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Diritto Commerciale 1 Luiss, Sintesi del corso di Diritto Commerciale

Sintesi concisa ma completa del programma di diritto commerciale 1.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 01/09/2021

alessandro-guerriero
alessandro-guerriero 🇮🇹

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Scarica Diritto Commerciale 1 Luiss e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! CAPITOLO 1: L'IMPRENDITORE 1.IL SISTEMA LEGISLATIVO. IMPRENDITORE E IMPRENDITORE COMMERCIALE Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore. Ma la disciplina non è identica per tutti gli imprenditori. Il c.c. distingue diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri: a) in base all'oggetto dell'impresa, si distingue fra imprenditore agricolo e imprenditore commerciale; b) in base alla dimensione dell'impresa, si distingue fra piccolo imprenditore e imprenditore medio-grande; c) in base alla natura del soggetto che esercita l'impresa, si distingue fra impresa individuale, società e impresa pubblica. Il c.c. detta innanzitutto un corpo di norme applicabile a tutti gli imprenditori, detto statuto generale dell’imprenditore, che comprende la disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza e dei consorzi e di alcuni contratti. Poi, detta lo statuto dell’imprenditore commerciale che disciplina l'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, la rappresentanza commerciale, le scritture contabili, il fallimento e le procedure concorsuali. Nel sistema del c.c. la qualifica di imprenditore agricolo e piccolo imprenditore ha rilievo solo al fine di delimitare l'ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, imprenditore agricolo e piccolo imprenditore (anche commerciale) sono esonerati dalla tenute delle scritture contabili, dall’assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre è stato esteso ad essi l'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese. Anche la distinzione fra impresa individuale, società e impresa pubblica rileva essenzialmente al fine di definire l'ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, le società commerciali (quelle diverse dalla società semplice) sono tenute all'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, anche se l’attività esercitata non è commerciale. (‘art. 2200). Gli enti pubblici che esercitano impresa commerciale sono sempre sottratti alla disciplina dell’imprenditore commerciale, in ogni caso, non sono mai esposti al fallimento. Dunque, lo statuto dell’imprenditore commerciale è statuto proprio dell’imprenditore privato, commerciale e non piccolo. 2.LA NOZIONE GENERALE DI IMPRENDITORE Secondo l'art. 2082 “è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Tale concetto si richiama alla nozione economica di imprenditore, ma che non coincide con la nozione giuridica di imprenditore. La nozione economica descrive l'imprenditore come il soggetto che nel processo economico svolge una funzione intermediaria fra chi dispone di fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Nello svolgimento di tale funzione l'imprenditore coordina, organizza e dirige, secondo scelte tecniche ed economiche, il processo produttivo (funzione organizzativa) assumendo su di sé il rischio di impresa, cioè il rischio che i costi non siano coperti da ricavi sufficienti. Il rischio di impresa giustifica il potere dell'imprenditore di dirigere il processo produttivo e legittima l'acquisizione da parte dello stesso dell’eventuale eccedenza dei ricavi sui costi (profitto). E proprio nell'intento di conseguire il massimo profitto si ravvisa il tipico movente dell'attività imprenditoriale. I requisiti giuridici minimi necessari e sufficienti che devono sussistere perché un dato soggetto sia qualificato come imprenditore e sia esposto alla disciplina dell'imprenditore sono stati fissati dal legislatore nell'art. 2082. Dall’art. 2082 si ricava che l'impresa è attività, cioè una serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria, che tale attività ha uno specifico scopo, cioè la produzione o scambio di beni o servizi e che tale attività ha specifiche modalità di svolgimento, cioè con organizzazione, economicità e professionalità. Si discute se siano altresì indispensabili: che l'intento dell'imprenditore sia quello di ricavare dei profitti (dunque, lo scopo di lucro); che i beni o servizi prodotti o scambiati siano destinati al mercato; che l’attività svolta sia lecita. Inoltre, i requisiti dell'art. 2082 sono rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme di diritto privato, ma altri requisiti sono richiesti da altri settori dell'ordinamento nazionale (es. diritto tributario) o dall'ordinamento comunitario. Non esiste, quindi, una sola nozione di impresa, ma vi sono più nozioni di impresa. 3.L'ATTIVITA' PRODUTTIVA L'impresa è attività (serie di atti coordinati) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Quindi l'impresa è attività produttiva. Per qualificare un'attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi vanno a soddisfare. È impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa. Inoltre, è irrilevante che l’attività produttiva possa qualificarsi nel contempo come attività di godimento o di amministrazione di determinati beni o del patrimonio del soggetto agente. Certo, non è impresa l’attività di mero godimento, cioè l’attività che non dà luogo alla produzione di nuovi beni o servizi (come il proprietario di immobili che ne gode i frutti concedendoli in locazione. È attività di godimento e produttiva quella di un proprietario di un fondo agricolo che destini lo stesso a coltivazione, oppure di un proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo. In questi casi, la locazione è accompagnata dall'erogazione di servizi collaterali che eccedono il mero godimento del bene. È attività di godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione l’impiego di proprie disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari con intenti di investimento, speculazione o concessione di finanziamento. Quindi, sono imprese commerciali le società di investimento e le società finanziarie. Sono imprese commerciali anche le holding, cioè le società che hanno per oggetto esclusivo l'acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società, con funzione di direzione, di coordinamento e di finanziamento della loro attività. 4.L'ORGANIZZAZIONE Non è concepibile un'attività senza programmazione e coordinamento della serie di atti in cui essa si sviluppa, ossia priva di organizzazione. Non è concepibile attività di impresa senza l’impiego coordinato di fattori produttivi (capitale e lavoro) propri e/o altrui. La funzione organizzativa dell'imprenditore si concretizza nella creazione di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e da beni strumentali, ossia di un'attività organizzata. Affinché un'attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di impresa non è necessario né che la funzione organizzativa dell’imprenditore abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate (infatti è imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale e il proprio lavoro), né che l’attività organizzativa dell’imprenditore si concretizzi nella creazione di un apparato strumentale fisicamente percepibile (locali, macchinari...). È vero che non vi può essere impresa senza impiego e organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi finanziari. Ciò che qualifica l'impresa è l'utilizzazione di fattori produttivi e il loro coordinamento da parte dell'imprenditore per un fine produttivo. 5(segue). IMPRESA E LAVORO AUTONOMO Si è posto il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente, cioè quando non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitale proprio o altrui, quindi manca la c.d. etero-organizzazione. Il problema si pone, quindi, per i prestatori autonomi d'opera manuale (elettricisti, idraulici, ecc.) o di servizi personalizzati (mediatori, agenti di commercio). La semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione imprenditoriale e in mancanza di un minimo di etero-organizzazione deve negarsi l'esistenza di un'impresa, anche se piccola. Una parte della dottrina, invece, basandosi sull’art. 2083 (sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia), ritiene imprenditore anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro, senza impiegare né lavoro altrui né capitali. Ma tale tesi non è condivisibile, in quanto la nozione di piccolo imprenditore non vuol indicare la superfluità di ogni forma di etero-organizzazione. L'organizzazione del lavoro dei propri familiari è pur sempre organizzazione del lavoro altrui. E comunque, il requisito dell’organizzazione è richiesto sia per l'imprenditore che per il piccolo imprenditore, ma non per il lavoratore autonomo. Dunque, un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è sempre necessario per aversi impresa, perseguito dall'imprenditore non comporta di per sé l'illiceità della causa o dell'oggetto dei singoli atti di impresa. | terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l'attività di impresa è illecita, quindi chi esercita attività commerciale illecita è esposto al fallimento. Nel caso di impresa illegale, l’illecito non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore con pienezza di effetti, ferme restando le conseguenti sanzioni amministrative e penali. Il titolare dell'impresa illegale è esposto al fallimento. Nel caso di impresa immorale, cioè di un'attività che abbia un oggetto illecito (es. traffico di droga), al fine di tutelare i terzi estranei all’illecito, si nega spesso l'esistenza di impresa. Questo, per il timore che il riconoscimento della qualità di imprenditore porti all'applicazione non solo delle norme che tutelano i creditori di un imprenditore commerciale (fallimento), ma anche delle norme che tutelano l'imprenditore nei confronti dei terzi (disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza sleale). In questi casi, in realtà, tale timore risulta ingiustificato, poiché deve applicarsi il principio secondo cui da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l’autore dell'illecito o per chi ne è stato parte. Dunque, chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore ed in quanto tale potrà fallire. Non potrà però avanzare le pretese del titolare di un'azienda o agire in concorrenza sleale contro altri imprenditori, in applicazione del principio della non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito. 11.IMPRESA E PROFESSIONI INTELLETTUALI Esistono delle attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di principio dal legislatore, come per le professioni intellettuali. | liberi professionisti non sono mai in quanto tali imprenditori. L'art. 2238 stabilisce che le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l'esercizio della professione costituisce elemento di un'attività organizzata in forma di impresa. | liberi professionisti, ma anche gli artisti e gli inventori, diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione intellettuale è esplicata nell’ambito di altra attività di per sé qualificabile come impresa. Ad es. il medico che gestisce una clinica privata, l'artista titolare di un teatro nel quale recita, ecc. In questi casi si è in presenza di due casi: l’attività intellettuale e l’attività di impresa, perciò troveranno applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina dettata per la professione intellettuale sia la disciplina dell'impresa. Il professionista intellettuale o l'artista che si limita a svolgere la propria attività, per contro, non diventa mai imprenditore. E, non lo diventa, non solo quando superi la soglia dell’autoorganizzazione del proprio lavoro, ma anche quando si avvale di collaboratori e di un complesso apparato di mezzi materiali, dando vita così ad un'organizzazione complessa di capitale e/o lavoro. AI professionista intellettuale che impieghi collaboratori, pur non diventando imprenditore, si applicano le norme che disciplinano il lavoro nell'impresa, ma non la restante parte. Questa scelta legislativa si è giustificata dal fatto che nell'attività intellettuale mancherebbero sempre e comunque l'uno o l’altro dei requisiti richiesti dall'art. 2082. Tuttavia, i requisiti propri dell'attività di impresa possono ricorrere tutti anche nell'esercizio delle professioni intellettuali. Infatti, l’attività professionale è attività produttiva di servizi suscettibili di valutazione economica, è un'attività condotta con metodo economico e a scopo di lucro. Si conclude, perciò, che i professionisti non sono imprenditori per libera opzione del legislatore, ispirata dalla particolare considerazione sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali. Nella pratica non è sempre agevole stabilire se un'attività costituisce professione intellettuale. Per tale distinzione si deve tener conto non della iscrizione in albi professionali (criterio formale), ma del carattere intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale). CAPITOLO 2: LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI A) IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE (in base all'oggetto) 1.IL RUOLO DELLA DISTINZIONE Il codice civile distingue, in base all'oggetto, gli imprenditori in imprenditore commerciale (art. 2195) e imprenditore agricolo (art. 2135). L'imprenditore commerciale è destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata sull'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, con funzione di pubblicità legale, sull'obbligo di tenuta delle scritture contabili e sull'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali. La nozione di imprenditore agricolo ha valore essenzialmente negativo. Ha la funzione di restringere l'ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale. L'imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l'imprenditore in generale ed è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili, dall'assoggettamento alle procedure concorsuali. Originariamente l'imprenditore agricolo era esonerato anche dall'iscrizione nel registro delle imprese, tranne per le società agricole. Poi, l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese è stato introdotto dalla riforma del 1993, con funzione di pubblicità notizia (legge 580/1993) e, la recente riforma ne ha stabilito la funzione di pubblicità legale (d.lgs. 228/2001), così come previsto per gli imprenditori commerciali. Si discute sul fatto se si debba ammettere una terza categoria di imprese, ossia le imprese civili, ossia quelle imprese non menzionate dal legislatore e che non possono qualificare né come commerciali, né come agricoli. 2.L’IMPRENDITORE AGRICOLO. LE ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI L'art. 2135 nel testo originario stabiliva: è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura. Le attività agricole vengono distinte in due categorie: attività agricole essenziali e attività agricole connesse. Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo. Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente agricole, ma che negli ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni, a causa del progresso tecnologico che ha coinvolto anche l'agricoltura e che l’ha trasformata in un'agricoltura industrializzata. Oggi, l’attività agricola può dar luogo ad investimenti ingenti di capitali e ciò può far dubitare sulla correttezza della loro disciplina. Che l'imprenditore agricolo sia sempre e comunque esonerato dalla disciplina dell’imprenditore commerciale è una scelta legislativa che dà luogo a molti contrasti. È necessario infatti stabilire fino a che punto l'evoluzione tecnologica dell'agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell'impresa agli effetti del c.c. Vi era, infatti, chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali, cioè ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale. Poi, vi era chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell’agricoltore e, quindi, che doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi produce specie animali o vegetali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo o dallo sfruttamento della terra (es. coltivazioni artificiali e allevamenti in batteria). La recente riforma ha però optato per la prima impostazione, al fine di contrastare l'abbandono dalle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura, ma che non giustifica la sottrazione al fallimento dell'imprenditore agricolo medio - grande. Il d.lgs n. 228/2001 ridefinisce (con l'obiettivo di contrastare l'abbandono delle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura) la nozione di imprenditore agricolo, sostituendo imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono “le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”. In base a questa nuova nozione si deve perciò ritenere che la produzione di specie vegetali o animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Quindi si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo: l’orticoltura, le coltivazioni in serra e vivai e la floricoltura. Sono coltivazioni anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta. Quanto alla selvicoltura, è l’attività di cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti. Non costituisce perciò attività agricola l'estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco. Nell’allevamento di animali, il criterio del ciclo biologico, porta a riconoscere come attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo o utilizzando il fondo per allevamenti in batteria, oppure allevamenti in cui gli animali sono alimentati con mangimi naturali non ottenuti dal fondo. Rimane, invece, attività commerciale l'acquisto di animali all'ingrosso per rivenderli. Per allevamento di animali deve intendersi sia l'allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), sia l'allevamento di cavalli da corsa o animali da pelliccia, l'allevamento dei cani gatti. La sostituzione nella nuova nozione del termine “bestiame” col termine “animali”, qualifica come impresa agricola anche l'allevamento di animali da cortile e l’apicoltura. È attività agricola anche l’acquacoltura (pesci). All’imprenditore agricolo (essenziale) è equiparato l'imprenditore ittico (pesca). 3(segue). LE ATTIVITA' AGRICOLE PER CONNESSIONE La seconda categoria di attività agricole sono le attività agricole connesse. La vecchia nozione di imprenditore agricolo le individuava: a) in quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell'esercizio normale dell'agricoltura; b) in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l'allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura, motoaratura per conto terzi). La nuova nozione intende per attività connesse (terzo comma art. 2135): a) le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un'attività agricola essenziale; b) le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche. Entrambe sono, oggettivamente, attività commerciali, ma sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle attività agricole essenziali. È importante precisare quando un'attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione. Ci sono due condizioni necessarie: 1) è necessario che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e sia un'attività coerente con quella connessa (connessione soggettiva); 2) è necessario che vi sia una connessione oggettiva fra le due attività. Non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell'esercizio normale dell'agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste abbiano carattere accessorio. Entrambi questi criteri sono stati sostituiti dal criterio della prevalenza. Necessario e sufficiente è solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall'esercizio dell'attività agricola essenziale, o di beni o servizi forniti mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda agricola. 4.L'IMPRENDITORE COMMERCIALE Secondo l'art. 2195 c.c.1° comma, sono imprenditori commerciali gli imprenditori che esercitano: 1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi: darà vita ad impresa commerciale ogni attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come “attività industriale”; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni: è impresa commerciale ogni attività di scambio che realizzi intermediazione nella circolazione di beni o servizi; 3) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria: l'impresa di trasporto può essere considerata specificazione dell'attività produttiva di servizi; Della nozione originaria data dalla legge fallimentare sopravviveva solo la parte secondo cui in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Ma, anche, questa parte di norma non era più salda, visto che la Corte Costituzionale aveva manifestato l'orientamento che esso non trovasse applicazione nei confronti delle società artigiane. Se la parziale abrogazione della definizione della legge fallimentare aveva risolto alcuni problemi interpretativi il permanere in vigore della sola definizione del codice civile di piccolo imprenditore creava però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento. Accertare in concreto la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole. Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal decreto correttivo , ha reintrodotto nel nuovo art. 1, 2° comma, legge fallimentare, una definizione di piccolo imprenditore basata su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare, perciò non definisce più chi è "il piccolo imprenditore", ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell'impresa, al di sotto dei quali l'imprenditore commerciale non fallisce. Si è voluto così porre (auspicabilmente) un freno alle infinite dispute scaturite dall'esistenza di una duplice definizione di piccolo imprenditore. L'intervento correttivo del 2007 ha inoltre cercato di definire meglio le soglie dimensionali rilevanti, dato che la formulazione introdotta con la riforma del 2006 aveva adito a numerose incertezze e ad un eccessivo ampliamento della categoria di imprenditori non fallibili. In base all'attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l'imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) di aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila . Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svalutazione monetaria. Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento. Inoltre, risolvendo un punto controverso, l'attuale disciplina pone l'onere della prova del rispetto dei criteri a carico del debitore. Diversamente che in passato, anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati. In base alla nuova formulazione della legge fallimentare si realizza dunque un migliore coordinamento con la disciplina codicistica, nel senso di escludere ogni interferenza con la definizione dell'art.2083 c.c. sull'applicazione della legge fallimentare. La definizione di piccolo imprenditore che dà il codice civile rileva solo ai fini dell'applicazione della restante parte dello statuto dell'imprenditore commerciale (iscrizione nel registro delle imprese, obbligo di tenuta delle scritture contabili). 9.L'IMPRESA ARTIGIANA La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall'art. 2083. Essendo definizioni dettate da leggi speciali esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore. Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall'art. 1, 2° comma, legge fallimentare. Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa un'eccezione per l'impresa artigiana. La legge 860/1956 (legge sull'artigianato) affermava espressamente che l'impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella stessa legge era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice e della legge fallimentare. Il dato caratterizzante l'impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Perciò, le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento. La legge 860/1956 è stata abrogata dalla legge 443/1985 (legge quadro sull’artigianato). La nuova legge contiene una propria definizione dell'impresa artigiana, basata: a) sull'oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni; b) sul ruolo dell’artigiano nell'impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi. Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti (il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956), ma è riaffermato il principio che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana. La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l'imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un’altra s.r.1. o socio di un'altra s.a.s. e, recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società. La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l'elevazione del numero dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità. L'impresa artigiana si caratterizza anche per il rilievo del lavoro personale dell'imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perciò, si deve convenire che la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell'alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore. Tuttavia, ed è questo il punto fondamentale, la legge quadro non afferma più che l'impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge. Il suo scopo, infatti, era quello di fissare i principi direttivi che dovrebbero essere osservati dalle regioni nell'’emanazione dei provvedimenti a favore dell'artigianato. Il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato , edi limiti dimensionali fissati In mancanza, l'imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo ai fini civilistici e/o del diritto fallimentare, quindi potrà fallire. 10.L'IMPRESA FAMILIARE È impresa familiare (art. 230bis) l'impresa nella quale collaborano (anche attraverso il lavoro nella famiglia) il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell'imprenditore: c.d. famiglia nucleare. L'impresa familiare non va confusa con la piccola impresa. Può aversi piccola impresa senza che sia impresa familiare e viceversa. Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell'impresa, attraverso il riconoscimento per i membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuativo nella famiglia e nell'impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi. Sul piano patrimoniale sono riconosciuti i seguenti diritti: a) diritto al mantenimento, secondo le condizioni patrimoniali della famiglia; b) diritto di partecipazione agli utili dell'impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato nell'impresa e nella famiglia; c) diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell'azienda, anche dovuti ad avviamento, sempre in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; d) diritto di prelazione sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda stessa. Sul piano gestorio è previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e su talune decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. Ciascun familiare ha diritto a un solo voto e alle decisioni non prenda parte l'imprenditore in quanto destinatario della decisione adottata dagli altri membri della famiglia. Le decisioni in merito alla gestione ordinaria rientrano nella competenza esclusiva dell'imprenditore. La violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull’efficacia degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente validi nei confronti dei terzi. Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti e tale diritto è inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda. La disciplina dell'impresa familiare ha sollevato molti problemi interpretativi, sia per quanto riguarda i rapporti interni all'impresa, sia per quanto riguarda i rapporti con i terzi. Problemi condizionati dal fatto se l'impresa familiare resti un'impresa individuale o dia vita a un'impresa collettiva (società, associazione non riconosciuta, associazione in partecipazione). Oggi prevale la tesi secondo cui la disciplina delle prestazioni lavorative dei familiari dell’imprenditore non altera la struttura individuale dell'impresa e non incide sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore. Accogliendo questa tesi, i diritti patrimoniali dei partecipanti all'impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore. L'imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell'impresa familiare, sicché solo a lui saranno imputati gli effetti degli atti posti in essere nell'esercizio dell'impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte. Infine, se l'impresa è commerciale (e non piccola) solo l'imprenditore sarà eventualmente esposto al fallimento. C) IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA. (in base alla natura giuridica del soggetto titolare dell'impresa) 11.L’IMPRESA SOCIETARIA Il terzo ed ultimo criterio di distinzione della disciplina delle imprese è dato dalla natura giuridica del soggetto titolare dell'impresa che distingue fra impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica. Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall’ ordinamento per l'esercizio collettivo di attività di impresa. Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciali, mentre le altre società possono svolgere attività commerciali ed agricole. Le società diverse da quella semplice sono dette società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli (società commerciali con oggetto agricolo) o imprenditori commerciali (società commerciali con oggetto commerciale) a seconda dell’attività esercitata. L'applicazione alle società commerciali degli istituti dell’imprenditore commerciale segue alcune regole: parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività svolta, come per l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese e per la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l'esonero delle società commerciali che gestiscono un'attività agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali. A seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006, anche le società possono essere piccoli imprenditori, e tali società sono esonerate anch'esse dalle procedure concorsuali. Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore commerciale trova poi l'impresa sociale, o di cessione dell'azienda. Le finalità di interesse generale dell'impresa sociale sono favorite dal legislatore con alcuni privilegi. Il primo privilegio è quello di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata. In particolare, può essere impiegato qualsiasi forma societaria anche se l'impresa non ha uno scopo lucrativo. Inoltre, più imprese sociali possono formare fra loro un gruppo di imprese, holding. Invece, non possono avere la forma di imprese sociali le amministrazioni pubbliche, le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi. L'impresa sociale non è un nuovo tipo di ente diverso da quelli già previsti e regolati dall'ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere a certe condizioni e che comporta l'applicazione di una disciplina speciale. Ne consegue che, ove non espressamente derogata, continuerà a trovare applicazione la disciplina propria dell'ente che esercita l'impresa sociale. Il secondo privilegio è quello di poter limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe la responsabilità personale illimitata di costoro. Più precisamente: se l'impresa sociale è dotata di un patrimonio netto di almeno ventimila euro, dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese risponde delle obbligazioni assunte soltanto l’organizzazione con il suo patrimonio. Qualora, però, il patrimonio diminuisca per perdite di oltre un terzo (a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni assunte ne rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell'impresa, ma non gli altri soci. Di fatto, la limitazione di responsabilità opera solo a vantaggio delle imprese sociali in bonis, ma cessa quando il patrimonio diventa insufficiente. Le imprese sociali sono soggette anche a delle regole speciali per quanto riguarda l'applicazione degli istituti tipici dell'imprenditore commerciale. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell'attività esercitata, esse: devono iscriversi in un'apposita sezione del registro delle imprese, devono redigere le scritture contabili, in caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta ‘amministrativa, invece che a fallimento. Le organizzazioni che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico, osservando le disposizioni in merito all'atto costitutivo. L'atto costitutivo deve: 1) determinare l'oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge; 2) enunciare l'assenza dello scopo di lucro; 3) indicare la denominazione dell'ente, integrata dalla locuzione “impresa sociale”; 4) fissare i requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali; 5) disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto del principio della non discriminazione; 6) prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell'attività di impresa nell’assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate (devono essere coinvolti anche i lavoratori volontari). L'atto costitutivo deve, inoltre, prevedere una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili, iscritti presso il registro del Ministero della Giustizia, ed una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione, che è riservato ad uno o più sindaci. Ai sindaci, che devono vigilare anche sull'osservanza delle finalità sociali dell'impresa, è riconosciuto, in qualsiasimomento, il potere di ispezione e controllo e di chiedere notizie agli amministratori. Le imprese sociali sono sottoposte anche a dei controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni. Il Ministero del Lavoro può anche disporre la perdita della qualifica di impresa sociale se rileva l'assenza delle condizioni per il riconoscimento o se riscontra violazione della disciplina e, diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l'impresa non ottempera entro un congruo termine. Ne consegue la cancellazione dell'impresa dal registro e l'obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi determinati dallo statuto. CAPITOLO 3: L'ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI IMPRENDITORE 1.PREMESSA L'acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l'applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme che l'ordinamento ricollega a tale qualifica e, se l’attività è commerciale, di quelle specificatamente dettate per l'imprenditore commerciale. Si diventa imprenditore commerciale, secondo l’art. 2082, con l'esercizio di attività di impresa. Per poter affermare che un soggetto è diventato imprenditore è necessario che l'esercizio dell'attività di impresa sia a lui giuridicamente riferibile, sia a lui imputabile. L'art. 2082 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato l'esercizio dell'impresa, con conseguente acquisto della qualità di imprenditore. E nulla dice circa il momento finale dell'attività di impresa, con conseguente perdita della qualità di imprenditore. A) L’IMPUTAZIONE DELL'ATTIVITA’ DI IMPRESA 2.ESERCIZIO DIRETTO DELL'ATTIVITA’ DI IMPRESA Principio generale del nostro ordinamento è che centro di imputazione degli effetti dei singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Solo costui è obbligato nei confronti del terzo contraente. Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali, la c.d. spendita del nome, risponde ad esigenze di certezza giuridica ed è chiaramente enunciata in tema di mandato senza rappresentanza. Dunque, la qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l’attività di impresa compiendo in nome proprio gli atti relativi. Non diventa imprenditore chi esercita l'altrui impresa quando operi spendendo il nome dell’imprenditore, per effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall’imprenditore o riconosciutogli dalla legge. 3.ESERCIZIO INDIRETTO DELL'ATTIVITA' DI IMPRESA. LA TEORIA DELL'IMPRENDITORE OCCULTO L'esercizio di attività di impresa può dar luogo a una dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato. Questo fenomeno è detto esercizio dell'impresa tramite interposta persona. Si hanno due soggetti: il soggetto (persona fisica o giuridica) che compie in nome proprio i singoli atti di impresa, detto imprenditore palese o prestanome e il soggetto (persona fisica o giuridica) che somministra al prestanome i mezzi finanziari necessari, dirige di fatto l'impresa e fa propri i guadagni, detto imprenditore occulto o indiretto. Questo modo di operare solleva dei problemi quando gli affari vanno male ed il prestanome sia una persona fisica nullatenente o una spa o srl con capitale irrisorio, detta società di comodo o etichetta. Ciò potrebbe causare notevoli ripercussioni nei confronti dei creditori, soprattutto se piccoli. Infatti, i creditori potrebbero provocare il fallimento del prestanome, in quanto esso ha agito in nome proprio ed ha perciò acquistato la qualità di imprenditore commerciale. Ma, essendo nullatenente o quasi, i creditori non potranno ricavarne nulla. Con ciò il rischio di impresa non sarà sopportato dal reale imprenditore, ma da questi è trasferito, attraverso l'imprenditore palese, sui creditori. Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare questi pericoli negativi per i creditori, derivanti dall’applicazione del principio della spendita del nome, escludendo che la stessa sia requisito necessario ai fini dell'imputazione della responsabilità per i debiti dell'impresa. Per l'attività di impresa opererebbero dei principi che consentirebbero di imputare anche all'imprenditore occulto i debiti contratti dall’imprenditore palese, e quindi di sottoporre anche l'imprenditore occulto al fallimento. La responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e dell’imprenditore occulto, con esclusione di quest’ultima dal fallimento, è stata affermata muovendo dall'idea che nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata la inscindibilità del rapporto del rapporto potere-responsabilità. Chi esercita il potere di direzione di un'impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde delle relative obbligazioni. Tale principio si desume da una serie di norme dettate in tema di società di persone. Ulteriore passo in avanti è dato dalla teoria dell’imprenditore occulto, secondo cui l'imprenditore occulto non solo risponderà insieme al prestanome, ma fallirà sempre e comunque qualora fallirà il prestanome. La parificazione sul piano della responsabilità di impresa sarebbe giustificata dall'art. 147, 2° comma della vecchia legge fallimentare, oggi confluito nel 4° comma. Tale norma completa il principio secondo cui il fallimento di una società comporta il fallimento dei soci a responsabilità illimitata e dispone che il fallimento della società si estenda ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi. Cioè, si abbia fallimento del socio occulto di società palese. La teoria proseguiva affermando che l'art. 147, 2° comma, legge fallimentare, fosse applicabile per analogia alla diversa ipotesi in cui i soci abbiano occultato l’esistenza stessa della società. Ossia quando si è in presenza di una società occulta, dove chi contratta con i terzi si presenta come imprenditore individuale ma in realtà è socio occulto di una società occulta. Oggi, il fallimento dei soci occulti di una società occulta è disposto espressamente dal 5° comma dell'art. 147, legge fallimentare. Se fallisce la società occulta, secondo tale teoria, è inevitabile che fallisca anche l'imprenditore occulto. È affermata anche la responsabilità del socio tiranno di una spa, cioè dell’azionista che usa la società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento con l'assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario. Regole violate anche attraverso la confusione dei patrimoni della società e del socio. È affermata anche la responsabilità del socio sovrano, cioè dell’azionista che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini la società in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo. Dunque, secondo tale teoria, si sanziona con la responsabilità personale e con il fallimento ogni forma di dominio occulto o palese dell’altrui impresa. Ma tale critica non può essere condivisa (vedi prossimo paragrafo). 4(segue). CRITICA. L'IMPUTAZIONE DEI DEBITI DI IMPRESA. Questa tesi non può essere condivisa, in quanto né le norme societarie né la legge fallimentare consentono di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere, né ad assumere la qualità di imprenditore, solo perché egli è il vero imprenditore di un'impresa individuale formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali. Non lo dimostra la disciplina societaria in quanto è vero che nelle società di persone il socio amministratore non può limitare la propria responsabilità, ma non è vero che la responsabilità illimitata è indissolubilmente legata al potere di gestione. Il collegamento indissolubile fra potere di gestione e responsabilità illimitata non è dimostrabile neppure in base all'art. 147 della legge fallimentare La teoria dell’imprenditore occulto fonda le sue conclusione su un'estensione analogica: dal fallimento del socio occulto di società palese e dal fallimento del socio occulto di una società occulta, passa per analogia, al fallimento dell’imprenditore occulto. Ma non è così. Nel fallimento del socio occulto di società palese (regolata dall'art. 147, 4° comma) è fuori contestazione che esista una società con soci a responsabilità illimitata, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di questa società e che gli atti di impresa siano posti in essere in nome della società. Ciò che è stato occultato è il numero reale dei soci e il socio occulto fallisce per lo stesso motivo per cui falliscono i soci palesi, ossia perché fa parte della società. Quindi per un criterio formale: la partecipazione a una società di persone. Nel fallimento del socio occulto di società occulta (regolata dall'art. 147, 5° comma) è fuori contestazione che esiste una società a responsabilità illimitata e che i soggetti successivamente scoperti ne facciano parte. | soci occulti sono tuttavia chiamati a rispondere di atti posti in essere non in nome della società, ma in nome di un socio che opera con i terzi come mandatario senza rappresentanza. | soci occulti, mediante la non esteriorizzazione del vincolo sociale, cercano di sottrarsi al fallimento personale ed alla responsabilità illimitata per i debiti sociali, che sono invece regole inderogabili del tipo di società scelto (società in nome collettivo). Ma, i soci che intendono limitare la propria responsabilità per i debiti sociali devono farlo costituendo un diverso tipo societario, che preveda tale beneficio. Ciò che l'ordinamento intende colpire è l'uso distorto della forma societaria. Anche i soci occulti di società occulta falliscono e rispondono in base a un criterio formale ed oggettivo: la partecipazione ad una società di persone. L'art. 147, 1° comma, della legge fallimentare, circoscrive il fallimento dei soci illimitatamente responsabili a tre soli tipi societari: società in nome collettivo (snc), società in accomandita semplice (sas) e società in accomandita per azioni (sapa). Pertanto, delle imprese, la giurisprudenza affermava che, nonostante fosse cancellata dal registro delle imprese, la società si riteneva esistente ed esposta al fallimento fin quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. Quindi l'art. 10 legge fallimentare non valeva per le società, in quanto una società poteva fallire anche dopo anni dalla cessazione dell'attività di impresa e dalla cancellazione dal registro delle imprese. La situazione cambiò a seguito degli interventi della Corte Costituzionale a partire dal 1999. Infatti, dapprima, la Corte dichiarò incostituzionale la parte dell'art. 10 legge fallimentare, dove non prevedeva che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese, a prescindere dall’integrale pagamento dei debiti. In seguito, la Corte, al fine di non provocare disparità con l'imprenditore individuale, sostenne che anche per quest’ultimo il termine annuale dovesse decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese, salva però la possibilità per i creditori di dimostrare la prosecuzione dell'attività da parte dell’imprenditore individuale anche dopo la cancellazione. Il d.lgs. n° 5/2006 (ulteriormente corretto dal d.lgs 169/2007) ha riformato l'art. 10 legge fallimentare per conformarlo con i principi enunciati dalla Corte Costituzionale. Il nuovo articolo 10 legge fallimentare dispone ora che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente dalla stessa o entro l’anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione d'ufficio degli imprenditori collettivi è fatta salva la facoltà di dimostrare il momento effettivo della cessazione dell'attività da cui decorre il termine di un anno. L'attuale dato normativo consente di affermare che oggi la cancellazione del registro delle imprese è condizione necessaria affinché l'imprenditore individuale o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento. A seguito dell'intervento correttivo del 2007, infatti, il debitore non può dimostrare d'aver cessato l'attività d'impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale termine, nemmeno se si tratti di persona fisica. Ne consegue , benché il punto sia controverso , che le società irregolari (vale a dire , non iscritte nel registro delle imprese) e le società occulte potranno essere dichiarate fallite senza limiti di tempo finché sussistono debiti insoluti, in quanto per loro il termine annuale non decorre. Del pari, l'imprenditore persona fisica non iscritto resta esposto al fallimento fin quando non ha estinto tutti i debiti di impresa. La cancellazione non è però anche sufficiente, ma deve accompagnarsi anche all’effettiva cessazione dell'attività di impresa: il creditore o il PM sono ammessi a provare la non effettiva cessazione. C) CAPACITA’ E IMPRESA 9.INCAPACITA' E INCOMPATIBILITÀ’ La capacità all'esercizio di un'attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi con il compimento della maggiore età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione. L'esercizio di attività di impresa da parte di un incapace non fa sorgere la qualità di imprenditore in capo all'incapace, anche se i singoli atti compiuti restano validi. Non sono limitazioni alla capacità di agire, ma incompatibilità, i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni. La violazione di tale divieti non preclude l'acquisto della qualità di imprenditore, ma espone solo a sanzioni amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento (art. 219 ). Non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale nemmeno l’inabilitazione temporanea all'esercizio di attività commerciale che consegue alla condanna per bancarotta o per ricorso abusivo al credito in caso di fallimento (art. 216 legge fallimentare). 10.L'IMPRESA COMMERCIALE DELL’INCAPACE È possibile l'esercizio di attività di impresa per conto e nell'interesse di un incapace (minore e interdetto) o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), con l'osservanza delle disposizioni dettate a riguardo. Il codice non prevede regole particolari per l’attività agricola, sicché si applicano le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte di un incapace. È prevista, invece, una disciplina specifica per l’attività commerciale. L'amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e l'integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazione aleatorie o di pura sorte. Perciò il rappresentante legale del minore o dell’interdetto è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall’autorità giudiziaria con autorizzazione concessa atto per atto. Gli stessi principi reggono il compimento di atti giuridici da parte dell’inabilitato o del minore emancipato, che agiscono personalmente con l'assistenza di un curatore. L'attività commerciale è per sua natura non conservativa del patrimonio e soprattutto è attività rischiosa. Il legislatore considera con sfavore l'impiego del patrimonio di un incapace in attività commerciali e in tale prospettiva pone un divieto assoluto di iniziare impresa commerciale per il minore, l’interdetto e l’inabilitato. a) In nessun caso è consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell'interesse del minore. Quando questi acquista, per successione ereditaria o per donazione, una preesistente attività commerciale, il rappresentante legale può essere autorizzato dal tribunale a continuare l'esercizio dell'impresa. Per evitare l'interruzione temporanea dell'attività, il giudice tutelare può consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa fin quando il tribunale non abbia autorizzato la continuazione. Una volta autorizzato definitivamente l'esercizio dell'impresa, il genitore o il tutore è legittimato a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa, siano essi di ordinaria amministrazione che di straordinaria ‘amministrazione. Sono soggetti a specifica autorizzazione quegli atti che non sono finalizzati alla gestione dell'impresa (es. vendita dell'immobile sede dell'impresa). Per l’interdetto valgono le stesse regole del minore sottoposto a tutela e l'autorizzazione può riguardare anche l'impresa iniziata dallo stesso interdetto prima dell'interdizione. b) L’inabilitato è un soggetto con capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione. Per essi è vietato iniziare una nuova attività commerciale, mentre è consentita solo la continuazione di un'attività commerciale preesistente. Una volta autorizzata la continuazione dell'impresa, l’inabilitato potrà esercitare personalmente l'impresa, sia pure con l'assistenza del curatore e con il consenso di quest’ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione. Il tribunale può subordinare l'autorizzazione alla nomina di un institore (direttore generale), nomina che può essere fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore. c) Il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale all’inizio di una nuova attività commerciale. Con l'autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità di agire, potendo gestire l'impresa senza l'assistenza di un curatore e potrà compiere anche atti di straordinaria amministrazione. d) Il beneficiario di amministrazione di sostegno conserva capacità di agire per tutti gli attiche non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza dell’amministrazione di sostegno. Di conseguenza, egli potrà liberamente iniziare o proseguire un'attività di impresa senza assistenza, salvo che il giudice tutelare disponga diversamente nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno o con successivo decreto motivato. | provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese. L'esercizio autorizzato dell'impresa da parte del tribunale determina l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale da parte dell'incapace. Tale qualità è acquistata dal minore emancipato e dall'inabilitato, in quanto l'impresa è da essi esercitata personalmente. Tale qualità è acquistata anche dal minore e dall’interdetto, in quanto tutti gli attisono compiuti dal rappresentante legale in loro nome. L’incapace resta esposto, perciò, a tutte le conseguenze che derivano dalla qualità di imprenditore commerciale, compresa l'esposizione al fallimento. Il fallimento del minore tuttavia solleva delicati problemi di giustizia sostanziale soprattutto per quanto riguarda l'applicazione delle norme fallimentari che stabiliscono le incapacità personali e le sanzioni penali per il fallito. Se per le seconde è possibile infatti evitare la loro applicazione al minore trasferendole sulla sfera del rappresentante legale in quanto il minore non può essere imputato di reati da altri commessi e che non poteva impedire, è più difficile sottrarre il minore fallito alle incapacità personali in quanto l'incapacità è subordinata alla dichiarazione di fallimento e solo il minore in quanto imprenditore commerciale può essere dichiarato fallito, non invece il genitore o il tutore che imprenditore non è. CAPITOLO 4: LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE 1.PREMESSA L'imprenditore commerciale è destinatario di una particolare disciplina dell'attività, in parte comune con gli altri imprenditori, detto statuto generale dell’imprenditore, in parte propria e specifica, detto statuto speciale dell’imprenditore commerciale. Inoltre, ci sono alcuni tipi di imprese commerciali, che svolgono attività di particolare rilievo economico e/o sociale, che sono destinatarie di un’ulteriore normativa speciale e settoriale, prevista da leggi speciali. A) LA PUBBLICITA’ LEGALE 2.LA PUBBLICITA’ DELLE IMPRESE COMMERCIALI Da sempre gli imprenditori avvertono l'esigenza di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e non contestabili sulle aziende con cui entrano in contatto. Cioè hanno la necessità di ricevere e dare informazioni di carattere organizzativo rilevanti per il sicuro svolgimento della vita economica. Per le imprese commerciali tale esigenza è stata soddisfatta dal legislatore con l'introduzione di un sistema di pubblicità legale. Cioè, ha previsto l'obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita dell'impresa, secondo forme e modalità predeterminate per legge. In tal modo, le informazioni ritenute legislativamente rilevanti non solo sono rese accessibili ai terzi interessati (pubblicità notizia), ma sono anche opponibili a chiunque (conoscibilità legale). Il codice civile del 1942 prevedeva come strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali il registro delle imprese. L'entrata in funzione del registro delle imprese era però subordinata a dei regolamenti di attuazione che sono arrivati solo nel 1995. Nel frattempo, ha trovato applicazione il regime transitorio, impemiato sull'iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria del Tribunale e sull'esonero temporaneo dall'iscrizione degli imprenditori commerciali individuali e degli enti pubblici economici, sicché il sistema di pubblicità legale operava solo per le società commerciali e per i consorzi con attività esterna. Nell'attesa del registro delle imprese la situazione si è ulteriormente complicata con l'introduzione di nuove forme di pubblicità per le società di capitali e le società cooperative. Per le società di capitali, nel 1969, fu prevista, per una serie di atti, la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società per azioni a responsabilità limitata (Busarl), in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese (cancelleria del tribunale). Per le società cooperative, nel 1973, fu introdotta la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei consorzi di cooperative (Busc), sempre in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese. Inoltre, leggi speciali, previdero ulteriori adempimenti pubblicitari, con valore di pubblicità notizia. La situazione si sblocca con la legge n. 580/1993, contenente norme per il riordino delle camere di commercio, che ha finalmente istituito il registro delle imprese, che è divenuto operativo dal 1997, ponendo fine al regime transitorio, cessando di esistere anche il Busarl e il Busc, sicché per tutte le società di capitali e cooperative l’unico sistema di pubblicità legale è il registro delle imprese. La nuova disciplina del registro delle imprese ha però introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal codice del 1942: a) L'attuale registro delle imprese non è più solo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali, ma è anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti, l'iscrizione nel registro delle imprese è stata estesa agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori, alle società semplici e nel 2001 è stata estesa anche alle società tra avvocati. b) Latenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio, con cessazione dei compiti in passato svolte dalle cancellerie del tribunale. c) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche (non più cartacee). Il registro delle imprese è pubblico. Chiunque può consultarne i dati sui terminali installati presso l'ufficio o su terminali collegati tramite il sistema informatico delle camere di commercio (Telemaco). Ciascun ufficio rilascia certificati e copie di atti tratti dai propri archivi informatici. esercitano attività commerciale (art. 2214) Ma non vi è una coincidenza fra la categoria degli imprenditori commerciali e coloro che secondo il codice civile sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Infatti, la disciplina della tenuta delle scritture contabili prevista dal codice civile non si applica ai piccoli imprenditori e quindi nemmeno ai piccoli imprenditori che esercitano attività commerciale. Inoltre, le società commerciali devono ritenersi obbligate alla tenuta delle scritture commerciali anche se non esercitano attività commerciale. Vi è l'obbligo di tenuta delle scritture contabili anche per gli enti pubblici e per gli enti di diritto privato diversi dalla società che svolgono attività commerciale in via secondaria ed accessoria, sia pure limitatamente all’attività commerciale esercitata. Infine, sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili anche le imprese sociali indipendentemente dalla natura commerciale o agricola dell'attività esercitata. 6.LE SCRITTURE CONTABILI OBBLIGATORIE. REGOLARITA' E CONTROLLO. Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell’articolazione territoriale dell'impresa. L'art. 2214 pone un principio generale nello stabilire che l'imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa. Inoltre, stabilisce che in ogni caso devono essere tenuti il libro giornale, il libro degli inventari e gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie della corrispondenza spedita. Il libro giornale (art. 2216) è un registro cronologico-analitico, in cui sono indicate giorno per giorno le operazioni relative all'esercizio dell'impresa. Basta che le operazione siano registrate nell'ordine in cui sono compiute e non necessariamente il giorno in cui sono compiute. Il libro degli inventari (art. 2217) è un registro periodico-sistematico, che deve essere redatto all’inizio dell'impresa e successivamente ogni anno. L'inventario ha la funzione di fornire il quadro completo della situazione patrimoniale dell’imprenditore. Deve perciò contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività dell'imprenditore, anche se estranee all'impresa. L'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, o meglio con il bilancio comprensivo dello stato patrimoniale e del conto economico, che deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite. Nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni. In base alla natura e alle dimensioni dell'impresa, l'imprenditore è obbligato alla tenuta di altre scritture contabili, come il libro mastro (singole operazione registrate non cronologicamente ma sistematicamente, es. per cliente), libro cassa (entrate ed uscite di danaro), libro magazzino (entrata e uscita merci). La scelta delle altre scritture è rimessa alla discrezionalità dell’imprenditore. Per garantire la veridicità delle scritture contabili ed in particolare per evitare che vengano alterate è imposta l'osservanza di alcune regole formali e sostanziali nella loro tenuta. L'inosservanza di tale regole rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti. Le regole formali sono state progressivamente: il libro giornale e il libro degli inventari devono solo essere numerati progressivamente in ogni pagina prima di essere messi in uso. Secondo l'art. 2219 tutte le scritture devono essere tenute “secondo le norme di un'ordinata contabilità”, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine. Non vi si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili (formalità intrinseche). Le scritture contabili e la corrispondenza devono essere conservati per 10 anni (art. 2220). Le scritture contabili di regola non sono soggette a controllo esterno, regola che però subisce diverse eccezioni. A partire dal 1975 la contabilità delle società con azioni quotate in borsa è sottoposta al controllo esterno di apposite società di revisione. A partire dal 2003 anche le spa non quotate sono sottoposte a controllo esterno da parte di un revisore o di una società di revisione. L'obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da nessuna sanzione generale e diretta, salvo quelle previste dalla legislazione tributaria. Non mancano però delle sanzioni eventuali ed indirette: l'imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore ed è inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento. CAPITOLO 1: L'IMPRENDITORE 1.IL SISTEMA LEGISLATIVO. IMPRENDITORE E IMPRENDITORE COMMERCIALE Nel nostro sistema giuridico la disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore. Ma la disciplina non è identica per tutti gli imprenditori. Il c.c. distingue diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri: a) in base all'oggetto dell'impresa, si distingue fra imprenditore agricolo e imprenditore commerciale; b) in base alla dimensione dell'impresa, si distingue fra piccolo imprenditore e imprenditore medio-grande; c) in base alla natura del soggetto che esercita l'impresa, si distingue fra impresa individuale, società e impresa pubblica. Il c.c. detta innanzitutto un corpo di norme applicabile a tutti gli imprenditori, detto statuto generale dell’imprenditore, che comprende la disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza e dei consorzi e di alcuni contratti. Poi, detta lo statuto dell’imprenditore commerciale che disciplina l'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, la rappresentanza commerciale, le scritture contabili, il fallimento e le procedure concorsuali. Nel sistema del c.c. la qualifica di imprenditore agricolo e piccolo imprenditore ha rilievo solo al fine di delimitare l'ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, imprenditore agricolo e piccolo imprenditore (anche commerciale) sono esonerati dalla tenute delle scritture contabili, dall’assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre è stato esteso ad essi l'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese. Anche la distinzione fra impresa individuale, società e impresa pubblica rileva essenzialmente al fine di definire l'ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale. Infatti, le società commerciali (quelle diverse dalla società semplice) sono tenute all'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale, anche se l’attività esercitata non è commerciale. (‘art. 2200). Gli enti pubblici che esercitano impresa commerciale sono sempre sottratti alla disciplina dell’imprenditore commerciale, in ogni caso, non sono mai esposti al fallimento. Dunque, lo statuto dell’imprenditore commerciale è statuto proprio dell’imprenditore privato, commerciale e non piccolo. 2.LA NOZIONE GENERALE DI IMPRENDITORE Secondo l'art. 2082 “è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Tale concetto si richiama alla nozione economica di imprenditore, ma che non coincide con la nozione giuridica di imprenditore. La nozione economica descrive l'imprenditore come il soggetto che nel processo economico svolge una funzione intermediaria fra chi dispone di fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi. Nello svolgimento di tale funzione l'imprenditore coordina, organizza e dirige, secondo scelte tecniche ed economiche, il processo produttivo (funzione organizzativa) assumendo su di sé il rischio di impresa, cioè il rischio che i costi non siano coperti da ricavi sufficienti. Il rischio di impresa giustifica il potere dell'imprenditore di dirigere il processo produttivo e legittima l'acquisizione da parte dello stesso dell’eventuale eccedenza dei ricavi sui costi (profitto). E proprio nell'intento di conseguire il massimo profitto si ravvisa il tipico movente dell'attività imprenditoriale. I requisiti giuridici minimi necessari e sufficienti che devono sussistere perché un dato soggetto sia qualificato come imprenditore e sia esposto alla disciplina dell'imprenditore sono stati fissati dal legislatore nell'art. 2082. Dall’art. 2082 si ricava che l'impresa è attività, cioè una serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria, che tale attività ha uno specifico scopo, cioè la produzione o scambio di beni o servizi e che tale attività ha specifiche modalità di svolgimento, cioè con organizzazione, economicità e professionalità. Si discute se siano altresì indispensabili: che l'intento dell'imprenditore sia quello di ricavare dei profitti (dunque, lo scopo di lucro); che i beni o servizi prodotti o scambiati siano destinati al mercato; che l’attività svolta sia lecita. Inoltre, i requisiti dell'art. 2082 sono rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme di diritto privato, ma altri requisiti sono richiesti da altri settori dell'ordinamento nazionale (es. diritto tributario) o dall'ordinamento comunitario. Non esiste, quindi, una sola nozione di impresa, ma vi sono più nozioni di impresa. 3.L'ATTIVITA' PRODUTTIVA L'impresa è attività (serie di atti coordinati) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Quindi l'impresa è attività produttiva. Per qualificare un'attività come produttiva è irrilevante la natura dei beni o servizi prodotti o scambiati ed il tipo di bisogno che essi vanno a soddisfare. È impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale o ricreativa. Inoltre, è irrilevante che l’attività produttiva possa qualificarsi nel contempo come attività di godimento o di amministrazione di determinati beni o del patrimonio del soggetto agente. Certo, non è impresa l’attività di mero godimento, cioè l’attività che non dà luogo alla produzione di nuovi beni o servizi (come il proprietario di immobili che ne gode i frutti concedendoli in locazione. È attività di godimento e produttiva quella di un proprietario di un fondo agricolo che destini lo stesso a coltivazione, oppure di un proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo. In questi casi, la locazione è accompagnata dall'erogazione di servizi collaterali che eccedono il mero godimento del bene. È attività di godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione l’impiego di proprie disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari con intenti di investimento, speculazione o concessione di finanziamento. Quindi, sono imprese commerciali le società di investimento e le società finanziarie. Sono imprese commerciali anche le holding, cioè le società che hanno per oggetto esclusivo l'acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società, con funzione di direzione, di coordinamento e di finanziamento della loro attività. 4.L'ORGANIZZAZIONE Non è concepibile un'attività senza programmazione e coordinamento della serie di atti in cui essa si sviluppa, ossia priva di organizzazione. Non è concepibile attività di impresa senza l’impiego coordinato di fattori produttivi (capitale e lavoro) propri e/o altrui. La funzione organizzativa dell'imprenditore si concretizza nella creazione di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e da beni strumentali, ossia di un'attività organizzata. Affinché un'attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di impresa non è necessario né che la funzione organizzativa dell’imprenditore abbia per oggetto anche altrui prestazioni lavorative autonome o subordinate (infatti è imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale e il proprio lavoro), né che l’attività organizzativa dell’imprenditore si concretizzi nella creazione di un apparato strumentale fisicamente percepibile (locali, macchinari...). È vero che non vi può essere impresa senza impiego e organizzazione di mezzi materiali, ma questi possono ridursi al solo impiego di mezzi finanziari. Ciò che qualifica l'impresa è l'utilizzazione di fattori produttivi e il loro coordinamento da parte dell'imprenditore per un fine produttivo. 5(segue). IMPRESA E LAVORO AUTONOMO Si è posto il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si fonda esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente, cioè quando non vengono utilizzati né lavoro altrui né capitale proprio o altrui, quindi manca la c.d. etero-organizzazione. Il problema si pone, quindi, per i prestatori autonomi d'opera manuale (elettricisti, idraulici, ecc.) o di servizi personalizzati (mediatori, agenti di commercio). La semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione imprenditoriale e in mancanza di un minimo di etero-organizzazione deve negarsi l'esistenza di un'impresa, anche se piccola. Una parte della dottrina, invece, basandosi sull’art. 2083 (sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia), ritiene imprenditore anche chi si limita ad organizzare il proprio lavoro, senza impiegare né lavoro altrui né capitali. Ma tale tesi non è condivisibile, in quanto la nozione di piccolo imprenditore non vuol indicare la superfluità di ogni forma di etero-organizzazione. L'organizzazione del lavoro dei propri familiari è pur sempre organizzazione del lavoro altrui. E comunque, il requisito dell’organizzazione è richiesto sia per l'imprenditore che per il piccolo imprenditore, ma non per il lavoratore autonomo. Dunque, un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è sempre necessario per aversi impresa, perseguito dall'imprenditore non comporta di per sé l'illiceità della causa o dell'oggetto dei singoli atti di impresa. | terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l'attività di impresa è illecita, quindi chi esercita attività commerciale illecita è esposto al fallimento. Nel caso di impresa illegale, l’illecito non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore con pienezza di effetti, ferme restando le conseguenti sanzioni amministrative e penali. Il titolare dell'impresa illegale è esposto al fallimento. Nel caso di impresa immorale, cioè di un'attività che abbia un oggetto illecito (es. traffico di droga), al fine di tutelare i terzi estranei all’illecito, si nega spesso l'esistenza di impresa. Questo, per il timore che il riconoscimento della qualità di imprenditore porti all'applicazione non solo delle norme che tutelano i creditori di un imprenditore commerciale (fallimento), ma anche delle norme che tutelano l'imprenditore nei confronti dei terzi (disciplina dell'azienda, dei segni distintivi, della concorrenza sleale). In questi casi, in realtà, tale timore risulta ingiustificato, poiché deve applicarsi il principio secondo cui da un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l’autore dell'illecito o per chi ne è stato parte. Dunque, chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore ed in quanto tale potrà fallire. Non potrà però avanzare le pretese del titolare di un'azienda o agire in concorrenza sleale contro altri imprenditori, in applicazione del principio della non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito. 11.IMPRESA E PROFESSIONI INTELLETTUALI Esistono delle attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di principio dal legislatore, come per le professioni intellettuali. | liberi professionisti non sono mai in quanto tali imprenditori. L'art. 2238 stabilisce che le disposizioni in tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l'esercizio della professione costituisce elemento di un'attività organizzata in forma di impresa. | liberi professionisti, ma anche gli artisti e gli inventori, diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione intellettuale è esplicata nell’ambito di altra attività di per sé qualificabile come impresa. Ad es. il medico che gestisce una clinica privata, l'artista titolare di un teatro nel quale recita, ecc. In questi casi si è in presenza di due casi: l’attività intellettuale e l’attività di impresa, perciò troveranno applicazione nei confronti dello stesso soggetto sia la disciplina dettata per la professione intellettuale sia la disciplina dell'impresa. Il professionista intellettuale o l'artista che si limita a svolgere la propria attività, per contro, non diventa mai imprenditore. E, non lo diventa, non solo quando superi la soglia dell’autoorganizzazione del proprio lavoro, ma anche quando si avvale di collaboratori e di un complesso apparato di mezzi materiali, dando vita così ad un'organizzazione complessa di capitale e/o lavoro. AI professionista intellettuale che impieghi collaboratori, pur non diventando imprenditore, si applicano le norme che disciplinano il lavoro nell'impresa, ma non la restante parte. Questa scelta legislativa si è giustificata dal fatto che nell'attività intellettuale mancherebbero sempre e comunque l'uno o l’altro dei requisiti richiesti dall'art. 2082. Tuttavia, i requisiti propri dell'attività di impresa possono ricorrere tutti anche nell'esercizio delle professioni intellettuali. Infatti, l’attività professionale è attività produttiva di servizi suscettibili di valutazione economica, è un'attività condotta con metodo economico e a scopo di lucro. Si conclude, perciò, che i professionisti non sono imprenditori per libera opzione del legislatore, ispirata dalla particolare considerazione sociale che tradizionalmente circonda le professioni intellettuali. Nella pratica non è sempre agevole stabilire se un'attività costituisce professione intellettuale. Per tale distinzione si deve tener conto non della iscrizione in albi professionali (criterio formale), ma del carattere intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale). CAPITOLO 2: LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI A) IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE (in base all'oggetto) 1.IL RUOLO DELLA DISTINZIONE Il codice civile distingue, in base all'oggetto, gli imprenditori in imprenditore commerciale (art. 2195) e imprenditore agricolo (art. 2135). L'imprenditore commerciale è destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata sull'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, con funzione di pubblicità legale, sull'obbligo di tenuta delle scritture contabili e sull'assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali. La nozione di imprenditore agricolo ha valore essenzialmente negativo. Ha la funzione di restringere l'ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale. L'imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l'imprenditore in generale ed è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili, dall'assoggettamento alle procedure concorsuali. Originariamente l'imprenditore agricolo era esonerato anche dall'iscrizione nel registro delle imprese, tranne per le società agricole. Poi, l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese è stato introdotto dalla riforma del 1993, con funzione di pubblicità notizia (legge 580/1993) e, la recente riforma ne ha stabilito la funzione di pubblicità legale (d.lgs. 228/2001), così come previsto per gli imprenditori commerciali. Si discute sul fatto se si debba ammettere una terza categoria di imprese, ossia le imprese civili, ossia quelle imprese non menzionate dal legislatore e che non possono qualificare né come commerciali, né come agricoli. 2.L’IMPRENDITORE AGRICOLO. LE ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI L'art. 2135 nel testo originario stabiliva: è imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura. Le attività agricole vengono distinte in due categorie: attività agricole essenziali e attività agricole connesse. Questa distinzione è stata mantenuta anche dalla nuova nozione di imprenditore agricolo. Coltivazione del fondo, silvicoltura ed allevamento del bestiame sono attività tipicamente e tradizionalmente agricole, ma che negli ultimi decenni hanno subito profonde trasformazioni, a causa del progresso tecnologico che ha coinvolto anche l'agricoltura e che l’ha trasformata in un'agricoltura industrializzata. Oggi, l’attività agricola può dar luogo ad investimenti ingenti di capitali e ciò può far dubitare sulla correttezza della loro disciplina. Che l'imprenditore agricolo sia sempre e comunque esonerato dalla disciplina dell’imprenditore commerciale è una scelta legislativa che dà luogo a molti contrasti. È necessario infatti stabilire fino a che punto l'evoluzione tecnologica dell'agricoltura sia compatibile con la qualificazione agricola dell'impresa agli effetti del c.c. Vi era, infatti, chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali, cioè ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale. Poi, vi era chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell’agricoltore e, quindi, che doveva essere qualificato imprenditore commerciale chi produce specie animali o vegetali in modo del tutto svincolato dal fondo agricolo o dallo sfruttamento della terra (es. coltivazioni artificiali e allevamenti in batteria). La recente riforma ha però optato per la prima impostazione, al fine di contrastare l'abbandono dalle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura, ma che non giustifica la sottrazione al fallimento dell'imprenditore agricolo medio - grande. Il d.lgs n. 228/2001 ridefinisce (con l'obiettivo di contrastare l'abbandono delle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico dell'agricoltura) la nozione di imprenditore agricolo, sostituendo imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono “le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”. In base a questa nuova nozione si deve perciò ritenere che la produzione di specie vegetali o animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Quindi si possono far rientrare nella nozione di coltivazione del fondo: l’orticoltura, le coltivazioni in serra e vivai e la floricoltura. Sono coltivazioni anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e frutta. Quanto alla selvicoltura, è l’attività di cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti. Non costituisce perciò attività agricola l'estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco. Nell’allevamento di animali, il criterio del ciclo biologico, porta a riconoscere come attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo o utilizzando il fondo per allevamenti in batteria, oppure allevamenti in cui gli animali sono alimentati con mangimi naturali non ottenuti dal fondo. Rimane, invece, attività commerciale l'acquisto di animali all'ingrosso per rivenderli. Per allevamento di animali deve intendersi sia l'allevamento diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), sia l'allevamento di cavalli da corsa o animali da pelliccia, l'allevamento dei cani gatti. La sostituzione nella nuova nozione del termine “bestiame” col termine “animali”, qualifica come impresa agricola anche l'allevamento di animali da cortile e l’apicoltura. È attività agricola anche l’acquacoltura (pesci). All’imprenditore agricolo (essenziale) è equiparato l'imprenditore ittico (pesca). 3(segue). LE ATTIVITA' AGRICOLE PER CONNESSIONE La seconda categoria di attività agricole sono le attività agricole connesse. La vecchia nozione di imprenditore agricolo le individuava: a) in quelle dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell'esercizio normale dell'agricoltura; b) in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l'allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura, motoaratura per conto terzi). La nuova nozione intende per attività connesse (terzo comma art. 2135): a) le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un'attività agricola essenziale; b) le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche. Entrambe sono, oggettivamente, attività commerciali, ma sono considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle attività agricole essenziali. È importante precisare quando un'attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per connessione. Ci sono due condizioni necessarie: 1) è necessario che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e sia un'attività coerente con quella connessa (connessione soggettiva); 2) è necessario che vi sia una connessione oggettiva fra le due attività. Non si richiede più che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell'esercizio normale dell'agricoltura, né che le attività connesse diverse da queste abbiano carattere accessorio. Entrambi questi criteri sono stati sostituiti dal criterio della prevalenza. Necessario e sufficiente è solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall'esercizio dell'attività agricola essenziale, o di beni o servizi forniti mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda agricola. 4.L'IMPRENDITORE COMMERCIALE Secondo l'art. 2195 c.c.1° comma, sono imprenditori commerciali gli imprenditori che esercitano: 1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi: darà vita ad impresa commerciale ogni attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come “attività industriale”; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni: è impresa commerciale ogni attività di scambio che realizzi intermediazione nella circolazione di beni o servizi; 3) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria: l'impresa di trasporto può essere considerata specificazione dell'attività produttiva di servizi; Della nozione originaria data dalla legge fallimentare sopravviveva solo la parte secondo cui in nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Ma, anche, questa parte di norma non era più salda, visto che la Corte Costituzionale aveva manifestato l'orientamento che esso non trovasse applicazione nei confronti delle società artigiane. Se la parziale abrogazione della definizione della legge fallimentare aveva risolto alcuni problemi interpretativi il permanere in vigore della sola definizione del codice civile di piccolo imprenditore creava però non trascurabili inconvenienti pratici in sede di dichiarazione di fallimento. Accertare in concreto la prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi non è sempre agevole. Per queste ragioni, la riforma del diritto fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal decreto correttivo , ha reintrodotto nel nuovo art. 1, 2° comma, legge fallimentare, una definizione di piccolo imprenditore basata su criteri esclusivamente quantitativi e monetari. In primo luogo, la nuova disposizione fallimentare, perciò non definisce più chi è "il piccolo imprenditore", ma semplicemente individua alcuni parametri dimensionali dell'impresa, al di sotto dei quali l'imprenditore commerciale non fallisce. Si è voluto così porre (auspicabilmente) un freno alle infinite dispute scaturite dall'esistenza di una duplice definizione di piccolo imprenditore. L'intervento correttivo del 2007 ha inoltre cercato di definire meglio le soglie dimensionali rilevanti, dato che la formulazione introdotta con la riforma del 2006 aveva adito a numerose incertezze e ad un eccessivo ampliamento della categoria di imprenditori non fallibili. In base all'attuale disciplina, dunque, non è soggetto a fallimento l'imprenditore commerciale che dimostri il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) di aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila . Tali valori possono essere aggiornati con cadenza triennale con decreto del Ministro della giustizia sulla base delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo, per adeguarli alla svalutazione monetaria. Basta aver superato anche solo uno degli indicati limiti dimensionali per essere esposti a fallimento. Inoltre, risolvendo un punto controverso, l'attuale disciplina pone l'onere della prova del rispetto dei criteri a carico del debitore. Diversamente che in passato, anche le società commerciali possono essere esonerate dal fallimento, se rispettano i limiti dimensionali sopra indicati. In base alla nuova formulazione della legge fallimentare si realizza dunque un migliore coordinamento con la disciplina codicistica, nel senso di escludere ogni interferenza con la definizione dell'art.2083 c.c. sull'applicazione della legge fallimentare. La definizione di piccolo imprenditore che dà il codice civile rileva solo ai fini dell'applicazione della restante parte dello statuto dell'imprenditore commerciale (iscrizione nel registro delle imprese, obbligo di tenuta delle scritture contabili). 9.L'IMPRESA ARTIGIANA La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa artigiana godono di una legislazione speciale di ausilio e di sostegno. Tali leggi speciali spesso prevedono autonomi criteri di identificazione delle imprese destinatarie, non coincidenti con quelli fissati dall'art. 2083. Essendo definizioni dettate da leggi speciali esse non pongono alcun problema di coordinamento con la nozione civilistica e fallimentare di piccolo imprenditore. Tuttavia, resta fermo che, per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento in quanto piccolo imprenditore, si deve guardare solo al rispetto dei limiti dimensionali fissati dall'art. 1, 2° comma, legge fallimentare. Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa un'eccezione per l'impresa artigiana. La legge 860/1956 (legge sull'artigianato) affermava espressamente che l'impresa rispondente ai requisiti fondamentali fissati nella stessa legge era da considerarsi artigiana a tutti gli effetti di legge, e quindi anche agli effetti civilistici e fallimentari. La nozione speciale sostituiva perciò quella del codice e della legge fallimentare. Il dato caratterizzante l'impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. La qualifica artigiana era riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purché si trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione che la maggioranza dei soci partecipi personalmente al lavoro e, nell'impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Perciò, le società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento. La legge 860/1956 è stata abrogata dalla legge 443/1985 (legge quadro sull’artigianato). La nuova legge contiene una propria definizione dell'impresa artigiana, basata: a) sull'oggetto dell’impresa, che può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni; b) sul ruolo dell’artigiano nell'impresa, richiedendosi che esso svolga in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non che il suo lavoro prevalga sugli altri fattori produttivi. Continuano ad essere imposti limiti per quanto riguarda i dipendenti (il numero massimo è più elevato rispetto alla legge del 1956), ma è riaffermato il principio che il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana. La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Inoltre, la qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa, dapprima alla società a responsabilità limitata unipersonale ed alla società in accomandita semplice, purché il socio unico o tutti i soci accomandatari siano in possesso dei requisiti previsti per l'imprenditore artigiano e non siano nel contempo socio unico di un’altra s.r.1. o socio di un'altra s.a.s. e, recentemente, anche alla s.r.l. pluripersonale a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale sociale e degli organi deliberanti della società. La categoria delle imprese artigiane risulta quindi notevolmente ampliata rispetto alla legge precedente. È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e si qualificano artigiane anche le imprese di costruzioni edili. Inoltre, l'elevazione del numero dei dipendenti consente di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le dimensioni di una piccola industria di qualità. L'impresa artigiana si caratterizza anche per il rilievo del lavoro personale dell'imprenditore nel processo produttivo e per la funzione preminente del lavoro sul capitale investito, ma da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba necessariamente ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito. Perciò, si deve convenire che la legge quadro ha realizzato una frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell'alveo della definizione codicistica di piccolo imprenditore. Tuttavia, ed è questo il punto fondamentale, la legge quadro non afferma più che l'impresa artigiana è definita a tutti gli effetti di legge. Il suo scopo, infatti, era quello di fissare i principi direttivi che dovrebbero essere osservati dalle regioni nell'’emanazione dei provvedimenti a favore dell'artigianato. Il riconoscimento della qualifica artigiana in base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. È necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato , edi limiti dimensionali fissati In mancanza, l'imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore commerciale non piccolo ai fini civilistici e/o del diritto fallimentare, quindi potrà fallire. 10.L'IMPRESA FAMILIARE È impresa familiare (art. 230bis) l'impresa nella quale collaborano (anche attraverso il lavoro nella famiglia) il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell'imprenditore: c.d. famiglia nucleare. L'impresa familiare non va confusa con la piccola impresa. Può aversi piccola impresa senza che sia impresa familiare e viceversa. Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell'impresa, attraverso il riconoscimento per i membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuativo nella famiglia e nell'impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi. Sul piano patrimoniale sono riconosciuti i seguenti diritti: a) diritto al mantenimento, secondo le condizioni patrimoniali della famiglia; b) diritto di partecipazione agli utili dell'impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato nell'impresa e nella famiglia; c) diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell'azienda, anche dovuti ad avviamento, sempre in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; d) diritto di prelazione sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda stessa. Sul piano gestorio è previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e su talune decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. Ciascun familiare ha diritto a un solo voto e alle decisioni non prenda parte l'imprenditore in quanto destinatario della decisione adottata dagli altri membri della famiglia. Le decisioni in merito alla gestione ordinaria rientrano nella competenza esclusiva dell'imprenditore. La violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull’efficacia degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente validi nei confronti dei terzi. Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime dei familiari già partecipanti e tale diritto è inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda. La disciplina dell'impresa familiare ha sollevato molti problemi interpretativi, sia per quanto riguarda i rapporti interni all'impresa, sia per quanto riguarda i rapporti con i terzi. Problemi condizionati dal fatto se l'impresa familiare resti un'impresa individuale o dia vita a un'impresa collettiva (società, associazione non riconosciuta, associazione in partecipazione). Oggi prevale la tesi secondo cui la disciplina delle prestazioni lavorative dei familiari dell’imprenditore non altera la struttura individuale dell'impresa e non incide sulla titolarità dei beni aziendali, che restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore. Accogliendo questa tesi, i diritti patrimoniali dei partecipanti all'impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito nei confronti del familiare imprenditore. L'imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell'impresa familiare, sicché solo a lui saranno imputati gli effetti degli atti posti in essere nell'esercizio dell'impresa e solo lui sarà responsabile nei confronti dei terzi delle relative obbligazioni contratte. Infine, se l'impresa è commerciale (e non piccola) solo l'imprenditore sarà eventualmente esposto al fallimento. C) IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA. (in base alla natura giuridica del soggetto titolare dell'impresa) 11.L’IMPRESA SOCIETARIA Il terzo ed ultimo criterio di distinzione della disciplina delle imprese è dato dalla natura giuridica del soggetto titolare dell'impresa che distingue fra impresa individuale, impresa societaria ed impresa pubblica. Le società sono le forme associative tipiche, anche se non esclusive, previste dall’ ordinamento per l'esercizio collettivo di attività di impresa. Esistono diversi tipi di società e la società semplice è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciali, mentre le altre società possono svolgere attività commerciali ed agricole. Le società diverse da quella semplice sono dette società commerciali e potranno essere imprenditori agricoli (società commerciali con oggetto agricolo) o imprenditori commerciali (società commerciali con oggetto commerciale) a seconda dell’attività esercitata. L'applicazione alle società commerciali degli istituti dell’imprenditore commerciale segue alcune regole: parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività svolta, come per l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese e per la tenuta delle scritture contabili. Resta invece fermo l'esonero delle società commerciali che gestiscono un'attività agricola dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali. A seguito della riforma del diritto fallimentare del 2006, anche le società possono essere piccoli imprenditori, e tali società sono esonerate anch'esse dalle procedure concorsuali. Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice parte della disciplina dell’imprenditore commerciale trova poi l'impresa sociale, o di cessione dell'azienda. Le finalità di interesse generale dell'impresa sociale sono favorite dal legislatore con alcuni privilegi. Il primo privilegio è quello di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata. In particolare, può essere impiegato qualsiasi forma societaria anche se l'impresa non ha uno scopo lucrativo. Inoltre, più imprese sociali possono formare fra loro un gruppo di imprese, holding. Invece, non possono avere la forma di imprese sociali le amministrazioni pubbliche, le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi. L'impresa sociale non è un nuovo tipo di ente diverso da quelli già previsti e regolati dall'ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere a certe condizioni e che comporta l'applicazione di una disciplina speciale. Ne consegue che, ove non espressamente derogata, continuerà a trovare applicazione la disciplina propria dell'ente che esercita l'impresa sociale. Il secondo privilegio è quello di poter limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe la responsabilità personale illimitata di costoro. Più precisamente: se l'impresa sociale è dotata di un patrimonio netto di almeno ventimila euro, dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese risponde delle obbligazioni assunte soltanto l’organizzazione con il suo patrimonio. Qualora, però, il patrimonio diminuisca per perdite di oltre un terzo (a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni assunte ne rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell'impresa, ma non gli altri soci. Di fatto, la limitazione di responsabilità opera solo a vantaggio delle imprese sociali in bonis, ma cessa quando il patrimonio diventa insufficiente. Le imprese sociali sono soggette anche a delle regole speciali per quanto riguarda l'applicazione degli istituti tipici dell'imprenditore commerciale. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell'attività esercitata, esse: devono iscriversi in un'apposita sezione del registro delle imprese, devono redigere le scritture contabili, in caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta ‘amministrativa, invece che a fallimento. Le organizzazioni che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico, osservando le disposizioni in merito all'atto costitutivo. L'atto costitutivo deve: 1) determinare l'oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge; 2) enunciare l'assenza dello scopo di lucro; 3) indicare la denominazione dell'ente, integrata dalla locuzione “impresa sociale”; 4) fissare i requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali; 5) disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto del principio della non discriminazione; 6) prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell'attività di impresa nell’assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate (devono essere coinvolti anche i lavoratori volontari). L'atto costitutivo deve, inoltre, prevedere una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili, iscritti presso il registro del Ministero della Giustizia, ed una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione, che è riservato ad uno o più sindaci. Ai sindaci, che devono vigilare anche sull'osservanza delle finalità sociali dell'impresa, è riconosciuto, in qualsiasimomento, il potere di ispezione e controllo e di chiedere notizie agli amministratori. Le imprese sociali sono sottoposte anche a dei controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni. Il Ministero del Lavoro può anche disporre la perdita della qualifica di impresa sociale se rileva l'assenza delle condizioni per il riconoscimento o se riscontra violazione della disciplina e, diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l'impresa non ottempera entro un congruo termine. Ne consegue la cancellazione dell'impresa dal registro e l'obbligo di devolvere il patrimonio ad enti non lucrativi determinati dallo statuto. CAPITOLO 3: L'ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI IMPRENDITORE 1.PREMESSA L'acquisto della qualità di imprenditore è presupposto per l'applicazione ad un dato soggetto del complesso di norme che l'ordinamento ricollega a tale qualifica e, se l’attività è commerciale, di quelle specificatamente dettate per l'imprenditore commerciale. Si diventa imprenditore commerciale, secondo l’art. 2082, con l'esercizio di attività di impresa. Per poter affermare che un soggetto è diventato imprenditore è necessario che l'esercizio dell'attività di impresa sia a lui giuridicamente riferibile, sia a lui imputabile. L'art. 2082 nulla dice in merito al momento in cui deve ritenersi iniziato l'esercizio dell'impresa, con conseguente acquisto della qualità di imprenditore. E nulla dice circa il momento finale dell'attività di impresa, con conseguente perdita della qualità di imprenditore. A) L’IMPUTAZIONE DELL'ATTIVITA’ DI IMPRESA 2.ESERCIZIO DIRETTO DELL'ATTIVITA’ DI IMPRESA Principio generale del nostro ordinamento è che centro di imputazione degli effetti dei singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Solo costui è obbligato nei confronti del terzo contraente. Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali, la c.d. spendita del nome, risponde ad esigenze di certezza giuridica ed è chiaramente enunciata in tema di mandato senza rappresentanza. Dunque, la qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Diventa imprenditore colui che esercita personalmente l’attività di impresa compiendo in nome proprio gli atti relativi. Non diventa imprenditore chi esercita l'altrui impresa quando operi spendendo il nome dell’imprenditore, per effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall’imprenditore o riconosciutogli dalla legge. 3.ESERCIZIO INDIRETTO DELL'ATTIVITA' DI IMPRESA. LA TEORIA DELL'IMPRENDITORE OCCULTO L'esercizio di attività di impresa può dar luogo a una dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato. Questo fenomeno è detto esercizio dell'impresa tramite interposta persona. Si hanno due soggetti: il soggetto (persona fisica o giuridica) che compie in nome proprio i singoli atti di impresa, detto imprenditore palese o prestanome e il soggetto (persona fisica o giuridica) che somministra al prestanome i mezzi finanziari necessari, dirige di fatto l'impresa e fa propri i guadagni, detto imprenditore occulto o indiretto. Questo modo di operare solleva dei problemi quando gli affari vanno male ed il prestanome sia una persona fisica nullatenente o una spa o srl con capitale irrisorio, detta società di comodo o etichetta. Ciò potrebbe causare notevoli ripercussioni nei confronti dei creditori, soprattutto se piccoli. Infatti, i creditori potrebbero provocare il fallimento del prestanome, in quanto esso ha agito in nome proprio ed ha perciò acquistato la qualità di imprenditore commerciale. Ma, essendo nullatenente o quasi, i creditori non potranno ricavarne nulla. Con ciò il rischio di impresa non sarà sopportato dal reale imprenditore, ma da questi è trasferito, attraverso l'imprenditore palese, sui creditori. Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare questi pericoli negativi per i creditori, derivanti dall’applicazione del principio della spendita del nome, escludendo che la stessa sia requisito necessario ai fini dell'imputazione della responsabilità per i debiti dell'impresa. Per l'attività di impresa opererebbero dei principi che consentirebbero di imputare anche all'imprenditore occulto i debiti contratti dall’imprenditore palese, e quindi di sottoporre anche l'imprenditore occulto al fallimento. La responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e dell’imprenditore occulto, con esclusione di quest’ultima dal fallimento, è stata affermata muovendo dall'idea che nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata la inscindibilità del rapporto del rapporto potere-responsabilità. Chi esercita il potere di direzione di un'impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde delle relative obbligazioni. Tale principio si desume da una serie di norme dettate in tema di società di persone. Ulteriore passo in avanti è dato dalla teoria dell’imprenditore occulto, secondo cui l'imprenditore occulto non solo risponderà insieme al prestanome, ma fallirà sempre e comunque qualora fallirà il prestanome. La parificazione sul piano della responsabilità di impresa sarebbe giustificata dall'art. 147, 2° comma della vecchia legge fallimentare, oggi confluito nel 4° comma. Tale norma completa il principio secondo cui il fallimento di una società comporta il fallimento dei soci a responsabilità illimitata e dispone che il fallimento della società si estenda ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi. Cioè, si abbia fallimento del socio occulto di società palese. La teoria proseguiva affermando che l'art. 147, 2° comma, legge fallimentare, fosse applicabile per analogia alla diversa ipotesi in cui i soci abbiano occultato l’esistenza stessa della società. Ossia quando si è in presenza di una società occulta, dove chi contratta con i terzi si presenta come imprenditore individuale ma in realtà è socio occulto di una società occulta. Oggi, il fallimento dei soci occulti di una società occulta è disposto espressamente dal 5° comma dell'art. 147, legge fallimentare. Se fallisce la società occulta, secondo tale teoria, è inevitabile che fallisca anche l'imprenditore occulto. È affermata anche la responsabilità del socio tiranno di una spa, cioè dell’azionista che usa la società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento con l'assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario. Regole violate anche attraverso la confusione dei patrimoni della società e del socio. È affermata anche la responsabilità del socio sovrano, cioè dell’azionista che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini la società in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo. Dunque, secondo tale teoria, si sanziona con la responsabilità personale e con il fallimento ogni forma di dominio occulto o palese dell’altrui impresa. Ma tale critica non può essere condivisa (vedi prossimo paragrafo). 4(segue). CRITICA. L'IMPUTAZIONE DEI DEBITI DI IMPRESA. Questa tesi non può essere condivisa, in quanto né le norme societarie né la legge fallimentare consentono di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere, né ad assumere la qualità di imprenditore, solo perché egli è il vero imprenditore di un'impresa individuale formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali. Non lo dimostra la disciplina societaria in quanto è vero che nelle società di persone il socio amministratore non può limitare la propria responsabilità, ma non è vero che la responsabilità illimitata è indissolubilmente legata al potere di gestione. Il collegamento indissolubile fra potere di gestione e responsabilità illimitata non è dimostrabile neppure in base all'art. 147 della legge fallimentare La teoria dell’imprenditore occulto fonda le sue conclusione su un'estensione analogica: dal fallimento del socio occulto di società palese e dal fallimento del socio occulto di una società occulta, passa per analogia, al fallimento dell’imprenditore occulto. Ma non è così. Nel fallimento del socio occulto di società palese (regolata dall'art. 147, 4° comma) è fuori contestazione che esista una società con soci a responsabilità illimitata, che il soggetto successivamente scoperto sia socio di questa società e che gli atti di impresa siano posti in essere in nome della società. Ciò che è stato occultato è il numero reale dei soci e il socio occulto fallisce per lo stesso motivo per cui falliscono i soci palesi, ossia perché fa parte della società. Quindi per un criterio formale: la partecipazione a una società di persone. Nel fallimento del socio occulto di società occulta (regolata dall'art. 147, 5° comma) è fuori contestazione che esiste una società a responsabilità illimitata e che i soggetti successivamente scoperti ne facciano parte. | soci occulti sono tuttavia chiamati a rispondere di atti posti in essere non in nome della società, ma in nome di un socio che opera con i terzi come mandatario senza rappresentanza. | soci occulti, mediante la non esteriorizzazione del vincolo sociale, cercano di sottrarsi al fallimento personale ed alla responsabilità illimitata per i debiti sociali, che sono invece regole inderogabili del tipo di società scelto (società in nome collettivo). Ma, i soci che intendono limitare la propria responsabilità per i debiti sociali devono farlo costituendo un diverso tipo societario, che preveda tale beneficio. Ciò che l'ordinamento intende colpire è l'uso distorto della forma societaria. Anche i soci occulti di società occulta falliscono e rispondono in base a un criterio formale ed oggettivo: la partecipazione ad una società di persone. L'art. 147, 1° comma, della legge fallimentare, circoscrive il fallimento dei soci illimitatamente responsabili a tre soli tipi societari: società in nome collettivo (snc), società in accomandita semplice (sas) e società in accomandita per azioni (sapa). Pertanto, delle imprese, la giurisprudenza affermava che, nonostante fosse cancellata dal registro delle imprese, la società si riteneva esistente ed esposta al fallimento fin quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. Quindi l'art. 10 legge fallimentare non valeva per le società, in quanto una società poteva fallire anche dopo anni dalla cessazione dell'attività di impresa e dalla cancellazione dal registro delle imprese. La situazione cambiò a seguito degli interventi della Corte Costituzionale a partire dal 1999. Infatti, dapprima, la Corte dichiarò incostituzionale la parte dell'art. 10 legge fallimentare, dove non prevedeva che il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese, a prescindere dall’integrale pagamento dei debiti. In seguito, la Corte, al fine di non provocare disparità con l'imprenditore individuale, sostenne che anche per quest’ultimo il termine annuale dovesse decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese, salva però la possibilità per i creditori di dimostrare la prosecuzione dell'attività da parte dell’imprenditore individuale anche dopo la cancellazione. Il d.lgs. n° 5/2006 (ulteriormente corretto dal d.lgs 169/2007) ha riformato l'art. 10 legge fallimentare per conformarlo con i principi enunciati dalla Corte Costituzionale. Il nuovo articolo 10 legge fallimentare dispone ora che gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente dalla stessa o entro l’anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione d'ufficio degli imprenditori collettivi è fatta salva la facoltà di dimostrare il momento effettivo della cessazione dell'attività da cui decorre il termine di un anno. L'attuale dato normativo consente di affermare che oggi la cancellazione del registro delle imprese è condizione necessaria affinché l'imprenditore individuale o collettivo benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento. A seguito dell'intervento correttivo del 2007, infatti, il debitore non può dimostrare d'aver cessato l'attività d'impresa prima della cancellazione per anticipare il decorso di tale termine, nemmeno se si tratti di persona fisica. Ne consegue , benché il punto sia controverso , che le società irregolari (vale a dire , non iscritte nel registro delle imprese) e le società occulte potranno essere dichiarate fallite senza limiti di tempo finché sussistono debiti insoluti, in quanto per loro il termine annuale non decorre. Del pari, l'imprenditore persona fisica non iscritto resta esposto al fallimento fin quando non ha estinto tutti i debiti di impresa. La cancellazione non è però anche sufficiente, ma deve accompagnarsi anche all’effettiva cessazione dell'attività di impresa: il creditore o il PM sono ammessi a provare la non effettiva cessazione. C) CAPACITA’ E IMPRESA 9.INCAPACITA' E INCOMPATIBILITÀ’ La capacità all'esercizio di un'attività di impresa si acquista con la piena capacità di agire e quindi con il compimento della maggiore età. Si perde in seguito ad interdizione o inabilitazione. L'esercizio di attività di impresa da parte di un incapace non fa sorgere la qualità di imprenditore in capo all'incapace, anche se i singoli atti compiuti restano validi. Non sono limitazioni alla capacità di agire, ma incompatibilità, i divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di coloro che esercitano determinati uffici o professioni. La violazione di tale divieti non preclude l'acquisto della qualità di imprenditore, ma espone solo a sanzioni amministrative e ad un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento (art. 219 ). Non impedisce l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale nemmeno l’inabilitazione temporanea all'esercizio di attività commerciale che consegue alla condanna per bancarotta o per ricorso abusivo al credito in caso di fallimento (art. 216 legge fallimentare). 10.L'IMPRESA COMMERCIALE DELL’INCAPACE È possibile l'esercizio di attività di impresa per conto e nell'interesse di un incapace (minore e interdetto) o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), con l'osservanza delle disposizioni dettate a riguardo. Il codice non prevede regole particolari per l’attività agricola, sicché si applicano le norme di diritto comune che regolano il compimento di atti giuridici da parte di un incapace. È prevista, invece, una disciplina specifica per l’attività commerciale. L'amministrazione del patrimonio degli incapaci è regolata in modo da garantirne la conservazione e l'integrità impedendo che lo stesso venga impiegato in operazione aleatorie o di pura sorte. Perciò il rappresentante legale del minore o dell’interdetto è legittimato a compiere solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli di straordinaria amministrazione possono essere compiuti solo in caso di necessità o di utilità evidente, accertata dall’autorità giudiziaria con autorizzazione concessa atto per atto. Gli stessi principi reggono il compimento di atti giuridici da parte dell’inabilitato o del minore emancipato, che agiscono personalmente con l'assistenza di un curatore. L'attività commerciale è per sua natura non conservativa del patrimonio e soprattutto è attività rischiosa. Il legislatore considera con sfavore l'impiego del patrimonio di un incapace in attività commerciali e in tale prospettiva pone un divieto assoluto di iniziare impresa commerciale per il minore, l’interdetto e l’inabilitato. a) In nessun caso è consentito l’inizio di una nuova impresa commerciale in nome e nell'interesse del minore. Quando questi acquista, per successione ereditaria o per donazione, una preesistente attività commerciale, il rappresentante legale può essere autorizzato dal tribunale a continuare l'esercizio dell'impresa. Per evitare l'interruzione temporanea dell'attività, il giudice tutelare può consentire l'esercizio provvisorio dell'impresa fin quando il tribunale non abbia autorizzato la continuazione. Una volta autorizzato definitivamente l'esercizio dell'impresa, il genitore o il tutore è legittimato a compiere tutti gli atti che rientrano nell'esercizio dell'impresa, siano essi di ordinaria amministrazione che di straordinaria ‘amministrazione. Sono soggetti a specifica autorizzazione quegli atti che non sono finalizzati alla gestione dell'impresa (es. vendita dell'immobile sede dell'impresa). Per l’interdetto valgono le stesse regole del minore sottoposto a tutela e l'autorizzazione può riguardare anche l'impresa iniziata dallo stesso interdetto prima dell'interdizione. b) L’inabilitato è un soggetto con capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione. Per essi è vietato iniziare una nuova attività commerciale, mentre è consentita solo la continuazione di un'attività commerciale preesistente. Una volta autorizzata la continuazione dell'impresa, l’inabilitato potrà esercitare personalmente l'impresa, sia pure con l'assistenza del curatore e con il consenso di quest’ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione. Il tribunale può subordinare l'autorizzazione alla nomina di un institore (direttore generale), nomina che può essere fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore. c) Il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale all’inizio di una nuova attività commerciale. Con l'autorizzazione il minore emancipato acquista la piena capacità di agire, potendo gestire l'impresa senza l'assistenza di un curatore e potrà compiere anche atti di straordinaria amministrazione. d) Il beneficiario di amministrazione di sostegno conserva capacità di agire per tutti gli attiche non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza dell’amministrazione di sostegno. Di conseguenza, egli potrà liberamente iniziare o proseguire un'attività di impresa senza assistenza, salvo che il giudice tutelare disponga diversamente nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno o con successivo decreto motivato. | provvedimenti autorizzativi del tribunale e i provvedimenti di revoca dell’autorizzazione sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese. L'esercizio autorizzato dell'impresa da parte del tribunale determina l'acquisto della qualità di imprenditore commerciale da parte dell'incapace. Tale qualità è acquistata dal minore emancipato e dall'inabilitato, in quanto l'impresa è da essi esercitata personalmente. Tale qualità è acquistata anche dal minore e dall’interdetto, in quanto tutti gli attisono compiuti dal rappresentante legale in loro nome. L’incapace resta esposto, perciò, a tutte le conseguenze che derivano dalla qualità di imprenditore commerciale, compresa l'esposizione al fallimento. Il fallimento del minore tuttavia solleva delicati problemi di giustizia sostanziale soprattutto per quanto riguarda l'applicazione delle norme fallimentari che stabiliscono le incapacità personali e le sanzioni penali per il fallito. Se per le seconde è possibile infatti evitare la loro applicazione al minore trasferendole sulla sfera del rappresentante legale in quanto il minore non può essere imputato di reati da altri commessi e che non poteva impedire, è più difficile sottrarre il minore fallito alle incapacità personali in quanto l'incapacità è subordinata alla dichiarazione di fallimento e solo il minore in quanto imprenditore commerciale può essere dichiarato fallito, non invece il genitore o il tutore che imprenditore non è. CAPITOLO 4: LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE 1.PREMESSA L'imprenditore commerciale è destinatario di una particolare disciplina dell'attività, in parte comune con gli altri imprenditori, detto statuto generale dell’imprenditore, in parte propria e specifica, detto statuto speciale dell’imprenditore commerciale. Inoltre, ci sono alcuni tipi di imprese commerciali, che svolgono attività di particolare rilievo economico e/o sociale, che sono destinatarie di un’ulteriore normativa speciale e settoriale, prevista da leggi speciali. A) LA PUBBLICITA’ LEGALE 2.LA PUBBLICITA’ DELLE IMPRESE COMMERCIALI Da sempre gli imprenditori avvertono l'esigenza di poter disporre con facilità di informazioni veritiere e non contestabili sulle aziende con cui entrano in contatto. Cioè hanno la necessità di ricevere e dare informazioni di carattere organizzativo rilevanti per il sicuro svolgimento della vita economica. Per le imprese commerciali tale esigenza è stata soddisfatta dal legislatore con l'introduzione di un sistema di pubblicità legale. Cioè, ha previsto l'obbligo di rendere di pubblico dominio determinati atti o fatti della vita dell'impresa, secondo forme e modalità predeterminate per legge. In tal modo, le informazioni ritenute legislativamente rilevanti non solo sono rese accessibili ai terzi interessati (pubblicità notizia), ma sono anche opponibili a chiunque (conoscibilità legale). Il codice civile del 1942 prevedeva come strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali il registro delle imprese. L'entrata in funzione del registro delle imprese era però subordinata a dei regolamenti di attuazione che sono arrivati solo nel 1995. Nel frattempo, ha trovato applicazione il regime transitorio, impemiato sull'iscrizione nei preesistenti registri di cancelleria del Tribunale e sull'esonero temporaneo dall'iscrizione degli imprenditori commerciali individuali e degli enti pubblici economici, sicché il sistema di pubblicità legale operava solo per le società commerciali e per i consorzi con attività esterna. Nell'attesa del registro delle imprese la situazione si è ulteriormente complicata con l'introduzione di nuove forme di pubblicità per le società di capitali e le società cooperative. Per le società di capitali, nel 1969, fu prevista, per una serie di atti, la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società per azioni a responsabilità limitata (Busarl), in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese (cancelleria del tribunale). Per le società cooperative, nel 1973, fu introdotta la pubblicazione nel Bollettino ufficiale delle società cooperative e dei consorzi di cooperative (Busc), sempre in aggiunta all'iscrizione nel registro delle imprese. Inoltre, leggi speciali, previdero ulteriori adempimenti pubblicitari, con valore di pubblicità notizia. La situazione si sblocca con la legge n. 580/1993, contenente norme per il riordino delle camere di commercio, che ha finalmente istituito il registro delle imprese, che è divenuto operativo dal 1997, ponendo fine al regime transitorio, cessando di esistere anche il Busarl e il Busc, sicché per tutte le società di capitali e cooperative l’unico sistema di pubblicità legale è il registro delle imprese. La nuova disciplina del registro delle imprese ha però introdotto alcune novità rispetto al sistema previsto dal codice del 1942: a) L'attuale registro delle imprese non è più solo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali, ma è anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese. Infatti, l'iscrizione nel registro delle imprese è stata estesa agli imprenditori agricoli, ai piccoli imprenditori, alle società semplici e nel 2001 è stata estesa anche alle società tra avvocati. b) Latenuta del registro delle imprese è affidata alle camere di commercio, con cessazione dei compiti in passato svolte dalle cancellerie del tribunale. c) Il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche (non più cartacee). Il registro delle imprese è pubblico. Chiunque può consultarne i dati sui terminali installati presso l'ufficio o su terminali collegati tramite il sistema informatico delle camere di commercio (Telemaco). Ciascun ufficio rilascia certificati e copie di atti tratti dai propri archivi informatici. esercitano attività commerciale (art. 2214) Ma non vi è una coincidenza fra la categoria degli imprenditori commerciali e coloro che secondo il codice civile sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili. Infatti, la disciplina della tenuta delle scritture contabili prevista dal codice civile non si applica ai piccoli imprenditori e quindi nemmeno ai piccoli imprenditori che esercitano attività commerciale. Inoltre, le società commerciali devono ritenersi obbligate alla tenuta delle scritture commerciali anche se non esercitano attività commerciale. Vi è l'obbligo di tenuta delle scritture contabili anche per gli enti pubblici e per gli enti di diritto privato diversi dalla società che svolgono attività commerciale in via secondaria ed accessoria, sia pure limitatamente all’attività commerciale esercitata. Infine, sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili anche le imprese sociali indipendentemente dalla natura commerciale o agricola dell'attività esercitata. 6.LE SCRITTURE CONTABILI OBBLIGATORIE. REGOLARITA' E CONTROLLO. Le scritture necessarie per un’ordinata contabilità variano a seconda del tipo di attività, delle dimensioni e dell’articolazione territoriale dell'impresa. L'art. 2214 pone un principio generale nello stabilire che l'imprenditore deve tenere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa. Inoltre, stabilisce che in ogni caso devono essere tenuti il libro giornale, il libro degli inventari e gli originali della corrispondenza commerciale ricevuta e le copie della corrispondenza spedita. Il libro giornale (art. 2216) è un registro cronologico-analitico, in cui sono indicate giorno per giorno le operazioni relative all'esercizio dell'impresa. Basta che le operazione siano registrate nell'ordine in cui sono compiute e non necessariamente il giorno in cui sono compiute. Il libro degli inventari (art. 2217) è un registro periodico-sistematico, che deve essere redatto all’inizio dell'impresa e successivamente ogni anno. L'inventario ha la funzione di fornire il quadro completo della situazione patrimoniale dell’imprenditore. Deve perciò contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività dell'imprenditore, anche se estranee all'impresa. L'inventario si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, o meglio con il bilancio comprensivo dello stato patrimoniale e del conto economico, che deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite. Nelle valutazioni di bilancio l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni. In base alla natura e alle dimensioni dell'impresa, l'imprenditore è obbligato alla tenuta di altre scritture contabili, come il libro mastro (singole operazione registrate non cronologicamente ma sistematicamente, es. per cliente), libro cassa (entrate ed uscite di danaro), libro magazzino (entrata e uscita merci). La scelta delle altre scritture è rimessa alla discrezionalità dell’imprenditore. Per garantire la veridicità delle scritture contabili ed in particolare per evitare che vengano alterate è imposta l'osservanza di alcune regole formali e sostanziali nella loro tenuta. L'inosservanza di tale regole rende le scritture irregolari e quindi giuridicamente irrilevanti. Le regole formali sono state progressivamente: il libro giornale e il libro degli inventari devono solo essere numerati progressivamente in ogni pagina prima di essere messi in uso. Secondo l'art. 2219 tutte le scritture devono essere tenute “secondo le norme di un'ordinata contabilità”, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine. Non vi si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili (formalità intrinseche). Le scritture contabili e la corrispondenza devono essere conservati per 10 anni (art. 2220). Le scritture contabili di regola non sono soggette a controllo esterno, regola che però subisce diverse eccezioni. A partire dal 1975 la contabilità delle società con azioni quotate in borsa è sottoposta al controllo esterno di apposite società di revisione. A partire dal 2003 anche le spa non quotate sono sottoposte a controllo esterno da parte di un revisore o di una società di revisione. L'obbligo di tenuta delle scritture contabili non è assistito da nessuna sanzione generale e diretta, salvo quelle previste dalla legislazione tributaria. Non mancano però delle sanzioni eventuali ed indirette: l'imprenditore che non tiene regolarmente le scritture contabili non può utilizzarle come mezzo di prova a suo favore ed è inoltre assoggettato alle sanzioni penali per i reati di bancarotta semplice o fraudolenta in caso di fallimento. 7.LA RILEVANZA ESTERNA DELLE SCRITTURE CONTABILI E L'EFFICACIA PROBATORIA Le informazioni sulla vita dell'impresa desumibili dalle scritture contabili non sono accessibili ai terzi in quanto l'interesse dell’imprenditore al segreto riceve tutela preferenziale. Fanno eccezione il bilancio delle società di capitali e delle società cooperative che devono essere resi pubblici mediante deposito presso l'ufficio del registro delle imprese. Nelle imprese soggette al controllo pubblico (società con azioni quotate in borsa, società assicurative, imprese bancarie), il diritto al segreto non sussiste nei confronti dell'organo pubblico preposto alla vigilanza. L'ipotesi più significativa di rilevanza esterna delle scritture contabili si ha sul piano processuale, potendo le stesse essere utilizzate come mezzo di prova sia a favore che contro l'imprenditore che le tiene (artt. 2709- 2711). Le scritture contabili, anche non tenute regolarmente, potranno essere utilizzate dai terzi come mezzo processuale di prova contro l'imprenditore che le tiene. Il terzo che vuol tranne vantaggio dalle scritture contabili di un imprenditore non potrà scinderne il contenuto, cioè non può avvalersi solo della parte a lui favorevole. L'imprenditore potrà dimostrare con qualsiasi mezzo che le proprie scritture non rispondono a verità. Affinché, invece, l'imprenditore possa usare le proprie scritture contabili come mezzo processuale di prova contro i terzi è necessario che ricorrano tre condizioni: 1. le scritture devono essere regolarmente tenute; 2. la controparte sia a sua volta un imprenditore 3. la controversia sia relativa a rapporti inerenti all’esercizio dell'impresa. In ogni caso, è rimesso all'apprezzamento del giudice riconoscere valore probatorio alle scritture contabili. Il giudice può chiedere, d'ufficio o su istanza di parte, solo l'esibizione di singole scritture contabili, o di tutti i libri, ma solo per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in esame. In soli tre casi il giudice può ordinare la comunicazione alla controparte di tutte le scritture contabili. Per controversie relative: 1. allo scioglimento della società, 2. alla comunione dei beni, 3. alla successione per causa di morte. C) LA RAPPRESENTANZA COMMERCIALE 8.AUSILIARI DELL'IMPRENDITORE COMMERCIALE E RAPPRESENTANZA. Nello svolgimento della propria attività l'imprenditore può avvalersi della collaborazione di altri soggetti, che potranno essere ausiliari interni o subordinati o soggetti esterni all’organizzazione imprenditoriale che collaborano con l'imprenditore, in modo occasionale o stabile (ausiliari esterni o autonomi). In entrambi i casi la collaborazione può riguardare anche la conclusione di affari con terzi in nome e per conto dell’imprenditore, cioè possono agire in rappresentanza dell’imprenditore. Il fenomeno della rappresentanza è regolato in via generale dagli artt. 1387 a 1400 del codice civile e da norme speciali quando si tratti di atti inerenti all'esercizio di impresa commerciale posti in essere da alcune figure tipiche di ausiliari interni: institori, procuratori e commessi. È detta rappresentanza commerciale. È regola generale che il conferimento ad altro soggetto dell'incarico di compiere uno o più atti giuridici relativi alla propria sfera patrimoniale non abilita di per sé l’incaricato ad agire in nome dell'interessato, con conseguente imputazione diretta degli effetti degli atti posti in essere. A tal fine è necessario l'espresso conferimento del potere di rappresentanza attraverso la procura. Inoltre, il potere di rappresentanza sussiste nei limiti fissati dalla procura e presuppone che questa sia conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere. Il terzo che contratta con chi dichiara di agire in veste di rappresentante è tenuto ad accertare esistenza, contenuto e regolarità formale della procura, esigendo che il rappresentante giustifichi i suoi poter. Quindi, è sul terzo contraente che ricade il rischio della mancanza o del difetto di potere rappresentativo della controparte. Il contratto concluso dal falsus procurator è improduttivo di effetti ed il terzo non potrà vantare alcun diritto nei confronti del preteso rappresentato. Sussiste solo la possibilità di chiedere al falsus procurator il risarcimento del danno che ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. Queste sono regole che trovano applicazione anche quando si tratti di atti compiuti per un imprenditore commerciale da parte di collaboratori esterni alla sua organizzazione, anche se stabili. Queste regole però sono sostituite da altre quando si tratti di ausiliari interni, che sono destinati ad entrare stabilmente in contatto con i terzi ed a concludere affari per l'imprenditore. AI riguardo vige un sistema speciale di rappresentanza fissato dagl artt. 2203-2213. Per la posizione rivestita nell’organizzazione aziendale, institori, procuratori e commessi sono automaticamente investiti del potere di rappresentanza dell’imprenditore e di un potere di rappresentanza commisurato al tipo di mansioni che la qualifica comporta. Il loro potere di vincolare l'imprenditore non si fonda su una procura ma costituisce effetto naturale della loro collocazione nell'impresa ad opera dell'imprenditore. Se l'imprenditore vuole modificare il contenuto legale tipico del potere di rappresentanza di tali ausiliari sarà necessario uno specifico atto, opponibile ai terzi solo se portato a conoscenza nelle forme stabilite dalla legge. Il terzo che conclude affari con uno di questi ausiliari dell’imprenditore commerciale dovrà solo verificare che l'imprenditore non abbia modificato, con atto espresso e pubblico, i loro naturali poteri rappresentativi. Non dovrà invece verificare se la rappresentanza è stata loro conferita. 9.L'INSTITORE È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio dell'impresa o di una sede secondaria o di un ramo particolare della stessa (art. 2203). Nel linguaggio comune è il direttore generale dell'impresa, di una filiale o di un settore produttivo. L'institore è di regola un lavoratore subordinato con la qualifica di direttore, che in virtù di un atto di preposizione dell’imprenditore, sarà al vertice assoluto se è preposto all'intera impresa (in tal caso, dipenderà solo dall’imprenditore) o al vertice relativo se è preposto ad una filiale o ad un ramo d'impresa (in tal caso, potrà trovarsi in posizione subordinata anche rispetto ad un altro institore). Rilevante è che l'institore sia stato investito dall’imprenditore di un potere di gestione generale, che abbracci tutte le operazioni della struttura alla quale è preposto. La posizione che ricopre comporta che l’institore è tenuto, congiuntamente all'imprenditore, all'adempimento degli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili dell'impresa o della sede cui è preposto. In caso di fallimento dell’imprenditore, anche nei confronti dell’institore saranno applicate le sanzioni penali previste a carico del fallito anche se solo l'imprenditore potrà essere dichiarato fallito. L'institore ha, accanto al potere di gestione, un ampio e generale potere di rappresentanza, sia sostanziale che processuale (art. 2204) : - Rappresentanza sostanziale. Anche in mancanza di espressa procura, l'institore può compiere in nome dell’imprenditore, tutti gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa a cui è preposto. La pertinenza di un dato atto all'esercizio dell'impresa deve essere valutata con riferimento astratto alle imprese di quel determinato tipo e non con riferimento alla specifica impresa cui l’institore è preposto (seppur questo punto sia controverso). Questo perché, questa valutazione tutela maggiormente i terzi. L'institore non è legittimato a compiere atti che esorbitano dall'esercizio dell'impresa, quali la vendita o l'affitto dell'azienda, il cambiamento dell'oggetto dell'attività. Inoltre, gli è fatto divieto espresso di alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non vi è stato espressamente autorizzato. Tale divieto non opera quando oggetto dell'impresa è proprio il commercio di immobili, cioè rientri negli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa. - Rappresentanza processuale. L’institore può stare in giudizio, sia come attore (rappresentanza processuale attiva), sia come convenuto (rappresentanza processuale passiva) per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa a cui è preposto. Quindi, non solo per gli atti da lui compiuti, ma anche per quelli posti in essere direttamente dall'imprenditore o a lui imputabili in qualità di imprenditore. | poteri rappresentativi dell'institore, determinati dal legislatore, possono essere ampliati o limitati dall’imprenditore, sia all'atto della preposizione sia successivamente. Le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se la procura originaria o la successiva limitazione siano stati pubblicati nel registro delle imprese (artt. 2206-2207 Mancando tale pubblicità legale, la rappresentanza si presume generale, salva la prova da parte dell'imprenditore che i terzi effettivamente conoscevano l'esistenza di limitazioni al momento della compromettere la qualificazione come azienda del residuo. Manca qualsiasi riferimento che possa far considerare i crediti ed i debiti come elementi costitutivi dell'azienda. In definitiva, l'azienda è un complesso di soli beni (cose) e non è concepibile come un complesso di beni e di rapporti giuridici. Il che comporta che di trasferimento di azienda si potrà parlare anche quando le parti abbiano espressamente escluso dal trasferimento i contratti aventi ad oggetto prestazioni di cose future o di servizi, i crediti e i debiti, e anche quando non è riscontrabile un valore positivo di avviamento, (es. se in vendita o affitto è il patrimonio di un fallito). 3.L'AZIENDA FRA CONCEZIONE ATOMISTICA E UNITARIA. AZIENDA E UNIVERSALITA' DI BENI Si è molto discusso sulla natura giuridica dell'azienda, da cui è derivato il contrasto fra teorie unitarie e teorie atomistiche. La teoria unitaria considera l'azienda come un bene unico, un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l'azienda è un bene immateriale, rappresentato dall'organizzazione stessa. In questa prospettiva l'azienda è stata qualificata come una universalità di beni. Si ritiene perciò che il titolare dell'azienda abbia sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti che vanta sui singoli beni. La teoria atomistica concepisce, invece, l'azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali l'imprenditore può vantare diritti diversi. E infatti, la possibilità di concepire l'azienda come un nuovo bene sotto ogni profilo e a tutti gli effetti trova ostacolo nei dati normativi. Da questi emerge con chiarezza che l'unificazione giuridica dei beni aziendali è solo relativa e funzionale, dato che secondo l’art. 2556, il trasferimento dell'azienda dovrà necessariamente osservare le forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda. L'assenza di una legge di circolazione propria dell'azienda è sufficiente a negare la piena unità giuridica e la natura di nuovo bene della stessa, lasciando preferire la teoria atomistica. È altrettanto indubbio che l’unità funzionale dell'azienda trova significativo riconoscimento nella relativa disciplina e costituisce il principio di dell'art. 2561, secondo cui l'usufruttuario deve gestire l'azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. L'azienda resta perciò la stessa nonostante il mutare dei suoi elementi costitutivi. La salvaguardia dell'unità funzionale dell'azienda deve fungere da criterio interpretativo della relativa disciplina nei punti in cui essa non risulti chiara e debba ispirare la soluzione dei problemi pratici della stessa lasciati aperti. In questa prospettiva deve essere valutata la definizione dell'azienda in termini di universalità di beni, proposta dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina. Anche se l'azienda è espressamente equiparata alle universalità di beni dall'art. 670 cp.c, (che prevede il sequestro giudiziario di aziende e di altre universalità di beni), il considerare l'azienda un'universalità di beni non offre argomenti per concepire la stessa come un bene nuovo ed unitario: oltre all’art. 670 c.p.c. non esistono altre norme che disciplinino direttamente le universalità di beni. Norme specifiche sono dettate per le universalità di beni mobili, definite come la pluralità di cose che appartengono alla stessa persona e hanno una destinazione unitaria. Questi aggregati di cose mobili hanno un regime normativo parzialmente coincidente con quello previsto per i beni mobili, ma non totalmente coincidente. Ma la disciplina delle universalità di mobili non si può applicare all'azienda, visto che l'azienda può comprendere dei beni che non siano di proprietà dell’imprenditore. Le diversità strutturali fra azienda ed universalità di mobili non implicano però che si debba escludere l'applicazione per analogia, dato che sia l'azienda sia le universalità di mobili costituiscono aggregati di cose a destinazione unitaria e finalizzati alla produzione di un'utilità complessiva nuova e diversa rispetto a quella offerta dalla semplice somma dei singoli beni. Così può ammettersi che, al pari delle universalità di mobili: a) l'insieme dei beni mobili aziendali di proprietà dell'imprenditore sia sottratto all'applicazione della regola “possesso vale titolo” valida per i singoli beni mobili, mentre il problema non si pone nemmeno per gli immobili aziendali e i beni mobili registrati; b) il complesso mobiliare aziendale può essere acquistato per usucapione solo in virtù del possesso continuato per 20 anni, invece dei 10 anni previsti per i singoli beni mobili; c) il titolare di un'azienda può avvalersi dell’azione di manutenzione, oltre che per gli immobili, anche per tutelare il possesso dell'insieme dei beni mobili aziendali. 4.LA CIRCOLAZIONE DELL'AZIENDA. OGGETTO E FORMA DEI NEGOZI TRASLATIVI L'azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, conferita in società, donata oppure su di essa possono essere costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. L'imprenditore può anche compiere atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali. È importante distinguere le due ipotesi. È principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi, cioè guardando al risultato perseguito e realizzato e non al nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. E ciò perché il trasferimento di azienda produce effetti che incidono nei confronti dei terzi. Per aversi trasferimento di azienda non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale. Nell'ambito della disciplina del trasferimento di azienda si resta anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purché dotato di organicità operativa. Necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l'esercizio di una determinata attività di impresa, e ciò anche quando il nuovo titolare debba integrare il complesso con ulteriori fattori produttivi per farlo funzionare. È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l’unità economica e funzionale dell'azienda. D'altro canto, l'atto di disposizione del trasferimento di azienda comprenderà tutti i beni presenti in quel momento nell'azienda, anche se non specificatamente menzionati nel contratto. | vari beni aziendali passeranno all'acquirente nella medesima situazione giuridica in cui si trovavano presso il trasferente (proprietà, diritto reale o personale di godimento), se nulla è espressamente pattuito al riguardo. Le forme da osservare nel trasferimento dell'azienda sono fissate dall'art. 2556, modificato dalla legge 310/1993. Bisogna distinguere fra forma necessaria per la validità del trasferimento e forma richiesta ai fini probatori e per l’opponibilità ai terzi. AI fine della validità del trasferimento è dettata una disciplina identica per ogni tipo di azienda, agricola o commerciale. | contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o la concessione di godimento dell'azienda sono validi solo se stipulati con l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda o per la particolare natura del contratto. Manca quindi un’autonoma ed unitaria legge di circolazione dell'azienda e il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Solo per le imprese soggette a registrazione, secondo il sistema originario del codice civile (non per le piccole imprese e le imprese agricole individuali o in forma di società semplice), è previsto che ogni atto di disposizione dell'azienda deve essere provato per iscritto. La scrittura è richiesta solo ad probationem e la sua mancanza comporterà come unico effetto che, in un'eventuale controversia giudiziaria, le parti (Ma non i terzi) non potranno avvalersi della prova per testimoni per dimostrare l’esistenza del contratto. Per le imprese soggette a registrazione, il secondo comma dell'art. 2556, stabilisce che i relativi contratti sono soggetti ad iscrizione nel registro delle imprese. E, nel nuovo testo introdotto dalla legge 310/1993, la norma prescrive che, a tal fine, il contratto di trasferimento deve essere sempre redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depositato a cura del notaio (e non più dalle parti) per l'iscrizione, entro trenta giorni. La disposizione, come oggi è formulata, persegue finalità di ordine pubblico (antiriciclaggio), ecco perché si tende a riconoscere che l'obbligo di registrazione sussiste anche quando le parti non siano imprenditori tenuti all'iscrizione nella sezione ordinaria (piccoli imprenditori, imprenditori agricoli individuali, società semplici), restando tuttavia fermo che solo l'iscrizione nella sezione ordinaria, se dovuta, produce la funzione dichiarativa (opponibilità del trasferimento). 5.LA VENDITA DELL'AZIENDA. IL DIVIETO DI CONCORRENZA DELL'’ALIENANTE. Oltre agli effetti dedotti in contratto, l'alienazione dell'azienda produce ex lege ulteriori effetti che riguardano: il divieto di concorrenza dell’alienante, i contratti, i crediti, i debiti aziendali. Per quanto riguarda il divieto di concorrenza, secondo l’art. 2557, chi vende un'azienda commerciale deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che possa comunque, per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze, sviare la clientela dall'azienda ceduta. Se l'azienda è agricola, il divieto opera solo per le attività ad essa connesse e sempre che rispetto a tali attività sia possibile sviamento della clientela. Il divieto di concorrenza è derogabile ed ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività di impresa dell’alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre clientela all'azienda ceduta. Le parti possono anche ampliare la portata dell'obbligo di astensione, purché non sia impedita ogni attività professionale dell'alienante. In ogni caso è vietato prolungare oltre i cinque anni la durata del divieto. Il divieto si applica, oltre in caso di vendita volontaria, anche nel caso di vendita coattiva. Il divieto graverà in testa all'imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell'azienda da parte degli organi fallimentari. L'applicazione del divieto di concorrenza è, invece, controverso: nella divisione ereditaria con assegnazione dell'azienda caduta in successione a uno degli eredi; nello scioglimento di una società con assegnazione dell'azienda sociale ad uno dei soci quale quota di liquidazione; nella vendita dell'intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di controllo in una società di persone o di capitali. Nei primi due casi non si può affermare che vi è stato trasferimento di azienda da un erede all’altro o da un socio ad un altro, sicché gli altri erede o gli altri soci non sono tenuti a rispettare il divieto di concorrenza. Nel terzo caso il negozio traslativo c'è, ma ha per oggetto le quote e non l'azienda. Quindi, non ricorre il presupposto della vendita dell'azienda per l'applicazione dell'art. 2557. Ma, essendo indubbio che la vendita dell'intero pacchetto azionario o di una partecipazione di controllo permettano di raggiungere un risultato sostanzialmente coincidente con la vendita dell'azienda, vi è chi assoggetta al divieto di concorrenza il socio alienante, purché ricorrano in concreto i presupposti dell’art. 2557 ed in particolare l'attitudine dell’alienante a sviare la clientela per la posizione rivestita nell'impresa sociale. Il divieto di concorrenza ha per oggetto l’inizio di una nuova impresa concorrente e dovrà ritenersi violato ogni qualvolta si sia avuto sviamento di clientela dall'azienda ceduta, per fatto concorrenziale direttamente o indirettamente imputabile all’alienante. 6(segue). LA SUCCESSIONE NEI CONTRATTI AZIENDALI La disciplina del trasferimento dell'azienda si preoccupa di favorire il mantenimento dell'unità economica della stessa. A tal fine è agevolato il subingresso dell'acquirente nei rapporti contrattuali in corso di esecuzione che l'alienante ha stipulato con fornitori, finanziatori, lavoratori e clienti. Infatti, l'art. 2558 prevede che se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell'alienante. La deroga ai principi di diritto comune è vistosa per quanto concerne la posizione del terzo contraente. Infatti, mentre per diritto comune la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto, nel trasferimento di contratti, inerenti all'esercizio di impresa, il consenso del terzo contraente non è necessario e l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell'azienda. Da questo momento il terzo contraente dovrà eseguire le proprie prestazioni nei confronti del nuovo titolare dell'azienda. Il terzo contraente non resta senza tutela, anche se limitata. Infatti, il diritto di recesso del terzo, entro tre mesi, potrà essere esercitato solo se sussiste una giusta causa e spetterà al terzo contraente provare che l'acquirente dell'azienda si trova in una situazione oggettiva tale da non dare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto. Inoltre, il recesso dal contratto non determina il ritorno del contratto in testa all’alienante bensì la sua definitiva estinzione. Resta al terzo contraente solo la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni all’alienante dando la prova che questi non ha osservato la normale cautela nella scelta dell'acquirente dell'azienda. È evidente il favor legislativo per il mantenimento dell’unità funzionale dell'azienda. Naturalmente non vi è successione dei contratti che abbiano carattere personale. Per il trasferimento di tali contratti sarà necessaria un'espressa pattuizione contrattuale fra le parti ed il consenso del terzo contraente ceduto. Contratti personali, ai fini dell'art. 2558, sono quei contratti nei quali l'identità e le qualità personali dell’imprenditore sono state in concreto determinanti del consenso del terzo contraente.
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