cardinali prestano principalmente aiuto con attività collegiale al Pontefice nei Concistori, nei quali si riuniscono su convocazione del Papa e sotto la sua presidenza. Nel Concistoro ordinario vengono convocati tutti i Cardinali, almeno quelli che si trovavano a Roma, per essere consultati su qualche grave questione di più comune accadimento o per compiere determinati atti della massima solennità, ed in quest’ultimo caso esso può essere pubblico e vi possono essere ammessi anche prelati, rappresentanti delle società civili e altri invitati. Il Concistoro straordinario, cui sono convocati tutti i Cardinali, si celebra quando lo suggeriscono peculiari necessità della Chiesa o la trattazione di questioni particolarmente gravi. In forza dell’obbligo di collaborazione assidua con il Pontefice, il codice prevede che i Cardinali che ricoprono qualsiasi ufficio nella Curia romana e non siano Vescovi diocesani sono tenuti all’obbligo di risiedere nell’Urbe. IL MATRIMONIO Premessa La Chiesa, per il raggiungimento del suo fine, utilizza mezzi che si classificano in due diversi ordini: l’insegnamento e la santificazione. Con l’insegnamento vengono trasmesse le verità rivelate e i principi morali, costituisce un vero diritto e dovere della Chiesa, definito “nativo” perché originario e coessenziale alla stessa natura dell’istituzione ecclesiastica (can. 747). Questo comporta la predicazione evangelica a tutte le genti, l’annuncio dei precetti morali, l’espressione del giudizio morale su qualsiasi realtà umana. La funzione di insegnare (munus docendi) costituisce una manifestazione della potestà di magistero o potestas magisterii; essa viene esercitata attraversi il magistero ecclesiastico, cioè l’ufficio di interpretare ed esporre la parola di Dio con autorità da parte del Papa e dei Vescovi. Questa funzione viene esplicitata in modi diversi: con la predicazione, la catechesi, l’azione missionaria, l’educazione cattolica nella famiglia, nelle scuole e nelle università cattoliche, attraverso le pubblicazioni e gli altri mezzi di comunicazione sociale. Tutto questo viene disciplinato nel Libro III del codice di diritto canonico. L’altra funzione, di santificazione o munus sanctificandi, si riferisce alla potestà d’ordine o potestas ordinis. Si esplicita attraverso l’amministrazione dei mezzi soprannaturali che Cristo ha affidato alla Chiesa, cioè i sacramenti: battesimo, confermazione (cresima), eucaristia, penitenza (confessione), unzione degli infermi, ordine sacro, matrimonio. Attraverso i sacramenti si rende culto a Dio e si opera la santificazione degli uomini; insieme ai sacramenti abbiamo poi i sacramentali, le esequie ecclesiastiche, il culto dei santi. Tutto questo viene disciplinato nel Libro IV del codice. Il sacramento del matrimonio è sempre quello oggetto di speciale attenzione poiché è l’unico preesistente all’istituto di questi mezzi di grazia. Si tratta infatti di un istituto naturale, che tra i battezzati è stato elevato da Cristo alla dignità di sacramento (can. 1055). Lo stato matrimoniale è lo stato di vita più diffuso tra i fedeli, da qui l’interesse della Chiesa per un sacramento che sostiene quei christifidelis (laici) che sono chiamati a santificarsi nel mondo e ad animare cristianamente l’ordine temporale. Il matrimonio come istituto naturale Il matrimonio è un istituto comune a tutti gli uomini e ha una struttura essenziale non mutevole. Il mutare della storia, infatti, incide sulla concreta configurazione socio-giuridica di questo istituto ma solo in elementi non essenziali e di contorno. Per comprendere meglio la struttura del matrimonio possiamo fare riferimento alla Sacra Scrittura, un testo scritto per un popolo semplice, e in particolare al libro della Genesi in cui troviamo la struttura del matrimonio come istituto naturale in quattro passaggi: • “non è bene che l’uomo sia solo”: mette in evidenza la consapevolezza della propria difettività e debolezza, quindi l’esigenza di rapportarsi con gli altri; manifesta la natura relazionale dell’uomo nel senso che nessuno è capace di piena autonomia ma tutti hanno bisogno dell’aiuto e della solidarietà degli altri; questo passo apre il racconto della creazione della donna e indica il superamento della condizione di difettività in una relazione uomo-donna caratterizzata dalla complementarietà; quindi la relazione nuziale tra l’uomo e la donna è la relazione fondamentale. • “i due formeranno una sola carne”: “una caro”, carne della stessa carne, ossa delle stesse ossa; sottolinea il superamento del limite individuale e l’aspetto donativo del rapporto tra uomo e donna nel matrimonio; è una relazione che va sino alla più profonda intimità, nella quale si supera il limite di ciascun individuo nel vicendevole completamento tra marito e moglie; il matrimonio deve essere considerato come una liberazione dai limiti che segnano la condizione di ogni individuo. • “crescete e moltiplicatevi”: indica la continuità nel tempo; il processo di approfondimento della coscienza di se stessi, detto personalizzazione, non è completo se resta in balia del tempo ma deve affermarsi oltre il tempo, che quindi è oggettivamente un limite; la finalità procreativa del matrimonio indica il soddisfacimento del bisogno di ogni uomo di durare nel tempo. • “per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre”: acquisita la maturità, l’uomo va incontro al mare grande della vita, ma lasciare suo padre e sua madre lo metterà nella condizione di essere solo e gli farà avvertire la debolezza dell’essere solo e il bisogno dell’altro. Il circolo si chiude. Il libro sacro svela in parole semplici è una struttura fondamentale che caratterizza il matrimonio. Il matrimonio risulta costituito da una ragione oggettiva che si manifesta nella natura cioè da una struttura di fondo immutabile e in parte da una dimensione storica e contingente sulla quale opera il legislatore umano. Per quanto attiene agli elementi della struttura naturale del matrimonio si può sommariamente indicare il fatto di essere un rapporto fondamentale costituitosi attraverso un atto formale tra un uomo e una donna. In secondo luogo sono da indicare le finalità solidaristiche sia a livello orizzontale tra quell'uomo e quella donna sia a livello verticale tra le generazioni. Da ultimo la finalità procreativa intesa nel senso più pieno vale a dire non limitata alla mera riproduzione biologica ma anche alla ben più impegnativa e rilevante in missione di condurre a pienezza umana le nuove vite. Dunque il matrimonio possiede una struttura di base non modificabile nel tempo. Il matrimonio sacramento Il matrimonio sacramento è un patto mediante il quale l’uomo e la donna pongono in essere un consorzio per tutta la vita. Se il matrimonio è elevato a sacramento significa che il matrimonio validamente contratto tra battezzati produce gli effetti della grazia sacramentale. La dottrina sul matrimonio è stata elaborata dal Concilio di Trento, essa indica che tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia esso stesso un sacramento (can. 1055). Quindi contratto e sacramento non sono opposti ma dal contratto scaturiscono effetti sacramentali. Il matrimonio è l’alleanza fra un uomo ed una donna che danno vita ad una comunità di vita e di amore, ordinata al bene dei coniugi ed alla procreazione ed educazione dei figli (can. 1055). Per assumere pienamente queste finalità, le caratteristiche essenziali del matrimonio sono: l’unità, esclusione della poligamia, e l’indissolubilità, l’impossibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale durante la vita dei coniugi. I fini e le proprietà del matrimonio sono considerati i “bona matrimonii”, espressione derivata da s. Agostino che parla di “bonum prolis, fidei et sacramenti” cioè i tria bona, che nello specifico riguardano la sostanza del matrimonio: il “bonum prolis“ attiene alla procreazione ed educazione della prole; il “bonum fidei” alla fedeltà vicendevole tra i coniugi; il “bonum sacramenti” alla indissolubilità. Il Concilio Vaticano II con la costituzione pastorale “Gaudium et spes” parla del matrimonio come intima comunità di vita e di amore e ha rivalorizzato il rapporto interpersonale, sottolineando la connessione tra la felicità dell’individuo nella società e il buon rapporto coniugale. • l'ignoranza L’ignoranza è l’insufficiente conoscenza di cos’è il matrimonio e cosa comporta. Secondo il can. 1096 è necessario che i contraenti sappiano almeno che il matrimonio è la comunità permanente tra l’uomo e la donna, ordinata alla procreazione della prole mediante una qualche cooperazione sessuale. Essendo il matrimonio un rapporto al quale l’uomo è incline per natura, acquisisce in via autonoma la conoscenza essenziale di che cosa il matrimonio sia e comporti. Quindi è richiesta una consapevolezza non specifica ma solo degli elementi essenziali: l’unione solidale tra uomo e donna, la sua durata nel tempo, la sua apertura alla procreazione attraverso il rapporto sessuale. E’ una conoscenza minimale ma sufficiente ad individuare l’oggetto specifico che si presume sussistere in ogni persona dopo la pubertà, cioè dopo la pubertà (14 anni per la donna, 16 anni per l’uomo) non c’è più ignoranza ma una piccola conoscenza • l'errore Esiste il vizio per errore di diritto (error iuris) o per errore di fatto (error facti). L’errore di diritto riguarda le proprietà essenziali e la sacramentalità del matrimonio. Il can. 1099 afferma che l’errore circa l’unità o l’indissolubilità o la dignità sacramentale del matrimonio non vizia il consenso matrimoniale, purché non ne determini la volontà. Quindi se l’errore riguarda solo la conoscenza delle proprietà e dei fini del matrimonio è irrilevante giuridicamente. Diviene causa di invalidità quando, dalla sfera intellettiva, si passa in quella volitiva determinando così il consenso. Ad esempio l’erronea convinzione che il matrimonio sia dissolubile incide se viene ad oggettivarsi nella volontà, allora l’errore diviene rilevante invalidando il consenso. L’errore di fatto invece riguarda la persona dell’altro contraente il matrimonio, ad esempio è l’errore sull’identità fisica della persona che rende invalido il matrimonio (can. 1097) perché il consenso è viziato in ragione del fatto che il matrimonio riguarda una persona concreta e determinata. Più complesso è il caso dell’errore su una qualità della persona, perché in genere questo errore non incide sulla validità. Qualora la qualità della persona sia voluta direttamente e principalmente all’atto di esprimere il consenso, il matrimonio è nullo (can. 1097), in questo caso la qualità diventa l’oggetto del consenso matrimoniale. Un caso particolare è l’error redundans in errorem personae, cioè errore sulle qualità della persona che diviene errore di persona; è una fattispecie contemplata nel codice del 1917 ma non più in quello vigente anche se è tuttora giuridicamente configurabile • il dolo Il dolo (can. 1098) è stato inserito nell’ultimo Codice (1983) perché in passato non si riteneva opportuno dare importanza a questo vizio poiché la maggior parte dei matrimoni erano basati su questo. Il consenso è viziato quando si pone in essere dolosamente un inganno, cioè il contraente venga indotto in errore su una qualità dell’altra parte e per ciò presti il consenso. La qualità può essere fisica, morale, sociale ecc. ma deve essere essenziale per il matrimonio o deve avere una natura tale da turbare gravemente la vita coniugale. Il dolo può essere posto dall’altra parte contraente o da una terza persona, può consistere in un comportamento attivo o anche passivo od omissivo, purché esplicitamente diretto ad indurre in errore. Un esempio può essere il caso di sterilità taciuta con inganno all’altra parte per evitare il sottrarsi di quest’ultima al matrimonio. E’ una disposizione di diritto umano o di diritto divino? Esistono due teorie: di diritto umano perché posta dal legislatore, di diritto naturale perché il consenso non è prestato validamente. • la violenza e il timore Nessuno può validamente obbligarsi se non liberamente, questo principio si collega al diritto fondamentale del fedele ad essere immune da qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita (can. 219). Di conseguenza un consenso matrimoniale estorto con violenza o timore non è valido. Nel caso della violenza fisica, il consenso viene addirittura a mancare (can. 125). Più frequente è il caso della violenza morale o del timore (metus), qui il consenso sussiste ma è viziato (can. 125). Per provare l’invalidità occorre che la violenza sia: oggettivamente grave, tale da annullare la libertà di determinazione; incussa dall’esterno; prodotta dal comportamento volontario di un’altra persona e non da eventi naturali; efficace, cioè colui il quale subisce la violenza ha come unica via per sottrarsi ad essa il matrimonio. Una fattispecie particolare è il timore reverenziale (metus reverentialis), che si produce in un rapporto caratterizzato da vincoli di dipendenza affettiva o psicologica. La caratteristica di questo metus è che non produce elementi di violenza fisica o morale, ma condizionamenti del consenso derivanti da ricatti affettivi o da abusi di autorità. Le preghiere, le suppliche, le espressioni di dolore o di disappunto, i ricatti psicologici, sono fattori che costringono un soggetto a contrarre matrimonio. Ordinariamente questi fattori non invalidano un matrimonio, ma quando oggettivamente diventano forme di pressione gravi e soggettivamente vengono da persone con forte personalità allora possono invalidare un matrimonio • la simulazione Si parla di simulazione (can. 1101) quando ricorra una divergenza tra la manifestazione esterna del consenso matrimoniale e l’interno volere, esternamente si esprime la volontà di contrarre matrimonio ma internamente non si vuole. In questo caso il nubendo vuole un matrimonio diverso rispetto a quello che intende la Chiesa, quindi vi è una finzione del consenso. La simulazione può essere totale o parziale: totale quando non si vuole il matrimonio o si vuole per finalità diverse; parziale quando la volontà del soggetto è diretta a costituire il matrimonio ma con esclusione di elementi essenziali. La fattispecie si verifica quando esternamente il nubendo esprime il consenso matrimoniale, ma internamente esclude l’unità del matrimonio (bonum fidei), o la sua indissolubilità (bonum sacramenti), o il bene dei coniugi (bonum coniugum), o la generazione della prole (bonum prolis), o il valore della sacramentalità. La simulazione può essere bilaterale o unilaterale (riserva mentale); la simulazione unilaterale è giuridicamente irrilevante in diritto civile, lo è invece in diritto canonico. Perché il matrimonio sia invalido per simulazione non è sufficiente una generica intenzione contro il matrimonio, bensì ci vuole un atto positivo di volontà diretto ad escludere il matrimonio stesso. Secondo il can. 1101 il consenso interno dell’animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel celebrare il matrimonio, si ha cioè la presunzione di conformità della dichiarazione esterna alla volontà interna. Si tratta di una praesumptio iuris, cioè una congettura probabile di un fatto incerto stabilito dalla legge, inoltre è una presunzione iuris tantum poiché ammette la prova contraria. La presunzione è da collegare al can. 1060 in cui è consacrato il principio del favor matrimonii, cioè in caso di dubbio si debba stare, fino a prova contraria, per la validità del matrimonio. La presunzione risponde ad un dato di comune esperienza, poiché normalmente c’è coincidenza tra manifestazione esterna ed interno volere, quindi qualunque consenso si deve ritenere conforme alla sua manifestazione esterna, purché sia intervenuta la species seu figura matrimonii • la condizione Il consenso si può viziare a causa di una condizione, per cui la validità o meno del contratto matrimoniale dipende dalla sussistenza di una determinata circostanza (can. 1102). Il diritto canonico esclude la validità del matrimonio contratto con condizione propria, cioè condizione de futuro con effetti sospensivi, perché non si possono lasciare in sospeso gli effetti giuridici e spirituali del matrimonio-sacramento al verificarsi futuro ed incerto di un determinato fatto. Un caso particolare è quello della condizione potestativa, la quale riguarda un fatto la cui realizzazione dipende dalla volontà dell’altra parte. Invece il caso della condizione de futuro con effetti risolutivi è una condizione al verificarsi della quale il matrimonio verrebbe meno, quindi in realtà si verserebbe in una simulazione per esclusione della indissolubilità. Viceversa il diritto canonico ammette la celebrazione del matrimonio sotto condizione passata o presente, per cui il matrimonio è valido o meno a seconda se sussista o meno il fatto dedotto in condizione (can. 1102). La ragione per cui il diritto canonico ammette rilievo giuridico alla condizione è di garantire il reale consenso degli sposi. L’apposizione di condizioni de praeterito o de praesenti costituisce tuttavia un elemento di grave turbativa del consenso e del bene spirituale degli sposi, per questo esiste una disposizione nello stesso can. 1102 secondo cui non si può porre la condizione se non con la licenza scritta dell’Ordinario del luogo. Tale licenza è richiesta ad liceitatem e non ad validitatem, quindi il matrimonio contratto sotto condizione passata o presente senza detta licenza sarebbe illecito ma non invalido. Gli impedimenti Gli impedimenti sono fatti o circostanze che rendono la persona inabile a contrarre matrimonio validamente (can. 1073). Si classificano in dirimenti (rendono invalido il matrimonio) e impedienti (lo rendono illecito ma non invalido), il codice del 1983 contempla però solo i dirimenti. Si distinguono in impedimenti di diritto divino o di diritto ecclesiastico: i primi sono dichiarati tali dalla suprema autorità della Chiesa (can. 1075) e non possono mai essere dispensati; i secondi sono sempre posti dalla stessa autorità suprema (can. 1075) però possono essere dispensati. Nel primo caso la suprema autorità svolge una funzione magistrale (munus docendi) cioè l’insegnamento dei limiti posti dal legislatore divino, nel secondo caso svolge il proprio munus regendi ponendo ulteriori ostacoli alla celebrazione del matrimonio. Il potere di stabilire impedimenti è riservato alla suprema autorità ecclesiastica, quindi gli impedimenti sono legislativamente predefiniti e le norme che li contemplano sono soggette ad interpretazione restrittiva così il legislatore canonico particolare non può porre nuovi impedimenti o derogare impedimenti vigenti (cann. 1075 e 1077); per lo stesso motivo non è ammessa in materia di impedimenti la consuetudine (can. 1076). che l’ha rapita. Ci sono due requisiti: è la donna che deve essere rapita, l’autore deve agire con l’intento di contrarre matrimonio. • il crimine Questo impedimento sorge nel caso di coniugicidio. Per il can. 1090 esistono due diverse fattispecie: il caso di chi uccide (o fa uccidere) il coniuge di un’altra persona con cui vuole contrarre matrimonio o il proprio; il caso di coloro che hanno cooperato fisicamente o moralmente all’uccisione del coniuge di uno dei due, anche se non al fine di sposarsi. La ragione di questo impedimento è la tutela della vita e la salvaguardia della positività del modello matrimoniale. E’ un impedimento di diritto ecclesiastico e quindi è dispensabile, ma la gravità ha indotto il legislatore a riservare alla Santa Sede il potere di dispensa. • la consanguineità e l'affinità L’impedimento di consanguineità riguarda tutti coloro che discendono da un antenato comune. Secondo il can. 1091 è nullo il matrimonio contratto tra consanguinei in linea retta, in qualsiasi grado; quello contratto tra consanguinei in linea collaterale è nullo fino al quarto grado incluso (fratelli, zio e nipote, cugini primi). E’ un impedimento di diritto divino e quindi non dispensabile. Secondo il can. 1094 c’è il divieto di contrarre matrimonio a coloro che sono uniti, in linea retta o nel secondo grado della linea collaterale, da parentela sorta da adozione. Questo impedimento è detto di parentela legale e nasce dal fatto che l’adozione conferisce all’adottato lo stato di figlio legittimo riconosciuto dal diritto canonico; è un impedimento di diritto umano quindi dispensabile anche se è molto difficile. L’affinità è il vincolo che sussiste tra il coniuge e i consanguinei dell’altro coniuge. E’ riservato in linea retta ai consanguinei dell’altro coniuge legati a quest’ultimo da un rapporto di discendenza l’uno dall’altro, altrimenti è in linea collaterale. Per il can. 1092 l’affinità in linea retta rende nullo il matrimonio in qualunque grado; è un impedimento di diritto ecclesiastico e quindi è dispensabile. Il sistema romanistico ci ha tramandato che l’impedimento di consanguineità è infinito in linea retta (padre, figlio, nonno) mentre in linea collaterale fino al quarto grado incluso (dal codice del 1983) e indica tutti quelli che hanno in comune un capostipite. • la pubblica onestà La pubblica onestà (publica honestas) è un impedimento che nasce dal matrimonio invalido in cui c’è stata vita comune, cioè il matrimonio putativo, o da concubinato pubblico e notorio (can. 1093). Questo impedimento è sorto perché quando vi è una sentenza di nullità di un matrimonio cessa anche l’affinità, allora la Chiesa ha previsto questo impedimento perché riteneva sconveniente un matrimonio con il consanguineo di una persona con la quale si sia intrattenuta una relazione intima. L’impedimento di pubblica onestà rende nulle le nozze nel primo grado della linea retta tra il coniuge e i consanguinei dell’altro; è di diritto ecclesiastico e perciò può essere dispensato. Un problema moderno: la procreazione medicalmente assistita Le sempre più ampie possibilità che in campo medico si aprono alla riproduzione non naturale della vita umana impongono contestualmente la necessità di un loro inquadramento dal punto di vista giuridico diretto a verificarne l’incidenza sul piano della validità del matrimonio. Dal primo. Di vista il documento più importante al riguardo è l’istruzione donum vitae della Congregazione per la dottrina della fede. Il documento precisa che l’atto coniugale possiede 2 significati incedibili: quello unitivo e quello procreativo quello sponsale e quello parentale. Da ciò una precisa conseguenza: la dottrina relativa al legame esistente fra i significati dell'atto coniugale e fra beni del matrimonio chiarisce il problema morale della fecondazione omologa, poiché non è mai permesso separare questi diversi aspetti al punto da escludere positivamente o l’intenzione procreativa o il rapporto coniugale. La fecondazione artificiale omologa opera obiettivamente una separazione tra i beni e i significati del matrimonio. Pertanto la fecondazione è voluta lecitamente quando è il termine di un atto coniugale per se idoneo alla generazione della prole al quale il matrimonio è ordinato per sua natura e per il quale i coniugi divengono una sola carne. Ma la procreazione è privata dal punto di vista morale della sua perfezione propria quando non è voluta come il frutto dell’atto coniugale e cioè del gesto specifico dell’unione degli sposi. Per quanto attiene al diritto positivo occorre richiamare il canone 1055 per il quale il matrimonio è indole sua naturali ad bonum coniugum atque ad prolisgenerationem et educationem ordinatum. Si deve poi richiamare il disposto del paragrafo 2 del canone 1057 nel quale è precisato che il consenso matrimoniale è nato dalla volontà con cui l’uomo e la donna col patto irrevocabile sese mutuo tradunt et accipiunt ad constituendum matrimonium. Esso deve essere integrato con il disposto del canone 1096 per la validità dell’emissione del consenso matrimoniale. Alla luce di tali riferimenti possono valutarsi le fattispecie concrete che l’esperienza può portare in luce. La prima è quella del rifiuto del ricorso alla procreazione assistita nella consapevolezza che in tal modo una finalità del matrimonio non verrà perseguita perché è impedita da cause di ordine sanitario. Al riguardo ci si chiede se vizia il consenso l’atto positivo di volontà di chi si rifiuti di ricorrere alla procreazione assistita sebbene questa costituisca nel caso concreto l’unica possibilità per ottenere quella prole che pure è desiderata. Giova osservare che il contenuto del Bonum Prolis canonisticamente inteso non può allargarsi al punto da ricomprendere pratiche mediche qualora queste fossero in contrasto con la legge morale. Dal punto di vista strettamente giuridico si deve osservare che bonum provies non è un diritto a dovere alla procreazione. Giova ricordare che oggetto del consenso è la costituzione di un consorzio Per tutta la vita per natura sua ordinato tra l'altro alla procreazione. Questa non può aver luogo per la sterilità ma ciò non ha conseguenze in ordine alla validità del matrimonio. Il vero contenuto del bonum prolis, Non è la prova ma l’apertura alla procreazione degli atti coniugali così come ogni oggetto del consenso matrimoniale è la traditio et accetaptio Non del diritto ad avere un figlio bensì del diritto agli atti naturalmente idonei alla procreazione. La seconda fattispecie è quella del rifiuto del ricorso alla propria azione naturale per la ragione Sanitaria di evitare il contagio coniuge e la trasmissione alla prole di infezione trasmissibile attraverso il rapporto sessuale. Nella fattispecie in esame verrebbero a scindersi i 2 significati che sono proprio del lato coniugale significati che la norma canonica esprime connettendo strettamente fra di loro il bonum coniugum e il bonum prolis Tra l'altro richiedendo una cooperatio aliqua sexuali. Concludendo si può osservare in generale che la procreazione assistita ha portata irritante la validità del vincolo in tutti i casi nei quali le due parti concordemente o anche una soltanto di esse esprimono una volontà negoziale che si discoste dallo schema di matrimonio opposto dal legislatore. La forma canonica di celebrazione Il matrimonio è un negozio a forma vincolante, quindi l’inosservanza della forma di celebrazione comporta l’invalidità del matrimonio. Ovviamente si tratta della forma giuridica o canonica che si distingue dalla forma liturgica, la quale non è un requisito di validità del matrimonio. L’obbligo di scambiare il consenso matrimoniale in una forma giuridica predeterminata ad valitatem è stato introdotto dal Concilio di Trento, con il decreto Tametsi del 1563. Prima del Concilio bastava lo scambio di consensi e non era obbligatoria la pubblicità quindi era nato il problema dei matrimoni clandestini, cioè quei matrimoni celebrati al di fuori di qualunque forma solenne e pubblica. Questi matrimoni portavano delle conseguenze negative sul piano morale e sociale anche perché risultavano di difficile o impossibile prova, lasciando incerto lo stato giuridico delle persone coinvolte nel rapporto. In particolare era difficile l’accertamento della effettiva volontà delle parti: il matrimonio, con la nascita di una legittima convivenza, l’acquisto dello status giuridico di coniugi e la legittimità dei figli eventualmente generati; o solo una promessa di matrimonio, con conseguente illegittimità di convivenza e della prole e non acquisto dello stato coniugale. Con il decreto Valenzi fu stabilito che i matrimoni celebrati fino a quel momento erano considerati validi anche se celebrati in altre forme, mentre da quel momento in poi i matrimoni per essere validi dovevano essere celebrati con la forma stabilita dalla Chiesa. L’entrata in vigore di questo decreto era prevista entro trenta giorni ma non fu subito pubblicato in tutte le diocesi quindi troviamo una situazione di incertezza poiché i luoghi tridentini avevano ricevuto il decreto e gli altri invece no. Dal 1907 invece questo decreto venne esteso a tutta la Chiesa. Sono obbligati alle disposizioni canoniche tutti i battezzati nella Chiesa cattolica (can. 1117). La forma ordinaria (can. 1108) consiste nello scambio del consenso tra gli sposi alla presenza di un testimone qualificato (testis qualificatus), l’Ordinario del luogo o il parroco (o un sacerdote o un diacono se delegati), e di almeno due testimoni comuni (testes communes). Il ministro sacro assiste alla celebrazione, in quanto chiede la manifestazione del consenso e la riceve in nome della Chiesa, ma non amministra il sacramento perché a farlo sono gli stessi sposi. Lo scambio del consenso deve avvenire con parole alla contemporanea presenza degli sposi, sia di persona che tramite procuratore (can. 1104). Prima della celebrazione sono effettuate le pubblicazioni, con cui si accerta che nulla impedisca che il matrimonio sia contratto lecitamente e validamente (cann. 1066 – 1067). Le pubblicazioni sono sostituibili con altri mezzi di accertamento. Vi sono anche forme straordinarie di celebrazione: • lo scambio del consenso davanti ai soli testimoni comuni (coram solis testibus) senza la presenza del ministro sacro (can. 1116) in caso di pericolo di morte di uno o di entrambi gli sposi e non è possibile avere la presenza di un ministro di culto entro un mese; questo caso ricorre in particolare nei territori di missione • il matrimonio segreto (omissis denunciationibus et secreto) (cann. 1130 – 1133), al quale si ricorre per ragioni pastorali, cioè per togliere da una situazione di peccato, ad esempio, due concubini o due persone conviventi da anni e che tutti ritengono sposati; infatti la pubblica celebrazione potrebbe Separazione e scioglimento del matrimonio L’essenza della condizione matrimoniale è data dalla comunità per tutta la vita (consortium totius vitae: can. 1055) che comporta il dovere di osservare la coabitazione tra gli sposi, quindi la comunanza di letto, di mensa e di abitazione (communio tori, mensae et habitationis). Questo dovere può venire meno solo per: adulterio, grave compromissione del bene spirituale o corporale di uno dei coniugi o della prole, la durezza della vita comune (cann. 1151 – 1155). La separazione consiste nella possibilità di vivere separatamente per cause legittime mantenendo fermo il vincolo coniugale. Il diritto canonico tende a favorire sia il perdono sia la riconciliazione tra i coniugi, ferma restando che la separazione non fa venire meno l’obbligo della fedeltà e della indissolubilità come gli obblighi per il sostentamento e l’educazione dei figli. La separazione personale dei coniugi battezzati è di competenza dell’autorità ecclesiastica (can. 1692) anche se non esclude una competenza dell’autorità civile (can. 1692). Tuttavia la possibilità di deferimento della causa al giudice civile non legittima i coniugi cattolici a separarsi a condizioni diverse da quelle previste dal diritto canonico. Il matrimonio canonico è perpetuo e indissolubile, una volta che sia rato e consumato non può essere sciolto per nessuna ragione e da nessuna autorità, pertanto viene meno solo con la morte di uno dei coniugi (can. 1141). Esistono tuttavia due casi di scioglimento del vincolo matrimoniale, la ragione è che solo il matrimonio rato e consumato è per diritto divino assolutamente indissolubile, gli altri matrimoni non godono di una indissolubilità estrinseca assoluta mancando l’elemento della consumazione o della sacramentalità. Il primo caso è quello del matrimonio rato e non consumato tra battezzati o tra una parte battezzata ed una non battezzata, viene detta dispensa dal matrimonio rato e non consumato (can. 1142; per il procedimento cann. 1697 – 1706). Se è vero che il matrimonio canonico ha come unica causa efficiente il consenso, è anche vero che solo con la consumazione si realizza quell’una caro in cui gli sposi divengono integralmente una cosa sola e si compie radicalmente il dono reciproco di sé, dono che non può più essere ripetuto. Nella dispensa super rato la mancata consumazione impedisce l’attuazione nella sua pienezza del segno sacramentale dell’unione fra Cristo e la Chiesa. La non consumazione, per poter essere causa dello scioglimento, non deve derivare da anomalie fisiche o psichiche che impediscono la copula perché si rientrerebbe nella fattispecie tipica dell’impotenza. Per poter ottenere lo scioglimento la non consumazione deve verificarsi dopo la celebrazione del matrimonio, deve essere debitamente accertata dalla Santa Sede e deve inoltre sussistere una giusta causa: ad es. l’odio tra i due coniugi, se è stata chiesta la separazione civile ecc. Lo scioglimento avviene con provvedimento pontificio di dispensa che può essere richiesto da entrambi i coniugi o da uno solo anche se l’altro sia contrario; è un provvedimento di carattere amministrativo che viene concesso dal Pontefice e si dice dato “graziosamente” cioè come grazia per cui i coniugi non hanno un diritto soggettivo ad ottenerlo ma una mera aspettativa. La facoltà pontificia di sciogliere si estende al di là del solo matrimonio rato; la dispensa si può avere infatti anche nel caso di matrimonio tra un battezzato e un non battezzato. L’altro caso è il cosiddetto privilegio paolino, perché trova fondamento teologico nella prima lettera ai Corinti di s. Paolo. Il can. 1143 prevede le condizioni per sciogliere un matrimonio naturale anche se sia stato consumato ma che sia contratto: tra non battezzati; se successivamente uno dei coniugi ha ricevuto il battesimo; se la parte non battezzata non voglia farsi battezzare e non viva pacificamente con il coniuge. Lo scioglimento avviene quando la parte battezzata celebra a norma del diritto canonico un nuovo matrimonio. A questa fattispecie ne viene assimilata un’altra detta privilegio petrino (cann. 1148 – 1149), cioè quando il pagano poligamo riceve il battesimo e non può o gli è gravoso rimanere solo con il primo coniuge, può scegliere uno fra i vari coniugi e sposarlo canonicamente; oppure quando il pagano che riceve il battesimo non può ristabilire la convivenza con il coniuge naturale a causa della prigionia o della persecuzione. Nel privilegio paolino lo scioglimento è giustificato dal fatto che il bene della fede prevale sull’indissolubilità; è una rescissione del contratto matrimoniale perché concluso a condizioni inique fra i soggetti che erano ottenebrati dall’intelletto in quanto si trovavano in infidelitate; cioè essi da non battezzati non potevano percepire il primato assoluto del bene della fede. Nel caso della dispensa super rato è una risoluzione del contratto per un vizio attinente al funzionamento dello stesso: la mancata consumazione, la dissociatio animorum. Il favor iuris di cui gode il matrimonio Il favor iuris sta ad indicare una situazione specialissima di privilegio che ha una determinata materia; in particolare sta ad indicare la scelta del legislatore a favore di una tra le soluzioni giuridicamente possibili. Questo è il favor iuris di cui gode il matrimonio nell'ordinamento canonico o favor matrimonii. Il favor matrimonii entra propriamente in rilievo sul terreno processuale. Al riguardo bisogna richiamare il canone 1068. Nel canone 1060 è poi precisato che matrimonium gaudet favore iuris; quare in dubio standum est pro valore matrimonii, donec contrarium probetur. Il legislatore canonico ha mantenuto una presunzione generale a favore della validità del vincolo matrimoniale . Per una corretta interpretazione del canone in esame occorre soffermarsi sull'espressione valor matrimonii in esso contenuta. Prescrivendo la presunzione di validità del matrimonio in caso di dubbio il legislatore mostra di partire dal presupposto che il matrimonio sia stato celebrato. In dubbio riguarda la validità giuridica o meno di un matrimonio come fatto materialmente sussistente. Questo significa di conseguenza che per un matrimonio del tutto inesistente rappresentazione teatrale. Ma per converso questo significa anche che perché operare tale precisione eh deve essere provata il fatto della regolare celebrazione del materiale incertezza presunta per possesso di stato e questo ricorre qualora le parti siano in buona fede convinte di essere unite in matrimonio e come tali siano comunemente ritenute . La disposizione codice sul favor matrimoni si collega col disposto del canone 1101. Si tratta di un’ulteriore presunzione posta a Tutela del matrimonio che riguarda la conformità della dichiarazione alla volontà interiore. Essa risponde ad un dato di comune esperienza com’è quello della ordinaria rispondenza tra volontà manifestata e volontà interna nei negozi di maggior momento. Detta disposizione riconosce come regola generale che qualunque consenso è da ritenersi conforme alla sua manifestazione esterna purché sia intervenuta la species seu figura matrimonii. Si deve poi considerare che il canone 1060 parla genericamente di matrimonio sicché la portata della disposizione in esso contenuta deve intendersi nel senso che la presunzione di validità opera nell’ordinamento canonico sia per i matrimoni legittimi che per i matrimoni rati che tra battezzati fuori di essa. Negli anni successivi alla celebrazione del vaticano secondo il principio del favor matrimonii È stato oggetto di numerose critiche nel contesto dell’ampio dibattito dottrinale aperto dalla visione personalistica del matrimonio che i documenti conciliari e soprattutto la costituzione Gaudium et spes avevano dischiuso. Si trattava di critiche che venivano anche ad appoggiarsi sul dato di fatto dell’essere comunque Venuto meno dal punto di vista essenziale Il matrimonio nel momento in cui se ne impugna la validità. Una prima ragione era di carattere storico culturale legislatore civili nel considerare più l'istituto matrimoniale che le persone tra l'altro con una accentuazione della concezione istituzionistica del matrimonio a scapito di quella contrattuale che sembrava tradizionalmente propria al diritto canonico. Una seconda ragione era motivata dall'asserito completo capovolgimento che in materia si sarebbe avuto del principio fondamentale di tutto l’ordinamento canonico dato dalla salus animarum perché in questo caso il diritto ecclesiastico anziché cedere a fronte delle supreme esigenze del bene spirituale delle anime sarebbe giunto ad affermarsi a prescindere o addirittura contro di questo. Una 3ª ragione era individuata proprio sul Terreno dei diritti dell’uomo e del Cristiano Giacché si assumeva che in presenza di una matrimonio di dubbia validità il principio del favor avrebbe reso un diritto fondamentale come lo ius nubendi. Tali critiche esprimevano in definitiva distanza a far prevalere il criterio del Favor libertatis e quindi nel caso di dubbio insolubile a far provare la libertà degli interessati a contrarre un altro matrimonio. Invero le critiche nei confronti del tradizionale principio canonistico del favor matrimoni appaiono deboli di fondamento. Se si guarda al matrimonio come institutum naturae si coglie appieno il senso dell’istituto canonistico del favor matrimoni. Invero tutti gli ordinamenti giuridici manifestano una particolare attenzione al matrimonio in quanto atto costitutivo la famiglia. Questo perché il matrimonio è atto giuridico formale che determina l’assunzione dei diritti dei doveri che caratterizzano gli status familiari. La costituzione della famiglia non è un fatto (solo) personale e (solo) privato. Non è un fatto personale perché coinvolge necessariamente altri soggetti. Non è neppure un fatto privato perché la famiglia ha funzioni educative sociali assistenziali che in sua mancanza o in caso di sua incapacità lo stato e quindi la società sono chiamate ad Accollarsi. Il favor iuris nei confronti del matrimonio è postulato dalla dimensione interpersonale e sociale del matrimonio e quindi è posto in ragione delle esigenze di tutela dell’altra parte nel rapporto dei figli e del bene comune. Dal punto di vista strettamente logico non pare potersi contrapporre il favor matrimoni al favor libertis essendo tutto al contrario il primo l’espressione del secondo. In effetti la protezione della libertà della persona di contrarre matrimonio trova esplicitazione proprio nella protezione che il diritto appresta al matrimonio una volta che questo sia stato contratto. Se questo non fosse quella libertà risulterebbe inevitabilmente insidiata. Perché la tutela giuridica del matrimonio è garanzia per chi intende costituire una famiglia dichiarando pubblicamente di volersi assumere gli oneri relativi ma a ben vedere è garanzia anche per chi non intende avere quei vantaggi né assumersi quegli oneri il quale non può essere costretto a vedersi accollare vincoli e doveri non voluti. Conversione a scopo di matrimonio Può accadere che il coniuge non ebreo chieda la conversione all'ebraismo, per non incorrere nel divieto di matrimonio con il non ebreo e permettere al coniuge ebreo di poter continuare a praticare la propria religione e far parte della propria comunità. I decisori sono spesso dibattuti per le diverse conseguenze che tutto questo comporta. Da un lato la conversione deve essere animata esclusivamente della volontà di osservare i precetti del signore e di entrare a far parte del popolo ebraico. Un requisito fondamentale per la conversione è infatti che il non ebreo sia mosso solo dall’amore per il signore. E quindi la conversione è animata esclusivamente dal desiderio di sposare una persona ebrea sarebbe inaccettabile. Dall’altro lato la mancata conversione del coniuge non ebreo porterebbe il coniuge ebreo a vivere in una situazione di violazione delle norme che potrebbe essere facilmente risolta attraverso la conversione del coniuge non ebreo. Allo stesso tempo si diffida della conversione allo scopo matrimoniale perché questa non dà sufficiente certezza né sul rispetto degli obblighi da parte del proselita Né sulla sua capacità di educare la prole all’ebraismo portando nel tempo ad un annacquamento delle regole e dell’identità ebraica. I decisori hanno dovuto affrontare questa problematica a partire dal 19º secolo cioè dal momento in cui c’è stata una minore affezione religiosa all’interno di diverse comunità religiose e in rispetto delle regole religiose si è indebolito per cui cambiare religione ha incominciato ad essere un fatto meno riprovevole che in precedenza. Un atteggiamento più tradizionale porta a rifiutare le conversioni spinte principalmente da uno scopo di matrimonio. Si può ricordare il responsum di Rabbi Hildessheimer. Si tratta dell’ufficiale della comunità di sarbucan che deve decidere della conversione di un non ebreo che vorrebbe sposare un’ebrea la quale è rimasta incinta ma poi ha perso il bambino. Il decisore afferma che ogni decisione deve essere presa a caso per caso sulla base delle diverse situazioni di fatto in cui il proselita si troverà a vivere. In questo caso il decisore è perfettamente conscio del fatto che il proselita non avrebbe seguito i precetti dell’ebraismo e che dopo la conversione avrebbe continuato a vivere come prima. Di conseguenza il responso non è favorevole alla conversione del proselita. Altri decisori sono più favorevoli alla conversione e procedono con motivazioni diverse. Essendo una case by case adjiudication, I decisori hanno sempre avuto molta attenzione alle diverse situazioni di fatto. Secondo 2 studiosi dell’università di bar irlan il responsa favorevoli alla conversione si possono allineare lungo 2 direttrici principali. Una via seguita dai decisori è quella di considerare che la conversione del coniuge non ebreo sarebbe preferibile per evitare una trasgressione più grave. La conversione verrebbe quindi utilizzata per evitare che il coniuge o possa continuare a vivere in violazione dei precetti dell’ebraismo. Si tratterebbe di conversioni basate sulla policy consideration. Un altro gruppo di responsa si attiene al requisito dell'amore per il signore, necessario per la conversione ampliandone l'interpretazione. Questo secondo gruppo sostiene la posizione più tradizionale dal momento che non sono alterate meno Formalmente requisiti necessari per la conversione. Nel primo gruppo di responsa cioè quello secondo cui la conversione del coniuge sarebbe preferibile per evitare altre trasgressioni Si possono identificare alcune sottogruppi. Un primo gruppo di casi ritiene che sia preferibile la conversione ad una trasmissione più grave, cioè l'unione more uxorio di un ebreo con una donna non ebrea. Un caso sottoposto ai decisori f quello di un uomo ebreo che conviveva e aveva già avuto 4 figlie da una donna non ebrea. La donna fu ammessa alla conversione. Un caso simile riguardò una donna ebrea che aveva sposato civilmente un ebreo in un periodo in cui non era ammesso il divorzio. Dal momento che la donna non avrebbe mai potuto lasciare il marito per rispettare il divieto di coabitazione, Rabbi Hoffman permise la conversione dell'uomo. Un altro gruppo di casi considera il possibile allontanamento dell'ebreo dalla vita della comunità. In questi casi sarebbe quindi preferibile convertire il coniuge piuttosto che indurre chi già appartiene al popolo ebraico ad allontanarsi dalla comunità, oppure a rivolgersi a una comunità ebraica riformata per ottenere una conversione non riconosciuta come halachicamente corretta dal rabbinato ortodosso. Un altro argomento alla base di alcuni responsa considera le possibili reazioni negative che la mancata conversione comporterebbe da parte della collettività, ebraica o non ebraica. Un caso risalente riguardava la situazione di una donna che avrebbe potuto impazzire Per la mancata conversione e quindi nominare il nome del signore invano. Più recentemente questo argomento è stato utilizzato negli anni ’70 del secolo scorso quando l’unione sovietica permise agli ebrei di emigrare in Israele. Non tutte queste persone potevano essere considerate ebree perché nate da matrimoni misti o da matrimoni in cui non si aveva la certezza dell’appartenenza della madre all’ebraismo. Le prove non erano state conservate per timore di persecuzioni. In molti casi i nuovi immigrati volevano contrarre matrimonio in Israele con ebrei israeliani. Un atteggiamento troppo rigido da parte del rabbinato avrebbe potuto determinare una reazione delle persone immigrate in Israele dall’unione sovietica che avrebbero potuto offendere il rabbinato e il nome del signore. In questi casi fu permessa la conversione. Vi è poi l’interesse della famiglia. Secondo alcuni decisori Beth Din degne considerare non solo il candidato o la candidata alla conversione ma l’intero contesto familiare prestando particolare attenzione ai futuri figli e alla famiglia nel suo complesso. Il rabbino Hoffman che ha vissuto in Germania tra il 1843 e il 1921 ha accolto una domanda di conversione di un uomo non ebreo che aveva contratto matrimonio civile con una donna ebrea gli aspettavo un figlio dalla donna. Il figlio è ebreo secondo l’Halachà Ma il rabbino Hoffman ha preso in considerazione l’influsso che la delusione del padre nel vedere rifiutata la sua domanda di conversione avrebbe avuto sull’educazione del figlio. Questi con buona probabilità avrebbe ricevuto un’educazione non ebraica. Sarebbe stato il figlio a sopportare le conseguenze della mancata conversione del padre. Il rabbino util che è stato capo di stato tra il 1939 e il 1953 ha esaminato il problema della conversione della madre non ebrea sposata civilmente ad un ebreo. Per il rabbino uzil bisogna ricordare il fatto che i figli pur tecnicamente non ebrei sono legati all’ebraismo. Chi si trova a decidere della conversione della madre deve tener conto anche delle pecore sperdute e chi non se ne occupa sarà tenuto a rispondere davanti al tribunale celeste. Il secondo gruppo di Responsa segue un approccio che saggi e zoar definiscono adattivo. Alcuni responsi si concentrano sull’interpretazione della locuzione leshem shamaim Per includere all’interno dell’amore del signore certe conversioni suscitate dall’intenzione di sposare un ebreo o un’ebrea. I decisori operano quindi una reinterpretazione della locuzione. Rabbi kluger si trovò a decidere il caso di un giovane ebreo che era partito per la guerra e si era innamorato di una ragazza non ebrea. Una volta tornato a casa dei suoi genitori con lei questa chiese di diventare ebrea. Rubri Kluger ritenne che se non si permetteva questa donna di convertirsi l’uomo sarebbe andato via e si sarebbe convertito al cristianesimo. E quindi chiaro che la loro richiesta Forse sì che la donna si convertisse all’ebraismo era dettato non dall’amore per un uomo ma dall’amore per il signore. Rabbi heim Fischer Epstein E altri ritengono in casi analoghi che se le 2 persone possono comunque convivere e ciò nonostante uno dei 2 chiede di convertirsi non lo fa per amore di un uomo di una donna a seconda dei casi ma per amore del signore. A fronte di queste aperture rimangono le posizioni più classiche che ritengono che comunque il matrimonio non dovrebbe essere preso in considerazione i fini della conversione quindi che il requisito dell’amore per il signore e dell’impegno a seguire tutti i precetti debba essere valutato come per qualunque altra richiesta di conversione. La conversione a scopo di matrimonio rimane uno dei problemi più importanti e nessun rabbino Responsabile di una comunità ebraica può esimersi dall’affrontarlo e dall’esaminarlo. Matrimoni tra cattolici e musulmani Particolare cautela viene richiesta nel caso dei matrimoni tra una parte cattolica e una musulmana. Il documento che per la chiesa cattolica affronta in maniera specifica risale al 2005 ed è intitolato I matrimoni tra cattolici e musulmani in italia. Indicazioni della presidenza della conferenza episcopale italiana. Le oggettive difficoltà collegate alla differente considerazione culturale e giuridica del ruolo della donna dei diritti e doveri coniugali delle modalità di esercizio della patri potestà e le difformità tra la visione del matrimonio cattolico e quello islamico. Problematico appare il matrimonio tra cattolici e musulmani sia nell'ipotesi: ➢ uomo musulmano-donna cattolica (consentito in base al diritto islamico): asimmetria nei diritti-doveri tra uomo e donna e alla possibilità per l'uomo alla decisione di ripudio, difficoltà per la donna cattolica a tener fede all'impegno assunto mediante il battesimo in quanto confligge con la pretesa e l'obbligo imposto dal padre di educare i figli come musulmani ➢ donna musulmana-uomo cattolico (vietato dal diritto islamico): rischi per il marito cattolico sono ancora più gravi: se la donna musulmana proviene da un paese straniero il consolato deve rilasciare il nulla osta alla celebrazione del matrimonio richiedendo la sottoscrizione da parte dell'uomo di una dichiarazione di conversione alla religione islamica. Occorre che il contraente cattolico sia consapevole davvero significato della religione islamica visto che non si tratta di un adempimento burocratico ma di un vero abbandono formale della fede cattolica il quale assume la stanza di un vero diritto risulta sanzionata dal canone 1364 e quindi con la scomunica. La richiesta di presentazione del certificato di conversione si pone in contrasto con il principio di uguaglianza sancito da numerosi atti internazionali in tema di tutela dei diritti dell’uomo. Anche per i matrimoni tra cattolici e musulmani il criterio guida recentemente ribadita da papa Francesco nell'esortazione apostolica Amoris Laetitia. Se la diversa fede degli sposi viene considerata dalle confessioni religiose come un ostacolo alla celebrazione o alla riuscita del matrimonio è interessante osservare che nella determinazione della capacità matrimoniale la legislazione degli stati si disinteressa del tutto di tale aspetto. Nei paesi a maggioranza cristiana è intervenuta una secolarizzazione e una laicizzazione che ha riguardato anche molti diritto canonico e quindi escluso dalle competenze legislative e giurisdizionali degli ordinamenti giuridici statali. Tale processo di secolarizzazione ha portato a considerare il rilevante la diversa appartenenza confessionale degli sposi la celebrazione stessa di un matrimonio religioso: la validità del vincolo potrà sussistere ai fini civili indipendentemente dall’aspetto sacramentale, la cui rilevanza dal punto di vista civilistico appare limitata. I MATRIMONI INTERRELIGIOSI NEL DIRITTO ISLAMICO Definizione di matrimonio e di matrimonio interreligioso Nella tradizione islamica l'unione matrimoniale assume un'importanza fondamentale costituendo la base della società umana e sigillando un'alleanza tra due famiglie allargate. Il corano e la sunna raccomandano di contrarre matrimonio ai fedeli musulmani. Concludere un contratto di matrimonio non costituisce solo un atto di autonomia privata ma diventa un vero e proprio diritto-dovere del credente praticante musulmano. In particolare, la famiglia essendo un’istituzione divina, il matrimonio incarna un dovere sia religioso sa civile, qualora possieda i mezzi per pagare il donativo nuziale , possa mantenere una famiglia e tema di cadere nell'incontinenza in caso di celibato. Inoltre il matrimonio islamico/musulmano adempie a 3 funzioni fondamentale: • moralità privata e pace sociale • moltiplicazione numero dei credenti • distinzione dell'islam dalle religioni che apprezzano il celibato e nubilato nel diritto musulmano, il termine matrimonio interreligioso identifica l'unione matrimoniale tra un/una musulmano/a e un/una non musulmano/a. Proibizione del matrimonio interreligioso La differenza del cult dei fidanzati è indicata tra gli impedimenti matrimoniali temporanei previsti dalle norme sciaraitiche. Il matrimonio tra donna musulmana e uomo cristiano o ebreo è proibito; come sono vietati i matrimoni tra musulmani e idolatri, apostati , agnostici, atei. La proibizione di unioni interreligiose dei fedeli musulmani è giustificata dal principio di compatibilità tra i promessi sposi, in particolare nella adeguatezza matrimoniale del fidanzato alla fidanzata musulmana. un'eccezione è ammessa alla norma generale e questa è il matrimonio tra uomo musulmano e la donna libera cristiana o ebrea. La permessibilità di unioni matrimoniali tra uomo musulmano e la donna appartenente alla gente del libro può essere condizionata da ulteriori requisiti concernenti le origini etniche della fidanzata, la presenza di una prima moglie musulmana, l’appartenenza religiosa dei genitori della promessa sposa oppure il paese in cui il matrimonio viene celebrato. l'interpretazione offerta da varie denominazioni islamiche contempla poi norme lievemente differenti le quali ampliano o restringono la proibizione delle unioni interreligiose. Secondo alcuni dotti sciiti non è permesso il matrimonio tra l'uomo musulmano e la donna appartenente a una delle religioni del libro. Altri permettono esclusivamente un matrimonio temporaneo tra detti fidanzati. Altri ancora considerano lecita l'unione matrimoniale tra uomo musulmano e donna libera cristiana o ebrea (si distingue gente del libro e idolatri). Il matrimonio tra musulmani sunniti appartenenti a scuole giuridiche differenti non è considerato problematico; in caso di disputa tra gli sposi si potrà fare riferimento all'interpretazione più favorevole alle parti oppure al coniuge che approcci un giudice islamico o un concilio sciaraitico. l'unione matrimoniale tra persone appartenenti a diversi denominazioni (sunniti/sciiti) non è solitamente riconosciuta come valida. La professione di fede da parte di uno dei due fidanzati è richiesta affinché si possa procedere ala conclusione del matrimonio. Per quanto concerne l'islam della diaspora, qualora i musulmani vivano in un ambiante non musulmano e/o il numero di migranti musulmani stabilitasi in un contesto occidentale, è preferibile che non vengano contratti matrimoni interreligiosi. Ragioni del divieto di unioni interreligiose Le ragioni di tale divieto risiedono nella necessità guardare al contempo la purezza della famiglia musulmana e l’integrità della società musulmana. La proibizione del matrimonio inter religioso contenuta nel corano intenderebbe di preservare e proteggere la comunità islamica. In merito al divieto previsto per la donna musulmana di contrarre valido matrimonio con un uomo non musulmano le ragioni avanzate da dotti e giurisperiti islamici sono spesso quelle di seguito riportate. L'appartenenza religiosa è trasmessa dal padre l'uomo è il capofamiglia e trasmette il proprio credo ai suoi figli. Qualora il padre non fosse musulmano la donna musulmana sarebbe madre di figli non musulmani che seguirebbero la religione non islamica del padre. L’islam prescrive che il marito rispetto il credo della propria moglie ebrea o cristiana; Il corrispettivo potrebbe non valere nel caso di coniugi appartenenti ad altre religioni pertanto la donna musulmana rischierebbe di non poter professare liberamente la propria fede qualora fosse sposata con un uomo non musulmano. Il matrimonio di una donna musulmana con un uomo non musulmano sarebbe incongruo dal momento in cui la fidanzata musulmana non può essere data in sposa ad un uomo che sia lei inferiore ossia non musulmano. In base a quanto disposto dal diritto sciaraitico, il marito della donna musulmana può solo essere di pari stato, oppure superiore alla sua sposa. Per quanto concerne i matrimoni inter religiosi di musulmani immigranti in paesi occidentali e o in nazione non a maggioranza musulmana questi dovrebbero essere limitati per 2 ragioni. Quando la coppia vive in un contesto non musulmano è necessario preservare i valori della famiglia musulmana e la crescita dei figli secondo i principi dell’islam. È necessario proteggere e privilegiare le donne musulmane che vivono in paesi occidentali: le stesse potrebbero non incontrare un marito idoneo e quindi restare nubili oppure sposare un uomo non uso qualora gli uomini musulmani immigrati contrassero in gran numero unioni matrimoniali con donne ebree o cristiane. Conversione degli sposi In merito alla conversione degli sposi è necessario esaminare due possibili scenari: a) Apostasia Nel caso in cui uno dei 2 coniugi musulmani abbandoni l’islam commettendo apostasia la precedente unione matrimoniale diviene nulla ed è sciolta ipso iure. L’apostata perde la propria capacità giuridica e non ha più legami con la umma. Qualora l’apostata si riconverta all’islam le regole differiscono: Secondo i talune interpretazioni non è necessario stipulare tra le reparti un nuovo matrimonio secondo altre e invece richiesto fra le parti un nuovo contratto matrimoniale conforme alla sharia; nel caso in cui l’apostasia sia commessa dal marito di una donna musulmana il matrimonio non viene sciolto fino al termine del ritiro legale periodo in cui il marito potrebbe riconvertirsi all’islam. Allo spirare del ritiro legale senza che l'apostata abbracci nuovamente l'islam, il matrimonio è annullato; la donna in ogni caso ha diritto al donativo nuziale completo oppure solo a parte di esso qualora il matrimonio non sia stato consumato. Esogamia oppure endogamia? Fenomeni contemporanei Studi empirici condotti in paesi occidentali in cui l'islam rappresenta una minoranza, indicano la prevalenza di unioni religiosamente ed etnicamente endogame tra fedeli musulmani. Lo studio approfondito di dati statistici ed etnografici evidenzia inoltre un fenomeno di esogamia selettiva all'interno delle comunità musulmane presenti in territori occidentali. Le unioni intramusulmane miste più frequenti si verificano tra un coniuge nato musulmano e uno convertito all'islam, oppure tra 2 coniugi nati musulmani entrambi immigrati in Europa e provenienti da diversi paesi a maggioranza musulmana. In generale uomini e donne musulmane non sembrano essere inclini a contrarre unioni interreligiose. MATRIMONI INTERRELIGIOSI NEL DIRITTO HINDU E NEL DIRITTO BUDDHISTA Il matrimonio interreligioso nel diritto hindu • il carattere sacramentale del matrimonio hindu Il matrimonio rappresenta non solo un momento fondamentale nella vita dell'individuo ma anche un sacramento essenziale il cui carattere religioso è rafforzato dalla pluralità di scopi che vengono ad esso attribuiti. Attraverso il matrimonio il fedele hindu salda il debito con i propri antenati di perpetuare la famiglia attraverso i figli e si assicura la presenza di una progenie maschile che avrà il compito di portare offerte alle anime dei defunti, per farle assurgere al cielo e accendere la pira funebre dei genitori celebrando gli ultimi riti noti come shraddha. La tradizione giuridica hindu contempla fino a 8 forme di matrimonio, alcune considerate riprovevoli e altre consigliate. Rileva il matrimonio gandharva che prevede l'unione consensuale di uomo e donna nata dall'amore reciproco tra gli sposi. Tale forma di matrimonio è biasimata o considerata neutrale poiché contrasta con la concezione sociale dell'unione: il matrimonio è inserito in una complessa ragnatela di aspettative e necessità sociali che lasciano poco spazio a scelte individuali. I matrimoni d'amore vengono percepiti come fragili ed effimeri associati a rotture familiari e disonore mentre i matrimoni combinati nel rispetto dei requisiti religiosi sono sentiti come più solidi e duratori. Nella forma superiore i matrimonio brahma, il padre che ha l'obbligo darmico di dare in sposa la figlia fa dono della stessa allo sposo trasferendo contestualmente a questi il controllo su di lei e acquisendo meriti spirituali. Merita una menzione il saptapadi, i sette passi davanti al fuoco rituale vista la sua grande diffusione e la sua disciplina all’interno dei dharmashastra. Nel corso del saptapadi, lo sposo prende per mano la sposa guidandola attorno al fuoco rituale e compiendo con lei sette passi. • regole esogamiche ed endogamiche i testi della tradizione hindu non vietano il matrimonio interreligioso dedicando spazio alla discussione di altre regole esogamiche ed endogamiche da rispettare rigidamente. I matrimoni celebrati in violazione delle norme esogamiche vengono percepiti come incestuosi e sono duramente condannati non solo dai testi sacri ma anche dalla stessa comunità di provenienza degli sposi. Tra queste regole esogamiche troviamo: ➢ sapinda: secondo il commentario Dayabhaga, tale relazione lega due persone che celebrano assieme i riti sacri per i parenti defunti, offrendo agli antenati polpette di riso (pinda). Tali offerte vengono fatte ai defunti fino alla quinta generazione di ascendenti dal lato paterno e fino alla terza da quello materno; se due persone condividono il medesimo antenato sono sapinda. Secondo il commentario Mitakshara, con il termine pinda non si intendono le polpette rituali ma particelle corporee che uniscono persone direttamente discendenti da un antenato comune o legate a persone discendenti da un antenato comune attraverso la generazione di un figlio ➢ gotra: due persone appartengono al medesimo gotra se entrambe discendono in linea maschile dallo stesso rishi da cui il gotra ha preso il nome. La regola non si applica agli shudra, il Varna dei servi poiché si ritiene che non abbiano un gotra di appartenenza. Le fonti tradizionali prescrivono l'endogamia castala e di varna; tuttavia varie tesi dottrinali (dharmasutra, dharmashastra) tollerano matrimoni tra varna differenti concedendo all'uomo di sposare donne della sua stessa classe sociale o di classe inferiore e vietando le unioni tra una donna di varna superiore e l'uomo di varna inferiore. Con la cristallizzazione sociale del sistema castale si è assistito a un progressivo irrigidimento delle norme matrimoniali tale per cui l'obbligo di scegliere il partner all'interno della medesima casta è diventato sempre più stringente. Sono tollerate regionalmente pratiche ipergamiche solo tra sottocaste, mentre nell'india meridionale si prediligono unioni isogamiche. • fonti tradizionali, giurisprudenza e hindu marriage act Al di là delle considerazioni di validità del matrimonio stesso si pone il problema della qualificazione dell’unione interreligiosa. l'Hindu Marriage Act offre una guida poiché le disposizioni di tale legge si applicano all'unione tra due hindu, intendendo come hindu qualsiasi persona che sia hindu by religion compresi buddhisti jainisti e sikh. Da un’analisi congiunta dell’explenation all’articolo 2 hma e dell’articolo 5, emergono due punti importanti: l’unione al momento della celebrazione del matrimonio non può definirsi strictu sensu matrimonio hindu. L’analisi della giurisprudenza più recente dimostra come record siano generalmente d’accordo nel tutelare la posizione vulnerabile dell’altro coniuge riconoscendo come valida l’unione matrimoniale tra hindu e un non hindu celebrata secondo il rito hindu. Facendo leva sul fatto che le parti stesse e le rispettive comunità di provenienza avessero considerato con l’unione legittima le corti hanno disposto dal mantenimento dell’affidamento dei figli aggirando l’impasse dell’applicazione del diritto personale attraverso il ricorso all’articolo 125 del codice di procedura penale del 1973. L’articolo dispone che a prescindere dall’appartenenza religiosa dei coniugi il giudice possa imporre a chiunque questi rifiuti di mantenere la moglie i genitori o i figli il pagamento di una somma mensile agli stessi di fronte ad un protratto rifiuto lo stesso giudice può combinare una pena detentiva. In secondo luogo l’explenation chiarisce che il figlio legittimo o no, nato da un genitore hindu e uno no viene considerato hindu a patto che questi venga cresciuto come membro della comunità da cui il genitore hindu proviene. Pertanto la sola partenza religiosa all’induismo di uno dei genitori non determina lo stato indù del figlio ai fini dell’applicazione del diritto personale è essenziale che il bambino venga educato in un contesto indù e se ne senta parte. Affinché il matrimonio possa considerarsi valido le parti non devono essere sapenda l'uno dell'altra. Inoltre costituisce base per presentare richiesta di divorzio in assenza della quale il vincolo matrimoniale non si scioglie automaticamente restando perfettamente valido. Sulla base dell'hindu adoption and maintenece act, La conversione di uno degli sposi ad altra religione determina la possibilità per l'altro coniuge di adottare senza il premio consenso della moglie del marito convertito inoltre di separata senza per questo perdere il diritto al mantenimento. Questo il più in generale qualsiasi diritto al mantenimento vengono persi qualora sia la stessa moglie a convertirsi ad altra religione. Di particolare interesse è la normativa opzionale territoriale in materia di matrimonio contenuto all’interno dello special marriage act. Tale legge crea un impianto normativo religioso di disciplina del matrimonio civile e SPUNTI DI COMPARAZIONE Confessione religiose e matrimonio Le confessioni religiose attribuiscono grande importanze al matrimonio visto come atto fondativo della famiglia in quanto luogo primario di Preservazione e di trasmissione non solo della vita ma anche della cultura dei precetti e delle tradizioni religiose. Per la maggior parte delle confessioni scegliere di celebrare un matrimonio religioso piuttosto che un matrimonio civile è uno dei più significativi aspetti dell’esercizio del diritto di libertà religiosa. Per i nubendi significa caricare di un significato divino uno delle più importanti scelte appartenenti alla sfera privata di ciascuno. Proprio per la centralità dell’istituto matrimoniale tutti i diritti religiosi prevedono una serie di regole mediante le quali viene disciplinato sia l’accesso che il recesso dal legame matrimoniale. In particolare è proprio tra i precetti che regolano l’accesso che è possibile rintracciare le proibizioni di celebrare matrimonio tra fedeli di confessioni diverse. Tali regole limitano di fatto la capacità Matrimoniale dei soggetti coinvolti nell’unione. Si tratta di divieti che caratterizzano sistemi giuridici religiosi che non trovano riscontro nei sistemi giuridici secolari negli stati democratici nei quali la libertà matrimoniale non subisce limitazioni che non siano collegate con la capacità e la libertà di prestare un valido consenso. I sistemi giuridici religiosi per la loro derivazione da principi immutabili di origine divina sono tendenzialmente rigidi e come tari più difficilmente permeabili ai sociali attraverso l'intervento del legislatore registrando i cambiamenti della società e quindi evolvendosi con la relativa facilità le norme religiose essendo espressione di precetti di natura divina o riflettendo leggi che precedono l'essere umano tendono per loro natura ad una fissità che può trovare modo di evolversi solo attraverso L'interpretazione. Un’operazione quella interpretativa, che presenta limiti oggettivi e che assume rilevanza differente a seconda che le confessioni riconoscano o meno un'autorità centrale. Nel primo caso è quest'ultima che viene demandata quella che il diritto secolare chiama interpretazione autentica, mentre per le confessioni prive di una gerarchia precostituita e indiscussa è centrale il ruolo delle diverse scuole interpretative o tramite l'applicazione al caso concreto tramite i responsa. È l'assenza di una gerarchia precostituita la causa principale delle differenze, talvolta assai significative anche in materia matrimoniale. Anche se l'interpretazione del diritto religioso può adeguare quest’ultimo alle istanze della società è importante osservare che le appartenenze religiose hanno una doppia valenza: includente ed escludente. Includente perché chi è parte della stessa comunità non coincide solo la religione ma molti aspetti della vita quotidiana. Escludente perché dall'altro si traccia un confine identitario forte che esclude chi non ne fa parte e che si traduce in norme che limitano la capacità dei soggetti di diversa appartenenza. Spesso sussistono veri e propri impedimenti matrimoniali alla cui portata coercitiva e variabile talvolta si limitano a sconsigliare, Altre vietare in termini assoluti la celebrazione del matrimonio con appartenenti ad altre confessioni. Ogni confessione concretizza le proprie regole con modalità articolate e differenti inevitabilmente condizionate dalla concezione del matrimonio che è propria di quella specifica confessione. Si possono individuare due elementi comuni. Il primo è l'obiettivo di conservare e di ampliare la comunità attraverso matrimoni endoreligiosi come garanzia sulla conservazione dell'identità religiosa dei coniugi e soprattutto dei figli che nasceranno dalla coppia che solo se accomunata dallo stesso credo saranno educati seguendo i principi della confessione di appartenenza. In questa prospettiva il matrimonio interreligioso può essere visto come un pericolo sia per la fede del coniuge che può essere per varie ragioni indotto ad abbracciarne un'altra, che per i figli che saranno presumibilmente educati alla religione di uno solo dei genitori. Il secondo elemento comune riguarda la risposta di chiusura delle comunità religiose rispetto ai grandi movimenti migratori e alle vicende storiche che hanno portato le confessioni religiose a subire diaspore e limitazioni della loro vita e libertà di azione. (vd pag.234) I matrimoni interreligiosi tra rigidità e flessibilità La considerazione delle confessioni religiose riguarda i matrimoni interreligiosi e il seppur modesto lavoro livello di flessibilità si è spesso modificato nel tempo ed è stato influenzato dal contesto comunitario geografico nel quale la confessione viene professata e si trova a rivivere: più tollerante e aperto quando si tratti di una società omogenea più restrittiva in un determinato territorio nella condizione di minoranza religiosa. Tra le confessioni prese in esame è indubbio che il diritto canonico della chiesa cattolica abbia nel tempo temperato il divieto generale del matrimonio tra un battezzato e un non battezzato introducendo la possibilità per l’autorità ecclesiastica di concedere la dispensa. Attraverso tale strumento si è bilanciato il riconoscimento del diritto naturale all’unione matrimoniale che la chiesa cattolica riconosce come diritto di ogni persona con la cautela necessaria a tutelare la fede del coniuge subordinando la concessione della dispensa alle cosiddette promissionis alle quali oggi risulta obbligato il solo fedele cattolico. Già al tempo della chiesa apostolica l’ammissione del matrimonio con nonna battezzati veniva giustificata per un verso della resistenza di assicurare la salvezza del coniugi hanno battezzato che per il tramite dell’unione mista poteva essere convertito e temperato dall’esigenza di garantire la salvezza della fede nel conio gelato che poteva essere messa in pericolo dall’influenza del coniuge non battezzato. Il divieto matrimoniale della disparità di conto era indirizzato prima di tutto a limitare l’influenza dei pagani e degli elittici verso la fine dell’antichità invece e nell’alto medioevo si cominciò ad accentuare il divieto del matrimonio tra giudei e cristiani. Durante il medioevo è emerso il problema dei matrimoni misti tra musulmani e cristiani, ritornato di stringente attualità in tempi più recenti a causa dell’incremento dei flussi migratori. Nella prospettiva del diritto canonico poiché il matrimonio è considerato un sacramento con metà destinato a durare tutta la vita è indissolubile le preoccupazioni riguardano la necessità di garantire unioni instabili obbiettivo che rischia di essere messi in crisi quando i 2 nubendi appartengano a confessioni religiose diverse che non solo non condividono il carattere dell’indissolubilità ma che ritengono ammissibile lo scioglimento del matrimonio tramite il ripudio o consentono la poligamia. Nel contesto sociale indù si pagano ulteriori divieti in materia di matrimonio collegati a specifiche enormi di parentela. È così che viene considerata incestuosa l’unione tra membri che ritengono di condividere il medesimo antenato o che celebrano assieme ai riti sacri per i defunti. Il buddhismo non pone limitazioni all’unione matrimoniale tra fedeli appartenenti a tradizioni differenti. Il carattere non sacramentale dell’unione esclude dalla stessa la partecipazione dei monaci i quali si limitano ad ufficiare una benedizione se una copia lo desidera. La partenza dei coniugi ha diverse tradizioni buddiste si riflette concretamente e visibilmente nella partecipazione di più monaci al rito ma non costituisce un impedimento all’unione. All’interno delle chiese cristiane non possiamo non ricordare che rispetta le chiese cristiane non cattoliche i cui fedeli possono contrarre con licenza i matrimoni mistici cattolici sono da tempo postino essere una serie di iniziative comuni finalizzate all’approfondimento non Di ciò che le separa quanto di ciò che le unisce con il fine di realizzare 1 costruttivo dialogo nel rispetto reciproco. Anche il rispetto ai matrimoni islamo cattolici gli orientamenti della chiesa cattolica sono andati col tempo evolvendosi: consentiti se preceduti dalla dispensa e pur non potendo avere la dignità Sacramentale essi sono attualmente sempre più frequenti. Sempre stata progressivamente attenzione al caso singolo attribuendo grande importanza alla preparazione precedente al matrimonio all’acquisizione della consapevolezza delle difficoltà a questo connesse e alle problematiche relative alle differenze di ruolo uomo donna e alle possibili difficoltà a questo collegate. Il tutto non per vietare in modo assoluto a tale tipologia di matrimoni ma per favorire una scelta consapevole rispetto alle difficoltà oggettive nelle quali queste unioni sovente incorrono. Non si dimentichi che nella prospettiva canonica si tratta di un rapporto che viene visto come asimmetrico poiché riconosce l’uomo tutta una serie di diritti negati invece alla donna. Molto più rigido e l'atteggiamento dell'ebraismo che vieta in modo categorico la celebrazione di matrimoni tra un soggetto ebreo per nascita o conversione è un soggetto di diversa appartenenza confessionale. Risultano evidenti le ragioni di tale rigidità se siano presenti le vicissitudini storiche del popolo ebraico e il ruolo fondamentale che la famiglia ha assolto nel corso dei secoli per la preservazione e la trasmissione dei valori dell'ebraismo. Matrimoni tra un ebreo e un ebreo vengono sanzionati con una nullità non sanabile oppure dalla successiva conversione del coniuge non ebreo. Per Halachà Si ritiene che tali matrimoni siano da vietare perché possono indurre la persona ebrea uomo donna che sia ad allontanarsi dall’ebraismo per adottare altri idoli. Secondo dei fonti rabbini che l’inefficace dell’unione mista è da attribuire alla mancanza di capacità giuridica del soggetto non ebreo visto che si afferma Che costoro non hanno in effetti la capacità giuridica di contrarre matrimonio. Uno strumento non secondario di dissuasione della celebrazione di matrimoni interreligiosi e il sistema di trasmissione dell’identità ebraica alla prole. Secondo le regole della Halachà l’identità ebraica si trasmette per via matrilineare quindi i figli nati da matrimonio saranno considerati ebrei solo senati da madre ebrea o da un matrimonio tra ebrei mentre nell’ipotesi in cui l’unione miss sia contratta tra un ebreo e una donna nonna ebrea i figli non si considerano ebrei. Un divieto la cui rigidità è stata attenuata in tempi recenti attraverso un ammorbidimento Dei criteri per la missione alla conversione del promesso sposo non ebreo per venire incontro alle esigenze della copia di diversa appartenenza confessionale. Questo si è verificato in alcune comunità riformate negli stati uniti così come in Israele in connessione all’ampia utilizzazione della legge del ritorno da parte di ebrei provenienti da diverse parti del mondo. Le famiglie miste Un ulteriore e non trascurabile effetto conseguente alla celebrazione dei matrimoni interreligiosi e che tale scelta inevitabilmente coinvolge insieme alla coppia altri soggetti e altri Piani. I figli con riguardo la loro appartenenza confessionale e alle scelte educative che li riguardano ma anche le famiglie di origine. Occorre aver presente che se il diritto canonico si limita a disciplinare il matrimonio nel suo profilo imminentemente spirituale lo stesso può dirsi di altre confessioni religiose che estendono la loro efficacia ad aspetti ulteriori.
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