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Diritto del Lavoro. Appunti dal corso di diritto del lavoro L.Gaeta, Sintesi del corso di Diritto del Lavoro

riassunti sostitutivi del manuale di Appunti dal corso di diritto del lavoro di Gaeta 2020

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 25/02/2021

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Scarica Diritto del Lavoro. Appunti dal corso di diritto del lavoro L.Gaeta e più Sintesi del corso in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! APPUNTI DAL CORSO DI DIRITTO DEL LAVORO II. L’ORGANIZZAZIONE SINDACALE 11. Il diritto sindacale tra ordinamento statale e ordinamento autonomo A fine 800 si creò una divisione piuttosto netta tra 2 rami della materia, il diritto del lavoro individuale, che studia le relazioni giuridiche tra il singolo lavoratore e il singolo datore di lavoro, e il diritto del lavoro collettivo, detto diritto sindacale, che studia le relazioni giuridiche tra il “lavoratore collettivo” – cioè l’entità che rappresenta i lavoratori - e la controparte, che può essere il singolo datore di lavoro o l’associazione imprenditoriale (l’imprenditore costituisce di per sé una coalizione in quanto parte forte). La dimensione collettiva della materia si è affermata allo scopo di fare da contraltare alla dimensione individualistica del diritto privato, che ha sempre costituito un arma nelle mani della parte forte. Il diritto sindacale è la rappresentazione giuridica di quello che per gli studiosi anglosassoni è il “conflitto industriale”, Derivante dalla contrapposizione di interessi tra i lavoratori e loro datori di lavoro. Mentre però il diritto del lavoro individuale si è sviluppato sostanzialmente all’interno di un sistema di regole normative scritte, di origine statale, regionale o sovranazionale, il diritto sindacale è cresciuto in perenne bilico tra 2 sistemi: quello statale, fatto il di norme cogenti per tutti, e quello autonomo delle relazioni tra le “parti sociali”, fatto invece di prassi non scritte e di regole elasticamente applicabili. Questo contrasto dialettico viene descritto nel 1960 da Gino Giugni il quale parlò appunto dell’ incontro-scontro tra 2 distinti ordinamenti: quello statale e quello intersindacale. La ricostruzione si fonda sulla incapacità del diritto privato di dar conto di un fenomeno multiforme e sfuggente quale quello sindacale. Si passa così da un piano metodologico positivista a un piano fattuale, fondato sull’ osservazione della realtà delle cose. Le parti sociali danno vita ad un vero e proprio sistema di produzione di norme, di modalità per la loro gestione e interpretazione: un insieme di regole volto di assicurare un equilibrio dinamico tra interessi delle parti; Un ordinamento autonomo e originario fondato su un elemento basilare, cioè il reciproco riconoscimento delle parti, ognuna delle quali legittima l’altra come interlocutore e unico portavoce dell’interezza degli interessi della propria parte. Quello che conta è la “rappresentatività”, cioè appunto la capacità delle associazioni datoriali e dei sindacati d’interpretare unitariamente interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori. Dagli anni 50 si è un imposto nel nostro paese un sistema sindacale “di fatto” e quindi un diritto sindacale altrettanto “di fatto”, controllato delle grandi Confederazioni. I rapporti tra questo ordinamento intersindacale e l’ordinamento statale hanno vissuto fasi molto diversificate. Momenti in cui il sindacato ha sviluppato un sistema basato completamente sulla regolamentazione autonoma e sulla richiesta di “astensionismo legislativo”, e momenti in cui il sindacato ha cominciato addirittura a influenzare l’agenda del legislatore. Dallo statuto dei lavoratori del 1970 in avanti il nostro diritto sindacale ha assunto contorni estremamente articolati, in molti casi ibridi, col sistema “di fatto” contaminato da interventi statali di sostegno. Un apporto fondamentale è stato fornito al diritto sindacale anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza. 12. Organizzazione e associazione sindacale Si è visto che l’aggregazione dei lavoratori sia nata praticamente insieme al lavoro industriale e come l’ordinamento giuridico abbia reagito diversamente nei vari momenti storici, Fino a giungere all’affermazione nella Costituzione del valore fondamentale della libertà sindacale. Fonte giuridica basilare del fenomeno sindacale nel nostro ordinamento positivo è l’articolo 39 comma 1 della Costituzione, Il quale programma che l’organizzazione sindacale libero. La norma è strettamente correlata un altro principio costituzionale, quello dell’ articolo 18 comma 1, che riconosce a tutti cittadini il diritto di associarsi liberamente. La distensione terminologica operata della Costituzione tra l’organizzazione e l’associazione può spiegarsi in 2 modi. Si può sostenere che organizzazione si è un concetto più ampio di associazione, perché quest’ultima starebbe a designare un raggruppamento di persone assoggettato a regole da rispettare per la sua costituzione, mentre l’organizzazione indica più genericamente un aggregazione anche spontanea e solo episodica. La costituzione con l’articolo 39 avrebbe lasciato campo aperto ad ogni possibile tipologia aggregativa. Si può poi ritenere che l’organizzazione sia invece una specificazione dell’associazione: l’articolo 18 predispone una tutela generale a favore di ogni tipo di aggregazione, ma nel momento in cui un’associazione sia caratterizzata dallo scopo sindacale, scatterebbe la tutela specifica predisposta dell’articolo 39. Ciò in ragione del fatto che la Costituzione fonda la Repubblica sul lavoro. L’organizzazione gode della tutela costituzionale a patto di essere definibile sindacale. L’aggettivo sta a connotare ogni aggregazione che si riveli rappresentativa degli interessi professionali e lavorativi dei soggetti del mondo del lavoro. È chiaro che la norma si rivolga ai lavoratori subordinati, tuttavia ci si chiede anche se organizzazione sindacale possa ritenersi quella rappresentativa degli interessi dei datori di lavoro. A chi risponde in senso affermativo si può obiettare che l’art.39 si colloca in quella parte della Costituzione che si rivolge al solo lavoro subordinato ed autonomo, apprestando per loro tutele non riservate agli imprenditori. La garanzia dell’associazionismo imprenditoriale è dunque rinvenibile nella tutela generale della libertà di associazione di cui all’art.18 Cost. 13. Il contenuto della libertà sindacale L’art.39 Cost. è stato scritto nel periodo immediatamente successivo al ventennio fascista, il cui ordinamento prevedeva la possibilità di costituire una sola associazione sindacale per ogni categoria, la quale aveva la rappresentanza legale obbligatoria di tutti i lavoratori di quella categoria, ed era ovviamente soggetta a penetranti controlli statali. Subito dopo la nostra Costituzione ha ricevuto un importante sostegno da parte di 2 convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, quella di San Francisco del 1948, che garantisce il diritto di costituire organizzazioni sindacali e di aderirvi, e quella di Ginevra del 1949, che tutela lavoratori e sindacati contro gli atti discriminatori antisindacali da parte dei datori di lavoro. La libertà sindacale è qualificabile innanzi tutto come un diritto soggettivo, operante sia nei confronti dei poteri pubblici che di quelli privati; non solo lo Stato è tenuto a rispettarlo, ma anche i datori di lavoro non devono fare nulla per ostacolarne l’esercizio. Questa interpretazione è stata suggerita con l’aiuto di un’apposita legge, lo statuto dei lavoratori del 1970. Il contenuto della libertà sindacale viene tradizionalmente distinto in due filoni. Il primo è la cosiddetta libertà “di”, intesa come la libertà per l’organizzazione di adoperarsi per perseguire gli interessi dei lavoratori nel modo più pieno possibile. La seconda è la libertà “da”: una concezione difensiva, cioè la volontà dell’organizzazione sindacale di essere libera da ingerenze esterne, in primo luogo quelle del potere pubblico. Quest’ultima accezione della libertà sindacale si pone in contraddizione con lo stesso comma 2 dell’art.39, che impone al sindacato che voglia acquistare personalità giuridica, l’obbligo di registrarsi presso uffici pubblici. Il concetto della libertà “di” assume a sua volta due significati: una libertà positiva, di “fare”, cioè quella di costituire un sindacato, di coalizzarsi, di iscriversi (tale libertà è codificata anche all’art.14 dello St.lav.). Accanto a quella positiva esiste però una libertà negativa, di “non fare”, cioè quella di non aderire ad alcuna associazione, di dimettersi liberamente, di non partecipare alle sue attività. La tradizione dei paesi anglosassoni prevede clausole contrattuali in cui tale libertà è negata. Nel nostro sistema, condizionare l’assunzione di un lavoratore o la prosecuzione della sua carriera all’iscrizione o meno al sindacato, è un comportamento assolutamente illegittimo ai sensi degli articoli fin qui citati, ed anche ai sensi dell’art.15 dello St.lav., che vieta ogni patto o atto discriminatorio, cioè diretto a subordinare l’assunzione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca a un sindacato; o ancora diretto a licenziarlo o ad interrompere la prosecuzione della sua carriera per l’adesione ad un altro sindacato. Un ulteriore tutela è offerta dall’art.16 sindacale; la federazione è a sua volta l’organismo sindacale che raggruppa a livello nazionale tutti i lavoratori che operano all’interno della stessa categoria produttiva. A livello nazionale la Confederazione costituisce la struttura generale, costituita dalle diverse federazioni rappresentanti le varie categorie produttive. Lo stesso modello organizzativo si ripete a livello territoriale: in ogni regione e provincia esiste una struttura generale intercategoriale, che è cioè il punto di incontro di tutte le categorie produttive. È questa l’organizzazione orizzontale del sindacato, quella cioè che raggruppa nel medesimo ambito territoriale tutte le associazioni delle diverse categorie. Analogamente è raffigurabile anche un’organizzazione verticale del sindacato, quella che per ogni categoria produttiva ne descrive “a cascata” i vari livelli: nazionale, regionale, provinciale. La struttura organizzativa delle maggiori associazioni imprenditoriali è del tutto identica rispetto a quella del sindacato dei lavoratori, articolandosi anch’essa in livelli verticali e orizzontali. III. LA RAPPRESENTANZA ALL’INTERNO DEI LUOGHI DI LAVORO 18. Dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica L’importante tema della disciplina della rappresentanza sindacale all’interno dei luoghi di lavoro riguarda quasi esclusivamente le aziende di dimensioni medio-grandi, che costituiscono lo 0,6% e nelle quali lavora circa un terzo dei lavoratori italiani. Già nel 1906 la Fiom e l’industria automobilistica Itala sottoscrissero a Torino un accordo prevedendo l’istituzione di una “commissione interna” composta da cinque operai, anche se è improprio affermare che quello è stato il primo organismo di rappresentanza aziendale nel nostro paese. Il modello delle commissioni interne si sviluppo nell’industria italiana fino al 1925, quando il “patto di palazzo Vidoni” tra Confindustria e sindacato fascista abolì tali organismi, così come ogni reale rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Al loro posto introdussero la figura del fiduciario di azienda, una sorta di supervisore con l’incarico di vigilare (per conto del regime) sui rapporti tra le parti sociali. Subito dopo la caduta del fascismo l’accordo Buozzi-Mazzini del 1943 tra Confindustria e il sindacato unitario ridiventato libero (CGIL) sancì la rinascita delle commissioni interne. La rappresentanza a livello aziendale si tornò a fondare sulle commissioni interne. Esse venivano elette da tutti i lavoratori delle aziende con un certo numero di dipendenti, su liste presentate da gruppi autonomi di lavoratori o da associazioni sindacali. Le elezioni si svolgevano a cadenza regolare e costituirono l’occasione per testare la reale forza rappresentativa dei sindacati nazionali. Alle commissioni interne era preclusa la possibilità di stipulare contratti collettivi a livello aziendale, prerogativa gelosamente custodita dal sindacato nazionale. D’allora si è sviluppato un sistema di rappresentanza sindacale “ a doppio canale” invece di un sistema “a canale unico”, in cui la rappresentanza assomma la funzione consultiva e quella negoziale. Il modello delle commissioni interne funzionò fino agli anni 60. Uno dei punti deboli era costituito dal potenziale scollamento tra rappresentanti e rappresentati: spesso gli eletti nelle commissioni interne non sempre riuscivano a rappresentare al meglio le reali istanze dei lavoratori, poi accadeva che interi reparti dell’azienda non avessero un loro reale rappresentante. Ebbe modesto successo il tentativo della Cisl di introdurre una propria articolazione diretta, le sezioni sindacali aziendali (sas), in sostanza una forma di proiezione del sindacato all’interno delle aziende. Prese invece piede una nuova struttura nata nelle fabbriche più grandi: le nuove regole prevedevano sostanzialmente la designazione da parte dei lavoratori di ogni reparto aziendale di un loro delegato, e la confluenza di tutti i delegati dei vari reparti in un consiglio di fabbrica. Questa struttura si affermò rapidamente sostituendo quasi dappertutto le commissioni interne. Tuttavia il sistema venne riportato all'ordine da 2 eventi: nel 1970 il legislatore, che non era sostanzialmente intervenuto ancora nelle materie sindacali, dedicò una norma dello statuto dei lavoratori alla regolazione della rappresentanza in azienda; nel 1972 un patto federativo tra i 3 grandi sindacati formalizzò i consigli di fabbrica come struttura di rappresentanza aziendale, attribuendogli un non meglio specificato potere contrattuale, e previde un loro forte collegamento organizzativo e politico con le grandi centrali sindacali. 19. Le rappresentanze sindacali aziendali La norma dello statuto cui si accennava è l'art.19 che, nella sua originaria formulazione, prevedeva la costituzione (nelle unità con più di 15 dipendenti) di rappresentanze sindacali aziendali (rsa), su iniziativa dei lavoratori, e purché ciò avvenisse nell'ambito di una organizzazione sindacale che aderisse alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, oppure che fossero firmatarie di un contratto collettivo nazionale o provinciale applicabile in quell’unità produttiva. La norma venne subito accusate di incostituzionalità, perché avrebbe riconosciuto una serie di diritti solo ad alcuni sindacati e non ad altri. La Corte costituzionale stabilì la piena legittimità della norma in base a 2 motivazioni; innanzitutto lo statuto dei lavoratori disciplinava 2 livelli di tutela accordati al sindacato: un livello base, attribuito indistintamente a tutti con riguardo alla piena libertà sindacale, ed un livello “incentivante”, volto a premiare quei sindacati che dessero prova di effettiva rappresentatività, attribuendo loro ulteriori diritti. Inoltre la maggiore rappresentatività non era un criterio statico attribuito a un sindacato dalla legge o da una pubblica autorità, ma dipendeva dalle contingenze delle relazioni industriali in un determinato momento. La giurisprudenza costituzionale ha individuato una serie di requisiti della “maggiore rappresentatività”: ampia rappresentanza di tutte le categorie produttive ed equilibrata diffusione sul territorio nazionale, elevato numero di iscritti ed efficace presenza nelle relazioni industriali mediante stipula di contratti collettivi ed azioni di autotutela. Nel 1970 la situazione della rappresentanza in azienda era estremamente composita: la scelta dell’art.19 è stata quella di non fare riferimento a nessuna esperienza particolare ma di fungere da “contenitore aperto”. Perché un organismo rispetti uno dei 2 requisiti richiesti dalla norma esso può definirsi RSA e di conseguenza beneficiare di tutte le prerogative ad essa riconosciute dallo statuto dei lavoratori. 20. Il referendum del 1995 Nel 1995 si svolsero 2 referendum parzialmente abrogativi dell'art.19, promossi con l'intento di allargare la possibilità di costituire RSA al di là del sindacato rappresentativo. Dall'estrema sinistra si riteneva che il sindacato confederale avesse poteri enormi e che non fosse più in grado di rappresentare le reali istanze del mondo del lavoro. I referendum furono quindi due: uno “massimale” che prevedeva la quasi totale abrogazione dell’art.19 ad eccezione della prima parte; uno “minimale”, che prevedeva l’abrogazione del solo primo riferimento, quello al sindacato maggiormente rappresentativo, e l’eliminazione del riferimento ai livelli “nazionale” e “provinciale” dei contratti collettivi al secondo punto. Questo fu quello approvato, e perciò l’art.19 consente di costituire RSA nell'ambito di ogni sindacato che abbia stipulato un contratto collettivo di qualsiasi livello, anche solo aziendale. L’attuale formulazione dell’art.19 tuttavia lascia ampio spazio al “potere di accreditamento” del datore di lavoro che non applichi un contratto collettivo nazionale nello scegliersi la controparte sindacale col quale stipulare un contratto aziendale. Una tale organizzazione diventa titolare del potere di costituire una RSA escludendo al contempo un sindacato molto rappresentativo. Con la contraddizione esplosa quando la Fiat esce dal sistema di contrattazione nazionale, non stipulando contratti collettivi con la Fiom-Cgil, sindacato maggioritario in azienda, escludendolo dall’RSA. Le rimostranze della Fiom sono state accolte dalla Corte costituzionale che attribuisce alla CGL la facoltà di costituire una RSA in Fiat, poiché il termine “firmatarie” va inteso con riferimento alle organizzazioni sindacali che hanno partecipato attivamente alle trattative pur senza terminarle. Resta per l'imprenditore la possibilità di una mancata convocazione alle trattative di un sindacato. Dopo il referendum del 1995 la nozione di “sindacato maggiormente rappresentativo” è stata abbandonata in favore della nozione di “sindacato comparativamente più rappresentativo”. Di recente si è cercato di dare una misura certa della rappresentatività sindacale, ciò è stato fatto confluire nel “testo unico” del 2014. 21. Le rappresentanze sindacali unitarie Negli anni 80 il modello dei consigli dei delegati subisce una profonda crisi che portò alla costituzione di più RSA. Le grandi modificazioni strutturali del mondo del lavoro intervenute proprio in quegli anni fecero venir meno quella omogeneità strutturale della figura del lavoratore, su cui era imperniato il modello rappresentativo dei consigli di fabbrica. L'intero sistema della rappresentanza sindacale in azienda venne completamente rivisto da uno degli accordi trilaterali di quel periodo, il “protocollo Ciampi” del 1993, e da un successivo accordo interconfederale attuativo tra Confindustria e sindacati. Quest'ultimo prevedeva la costituzione, nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, di rappresentanze sindacali unitarie (rsu), composte per 2 terzi da persone elette da tutti i lavoratori, su liste presentate da associazioni sindacali che avessero una struttura formalizzata con atto costitutivo e uno statuto; per il residuo terzo da persone nominate dai sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale applicato in azienda. Alle rsu, che duravano 3 anni, era attribuito il potere di stipulare contratti collettivi aziendali (canale unico di rappresentanza). Questo potere era esercitabile congiuntamente all'istanza sindacale, precisamente alle articolazioni territoriali dei sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale. Il meccanismo elettivo dei 2 terzi era simile al sistema adoperato per le vecchie commissioni interne, mentre la riserva del terzo metteva più saldamente l'intera tematica della rappresentanza in azienda, nelle mani del sindacato rappresentativo. La riserva del terzo è stata poi abolita da un accordo confluito nel “testo unico” del 2014, perciò ormai la RSU è interamente di composizione elettiva. Lo stesso testo unico detta regole per il graduale passaggio dalle RSA alle RSU nelle aziende in cui le prime sono operative, prevedi che alle RSU spettino tutte le prerogative dovute alle RSA e che i sindacati rinuncino formalmente al costituzione di RSA. 22. I diritti sindacali Alle RSA e RSU e ai loro dirigenti, lo statuto dei lavoratori attribuisce una serie di prerogative chiamate “diritti sindacali”. Si tratta di diritti strumentali, volti a garantire alle rappresentanze aziendali il miglior adempimento possibile dei loro compiti. Tali diritti trovano applicazione in tutte le imprese industriali e commerciali con più di 15 dipendenti. (art.3 co.1). La norma non si riferisce alla sola impresa, ma a ogni “unità produttiva”. Se nel territorio dello stesso comune ci sono più unità produttive della stessa impresa il numero dei loro dipendenti deve essere sommato per arrivare alla soglia dei 16. Per le imprese agricole il limite è abbassato a sei dipendenti. Per quanto riguarda i diritti sindacali un primo pacchetto di tutte le spetta al RSA. Queste hanno il diritto di indire un’assemblea (art.20) alla quale possono partecipare tutti i lavoratori dell'azienda o anche di singoli reparto. L'assemblea non è assoggettata a limiti di tempo se si svolge al di fuori dell'orario di lavoro, mentre è previsto che non si possono superare le 10 ore in un anno se si svolge durante il normale orario di lavoro (ore retribuite). L'ordine del giorno può riguardare solo materie di “interesse sindacale e del lavoro” e vi possono partecipare anche sindacalisti esterni alla azienda appartenenti all'organizzazione che ha costituito la RSA, la quale può decidere anche se invitare il datore di lavoro. È previsto un comportamento attivo del datore di lavoro che deve consentire il regolare svolgimento dell’assemblea. Alle RSA spetta poi diritto indire un referendum su materie inerenti alla “attività sindacale”. Questa dizione è da considerarsi più restrittiva rispetto a quella prevista per l'assemblea il referendum dovrà necessariamente ritenersi circoscritto alle sole materie sindacali, principalmente per sottoporre ad'approvazione un’ipotesi di contratto collettivo. Il referendum dovrà svolgersi fuori dall'orario di lavoro e vi potranno partecipare tutti i lavoratori dell’unità produttiva interessata, anche quelli non iscritti al sindacato. Le RSA godono del diritto di affiggere “pubblicazioni, testi appello tecnicamente, in quanto il ricorso avviene presso lo stesso tribunale. Tale opposizione può essere presentata da entrambe le parti, si apre così un procedimento ordinario. Nei riguardi del datore di lavoro che non ottempera al decreto pronunciato, l’art.28 prevede l’applicazione dell’art.650 c.p. che contempla il reato di “inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”. IV. LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA 25. Dai concordati di tariffa ai contratti collettivi corporativi Il tema della contrattazione collettiva è probabilmente quello nel quale è più possibile verificare la dialettica tra l’ordinamento statale e quello intersindacale. Il contratto collettivo prese piede alla fine dell’800 come strumento grazie al quale lavoratori coalizzati potevano ristabilire una certa parità contrattuale con il datore di lavoro, il quale aveva nel contratto individuale il mezzo per imporre le proprie condizioni ai lavoratori. Con questo nuovo contratto ci si limitava inizialmente a concordare tariffe salariali, motivo per cui si cominciò a chiamarlo “concordato di tariffa”. Man mano le sue funzioni e i suoi contenuti si sono accresciuti. Fin dalla prima concettualizzazione dottrinale, operata da Giuseppe Messina, emersero subito i primi problemi destinati a segnare la tematica del contratto collettivo. Infatti, le regole del diritto privato vigenti per ogni tipo di contratto, e quindi anche per il contratto collettivo, consentivano di estendere l’efficacia delle pattuizioni in esso contenute a tutti i lavoratori iscritti al sindacato stipulante; si ritenne che il singolo avesse conferito al sindacato un mandato a trattare in suo nome, oppure, in caso di iscrizione successiva alla stipula del contratto collettivo, che ne avesse ratificato il contenuto. Le stesse regole privatistiche, però, non impedivano che un successivo contratto individuale tra datore di lavoro e singolo lavoratore dettasse condizioni peggiorative rispetto al contratto collettivo. emergevano dunque 2 problemi tecnici: quello dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo, cioè il tema dell’individuazione dei soggetti ai quali applicare il contratto (anche ai non iscritti ai sindacati?), e quello della sua efficacia oggettiva, cioè il tema della relazione intercorrente tra contratto collettivo e contratto individuale, con riguarda alla capacità di quest’ultimo di dettare condizioni peggiorative. La costruzione di Messina innanzitutto attribuiva al “concordato di tariffa” natura di istituto autonomo e non di mera sommatoria di tanti contratti individuali. Riconosceva poi che esso spiegava i suoi effetti all’interno dei lavoratori iscritti al sindacato stipulante, ma non riusciva ad attribuire al contratto collettivo forza di legge tra le parti individuali, ed il sindacato non poteva di certo tollerare quest’aspetto. Tutti ai primi del 900 chiesero a gran voce che una legge statale ponesse fine ha questi problemi. Una soluzione forte ai 2 problemi del contratto collettivo venne trovata dal fascismo con la legge del 1926 che dispone che i contratti collettivi stipulati delle associazioni legalmente riconosciute, divenissero efficaci per tutti i datori e lavoratori appartenenti alla categoria, anche non iscritti al sindacato. Nello stesso anno venne affermata l’inderogabilità del contratto collettivo da parte di quello individuale, pena la sostituzione automatica delle clausole difformi, a meno che queste non fossero più favorevoli al lavoratore. Il sindacato unico fascista era un ente di diritto pubblico, e dalla sua attività scaturiva un “contratto collettivo corporativo”, di stampo nettamente pubblicistico e valido erga omnes come una legge. Si affermò che il contratto collettivo corporativo aveva il corpo del contratto ma l’anima della legge. La soluzione autoritaria dei problemi venne trasfusa interamente nel codice civile del 1942, che lo inserisce formalmente tra le fonti del diritto. Con la riacquisita libertà sindacale si prevedeva che contratti collettivi corporativi continuassero a restare in vigore salvo successive modifiche. 26. L’art. 39 Cost., la sua in attuazione e il contratto collettivo “di diritto comune” All’assemblea costituente, l’unica strada perché lo stato garantisce al sindacato il potere di stipulare contratti collettivi validi per tutti i lavoratori della categoria di riferimento, a prescindere dall’adesione al sindacato stipulante, parve a tutti l’attribuzione della personalità giuridica; il sindacato che voleva ottenerla era tenuto a chiedere la registrazione presso uffici pubblici; la condizione per il riconoscimento del sindacato era la dimostrazione di possedere un ordinamento interno a base democratica. I costituenti ebbero in mente un solo modello di contratto collettivo, non dissimile da quello corporativo, valido erga omens e inderogabile in peggio. Per arrivarci viene individuato un meccanismo che ammetteva alle trattative tutti i sindacati registrati: questi avrebbero dovuto dar vita a una non meglio identificata “rappresentanza unitaria”, costituita “in proporzione dei loro iscritti” e legittimata a “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. L’art.39 è rimasto inattuato e da allora ha finito col costituire un limite invalicabile: la via per sperimentare altre forme di contratto collettivo valido per tutti resta sostanzialmente bloccata. I sindacati hanno comunque continuato a stipulare con la controparte contratti collettivi che si pongono fuori dal modello dell’art.39. La naturale conseguenza è stata quella di lasciare un enorme margine di azione alla dottrina e al giurisprudenza. Immediatamente il sistema complessivo è stato occupato dalle strutture del diritto privato, anche a causa della ricostruzione proposta da Francesco Santoro Passarelli. Essa attraeva nell’orbita del diritto privato l’intero diritto sindacale, con l’elaborazione della complessa teoria dell’autonomia privata collettiva, secondo la quale l’interesse collettivo del gruppo costituisce una sintesi, e non una somma, degli interessi individuali, destinati a soccombere di fronte ad esso. Il modello di contratto collettivo che di fatto ha dominato la scena è stato battezzato “contratto collettivo di diritto comune”. Con questa definizione si intende affermare che il contratto collettivo è regolato dal diritto comune dei contratti, e quindi l’efficacia soggettiva del contratto collettivo rimane circoscritta alla sfera giuridica di chi lo stipula, nel nostro caso esclusivamente ai datori e ai lavoratori delle associazioni stipulanti. La prospettiva cambiò completamente dopo che venne avanzata la prospettiva dell’ordinamento intersindacale: in quest’ambito non conta più il profilo civilistico della rappresentanza volontaria, ma quello fattuale e concreto della rappresentatività, cioè della capacità del sindacato di tutelare e rappresentare le reali istanze dei lavoratori, imponendo al contratto collettivo da esso concluso un’efficacia “di fatto” estesa anche ai lavoratori non iscritti. 27. La legge Vigorelli L’intervento di cui si parla fu originato dall’intento di risolvere in qualche modo il problema dell’estensione generale del disposto del contratto collettivo, altrimenti ingabbiato dalle norme privatistiche entro i confini dei soli lavoratori e datore di lavoro, che hanno conferito mandato alle organizzazioni stipulanti. La legge Vigorelli emanata nel 1959 conferì al governo la delega a emanare decreti legislativi che si uniformassero alle relative clausole di tutti i contratti collettivi di diritto comune conclusi fino a quel momento. Il fine era quello di assicurare un minima uguaglianza di trattamento nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria. In attuazione della delega, vennero emanati un migliaio di decreti legislativi, ognuno dei quali non era altro che la copia di un contratto collettivo: questo per il solo fatto di essere trasfuso in un atto normativo, acquisiva immediatamente efficace generale. Con l’occasione si scopri quanto fosse rilevante il numero dei contratti collettivi e la loro estrema varietà. Questo “diritto sindacale transitorio” destava più di un problema, vista la sua ibrida natura: le sue disposizioni non potevano essere in contrasto con norme imperative di legge, mentre erano derogabili in meglio per il lavoratore da parte del contratto collettivo di diritto comune e del contratto individuale; non si sapeva dunque se esso fosse o meno un atto legislativo. La soluzione della legge delega venne riproposta nello stesso identico modo l’anno successivo, ma cadde sotto la scure della Corte costituzionale, la quale affermò che l’escamotage poteva andare bene solo in via transitoria ed eccezionale. L’unica via, concluse la Corte, rimaneva quella indicata dell’articolo 39 della costituzione. 28. Lo statuto dei lavoratori e le altre leggi “incentivanti” Lo statuto dei lavoratori del 1970 costituì una forte eccezione alla regola, in quanto ordinamento statale e ordinamento intersindacale si incontravano, anzi il primo sosteneva il secondo. Lo statuto non intervenì direttamente sul contratto collettivo, ma lo individuò nettamente come il fulcro degli assetti normativi del rapporto di lavoro. Lo statuto, con l’articolo 36, istituisce l’obbligo per gli imprenditori che godono di benefici pubblici o eseguono appalti relativi a opere pubbliche, di applicare condizioni non inferiori a quelle dei contratti collettivi della categoria e della zona. Tecnicamente l’obbligo non grava sull’imprenditore, ma sulla pubblica amministrazione, obbligata ad inserire nei provvedimenti una clausola di questo tipo. L’imprenditore è tenuto non al rispetto dei contratti collettivi ma un trattamento dei dipendenti non inferiore, perciò questi vengono presi come semplice punto di riferimento. Dopo lo statuto dei lavoratori, in numerosi altri casi il legislatore ha subordinato la concessione di agevolazioni o benefici, alla condizione che il datore di lavoro applicasse il contratto collettivo o comunque trattamenti non inferiore ad esso. L’ultima di queste norme risale al 2016, per la quale imprenditori che stipulano con la pubblica amministrazione contratti di fornitura, sono obbligati a osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dei contratti collettivi nazionali e territoriali. Qui l’obbligo non ricade più sulla pubblica amministrazione ma sul imprenditore, anche se la Corte di giustizia europea ha condannato prassi legislative del genere, ritenendo che uno Stato non possa imporre agli imprenditori di altri Stati vincoli diversi da quelli di una legge o di un contratto collettivo formalmente applicabile in via generale. 29. L’attività creatrice della giurisprudenza: a) l’estensione dell’efficacia soggettiva La giurisprudenza è intervenuta innanzitutto sul tema dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune, nel tentativo di allargare l’ambito degli interessati oltre la cerchia degli iscritti all’associazione firmataria. Si è ritenuto, in primo luogo, che il datore di lavoro iscritto all’associazione firmataria sia tenuto ad applicare il contratto collettivo nei confronti di tutti i suoi dipendenti, anche di quelli non iscritti al sindacato (conclusione fondata sul buon senso: altrimenti esisterebbe una disparità di trattamento tra i dipendenti). In secondo luogo, si è ritenuto che un datore di lavoro che applichi un contratto collettivo, rimanga poi comunque adesso vincolato. L’intervento di gran lunga più importante della giurisprudenza ha riguardato l’estensione ultra partes delle clausole retributive. Punto di partenza è l’articolo 2099 del codice civile, secondo cui in mancanza di differenti determinazioni contrattuali, la retribuzione è determinata dal giudice, il quale ha come punto di orientamento l’articolo 36 della Costituzione, che garantisce ai lavoratori una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Il giudice ha tuttavia bisogno di un parametro, che viene individuato nel contratto collettivo relativo alla categoria di appartenenza del lavoratore non sindacalizzato. A seguito di quest’operazione, i minimi retributivi del contratto collettivo sono stati estesi a tutti quei lavoratori ai quali il contratto collettivo non si dovrebbe applicare, perché non iscritti al sindacato firmatari. L’operazione non viola l’articolo 39 della Costituzione in quanto il contratto collettivo non viene direttamente applicato, ma assume rilievo esclusivamente come parametro esterno. 33. La funzione normativa e la funzione obbligatoria del contratto collettivo Il contratto collettivo svolge un’essenziale funzione normativa, cioè di predeterminazione dei contenuti di futuri contratti; perciò la parte normativa, quella che dunque regola gli istituti del rapporto individuale di lavoro, costituisce il nucleo fondamentale del contratto collettivo. All’interno di essa è possibile distinguere tra una parte normativa in senso stretto e una parte economica. Oltre alla principale funzione normativa, il contratto collettivo riveste anche un'altra funzione cui la dottrina ha dato il nome di parte obbligatoria. Tali pattuizioni contengono regole di condotta che le parti sociali si impegnano ad osservare per la migliore riuscita del contratto collettivo, e hanno come destinatari le stesse parti sindacali che hanno stipulato i contratti collettivi. Esempi di clausole obbligatorie sono quelle che disciplinano procedure arbitrali, che impongono la sottoposizione dell’ipotesi di accordo a referendum tra lavoratori, o ancora “le clausole di tregua” con le quali il sindacato s’impegna a non programmare scioperi prima della scadenza del contratto. 34. I livelli della contrattazione collettiva Inizialmente il sistema della contrattazione collettiva era estremamente accentrato, anche per la scarsa diffusione del sindacato a livello aziendale. La scossa venne data nel 1962 da un accordo particolare che ha segnato il punto di svolta delle nostre relazioni sindacali verso un sistema di contrattazione articolata. In quell’anno venne stipulato un contratto nazionale tra i sindacati confederali e le associazioni rappresentative dell’imprese. Questo “protocollo Intersind-Asap” del 1956 prevedeva l’instaurazione di un sistema di deleghe tra contratto nazionale e contratto decentrato, tale che quest’ultimo fosse abilitato ad intervenire nelle sole materie espressamente affidategli dal primo. Questo sistema resse fino all’”autunno caldo” del 1969, quando si diede vita ad un nuovo modello, detto di contrattazione non vincolata, nel senso che in esso il contratto decentrato occupava uno spazio autonomo, indipendente da parametri eventualmente fissati dal contratto nazionale. Un sistema come questo durò praticamente solo per la breve stagione del garantismo, poi si ritornò, pertanto, a ricostruire un rapporto in qualche modo di supremazia del contratto collettivo nazionale nei confronti di quello decentrato, in una nuova fase di contrattazione vincolata all’interno della quale assumevano rilievo sempre maggiore gli accordi interconfederali. In questo nuovo modello un ruolo fondamentale era giocato dalle clausole di rinvio, vale a dire da particolari pattuizioni, contenute nella parte obbligatoria dei contratti collettivi nazionali, che definivano i parametri fondamentali ai quali la contrattazione decentrata doveva necessariamente adeguarsi. Essi riguardavano l’indicazione delle materie e degli istituti che avrebbero potuto da questo essere regolati. Quanto ai protagonisti della contrattazione decentrata, il rinvio era operato congiuntamente alla RSA al sindacato di livello territoriale. La formalizzazione di questo modello avvenne nel 1993 con il “protocollo Ciampi” nel quale si ribadiva la centralità del contratto collettivo nazionale e la conseguente subordinazione del contratto decentrato. A rafforzare questo meccanismo interveniva la “clausola di non ripetitività”, in virtù della quale era fatto divieto al contratto di secondo livello di intervenire su aspetti già trattati dal contratto nazionale, principio che valeva specificatamente per le clausole retributive. Nel frattempo il “protocollo Ciampi” ridefinì gli attori della contrattazione aziendale, individuandoli nella nuova figura delle rsu, destinate ad assumere il sostanziale monopolio del contratto in sede decentrata. Tuttavia il modello iniziò a sgretolarsi, e aumentarono a dismisura i casi di contratti decentrati che non rispettavano i parametri fissati dal contratto nazionale, derogando il contratto di primo livello in senso peggiorativo per i lavoratori. 36. L’aziendalizzazione della contrattazione collettiva In questo scenario ha cercato di portare ordine l’accordo interconfederale del 2009, che ha ribadito il ruolo centrale della contrattazione nazionale, estendendo a tutte le materie, e non più solo a quella salariale, il principio della non ripetitività. Senonché, l’accordo ha previsto anche la possibilità che i contratti collettivi nazionali contengano “clausole di uscita”, volte cioè ad attribuire ai contratti decentrati, il potere di stipulare intese derogatorie per modificare in senso peggiorativo singoli istituti dal ccnl. Per questo motivo l’accordo non è stato firmato dalla CGIL. Questo modello deregolativo ha trovato conferma in un altro accordo interconfederale del 2011, stavolta sottoscritto dalla CGIL. Le “clausole di uscita” sono diventati più neutri “strumenti di articolazione contrattuale”, anche se la sostanza è praticamente identica. Tale accordo è entrato poi a fare parte del “testo unico” del 2014. L’asse della contrattazione collettiva, a partire dagli anni Dieci si è spostato verso il livello aziendale: un’operazione che però nasconde enormi pericoli di abbassamento e precarizzazione delle tutele dei lavoratori. A questo processo di aziendalizzazione delle relazioni sindacali hanno poi contribuito altri due importanti fattori. Il primo attiene alla vicenda della più grande fabbrica italiana, la Fiat. Costituendo nel 2010 due nuove società (Mirafiori e Pomigliano) che non aderiscono alla Confindustria, l’azienda torinese si è posta fuori dal sistema “ordinario” di contrattazione collettiva nazionale, col conseguente venir meno del vincolo di rispettare il ccnl del settore metalmeccanico. Già nel 2011, le due nuove società di Fiat hanno stipulato un contratto aziendale, definito però formalmente “contratto collettivo di primo livello”, il quale a sua volta prevedeva la possibilità di stipulare contratti collettivi “di secondo livello” per le materie specificatamente delegate. Questi contratti erano peggiorativi rispetto al CCNL fin’ora applicato e non sono stati firmati della CGIL. La Fiat si muove ora in un sistema contrattuale, e di relazioni sindacali, del tutto autonomo e indipendente rispetto a quello generale. L’altro fattore di potenziale incentivo al decentramento è un prodotto diretto di un’operazione chiamata “manovra di Ferragosto”. L’articolo 8 di un decreto legge del 2011, entrato in vigore alla vigilia di Ferragosto, introduce la nozione di contratto collettivo “di prossimità” che è quello più vicino alla realtà concreta del mondo del lavoro; tale contratto, se sottoscritto dalla parte maggioritaria dei sindacati comparativamente più rappresentativi, è legittimato a derogare in senso peggiorativo in tutta una serie di materie previste in un lungo elenco, tassativo ma praticamente onnicomprensivo, le previsioni del contratto collettivo nazionale e addirittura le disposizioni di legge. Tali deroghe hanno efficacia nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda, anche di quelli non iscritti al sindacato stipulate. Inoltre si prevede che i contratti aziendali stipulati prima del 2011 siano validi anch’essi nei confronti di tutti lavoratori, a patto di essere stati approvati dalla maggioranza di essi. Quest’ultima norma non a caso è stata detta “salva Fiat”. I dubbi di costituzionalità di una norma del genere sono tanti e piuttosto pesanti: si diversificano le regole applicabili da azienda ad azienda, e si crea una regola palesemente diretta ad un’impresa ben determinata. 37. La successione di contratti collettivi di pari livello: a) l’ammissibilità di deroghe peggiorative Il primo problema che si presenta è quello di definire le regole della successione di un contratto collettivo a un altro del medesimo livello. L’orientamento della giurisprudenza si è assestato sulla definizione del contratto collettivo, come fonte eteronoma del rapporto di lavoro; in conseguenza di ciò, le sue disposizioni non entrano automaticamente a far parte del contratto individuale, ma si limitano a regolarlo dall’esterno. I giudici hanno quindi rigettato l’opposta teoria dell’”incorporazione”, secondo la quale le disposizioni del contratto collettivo farebbero un tutt’uno col contratto individuale, con la conseguenza che eventuali modifiche peggiorative da parte di un successivo contratto collettivo non sarebbero efficaci senza il consenso del singolo lavoratore. La giurisprudenza ha perciò negato l’applicabilità della regola del inderogabilità peggiorativa al caso dei rapporti tra 2 successivi contratti collettivi, ribadendo come essa riguarda il solo rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale. In conclusione, un contratto collettivo successivo nel tempo può derogare in senso peggiorativo un contratto collettivo precedente. L’unico limite che la giurisprudenza pone, risiede nel rispetto dei “diritti quesiti” del lavoratore. Si tratta di una nozione che ha dato luogo ad un contenzioso molto ricco, avente ad oggetto la distinzione tra quei diritti che possono essere considerati acquisiti nel patrimonio del lavoratore (perché relativi a prestazioni già svolte, che quindi devono continuare ad essere regolate dalle “leggi vigenti al tempo” della prestazione), e che di conseguenza risultano intangibili da parte di un nuovo contratto collettivo; e di altri diritti che, essendo relativi a prestazione da svolgere, possono invece essere considerati assorbiti nel nuovo contratto collettivo, il quale quindi ne può disporre liberamente. b) l’ultrattività del contratto collettivo scaduto Anche il contratto collettivo ha un suo termine di scadenza, giustificato dal fatto che esso opera in un contesto sociale ed economico dinamico, e quindi ha bisogno di rinnovarsi con una certa frequenza. La durata della vigenza del contratto collettivo è stata codificata nel 1993 dal “protocollo Ciampi” che ha stabilito una durata di 2 anni per la parte economica del contratto e di 4 anni per la parte rimanente. Il sistema è stato rivisto dall’accordo separato del 2009, ed esso parifica 3 anni la durata dell’intero contratto collettivo. In ogni caso va notato come, una volta scaduto e finché non viene rinnovato, il contratto collettivo perde di efficacia. Ad esso la giurisprudenza non ha mai applicato la regola secondo cui il contratto collettivo continua a produrre suoi effetti dopo la scadenza, ritenendo che tale principio fosse strettamente legato alla particolare natura giuridica del contratto collettivo corporativo. Perciò si crea una situazione di vuoto normativo potenzialmente pericolosa per la sorte dei diritti dei lavoratori, in particolare per quelli legati alla retribuzione. Infatti se il contratto collettivo è da considerarsi scaduto, i diritti del lavoratore saranno regolati soltanto dalla leggi, la quale dovrebbe contenere disposizioni meno favorevoli (in genere), di quelle del contratto collettivo appena scaduto. La giurisprudenza si è dunque orientata a favore del riconoscimento dell’ultrattività della parte retributiva del contratto collettivo scaduto: infatti, l’ammontare della retribuzione è fissato solo dalla fonte collettiva e non certo della legge, di conseguenza non potendosi lasciare i lavoratori privi del diritto fondamentale alla retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’articolo 36, i giudici hanno deciso di operare questa eccezione. Per evitare alla radice problemi, le parti sociali inseriscono spesso nei contratti le cosiddette “clausole di ultrattività”. Queste fanno si che le disposizione del contratto collettivo scaduto restino in vita fin quando non intervenga un nuovo contratto collettivo, che sia però stipulato tra le medesime parti che hanno sottoscritto il contratto scaduto. La giurisprudenza ha stabilito che un contratto collettivo, pur munito di clausole di ultrattività, non posso restare ultrattivo ad oltranza. Va infine ricordato come la giurisprudenza abbia ritenuto inapplicabile al contratto collettivo di diritto comune l’articolo 2074 c.c., il quale vietava la retroattività del contratto collettivo corporativo. Dunque il contratto collettivo può produrre effetti anche per il periodo anteriore alla sua stipula, evidentemente anche in senso peggiorativo per il lavoratore, senza toccare i diritti quesiti. 39. Il rapporto tra contratti collettivi di livello diverso Il problema del concorso e del conflitto tra regole contenute in contratti collettivi di livello diverso, si è posta nel momento in cui ha preso piede una contrattazione collettiva articolata su più livelli. Negli anni 60- 70 si preferiva utilizzare un criterio gerarchico: in caso di concorso-conflitto, la giurisprudenza faceva prevalere la disposizione del contratto collettivo gerarchicamente superiore. Dagli anni 80, in considerazione del forte sviluppo della contrattazione decentrata, la giurisprudenza ha iniziato invece a far ricorso ad un criterio temporale, nel senso di preferire la disposizione contenuta nel contratto collettivo successivo nel tempo, a prescindere dal livello dei 2 contratti in questione. Contemporaneamente la dottrina ha proposto una lettura diversa, incentrata sul criterio di specialità, nel senso di preferire la disposizione contenuta nel contratto collettivo speciale rispetto a quello generale, intendendo per speciale il contratto più vicino alla situazione concreta da disciplinare. Sul piano giudiziale, i problemi di concorso- conflitto vengono ancora oggi affrontati facendo ricorso al criterio temporale e a quello di specialità. A livello sindacale, il problema derivante dalla circostanza che il sindacato territoriale o la RSU stipulino contratti in conflitto con quello nazionale si pone in modo piuttosto diverso. Soprattutto negli ultimi anni verso la fine degli anni 80, quando lo sciopero stava sfuggendo di mano al sindacato ed era talvolta in balia di lavoratori che vi ricorrevano con qualche leggerezza. Il pendolo ritorno cosi dall’altra parte, e cominciò farsi strada la tesi della titolarità collettiva a esercizio individuale, nel senso che la decisione sindacale coesisteva con la libertà del lavoratore di aderire o meno allo sciopero. Attualmente il campo si divide tra chi sostiene la titolarità collettiva in capo ad un sindacato e chi invece propone una rielaborazione della tesi della titolarità individuale a esercizio collettivo: del diritto di sciopero è titolare il singolo lavoratore mentre il suo esercizio deve necessariamente essere collettivo. L’accoglimento di questa prospettiva comporta diverse conseguenze applicative: non è indispensabile alcuna programmazione dello sciopero, che può essere anche spontaneo o a sorpresa; e poi non conta il numero dei lavoratori coinvolti purché si muovano per tutelare un interesse collettivo. Le clausole “di tregua” o di “pace sindacale” contenute in alcuni contratti collettivi, a partire dagli anni 60, prevedono che ci si impegna a non scioperare prima della scadenza del contratto collettivo o a esperire tentativi di conciliazione. Queste sono ritenute meramente “obbligatorie” per i soli sindacati stipulati e non normative per i lavoratori. 44. L’ambito personale di esercizio del diritto Per quanto riguarda i lavoratori che possono legittimamente scioperare, non è scontato che questi coincidono con tutti i soggetti qualificabili come lavoratori subordinati. I dipendenti che non possono scioperare sono sostanzialmente i militari e gli appartenenti alla Polizia di Stato. Con l’eccezione di queste 2 categorie, ogni lavoratore dipendente gode del diritto costituzionale di astenersi dal lavoro. Più delicata è la questione dell’allargamento dei confini dello sciopero al di là del lavoro subordinato. La Corte costituzionale nel 1975 ha provveduto a riconoscere la titolarità del diritto di sciopero ai piccoli imprenditori, senza lavoratori alle proprie dipendenze, i quali pur formalmente indipendenti sono sostanzialmente soggetti ai propri committenti. La giurisprudenza nel corso degli anni ha riconosciuto sempre più largamente il diritto di sciopero ai lavoratori autonomi con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino a che le leggi del 1990 e del 2000, sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali, hanno allargato l’area di esercizio del diritto ad alcuni lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. 45. La definizione e limiti: il problema degli scioperi “anomali” Il principale problema in materia di sciopero è quello di definire il suo ambito di liceità e senza una legge attuativa dell’articolo 40, questo compito è toccato alla giurisprudenza. Per molto tempo ebbe grande successo una definizione secondo cui lo sciopero-diritto era un astensione dal lavoro continuativa concertata e completa, a tutele di interesse professionale collettivo. Seguendo tale ricostruzione non costituivano sciopero-diritto le sue forme articolate, carenti dei requisiti della continuità (come lo sciopero a singhiozzo), concertazione (lo sciopero a sorpresa), completezza (lo sciopero a scacchiera, che vede l’agitazione solo di alcuni reparti). Queste forme sono particolarmente temute delle imprese, perchè provocano grandi danni per esse e pochi per i lavoratori, in termini di perdita della retribuzione. Non rientravano nell’articolo 40 lo sciopero di solidarietà con altri lavoratori e quello che fosse diretto al perseguimento di una pretesa non disponibile da parte del datore di lavoro. In tutti questi casi gli scioperanti erano ritenuti responsabili civilmente e quindi tenuti al risarcimento dei danni provocati. Per più di un decennio questa visione restrittiva dello sciopero dominò incontrastata e le critiche più precise furono formulate del filosofo del diritto Giovanni Tarello e si fondavano sul rifiuto di definizioni statiche e precostituite. Le opposte teorie erano animate dalla preoccupazione di mettere insieme una serie di limiti al diritto di sciopero, con l’esito di mortificarlo ogni valenza rivendicativa. Contemporaneamente si sviluppò un’altra autonoma corrente di pensiero che portava però allo stesso identico risultato; essa si fondava sull’uso delle clausole generali relative al obbligo di diligenza e il dovere di collaborazione o addirittura e doveri generali di buona fede di correttezza, che tutelano l’interesse del datore di lavoro. La giurisprudenza di fine anni 60, per valutare la legittimità dello sciopero anomalo, avanzò invece i criteri del “danno ingiusto” e della “corrispettività dei sacrifici”: si riconosceva l’inevitabilità del danno inferto dagli scioperanti al datore di lavoro, ma si riteneva che questo danno non potesse essere maggiore di quello del lavoratore, consistente nella perdita della retribuzione. In questo modo l’illegittimità di uno sciopero veniva decisa non più da una “anormalità” delle sue modalità di esercizio, bensì del quantum del danno cagionato al datore di lavoro, e proprio per questo motivo suscitò molte perplessità sia dal punto di vista teorico, che tecnico, che ideologico. Negli anni 70 il contributo di Edoardo Ghera cambiò i termini della questione. Alla luce dei principi della responsabilità extracontrattuale, si concludeva che il generale divieto di ledere le altrui situazioni soggettive gravava anche sui partecipanti allo sciopero. Di conseguenza i lavoratori in sciopero erano tenuti a rispettare anche un interesse datoriale, il quale si sostanziava nella semplice aspettativa alla conservazione dell’organizzazione aziendale in vista della ripresa dell’attività produttiva stessa. Il limite non stava nel danno alla produzione, ma nel danno alla produttività. Con una sentenza del 1980 la Cassazione rese dunque inutile la distinzione tra scioperi normali ed anomali, passando dall’individuazione di limiti interni al diritto di sciopero ai limiti esterni, desumibili dal contemperamento del diritto di sciopero con altri diritti di portata costituzionale. Ora si prescindeva dalle modalità di effettuazione dello sciopero, e si poneva il limite del danno inferto alla “capacità produttiva” dell’azienda. Questa ricostruzione è ormai indiscussa ed ogni sciopero va indagato caso per caso, non utilizzando categorie preconcette. 46. Lo sciopero non economico Un percorso sostanzialmente analogo è stato seguito dalla giurisprudenza nell’affrontare il problema della liceità dello sciopero effettuato per fini non economici, quindi non diretto contro il datore di lavoro per il soddisfacimento di richieste che questi fosse in grado di appagare. Problema reso complesso dalla permanenza nell’ordinamento di quelle norme del codice penale che sanzionavano l’astensione dal lavoro per “fini non contrattuali”. Innanzitutto, la Corte costituzionale affermò la liceità dello sciopero di solidarietà, a condizione che fossero riscontrabili affinità di esigenze e comunanza degli interessi dei lavoratori in sciopero. Qualche tempo dopo, la Corte costituzionale intervenne più decisamente sul tema dello sciopero politico, affermando con nettezza la contrarietà dell’art. del c.p. che lo vietava con l’art.40 Cost., lasciandolo in vita per ipotesi di sciopero diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o a impedire il libero esercizio dei diritti nei quali si esprime la sovranità popolare. La Corte individuò due tipologie: lo sciopero “politico-economico”, in cui alla base della rivendicazione politica c’era comunque una motivazione di tipo economico; lo sciopero “politico puro”, animato da ragioni esclusivamente di stampo politico. Solo il primo rientrava nell’ambito di operatività dell’art.40, mentre il secondo, pur lecito, doveva essere assoggettat0 come comportamento di libertà, alle ordinarie regole dell’illecito civile. La distinzione di queste due forme è andata scemando negli anni. Nel frattempo, nel 1983, la Corte Costituzionale è intervenuta anche a dichiarare l’illegittimità dell’art.504 c.p., che prevedeva il più grave reato dello “sciopero di coazione” nei confronti della pubblica autorità. 47. Sciopero e sospensione del rapporto L’effettuazione di uno sciopero legittimo trasforma l’inadempimento dell’obbligazione lavorativa in causa di sospensione del rapporto di lavoro. Perciò, nei momenti in cui sciopera il lavoratore conserva tutti i suoi diritti, e correlativamente anche tutti i suoi obblighi. Altra conseguenza derivante dall’effetuazione dello sciopero è la perdita della retribuzione per tutta la durata dell’astensione. Mentre è pacifico che lo sciopero comporti la riduzione anche degli altri elementi accessori alla retribuzione, non è pacifica la conseguenza della corrispondente riduzione anche delle ferie. Controversa, dal punto di vista delle conseguenze retributive, è anche la fattispecie dello sciopero breve, intendendosi per tale quello inferiore alla durata della giornata lavorativa. La giurisprudenza ha ritenuto che al lavoratore non spetti nulla, nemmeno il compenso per le ore lavorate. 48. Le modalità dello sciopero e le altre forme di autotutela Non sempre le modalità di svolgimento dell’astensione dal lavoro sono “lineari”. Spesso si è dato vita a molteplici forme di effettuazione di un’agitazione. Alcune di queste forme sono riferibili a momenti passati delle relazioni industriali (gli scioperi “a gatto selvaggio””, interruzioni a reparti di catena di montaggio). Spesso tali agitazioni non comportano un’astensione effettiva dal lavoro, per cui al danno recato all’imprenditore non corrisponde nemmeno il “sacrificio” della perdita della retribuzione. Alcune volte, i lavoratori si astengono soltanto dallo svolgere il lavoro straordinario (sciopero dello straordinario), oppure si rifiutano di eseguire mansioni ulteriori rispetto a quelle di propria competenza (sciopero delle mansioni), oppure rallentano i ritmi produttivi richiesti (sciopero del cottimo o rendimento). C’è chi ritiene le fattispecie sussumibili senz’altro nella previsione dell’art.40, mentre chi mette in rilievo la mancanza di un elemento ritenuto essenziale nello sciopero, ovvero l’abbandono del lavoro, dovrà stabilire se lo svolgimento dell’attività non eseguita fosse o meno obbligatorio per disposizione di legge o di contratto, individuale o collettivo. Opposte a queste forme di protesta, sono quelle nelle quali la prestazione viene resa, ma ne vengono esasperati i contenuti. Lo “sciopero pignolo”, ad esempio, viene effettuato continuando il lavoro ma rallentando notevolmente l’attività. Lo sciopero alla rovescia si ha quando i dipendenti svolgono lavori non richiesti. Non sono rari i casi in cui l’agitazione si svolge non allontanandosi dall’impresa. Vanno distinte varie ipotesi: lo sciopero bianco definisce il caso in cui i dipendenti si astengono dal lavoro ma non lasciano l’impresa. Forma più estrema di quest’ultima condotta è l’occupazione d’azienda, che presuppone la permanenza dei lavoratori anche oltre il loro ordinario orario lavorativo. La fattispecie rischia però di ricadere sotto la previsione dell’art.508 c.p. che punisce l’occupazione di “altrui” azienda “col solo scopo d’impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro”. La Corte costituzionale nel 1975, affermando la costituzionalità della norma, ha ribadito la legittimità dello sciopero bianco e ha sancito la liceità della permanenza oltre l’orario di lavoro, solo in presenza di una debita giustificazione. Forma estrema di protesta attuata rimanendo in azienda è un fenomeno ancora poco diffuso in Italia, ed è lo sciopero virtuale, nel quale i dipendenti affermano di essere in sciopero, ma svolgono le loro normali mansioni, magari devolvendo in beneficenza i proventi della giornata “scioperata”. Il picchettaggio è un’attività strumentale all’esercizio dello sciopero e consiste in un blocco effettuato dai lavoratori in agitazione, che dissuadono i colleghi che vogliano entrare a lavoro. Nel caso in cui il comportamento non si fermi a un convincimento dialettico, entra in gioco, nella valutazione di liceità, il bilanciamento tra la libertà negativa di non aderire allo sciopero e quella positiva dell’organizzazione. La sanzione penale subentra laddove il picchettaggio degeneri in azioni violente. Il “picchetto” dei lavoratori può agire anche in senso inverso, impedendo l’uscita dall’impresa dei suoi prodotti: questo blocco delle merci risulterà anch’esso lecito, a patto di non trascendere in comportamenti violenti o minacciosi. Il boicottaggio dei lavoratori consiste nella propaganda volta a indurre terzi a non fornire all’impresa materie prime o strumenti, ovvero a non acquistare i prodotti. L’ipotesi viene punita dall’art.507 c.p., ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto lecita la sola attività di propaganda esercitata come libera manifestazione del pensiero ex art.21 Cost. Il danneggiamento dei locali dell’azienda o dei suoi strumenti/macchinari integra invece l’ipotesi di sabotaggio. Il reato è contemplato dall’art.508 c.p., anch’esso ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale. 49. Lo sciopero dalla parte del datore di lavoro: la serrata, la “messa in libertà”, il crumiraggio 52. La definizione di sciopero nei servizi pubblici Nel solco tracciato dei codici di autoregolamentazione si è mosso il legislatore. La legge sullo sciopero nei servizi essenziali è stata approvata nel 1990, grazie alla contingenza della disputa in Italia dei campionati mondiali di calcio, con la preoccupazione dei disagi che potevano scaturire daeventuali scioperi a oltranza programmati nei settori nevralgici come quello dei trasporti. La legge del 1990 (unica attuativa dell’art.40) è stata ritoccata della legge del 2000 che ha colmato lacune e superato dubbi interpretativi intervenuti nel corso della sua prima applicazione. La particolarità dello sciopero nei settori che forniscono servizi ritenuti essenziali è dato dal fatto che esso danneggia l’utente del servizio, che è persona estranea al rapporto di lavoro, anzi lo scopo principale dell’agitazione è proprio quello di creare disagio negli utenti, quasi tenuti in ostaggio degli scioperanti per il soddisfacimento delle loro pretese. Lo scopo che la legge del 1990 persegue è quello di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Il principio cardine è dunque garantire che, nell’ambito delle aziende erogatrici dei servizi, il diritto di sciopero sia esercitato in modo da assicurare al contempo il godimento del contenuto essenziale di determinati diritti della persona derivanti della Costituzione. Il legislatore fissa innanzitutto il campo di applicazione oggettivo e soggettivo della normativa. La nozione di servizio pubblico essenziale è data attraverso l’individuazione dei diritti della persona costituzionalmente tutelati alla cui attuazione il servizio è rivolto; si tratta del diritto alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione. Questa elencazione è tassativa. Possono dirsi essenziali tutti quei servizi che, pur non nominati dal legislatore, consentono l’esercizio di taluno dei diritti fondamentali da esso considerati. L’elenco esclude comunque il contemperamento dello sciopero con diritti costituzionali di contenuto sostanzialmente economico. Per quanto riguarda il campo di applicazione soggettivo, il testo originario della legge non esplicitava se la sua disciplina si rivolgesse esclusivamente ai lavoratori subordinati o anche ai lavoratori autonomi. Dopo un invito a intervenire rivolto dalla Corte costituzionale, la legge del 2000 ha espressamente esteso l’ambito applicativo della disciplina all’”astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida sulla funzionalità dei servizi pubblici. Legge trova oggi applicazione indipendentemente dalla natura subordinata o autonoma del rapporto. 53. Le condizioni di esercizio La legge fissa specifiche condizioni di esercizio del diritto di sciopero, rinviando al contratto collettivo l’integrazione di alcuni aspetti della normativa legale. In primo luogo è fatto obbligo ad entrambe le parti di espletare preventivamente procedure di raffreddamento e conciliazione. La predisposizione di tali procedure di carattere preliminare è rimessa ai contratti collettivi e ai codici di autoregolamentazione. Essa vincola quindi soltanto i sindacati firmatari; per evitare la possibile ineffettività dell’obbligo, la legge del 2000 prevede che, se le parti non intendono o non possono ricorrere al procedimento convenzionalmente previsto, è possibile attivare le procedure preliminari in sede amministrativa. Solo dopo che il tentativo di raffreddamento del conflitto ha avuto esito negativo lo sciopero può avere luogo, rispettando i limiti e le condizioni imposti dalla legge. Essa fissa innanzitutto un obbligo di preavviso a carico dei soggetti che programmano lo sciopero: lo scopo è quello di consentire all’azienda erogatrice del servizio di predisporre le misure indispensabili e consentire all’utenza di usufruire dei servizi alternativi. Nello stesso lasso di tempo i soggetti che proclamano l’astensione devono comunicarne per iscritto la durata, le modalità di attuazione, non che le motivazioni, sia all’azienda che eroga il servizio sia all’autorità competente per la precettazione, che trasmette tutto alla Commissione di garanzia. Il fatto che debba essere comunicata la durata porta ad escludere la legittimità di uno sciopero ad oltranza. Gli obblighi di preavviso ed indicazione della durata subiscono una deroga qualora lo sciopero sia programmato in difesa dell’ordine costituzionale o per protesta per gravi eventi lesivi della sicurezza dei lavoratori. Incombe sulle stesse aziende erogatrici l’obbligo di dare comunicazione agli utenti, almeno 5 giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi, oltre al dovere di garantire e rendere nota la pronta riattivazione del servizio quando l’astensione dal lavoro sia terminata. Anche i media sono tenuti a dare diffusione di tali comunicazioni. Una delle caratteristiche peculiari dello sciopero nei servizi pubblici essenziali consiste nel fatto che lo stesso semplice annuncio dell’astensione, può essere di per sé sufficiente a realizzare lo scopo perseguito ai lavoratori. La sola diffusione della notizia dell’agitazione provoca disagi per gli utenti del servizio interessato, e determina una forte pressione nei confronti della controparte datoriale. Di qui la scelta del legislatore del 2000 di vietare espressamente il cosiddetto “effetto annuncio”, prevedendo che la revoca spontanea dello sciopero proclamato dopo che è stata data informazione all’utenza, legittima l’intervento sanzionatorio della Commissione di garanzia. Con la legge del 2000 è stato inoltre introdotto l’”obbligo di rarefazione”. Può accadere che la concentrazione delle agitazioni in determinati periodi dell’anno o la programmazione di scioperi in successione nello stesso settore, o tali da incidere sul medesimo bacino di utenza, mettono a serio rischio la continuità nell’erogazione del servizio pubblico. Per evitare ciò i contratti collettivi e i codici di autoregolamentazione prevedono “periodi di franchigia”, ovvero lassi temporali in cui è di fatto proibita l’astensione, ad esempio in coincidenza con le festività o le tornate elettorali, non che il rispetto di intervalli minimi tra un’agitazione l’altra. Sotto questo aspetto occorre distinguere tra intervalli minimi soggettivi e oggettivi. I primi sono relativi al divieto di programmare scioperi successivi da parte dello stesso soggetto sindacale; i secondi sono relativi al divieto di programmare astensioni simultanee o eccessivamente ravvicinate nel tempo nello stesso settore. 54. Le prestazioni indispensabili I lavoratori, coloro che hanno proclamato lo sciopero e le aziende che erogano il servizio pubblico devono comunque garantire la fornitura delle prestazioni indispensabili durante l’astensione. Per il legislatore del 1990, il difficile compito di determinare e regolare queste prestazioni era rimesso sostanzialmente ai contratti collettivi. L’ago della bilancia si è un po' spostato a seguito della legge del 2000, ma la contrattazione collettiva e l’autoregolamentazione continuano a svolgere comunque un compito propulsivo indispensabile. Questi contratti e codici devono specificare le prestazioni indispensabili, le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure dirette a salvaguardare i diritti costituzionalmente tutelati. Tra queste ultime rientra la previsione delle quote strettamente necessarie di lavoratori comunque tenuti alla prestazione, e l’indicazione delle modalità per la loro individuazione. Questione di rilievo è quella della efficacia soggettiva dei predetti contratti collettivi. Le previsioni relative alle prestazioni minime, per poter assolvere alla loro funzione garantista, devono necessariamente avere efficacia generale, ovvero essere vincolanti anche per i lavoratori non iscritti alle sigle sindacali stipulanti. Riguardo al settore privato, la tesi dell’efficacia generale dei contratti collettivi si fonda, oltre che su considerazioni di ordine logico anche sul dato letterale dell’art.2 della legge dl 1990 il quale dispone che “ i sindacati, i lavoratori, e le aziende erogatrici dei servizi sono tenuti all’effettuazione delle prestazioni indispensabili senza operare alcuna distinzione tra soggetti aderenti e non aderenti alle organizzazioni stipulati, nè tra soggetti firmatari e non firmatari dell’accordo. La Corte costituzionale ha escluso ogni contrasto con gli articoli 39 e 40 della Costituzione: con il primo perché oggetto della contrattazione collettiva sarebbe il conflitto tra lavoratori addetti ai servizi pubblici essenziali e gli utenti (e non tra imprenditore/lavoratore); con il secondo perché la riserva di legge qui contenuta non escluderebbe che le determinazioni di limiti o modalità di esercizio del diritto di sciopero possa essere rimessa alla contrattazione collettiva. I contratti collettivi e i codici di autoregolamentazione devono essere sottoposti alla valutazione di idoneità della Commissione di garanzia. 55. La Commissione di garanzia La Commissione di garanzia, istituita nel 1990, è un’autorità amministrativa indipendente, composta da 5 esperti in diritto costituzionale, diritto del lavoro e relazioni industriali, designati dai presidenti della Camera e del Senato e nominati dal presidente della Repubblica. Diverse sono le funzioni svolte dall’autorità. La principale consiste nella valutazione di idoneità degli accordi e dei codici di autoregolamentazione. Se la Commissione reputa l’accordo o il codice di autoregolamentazione non idoneo a garantire il richiesto bilanciamento tra esercizio del diritto di sciopero e tutela dei diritti costituzionalmente garantiti, sottopone alle parti una proposta sull’insieme delle prestazioni, procedure e misure da considerarsi indispensabili. Se le parti non la accettano o non si pronunciano nei successivi 15 giorni, la Commissione provvede a formulare una “regolamentazione provvisoria” delle prestazioni indispensabili, da comunicare alle parti. Mentre la proposta iniziale non ha carattere vincolante per le parti, la regolamentazione lo è per le parti medesime, sino a quando non venga adottato un accordo o un codice ritenuto idoneo. Ai fini della regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili, il legislatore specifica che esse di regola non devono eccedere la metà delle prestazioni normalmente erogate, e riguardare quote dipendenti non superiori mediamente ad un terzo del personale normalmente utilizzato. Se è necessario assicurare fasce orarie di erogazione dei servizi, questi devono essere garantiti nella misura di quelli normalmente offerti. La commissione svolge anche compiti consultivi e di mediazione. Sia su richiesta congiunta delle parti che di propria iniziativa, può esprimere il proprio giudizio sull’interpretazione o applicazione degli accordi o codici, e inoltre, ma solo su richiesta congiunta delle parti interessate, può emanare un lodo sul merito della vertenza. Ulteriore funzione della Commissione è quella della prevenzione degli scioperi illegittimi. A tale scopo, qualora riavvisi profili di criticità, l’autorità ne dà immediata comunicazione ai soggetti interessati e può, con apposita delibera, rivolgere loro un invito formale a riformulare la proclamazione, differendo l’astensione ad un'altra data. La Commissione ha inoltre il potere di segnalare all’autorità competente per la precettazione, le situazioni nelle quali dallo sciopero può derivare un imminente e fondato pericolo di un pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati. 56. Le sanzioni L’effettività di tutta la disciplina è assicurata attraverso il potere sanzionatorio affidato alla Commissione, in special modo dalla legge del 2000. Il procedimento può aprirsi, oltre che ad iniziativa della stessa Commissione, anche su richiesta delle parti interessate, delle associazioni rappresentative degli utenti, delle autorità nazionali e locali che ne abbiano interesse. L’autorità di garanzia è tenuta valutare il comportamento delle parti. Se rileva inadempienze o violazione degli obblighi di legge o degli accordi collettivi sulle prestazioni indispensabili, delle procedure di raffreddamento e conciliazione e delle altre misure di contemperamento, o dei codici di autoregolamentazione, la Commissione delibera direttamente le sanzioni a carico dei dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche e dei legali rappresentanti delle imprese che erogano servizi, e quanto ai lavoratori, prescrive al datore di lavoro di applicare loro le sanzioni disciplinari. La legge del 2000 ha accordato un ruolo importante alle associazioni rappresentative degli utenti, che devono essere sentite dalla Commissione di garanzia prima della valutazione di idoneità delle prestazioni minime e sono legittimate ad agire in giudizio contro i sindacati che revocano uno sciopero dopo averlo proclamato o che disattendono l’invito della Commissione a differirlo. L’articolo 4 contempla 3 tipi di sanzioni: A) Le organizzazioni dei lavoratori che proclamano uno sciopero in violazione delle disposizioni su preavviso, comunicazione scritta, prestazioni minime ed esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione, possono incorrere nella sanzione della sospensione dei permessi sindacali retribuiti e della mancata percezione dei contributi associativi trattenuti sullo stipendio, per un ammontare complessivo compreso tra 2.500 e 50.000 Euro, a seconda della gravità della violazione e degli effetti sul l’applicazione della normativa di tutela. Il concetto di subordinazione voleva poi rifuggire dalle opzioni dei socialisti cattedratici, che la restringevano alla sola figura dell’operaio di fabbrica. Barassi modellò un’idea di subordinazione ampia ed elastica, sostanzialmente onnicomprensiva, promuovendo l’estensione delle norme dettate sotto la spinta dei bisogni dell’operaio industriale, a tutti i soggetti “eterodiretti”. Barassi diventò presto il padre del diritto del lavoro italiano. 60. Contratto e rapporto, organizzazione e istituzione Inquadrando il rapporto di lavoro negli schemi della locazione, ne di scendeva evidentemente una matrice contrattualistica. Il codice del 1865 compì decisamente questa scelta, rimanendo fedele alla tradizione romanistica. In epoca corporativa l’idea dominante del rapporto di lavoro rimane ancora quella contrattualistica, anche perché ampiamente accreditata dalla prima fonte legislativa che disciplina la materia cioè la legge sulle impiego privato del 1924. L’influsso dell’altra corrente non tardò tuttavia a farsi sentire. In questi anni si fronteggiano 2 dottrine: da un lato quelle fedeli ai postulati contrattualistici, che ravvisavano nella disponibilità del lavoratore il connotato formale del vincolo di subordinazione; dall’altro le teorie organicistiche del rapporto, che come criterio di qualificazione enfatizzavano il ruolo dell’interesse dell’”impresa in sé” svalutando l’elemento contrattualistico. La previsione del art.2094 del codice del 1942 cercò quindi di fondere le due componenti, mescolando una versione dell’obbligazione di mezzi più la subordinazione con la struttura organicistico-collaborativa, inserita all’interno di un’impresa fortemente gerarchizzata. Nel dopoguerra il dibattito diede vita ad una serie pressoché infinita di ricostruzioni teoriche, evidenziando come il binomio cotratto-rapporto crei una coppia di alternative: la prima tra teorie comunitarie, imperniate sulla considerazione dell’impresa come istituzione, e teorie individualistiche, che enfatizzano il ruolo conflittuale del rapporto di scambio; la seconda alternativa è tra teorie contrattualistiche e teorie acontrattualistiche che valorizzano il momento negoziale oppure il momento effettuale. 61. Fattispecie ed effetti L’art. 2094 accoglie l’idea di Barassi di delineare una nozione onnicomprensiva di lavoro subordinato. Alla tradizionale alternativa tra locazione operis e operarum, il codice ha sostituito quella tra lavoro autonomo e subordinato: non si tratta più di distinguere due sottotipi del contratto di locazione in funzione della diversa ripartizione del rischio, quanto piuttosto di verificare l’inquadrabilità della singola fattispecie in uno dei 2 tipi contrattuali, con la conseguente individuazione della disciplina applicabile. Il problema principale della materia lavoristica diventa quello della distinzione del rapporto di lavoro subordinato rispetto a quella autonomo. Tale ricerca spesso è stata condizionata da alcune premesse. Innanzitutto, a proposito degli effetti riconducibili alla fattispecie, ci si è sempre trovati di fronte a una relazione biunivoca tra 2 termini: non esisterebbero alternative tra la disciplina applicabile al lavoro subordinato e quella applicabile al lavoro autonomo. Una volta qualificato subordinato un rapporto di lavoro, gli devono essere ricondotti tutti gli effetti legislativamente correlati alla fattispecie tipica, mentre se il rapporto è qualificato come autonomo, non gli va applicato assolutamente nulla di questo “pacchetto di tutele”. La conseguenza di questa rigida operazione è che talvolta il sistema complessivo di tutela viene applicato anche a fasce di lavoratori assolutamente non bisognosi, e viene invece negato a lavoratori autonomi del tutto assoggettati al potere di un committente. D’altra parte, l’allargamento delle fattispecie tutelate è continuato in giurisprudenza fino agli anni 80, con operazioni che hanno assecondato la naturale tendenza espansiva della subordinazione, chiamata ad operare al di là del prototipo del lavoro operaio in fabbrica. 62. Il lavoro della giurisprudenza e il problema del metodo Il problema si risolve in quello di verificare in concreto gli “indici” della subordinazione; in questo modo si è mossa la giurisprudenza, che spesso questi indici li ha creati da sé. Si è proposto che quest’operazione consista nella semplice verifica della somiglianza della fattispecie concreta da qualificare, rispetto al tipo normativo ricavabile della fattispecie astratta: un “giudizio di approssimazione”, formulato in base all’accostamento del rapporto di lavoro da classificare rispetto ai caratteri che contraddistinguono la fattispecie tipica di lavoro subordinato. Il punto è quindi il metodo da adoperare. La teoria del “giudizio di approssimazione” presuppone l’utilizzazione di un metodo “tipologico”: l’operazione qualificatoria ha ad oggetto il raffronto tra la fattispecie concreta e i 2 modelli alternativi del lavoro autonomo e di quello subordinato. Questo raffronto porta alla riconduzione della fattispecie ad uno di tali modelli, a seconda della prevalenza delle componenti tipiche dell’uno o dell’altro. A quello tipologico si contrappone il metodo “sussuntivo”, fondato sul raffronto puro e semplice tra la fattispecie concreta e la nozione legale unitaria di lavoro subordinato. Questa si rivela un’operazione frustrante perché presupporrebbe la coincidenza completa della fattispecie concreta con quella astratta. Il metodo tipologico lascia evidentemente all’interprete un maggior margine di azione e deve fondarsi sulla verifica della presenza nel caso concreto di elementi socialmente tipici del lavoro dipendente, appunto gli indici. La loro ricerca non è semplice, né agevolata dal legislatore, che pare concludere nel senso che il lavoratore subordinato è chi presta lavoro subordinato (art.2094) ed è autonomo chi lavora senza vincolo di subordinazione. È chiaro dunque che l’operazione quantificatoria di cui si parla, troverà prevalente applicazione riguardo le “zone grigie” tra i casi nei quali subordinazione e autonomia si presentano nei loro caratteri più evidenti. La giurisprudenza, stante il sistema di univoco di classificazione, è chiamata comunque a qualificare subordinata o autonoma una prestazione. 63. Mezzi e risultato La giurisprudenza, nell’operazione di cui si è appena detto, lavora sugli indici di subordinazione desumibili dalla norma codicistica. Si tratta di indizi, nessuno di per sé decisivo, ma la cui simultanea presenza o assenza, fa prendere la bilancia da una parte o dall’altra. Il primo individua il carattere tipico del lavoro subordinato nel configurarsi alla stregua di un’obbligazione di mezzi, mentre il lavoro autonomo consisterebbe in un’obbligazione di risultato. Andrebbe accertato dunque se l’oggetto del contratto consiste nella realizzazione di un determinato risultato oppure in una messa a disposizione di energia lavorative. In ogni caso contro il valore discriminatorio di questa distinzione hanno avuto modo di appuntarsi svariate critiche. Infatti, se si identifica il risultato con l’interesse creditorio dedotto in obbligazione, ogni obbligazione alla fine potrebbe apparire di risultato; così come tante fattispecie di lavoro autonomo potrebbero configurare un obbligazione di mezzi (guarigione di un malato). La distinzione tra i 2 tipi di obbligazione non è affatto pacifica. Strettamente correlato all’alternanza mezzi-risultato è un secondo indice, quello della diversa ripartizione del rischio: il lavoratore subordinato sarebbe svincolato da ogni rischio economico e tecnico, che incomberebbe invece sul lavoratore autonomo. L’assenza di rischio del lavoratore subordinato è presente dal momento che il lavoratore non dispone della possibilità di incidere direttamente sulla gestione dell’impresa. Tuttavia, anche qui le distinzioni non sono molto nette. 64. L’art.2094 a) la collaborazione nell’impresa e la subordinazione tecnico-funzionale Iniziamo l’esame dell’art.2094. Esso definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che si obbliga a collaborare “nell’impresa” a favore di un “imprenditore”. Innanzitutto la norma sembra ristringere la nozione di lavoratore subordinato alle sole persone occupate in un’impresa. Questa conclusione piuttosto drastica è stata superata da una lettura che ha ricostruito una più ampia categoria del contratto di lavoro, svincolata dal dato del collegamento con un’impresa. Intimamente legato è il dato della “collaborazione” (che peraltro ricade solo sul lavoratore). Qui l’alternativa sta nel considerare tale requisito un semplice residuo di posizione ideologiche tipiche del legislatore corporativo, o al più un mero richiamo all’obbligo di svolgere la prestazione con diligenza, oppure rileggerlo evolutivamente, attribuendogli un decisivo valore qualificatorio. Il termine è infatti polivalente. Una importante corrente dottrinale ha proposto un recupero del connotato della collaborazione, nel senso di identificarla con la stessa causa del contratto di lavoro subordinato, sottolineando l’importanza dell’aspettativa del creditore al risultato della prestazione e del suo interesse a coordinare l’attività lavorativa del debitore. Questa teoria è chiamata della subordinazione “tecnico-funzionale”. Altra interpretazioni del requisito della collaborazione è quella che la vede come sintesi di un connotato ritenuto qualificante la subordinazione, cioè l’inserzione della prestazione all’interno di un organizzazione predisposta dal datore di lavoro. Questo elemento è piuttosto ambiguo, poichè resterebbero fuori ipotesi assolutamente tipiche di lavoro dipendente, mentre per converso anche il lavoro autonomo potrebbe essere tranquillamente catturato nell’orbita dell’imprese. b) l’onerosità e il lavoro gratuito Per l’art.2094 il lavoratore subordinato si “obbliga mediante retribuzione”. L’onerosità della prestazione è stata sempre ritenuta elemento fondamentale del contratto di lavoro: nel nesso tra prestazione e retribuzione la dottrina dominante ravvisa la causa del contratto di lavoro, in quanto contratto sinallagmatico. Interpreti si sono soffermati su questo requisito al fine di negare l’ammissibilità di un contratto di lavoro subordinato gratuito: il sistema normativo tutela solo il lavoro prestato professionalmente. Si presumono gratuite le prestazioni rese da persone conviventi, legate da un vincolo di parentela, di affinità o comunque affettivo. La presunzione può essere vinta solo dalla prova precisa e rigorosa circa la sussistenza del requisito della subordinazione; un classico esempio è quello del lavoro prestato all’interno della famiglia, che per l'appunto si presume gratuito salvo prova contraria. Peraltro il familiare che presta attività di lavoro continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare, ha diritto alla partecipazione agli utili in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, salvo che sia configurabile un diverso rapporto. A questo tipo di lavoro è accumunato il lavoro dei religiosi nell’ambito della propria comunità: esiste una presunzione di gratuità della prestazione quando l’attività si è ragionevolmente correlabile alla particolare natura del vincolo. Il rapporto di volontariato è stato ritenuto qualificabile come contratto atipico di lavoro gratuito, in ragione della sua destinazione all’adempimento dei valori costituzionali di solidarietà. Sul tema provvede il “codice del terzo settore”, che definisce volontario chi per sua libera scelta svolge attività in favore della comunità e del bene comune, ed esclusivamente per fini di solidarietà, ribadendo che la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato e autonomo. Le problematiche relative al lavoro dei religiosi e dei volontari aprono al tema più generale del lavoro prestato a favore delle aziende “di tendenza”, che spesso si avvalgono del lavoro gratuito. In questi casi l’indagine dovrà vertere sulla genuinità delle motivazioni individuali che hanno portato la persona a scegliere di non essere retribuito in ragione della condivisione dell’ideologia portata avanti dell’azienda, ma anche sulla natura delle mansioni svolte dal lavoratore in questione: se si tratti cioè di mansioni di tendenza oppure di mansioni neutre. Quanto all’utilizzabilità del requisito della retribuzione a fini discretivi della fattispecie, la sua rilevanza appare del tutto insignificante: l’onerosità è infatti circostanza comune a tutti i rapporti che hanno per oggetto una prestazione di lavoro a favore di un terzo. c) la dipendenza e la subordinazione socio-economica Il requisito codicistico della dipendenza è stato valorizzato principalmente in 2 sensi. In primo luogo è stato letto in termini di continuità della prestazione di lavoro. Si tratta di un requisito non presente esplicitamente nell’art.2094, anche se poi comunque legislatore lo ha recepito più volte, confermando nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice deve tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo contenute nei contratti individuali di lavoro. VIII. L’ESTENSIONE DELLE TUTELE DEL LAVORO SUBORDINATO 71. La frammentazione della subordinazione A cominciare da metà degli anni 80 si è assistito a una profonda revisione critica del tema della subordinazione. La sua nazione unitaria, si era retta fino a quel momento sull’equilibrio tra la figura sociale tipica del lavoratore di fabbrica e un apparato di tutele interamente destinato a tale fattispecie, e generosamente esteso ad altre ipotesi. Tutto cominciò a sgretolarsi in quegli anni: il prototipo del lavoro subordinato perse la sua centralità, sia per i nuovi modi di articolazione della prestazione, sia per l’apparizione di nuovi mestieri, sia per un forte sviluppo dal punto di vista tecnologico. Tutto ciò portò a rendere molto più sfumati i confini tra subordinazione autonomia, con alcuni dei tradizionali indici di questa, che si fondevano con i connotati storici della subordinazione. Gli studiosi proposero sostanzialmente 2 strade piuttosto diverse tra loro: una prima evidenziò il passaggio dal prototipo monovalente di lavoro subordinato a una miriade di tipi intermedi che si susseguono in un continuum logico tra di loro: per questa teoria non esisteva più la subordinazione, ma le subordinazioni, con la conseguenza che non doveva più sussistere un solo effetto, ma una seria aperta di effetti parzialmente diversi tra loro, a seconda delle diversità strutturali di ogni singola fattispecie, secondo il modello della “modulazione delle tutele”. Un’altra opzione cercò invece di recuperare l’idoneità qualificatoria della definizione dell’art.2094, individuando un “nucleo duro” della subordinazione, idoneo a richiamare l’applicabilità di una tutela di base, e lasciando l’applicazione di altri differente garanzie alla legge e al contratto, sia individuale che collettivo. 72. Il lavoro parasubordinato Dottrina e giurisprudenza misero in crisi quell’alternativa senza eccezioni tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che si portava dietro la conseguenza di dover riconnettere automaticamente a tale qualificazione l’applicazione completa o la disapplicazione totale del pacchetto di tutele predisposto dalle norme lavoristiche. La prima breccia nella costruzione della subordinazione è stata fatta da una legge del 1973. Essa nel determinare le fattispecie alle quali si applicavano le nuove disposizioni, specificò che, oltre ai rapporti di lavoro subordinato, esse si estendevano anche a quei “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. La dottrina chiamò questa figura “lavoro parasubordinato”, riconoscendovi una fattispecie di lavoro autonomo che, essendo caratterizzata da particolari requisiti, meritava un trattamento diversificato rispetto al lavoro autonomo in generale: meritava, appunto, di beneficiare di qualche tutela fino ad allora riservata esclusivamente al rapporto di lavoro subordinato. Dunque, per rientrare in questa peculiare categoria del lavoro autonomo parzialmente tutelato, occorreva che la prestazione si estrinsecasse come una collaborazione munita di 3 caratteristiche: a) prevalente personalità, nel senso che l’apporto del lavoro fornito dalla persona del lavoratore doveva prevalere in termini economici rispetto all’organizzazione di manodopera e dei mezzi di produzione; b) continuità, nel senso che la prestazione doveva essere fornita con una costanza tale da soddisfare un interesse del committente che si protrae nel tempo; c) coordinazione, nel senso che la prestazione doveva presentare un nesso funzionale con l’organizzazione produttiva del committente. Come si vede si tratta di 3 requisiti che in sostanza ricalcano alcuni degli indizi di subordinazione, compatibili anche con alcune fattispecie di lavoro autonomo. Il punto è che non si riusciva davvero a capire quali tutele fossero applicabili a questo particolare tipo di lavoro autonomo, costituito delle collaborazioni coordinate continuato (co.co.co). La giurisprudenza oltre all’applicazione del processo del lavoro e delle regole relative all’invalidità delle rinunce e delle transazioni, non riuscì ad applicare nient’altro. Molto più tardi viene riconosciuta a questa categoria una prima tutela previdenziale e pensionistica, nonché le garanzie in materia di tutela della salute e della sicurezza, la tutela antidiscriminatoria, il diritto al congedo di maternità. Tutto sommato un pacchetto di tutele minimo, tale da poter concludere che la maggiore novità della legge del 1973 è stata la rottura teorica dell’alternativa secca tra subordinazione autonomia. 73. Il lavoro a progetto Con gli anni, la categoria del lavoro parasubordinato si è gonfiata in maniera abnorme, poiché essa è stata sempre più spesso utilizzata come un serbatoio nel quale il datore di lavoro preferiva far confluire i rapporti di lavoro e quindi sottrarsi a tutti gli oneri che la subordinazione addossa ad esso. Questo fenomeno arrivò a un punto di rottura nel 2003, quando la “legge Biagi” decise di intervenire per porre un argine a un fenomeno che aveva assunto dimensioni preoccupanti. Sì cerco di riportare a galla la genuinità di una figura di parasubordinazione progressivamente sgretolatasi. L’art.61 del d.lgs. precisava che tutti i rapporti di co.co.co. dovevano essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente del collaboratore in funzione del risultato. La legge modificava i connotati di un rapporto già esistente che venne chiamato “lavoro a progetto”, subito abbreviato in “co.co.pro.”. La riforma poneva limiti precisi alle collaborazioni coordinate continuative; innanzitutto era indispensabile un progetto predisposto dal committente in forma scritta, che doveva indicare il risultato finale che il collaboratore dovevo raggiungere al termine del lavoro. La legge prevedeva poi alcune conseguenze di carattere sanzionatorio: se il progetto mancava del tutto oppure c’era un evidente difformità fra quanto contemplato in esso e l’attività concretamente svolta del collaboratore, era prevista la conversione del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data della stipulazione del contratto; se si accertava in giudizio che l’attività collaborativa, svolta in conformità del progetto, era in effetti subordinata, era prevista la conversione del rapporto in subordinato. Ulteriori norme estendevano per il lavoro a progetto, alcuni istituti tipici del lavoro subordinato. Si prevedeva che il compenso fosse proporzionato alla quantità e qualità del lavoro, assumendo come parametri retributivi quelli previsti dai contratti collettivi per il lavoro subordinato; si estendevano esplicitamente le disposizioni in materia di sicurezza e igiene sul lavoro e di tutela contro infortuni e malattie professionali. Si sviluppò intorno alla figura del collaboratore coordinato continuativo un minimo statuto protettivo sostanzialmente mancante fino a quel momento. 74. Le collaborazioni organizzate dal committente La disciplina del lavoro a progetto è stata abrogata nel 2015 da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, che si pone l’obiettivo, non sempre dichiarato, di flessibilizzare alcune tutele del lavoro. La legge ripristina in qualche modo la situazione precedente al 2003, perché per integrare correttamente una fattispecie di collaborazione coordinata e continuativa non occorre più il progetto circostanziato né le ulteriori cautele previste dalla “legge Biagi”; sono altresì abrogate le tutele che questa legge riconnetteva esplicitamente a tale figura, di modo che lo statuto del collaboratore coordinato continuativo ritornò ad essere quello, estremamente incerto, ricostruibile in precedenza. L’articolo 2 dello stesso decreto legislativo del 2015, modificato nel 2019, ha individuato la nuova fattispecie delle “collaborazioni organizzate dal committente” (co.co.org), disponendo che ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, si applica la disciplina del lavoro subordinato. Requisiti essenziali delle collaborazioni organizzate sono dunque la continuità, la prevalente personalità della prestazione, e l’organizzazione delle sue modalità di esecuzione da parte del committente. La norma risulta tecnicamente mal fatta e presenta non poche ambiguità. Solo dopo il citato intervento del 2019, la categoria delle collaborazioni organizzate dal committente può effettivamente far pensare all’estensione della disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di natura ibrida e di incerta con locazione. 75. Il lavoro autonomo non imprenditoriale Come si è più volte detto, né il codice né leggi speciali, dedicano particolare attenzione al lavoro autonomo. L’art.2222 non fornisce una definizione: prescrive che esso debba concretizzarsi in una prestazione prevalentemente personale, e questo elemento fa da confine tra lavoratore autonomo e l’imprenditore. Per il resto la categoria è ricavabile per esclusione rispetto a tutto ciò che è qualificabile lavoro subordinato. Men che meno è ricostruibile uno statuto protettivo di tale fattispecie. Il quadro si è leggermente modificato col passare degli anni, grazie alla previsione esplicita di alcune provvidenze soprattutto di tipo antidiscriminatorio, previdenziale, antinfortunistico, e relative alla tutela della salute, non che grazie all’estensione ad alcune categorie di lavoratori autonomi del diritto di sciopero. Una legge del 2017 introduce un sistema di interventi teso ad assicurare un rafforzamento delle tutte le sul piano economico e sociale per i lavoratori autonomi che svolgono la loro attività in forma non imprenditoriale. Le principali misure sono volte a riconoscere alcune provvidenze relative alla tutela della maternità e ai congedi parentali, nonché alla sospensione del rapporto di lavoro, senza diritto al corrispettivo, in caso di gravidanza, malattia, infortunio. Si prevede una tutela del lavoratore autonomo contro i committenti che abusano del suo eventuale stato di dipendenza economica. IX. LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO 76. La capacità di agire e il lavoro dei minori Il rapporto di lavoro nasce e si sviluppa sulla base di un contratto. Al contratto di lavoro trovano applicazione le norme generali sul contratto contenute nel codice civile, con diverse particolarità. La prima di queste riguarda la capacità di agire. Infatti l’art.2 co.2 c.c., modificato nel 1975, nello stabilire la maggiore età al compimento dei 18 anni, fa salve “le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro”. Al lavoro minorile, la Costituzione dedica speciale attenzione, prevedendo l’impegno dello Stato per la sua tutela e disponendo la determinazione legale di un limite minimo d’età per il lavoro salariato e la parità retributiva per i lavoratori minori (art.37). La regolamentazione vigente del lavoro minorile è tuttora contenuta in una legge del 1967. La legge distingue i minori in bambini (fino a 15 anni) e adolescenti (da 15 a 18) e fissa l’età minima di accesso al lavoro al complimento del ciclo di istruzione obbligatoria, che provvedimenti successivi hanno portato alla durata di 10 anni. Quindi l’età minima per l’accesso al lavoro è sostanzialmente di 16 anni, con l’eccezione delle attività svolte nei settori culturali, artistici, sportivi, pubblicitari e dello spettacolo, a condizione che le attività non pregiudichino la loro sicurezza e integrità psicofisica, nonché la frequenza scolastica. Si attribuisce al minore una capacità giuridica speciale e, con essa, la piena titolarità dell’esercizio dei diritti che dipendono dal contratto di lavoro; è da ritenersi che il minore abbia anche la piena capacità di agire, nel senso che può egli stesso stipulare direttamente il contratto di lavoro e azionare in giudizio i diritti che da esso derivano. Nessun minore può essere adibito a lavori pesanti o pericolosi, né a lavori notturni, e disposizioni più favorevoli di quelle generali sono previste per l’orario di lavoro, riposi intermedi e ferie annuali. Le suddette norme non si applicano agli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata, concernenti servizi domestici prestati in ambito familiare, o prestazioni di lavoro non nocivo svolte nelle imprese a conduzione familiare. post-scolare ed esperienza lavorativa, utilizzabile fino a 29 anni. Senonché il decollo del nuovo apprendistato, si incrociò all’irrompere delle regioni nella disciplina del lavoro, a seguito della riforma costituzionale dell’art.117. Un decreto legislativo del 2011, “testo unico dell’apprendistato”, rilanciò la tripartizione della fattispecie, attribuendo notevole rilevanza alla contrattazione collettiva. Un’ulteriore decreto legislativo del 2015 conferma la struttura delle riforme precedenti articolando il contratto in 3 tipologie: a) l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale o di istruzione secondaria superiore, destinato ai giovani tra 15 e 25 anni privi di qualifica, che vogliano acquisirla attraverso i percorsi scolastici o della formazione professionale regionale; b) L’apprendistato professionalizzante, destinato ai giovani tra i 18 e i 29 anni che vogliano acquisire una qualifica contrattuale, cioè di un titolo rilasciato non dal sistema educativo ma connesso all’inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva; c) L’apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra 18 e 29 anni, coniugabile con i percorsi di diploma di scuola superiore, laurea, dottorato di ricerca e praticantato professionale; Questo apprendistato può essere attivato seguito di convenzioni tra datore di lavoro e istituzioni educative, e la formazione è regolata dal sistema pubblico. Per tutti i tipi di apprendistato si prevede la forma scritta, con la previsione di un piano formativo individuale, l’indicazione di un tutor e della qualifica da conseguire al termine del rapporto, e la previsione di una durata del contratto non inferiore a sei mesi. Formalmente si da vita ad un contratto a tempo indeterminato, ma con libera recedibilità alla scadenza di tale periodo di apprendistato. Nel caso in cui nessuna delle parti receda, il rapporto prosegue come un ordinario contratto a tempo indeterminato. Quanto alla retribuzione sono previste 2 modalità: quella classica, consistente cioè in una riduzione percentuale rispetto alla retribuzione spettante al lavoratore del corrispondente inquadramento professionale, oppure, se lo prevedono i contratti collettivi nazionali dei sindacati comparativamente più rappresentativi, l’inquadramento dell’apprendista in una qualifica inferiore di due livelli a quella spettante per mansioni corrispondenti alla qualifica conseguita al termine dell’apprendistato. Inoltre, relativamente all’apprendista di prima e terza tipologia, il datore di lavoro non deve corrispondere alcuna retribuzione per la formazione “esterna” (quella del sistema pubblico), mentre per quella interna deve corrispondere il 10% della retribuzione ordinaria. Il datore di lavoro gode di una notevole riduzione degli oneri previdenziali relativi agli apprendisti. Nel caso di apprendisti minorenni la legge stabilisce una limitazione oraria della prestazione lavorativa nonché il divieto di lavoro notturno. È infine previsto un limite numerico, nel senso che non si può superare il rapporto di 3 a 2 tra apprendisti e dipendenti specializzati dell’azienda, con la possibilità di assumere sempre almeno 3 apprendisti. La violazione degli obblighi formativi è colpita da sanzioni amministrative e può ritenersi che essa comporti anche la conversione dell’apprendistato in un contratto ordinario a tempo indeterminato. c) gli stages Diversi rispetto ai contratti formativi, sono i tirocini formativi e di orientamento (detti stages), istituiti fin dagli anni Settanta allo scopo di favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Questi tirocini non costituiscono in nessun caso un rapporto di lavoro, e si svolgono sulla base di convenzioni tra soggetti “ospitanti” e soggetti promotori (scuole, università, cooperative sociali), riguardano i neodiplomati, i neolaureati, i disabili, i rifugiati, i richiedenti asilo, e “soggetti svantaggiati”; non possono durare più di 1 anno (2 per disabili) e non comportano alcuna retribuzione. Nel 2012 e nel 2017 la Conferenza Stato- regioni, ha fissato delle linee guida per la revisione della disciplina, che valorizzi gli scopi formativi dei tirocini e nei contrasti l’uso distorto. 83. Il lavoro a tempo determinato Un’importante clausola che può essere apposta al contratto di lavoro è quella relativa al termine finale. Il Codice civile del 1865 considerava quello a tempo determinato l’unico possibile contratto di lavoro (per evitare asservimento schiavistico), ma una volta acclaratosi che anche il contratto di lavoro poteva sciogliersi con libero recesso di una delle parti, la disposizione non aveva più senso e il contratto a termine cominciò ad essere visto con sfavore dal legislatore. Il codice civile del 1942 affermò con chiarezza che il contratto andava sempre considerato a tempo indeterminato, a meno che il termine non risultasse dalla specialità del rapporto o da atto scritto (art.2097). Negli anni 50, il contratto a termine divenne però uno strumento utilizzato dai datori per applicare ai lavoratori condizioni meno favorevoli, evitando ad esempio di corrispondere loro l’indennità di anzianità. Perciò una legge del 1962, abrogando la generica previsione dell’art.2097, manifestò chiaramente lo sfavore nei confronti del contratto a termine, che diventava possibile solo in forma scritta e in casi tassativamente elencati ( sostituzione lavoratori assenti e alcuni lavori stagionali), pena la nullità dell’apposizione del termine e la trasformazione in rapporto a tempo indeterminato. Negli anni successivi, la rigidità di queste disposizione si andò attenuando e si previdero nuovi casi di apposizione del termine, finché non si giunse a delegare alla contrattazione collettiva l’individuazione di ulteriori casi. La liberalizzazione avvenne agli inizi del nuovo secolo. Un decreto legislativo del 2001 abrogò la disciplina previgente, ribadì che la regola era costituita dal contratto a tempo indeterminato e che un contratto a termine poteva essere stipulato, in forma scritta, tutte le volte che sussistessero “ ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Con questo “causalone” si riequilibrò, di fatto, il contratto a tempo determinato e quello a tempo indeterminato. La “riforma Fornero” del 2012 ammise la possibilità di sottoscrivere un contratto a termine senza necessità di riferirsi ad alcuna causa, ma solo se si fosse trattato del primo contratto a termine stipulato con un lavoratore e che questo avesse durata massima di un anno. Successivamente, con il decreto legislativo attuativo del Jobs Act, si generalizzò la acausalità della previsione di un termine al contratto di lavoro, che si poteva quindi sempre sottoscrivere a prescindere dalla ricerca di ragioni con la giustificassero. Infine la disciplina del contratto a termine è stata modificata del “decreto dignità” del 2018, che ha inciso sia sulla acausalità, sia sul limite massimo di durata dei rapporti a termine. Attualmente la scelta se stipulare un contratto a tempo indeterminato oppure uno a termine è sostanzialmente libera. Le uniche limitazioni all’apposizione di un termine sono l’obbligo della forma scritta, i divieti in alcuni casi precisi(sostituzione dei lavoratori in sciopero), e la previsione di un limite massimo di durata che è di 2 anni. Più precisamente, a seguito del “decreto dignità” l’apposizione di un termine fino a un anno al primo contratto di lavoro, è sempre ammessa senza specificare alcuna causale, mentre per stipulare un rinnovo oppure un contratto di durata superiore, comunque entro 2 anni, è necessaria la presenza di almeno una di queste condizioni: a) esigenze temporanee oggettive di sospensione dei lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi, temporanei e non programmabili, dell’attività ordinaria. Allo scopo di evitare abusi, lo stesso limite di 2 anni è fissato anche in relazione all’ipotesi di successione di più contratti tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore per le stesse mansioni. Discipline particolari sono previste per le proroghe del termine apposto al contratto: sono possibili solo col consenso del lavoratore e fino a un massimo di 4 volte nell’arco di 2 anni. Per le “code contrattuali”: è possibile far slittare parzialmente in avanti la conclusione del contratto a termine, fino a 30 giorni se si tratta di un contratto di durata fino a sei mesi, e fino a 50 giorni negli altri casi; onde evitare abusi, le “code” comportano una maggiorazione retributiva; per le “pause di necessità”: tra 2 successivi contratti a termine è previsto un intervallo minimo da rispettare di 10 giorni se si tratta di un contratto di durata fino a sei mesi, 20 giorni negli altri casi. In tutti i casi di deviazione rispetto ai vincoli di legge, la sanzione è costituita dalla trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato. Esistono anche dei limiti quantitativi alla stipula di contratti a termine, le “clausole di contingentamento”. In un azienda non possono essere assunti lavoratori a termine in misura superiore al 20% degli occupati a tempo indeterminato, salva la possibilità di deroghe da parte della contrattazione collettiva. La violazione della clausola di contingentamento comporta solo il pagamento di una sanzione amministrativa. Si prevede che al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo che l’impresa applica ai lavoratori a tempo indeterminato “comparabili”. Alla fine, in regime di sostanziale acausalità del ricorso al contratto a termine, gli unici disincentivi sono rimasti il costo (leggermente superiore rispetto al contratto a termine) e la sussistenza di qualche residuo limite al potere di licenziare il dipendente. X. L’INGRESSO NEL MERCATO DEL LAVORO 84. Il collocamento dei lavoratori La stipula dei contratti di lavoro è così importante, che i poteri pubblici intervengono al fine di favorire quanto più possibile quel “diritto al lavoro” proclamato dall’art.4 della Costituzione. Questi strumenti possono definirsi di politica attiva del lavoro, nel senso che essi si propongono lo scopo di orientare il mondo del lavoro verso una forte crescita occupazionale. Si tratta di misure di vario tipo, come incentivi all’occupazione dei giovani e alla nascita di startup, alla reintegrazione delle persone uscite precocemente dal mondo del lavoro e aiuti alle imprese che assumono. Tali incentivi sono di tipo fiscale (crediti di imposta), e previdenziale (riduzione dei contributi da pagare per i neoassunti). Gli interventi più tradizionali sono quelli che si occupano più particolarmente delle fase costitutiva del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda e offerta. Agli inizi del diritto del lavoro industriale era sostanzialmente il sindacato ad occuparsi del collocamento dei lavoratori presso le imprese. Il fascismo avocò allo Stato questo compito, che diventa una vera e propria funzione pubblica. L’Italia repubblicana si trova a scegliere se restituire il sistema nelle mani del sindacato libero, oppure lasciarlo al nuovo Stato “fondato sul lavoro”; si decise per quest’ultima soluzione. Una legge del 1949 introdusse un meccanismo piuttosto rigido, con un’accentuata pubblicizzazione del sistema: ogni azienda che volesse assumere dipendenti doveva rivolgersi ad “uffici di collocamento” (strutture periferiche del Ministero del lavoro) presenti sul territorio nazionale. L’azienda doveva obbligatoriamente avanzare una richiesta numerica per ogni determinata qualifica professionale; su tale base, l’ufficio di collocamento inviava all’azienda i lavoratori primi in graduatoria iscritti nella lista relativa alla qualifica richiesta. Il sistema si dimostrò sempre più inefficiente e nemmeno l’accentuata partecipazione del sindacato a questo meccanismo pubblicistico produsse risultati apprezzabili. Nel frattempo, soprattutto in determinate realtà regionali, si fa sempre più strada una prassi antica, il caporalato, cioè l’intermediazione effettuata da soggetti di pochi scrupoli, che reclutano in nero manodopera disposta a qualunque cosa pur di lavorare. Questa pratica era vietata dalla legge anche con forti sanzioni, ma si fece comunque spazio. Fu una legge del 1991 a ribaltare il sistema della richiesta di lavoratori, ponendo come regola quella della richiesta nominativa, nel senso che l’azienda precisava i nominativi dei lavoratori che desidera assumere, i quali venivano avviati al lavoro anche se non si trovavano ai primi posti delle graduatorie. Un’altra legge del 1996, ribadita da un decreto legislativo del 2002, istituzionalizzò il sistema della chiamata diretta, nel senso che l’azienda assumeva direttamente i lavoratori che desiderava, comunicando solo all’ufficio di collocamento l’avvenuta assunzione. La legge prevedeva che ciò avvenisse entro 5 giorni, così che le aziende che assumono in nero avevano vita facile, all’arrivo di un ispettore, nell’affermare che l’assunzione era intervenuta il giorno precedente. La regola dell’assunzione diretta è quella oggi operante. Una volta avvenuta, il datore di lavoro deve adempiere ad alcuni obblighi formali come: registrare il lavoratore nel “libro unico del lavoro”, informare i lavoratori delle condizioni contrattuali previste, comunicare l’assunzione agli uffici pubblici. Quanto a quest’ultimo obbligo, si è prescritto che il datore di lavoro, salvo casi di urgenza o forza maggiore, sia tenuto a comunicare all’ufficio competente ogni nuova assunzione il giorno precedente a quello dell’assunzione stessa. Il mancato adempimento di questi compiti fa scattare l’applicazione di una “maxi sanzione”, il cui ammontare aumenta a seconda dei giorni in cui un dipendente ha lavorato in nero. “vero” beneficiario della prestazione del lavoratore e di conseguenza la sua “vera” controparte per tutti gli obblighi e i diritti che discendono dal rapporto di lavoro. 89. Il divieto dei rapporti interposi tori Per svariati anni (fino alla “Legge Biagi del 2003), il termine “interposizione” (oltre a definire l’attività di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro), è stato impiegato anche per designare un altro fenomeno, sempre legato al reclutamento di lavoratori, che si realizza quando il datore di lavoro, anziché assumere direttamente, si rivolge ad un soggetto “interposto”, che assume formalmente a nome proprio, guadagnando la differenza tra quanto versatogli dal datore di lavoro e quanto (poco) da lui corrisposto ai lavoratori. Una prassi legata spesso a situazioni malavitose, che in alcune realtà prende il nome di “caporalato”. La prima norma ad intervenire sul tema fu una legge del 1960, che reprimeva con grande durezza il fenomeno, rafforzando la blanda previsione dell’art.2127 c.c. col divieto dell’appalto di “mere prestazioni lavorative”. Com’è noto, l’appalto è un contratto col quale un soggetto assume il compimento di un’opera o di un servizio “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio”. Nel caso in cui l’oggetto del contratto fosse la fornitura di prestazioni lavorative del tutto mancanti dell’elemento dell’organizzazione, non si trattava di un vero e proprio appalto, e quindi la situazione veniva punita dalla legge del 1960, con sanzioni penali e una sanzione forse ancora più drastica: i dipendenti assunti dallo pseudo appaltatore venivano a tutti gli effetti considerati dipendenti del datore di lavoro pseudo appaltante, che di fatto era il reale utilizzatore della loro prestazione. Gli appalti di opere o servizi da eseguirsi all’interno dell’azienda, organizzati e gestiti da un appaltatore “genuino”, erano considerati leciti, e assistiti, per i dipendenti di quest’ultimo, dalla garanzia di un trattamento economico non inferiore a quello dei dipendenti dell’appaltante. La legge del 1960 era del tutto coerente con la legge del 1949, che vieta il collocamento dei lavoratori da parte di soggetti privati. Le 2 leggi costituirono per decenni il pilastro su cui si resse il sistema dell’ingresso nel mondo del lavoro. 90. La prima eccezione: il lavoro interinale L’evoluzione dei modelli produttivi, portò a rivedere piuttosto sensibilmente il tema dei rapporti interpositori col “pacchetto Treu”, cioè una legge del 1997. Essa ammise la possibilità di un “lavoro interinale” o temporaneo (cioè dell’interpolazione di manodopera) che si realizzava quando il lavoratore veniva assunto da speciali agenzie, controllate da parte dello Stato, e inviato a lavorare a tempo determinato presso l’azienda che ne richiedeva le prestazioni. Il nuovo sistema costituiva solo una deroga ai divieti imposti dalla legge del 1960 che rimaneva ancora operativa, continuando principalmente a sanzionare l’acquisizione di lavoratori tramite soggetti non autorizzati. La legge è interessante anche sotto il profilo più strettamente teorico, perché per la prima volta faceva cadere un postulato classico della subordinazione, cioè la necessaria inserzione della prestazione lavorativa all’interno dell’organizzazione del datore di lavoro: nel caso del lavoro interinale il lavoratore era dipendente dell’agenzia di lavoro. 91. La liberalizzazione: a) la somministrazione di lavoro Una scossa definitiva venne poi prodotta dalla “legge Biagi”, che consentì formalmente ad agenzie private autorizzate sia le attività di intermediazione di manodopera, che l’attività di interposizione (cioè l’assunzione di un prestatore chiamato a eseguire la prestazione presso un terzo soggetto). Infatti, il decreto legislativo del 2003, rese le agenzie private protagoniste di un nuovo istituto, la somministrazione di lavoro, destinato a sostituire il lavoro interinale e a superare gli storici divieti di interposizione fissati dalla legge del 1960, che infatti venne abrogata. La disciplina della “legge Biagi” è stata più volte emendata, finché un decreto legislativo del 2015 l’ha abrogata a sua volta definitivamente, riscrivendola tuttavia analogamente al suo impianto originario, emendato da ultimo nel “decreto dignità” nel 2018. Alla luce della disciplina vigente, la somministrazione di lavoro è il contratto, da stipularsi in forma scritta, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata “mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore”. Il rapporto si regge su una triangolazione tra l’agenzia di somministrazione, il soggetto utilizzatore e il lavoratore somministrato. Tra l’agenzia e l’utilizzatore intercorre un “contratto di somministrazione”, di natura commerciale, e avente ad oggetto la fornitura di lavoratori assunti e retribuiti della prima, che devo mettersi a disposizione del secondo. Il contratto di somministrazione può essere a termine o a tempo indeterminato: il primo è possibile entro il limite del 30% dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore; il secondo, chiamato anche staff leasing, ed inizialmente ammesso solo in casi tassativi, è ora liberamente praticabile, ma non può riguardare comunque un numero di lavoratori superiore al 20% dei dipendenti a tempo indeterminato occupati nell’impresa utilizzatrice. L’agenzia deve rivestire particolari caratteristiche di solidità economica e finanziaria, che le abbiano fatto ottenere dal Ministero del lavoro l’autorizzazione a svolgere tale attività. L’utilizzatore può essere un qualunque datore di lavoro, anche non imprenditore. L’esercizio non autorizzato della somministrazione o il ricorso a soggetti diversi dalle agenzie autorizzate è punito solo con sanzioni amministrative. Il lavoratore è a sua volta titolare di 2 rapporti giuridici: quello col suo datore di lavoro, cioè l’agenzia di somministrazione, e quello col soggetto che ne utilizza le prestazioni. Quanto al primo rapporto, questo può essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Nel primo caso si applica la disciplina ordinaria del contratto a termine; nel secondo caso, è prescritto che il lavoratore, per i periodi nei quali rimane in attesa di essere “somministrato”, abbia diritto ad un’”indennità di disponibilità”, meno cospicua di una normale retribuzione. Con l’utilizzatore si instaura un semplice rapporto di fatto, la cui durata dipende dal tipo di contratto di somministrazione stipulato tra agenzia e utilizzatore. Ovviamente, possono essere somministrati a tempo indeterminato soltanto i lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’agenzia. Il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento economico e normativo dei dipendenti dell’utilizzatore, svolgenti le sue stesse mansioni, nonché ad esercitare i propri diritti sindacali presso l’azienda utilizzatrice. Retribuzione e contributi sono corrisposti dall’agenzia somministratrice, obbligata solidamente con l’utilizzatore. Queste somme saranno rimborsate dall’utilizzatore all’agenzia. E inoltre, per il servizio reso, l’utilizzatore corrisponderà all’agenzia un importo aggiuntivo concordato nel contratto di somministrazione, parametrato al numero dei lavoratori somministrati e alle ore complessive di lavoro svolto. Il potere di comminare al lavoratore sanzioni disciplinari, spetta all’agenzia somministratrice, alla quale l’utilizzatore si dovrà rivolgere comunicando i motivi che legittimano l’applicazione di una sanzione. Il potere direttivo e di controllo naturalmente spetta all’utilizzatore. La somministrazione è vietata per sostituire lavoratori sciopero, o in aziende non in regola con la valutazione dei rischi in materia di salute sul lavoro, o interessate da cassa integrazione o licenziamenti collettivi riguardanti lavoratori adibiti alle stesse mansioni di quelli somministrati. La somministrazione illecita comporta, oltre che sanzioni amministrative, anche la conseguenza della costituzione di un rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, sempre che il lavoratore interessato ne faccia richiesta. La convenienza per le imprese del ricorso alla somministrazione risiede in vari fattori: i lavoratori somministrati non entrano nel computo del numero dei dipendenti dell’azienda utilizzatrice, che in questo modo può non superare quei limiti dimensionali (15 dipendenti), che spesso fanno scattare oneri più gravosi; l’utilizzatore non si fa carico degli oneri indiretti (ferie e malattia del lavoratore), che invece ricadono sull’agenzia di somministrazione: se ha bisogno di 10 operai, l’agenzia dovrà sempre mettere a disposizione 10 operai (e non 9 nell’ipotesi in cui uno sia malato); Per non parlare della possibilità di poter richiedere all’agenzia la sostituzione di un lavoratore non gradito. b) gli appalti La legge del 1960 conteneva la presunzione di fraudolenza dell’appalto di “mere” prestazioni lavorative, in considerazione del fatto che tali operazioni erano effettuate da persone spregiudicate economicamente. A partire dagli anni 80, una frammentazione più “fisiologica” dell’imprese portò alla ribalta un decentramento molto più genuino, spesso veicolato da una struttura a “rete”, nella quale ogni impresa si specializzava, preferendo delegare ad altre imprese attività che queste potevano fare meglio e in maniera più conveniente. Di conseguenza il legislatore è intervenuto liberalizzando gli appalti di manodopera. La “legge Biagi” ribadisce che l’appalto lecito è quello gestito a proprio rischio dall’appaltatore, ma precisa che l’”organizzazione di mezzi” richiesta della vecchia legge, può consistere anche nel semplice “esercizio da parte dell’appaltatore del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto”, pur in assenza di una vera struttura organizzativa in senso proprio. La legge ritiene lecito l’appalto anche se capitali, macchine e attrezzature impiegate siano di proprietà dell’appaltante e noleggiate all’appaltatore per l’esecuzione dell’opera. Semplificando, un appalto è legittimo se l’appaltatore effettivamente dirige e coordina i lavoratori; è invece illegittimo se la direzione e il coordinamento dei lavoratori è esercitata dell’appaltante, che ne diviene il datore di lavoro anche formalmente (continua ad applicarsi la vecchia sanzione ideata nel 1960); se i lavoratori sono stati inviati da un’agenzia autorizzata, ci troviamo di fronte a un’ipotesi di somministrazione, anch’essa perfettamente lecita. Appalto e somministrazione designano quindi 2 fattispecie piuttosto diverse, perché nella prima l'appaltatore si obbliga a fornire un’opera con gestione a proprio rischio, mentre nella seconda l’agenzia si obbliga a fornire propri lavoratori subordinati. Entrambe le figure sono accomunate dal medesimo intento di rimuovere divieti relativi a situazioni fraudolente ritenute ormai superate e di liberalizzare il ricorso a un decentramento che si presume sempre “pulito” e fisiologico. Che la liberalizzazione non sia andata a vantaggio dei lavoratori, nel caso dell'appalto, è dimostrato dell'abrogazione di quella norma della legge del 1960, che garantiva ai lavoratori Impiegati dall’appaltatore, la perfetta parità di trattamento rispetto ai dipendenti dell’appaltante. Appare ancora più chiara la convenienza per le imprese di ricorrere agli appalti. I lavoratori conservano l’unica garanzia della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore entro il limite di 2 anni dalla cessazione dell’appalto. La Corte costituzionale nel 2017 ha ritenuto che tale tutela possa essere estesa anche ai lavoratori impiegati in forme di decentramento produttivo diverse dall’appalto. La sanzione nel caso di appalto illecito è la costituzione diretta di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente che ne ha utilizzato le prestazioni, sempre che il lavoratore interessato ne faccia espressa richiesta. In ogni caso l’”intermediazione illecita” e lo “sfruttamento del lavoro” sono previsti come reati ai sensi del codice penale. XII. LUOGO DELLA PRESTAZIONE E VICENDE DELL’IMPRESA 93. Il luogo di lavoro e il trasferimento del dipendente Il luogo dell’adempimento dell’obbligazione lavorativa, se non indicato contrattualmente, deve desumersi dalla natura della prestazione. Perciò è pacifico che la sua determinazione spetti al datore di lavoro nell’ambito dell’esercizio del suo potere direttivo. Poiché il lavoratore stabilisce il suo domicilio nelle vicinanze del luogo dove lavora, la sua modificazione potrebbe rivelarsi per lui particolarmente gravosa. Il tema del trasferimento del lavoratore è stato affrontato per la prima volta dallo statuto dei lavoratori, che con l’art.13 ha novellato l’art.2103 c.c., prevedendo l’ipotesi del trasferimento “esterno”, cioè quello da un’unità produttiva ad un’altra della stessa azienda. Esso è legittimo se effettuato per “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” a nulla rilevando l’eventuale dissenso dell’interessato. Le ragioni devono essere “comprovate”, quindi particolarmente serie e pressanti; devono poi sostanziarsi in del trasferimento, e fino alla sua scadenza. Tuttavia, se il cessionario applica un altro contratto collettivo di pari livello rispetto a quello applicato dal cedente, esso si sostituisce integralmente a quest’ultimo, anche nel caso in cui comporti un peggioramento dei trattamenti economici e normativi. In attuazione di una direttiva comunitaria, una legge del 1990, predispone una procedura particolare alla quale vanno assoggettati tutti i trasferimenti di un azienda che occupi più di 15 dipendenti. Esso crea un ulteriore profilo di solidità e di garanzia, coinvolgendo anche le organizzazioni sindacali. Infatti, cedente e cessionario sono tenuti a informare le strutture sindacali della loro intenzione di trasferire l’azienda, almeno 25 giorni prima del perfezionamento dell’atto. Il sindacato potrà intervenire nelle trattative e richiedere un esame congiunto della situazione. Il mancato rispetto degli obblighi di informazione e dell’esame congiunto, è previsto esplicitamente come motivo di condotta antisindacale, ma non può inficiare l’accordo di trasferimento. Con questa norma il legislatore si mette in condizioni di controllare l’operato imprenditoriale, tentando cosi di ridurre al minimo ogni contenzioso tra lavoratori e datori di lavoro. Vi possono essere anche ipotesi di “retrocessione” dell’azienda, ad esempio in caso di affitto, quando al termine di esso, l’azienda ritorna all’originario cedente, che ora diventa cessionario. In un caso del genere, i rapporti di lavoro ritornano a far capo al datore originario; tuttavia, se il cessionario nel frattempo ha assunto nuovi lavoratori, secondo la giurisprudenza, questi non godono in pieno della tutela normativa, poiché il cedente originario, ora cessionario, non può ritrovarsi un’organizzazione lavorativa più ampia di quella che ha ceduto, che non sia giustificata da un arricchimento dell’attività produttiva dell’azienda. 97. Il trasferimento di ramo d’azienda Sei il trasferimento riguardo soltanto una parte dell’azienda, quest’operazione si inserisce perfettamente nel quadro dei processi di esternalizzazione dell’impresa: una fase della produzione viene scorporata dall’azienda e ceduta ad un altro imprenditore, mentre il risultato produttivo viene spesso riacquisito dall’azienda principale, ad esempio mediante un appalto. Queste operazioni, chiamate di outsourcing, sono ormai sempre più frequenti. La giurisprudenza faceva rientrare questa fattispecie nel testo dell’art.2112. Un decreto legislativo del 2001, aggiunse alla norma codicistica un comma, la cui ultima parte estendeva l’applicazione della norma al trasferimento di parte dell’azienda, a condizione che si trattasse di una sua “articolazione funzionalmente autonoma”, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. La norma è stata ulteriormente modificata da un decreto legislativo nel 2003, in un contesto di misure volte ad una maggiore liberalizzazione. In particolare si precisa che non è più necessario che l’autonomia funzionale del ramo d’impresa sia preesistente al trasferimento, essendo sufficiente che essa sia “identificata come tale dal cedente e dal cessionario, al momento del suo trasferimento”. In ogni caso, la normativa sul trasferimento del ramo d’azienda, fa capire come l’articolo 2112 si sia progressivamente trasformato in una norma il cui fine principale è quello di agevolare le operazioni di scorporo dell’azienda, che comportano necessariamente una riduzione di personale. 98. Le aziende in crisi Regole particolari, parzialmente derogatorie dell’articolo 2112, sono dettate per il caso in cui l’azienda si trova in uno stato di crisi, col preciso scopo di agevolarne la cessione, favorendone quindi il salvataggio. L’art. 47 l. 428/1990, modificato poi nel 2009, prevede i casi in cui l’azienda si trovi in dichiarata “crisi aziendale”, o in amministrazione straordinaria, o in liquidazione coatta amministrativa, o in stato di fallimento con apertura del concordato preventivo, o con un accordo omologato di ristrutturazione dei debiti; in tutti questi casi la legge rinvia all’accordo collettivo: nel momento in cui questo prevede “il mantenimento anche parziale dell’occupazione”, sarà esso stesso a graduare le garanzie di conservazione dei diritti e di mantenimento dei trattamenti economici e normativi, nonché l’obbligazione solidale tra cedente e cessionario, di cui beneficiano i lavoratori che comunque conservano il posto. Naturalmente sarà ben possibile anche licenziare dei lavoratori, eventualmente scelti con criteri individuati dall’accordo stesso. È il caso di ricordare che, secondo l’articolo 2119, il fallimento e le altre procedure concorsuali non costituiscono “giusta causa” di licenziamento, e pertanto i lavoratori licenziati avranno diritto all’indennità di mancato preavviso. I lavoratori che non passano alle dipendenze del cessionario hanno, in ogni caso, diritto di precedenza nelle assunzioni che questi dovessero fare entro un anno dal trasferimento dell’azienda. È infine utile ricordare che, con il decreto legislativo 14/2019 è stato emanato il “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” che contiene diverse disposizioni riferite ai rapporti di lavoro. XIII. IL LAVORO DECENTRATO 99. Decentramento produttivo e lavoro a domicilio Rimanendo all’interno della tematica del luogo di lavoro, un’altra tipologia di decentramento produttivo fuori dall’azienda, è legata a una forma di lavoro presente già in epoca precedente l’industrializzazione: il lavoro a domicilio, cioè svolto nell’abitazione del lavoratore. L’industrializzazione marginalizzò questo tipo di lavoro, facendolo diventare terreno di sfruttamento e disapplicazione di ogni minima tutela. Il codice civile del 1942 dedicò al lavoro a domicilio una scarna norma, l’articolo 2128, col quale si limitava ad affermare l’applicabilità delle disposizioni sul lavoro subordinato “in quanto compatibili con la specialità del rapporto”. Si avvertiva sempre più urgente l’emanazione di una legge che regolasse specificatamente la fattispecie, anche perché il fenomeno del decentramento produttivo si espanse man mano a settori più prettamente industriali, e diventò un sistema sempre più praticato per evadere l’applicazione delle normative garantistiche. Il sistema venne rivisto con una legge del 1973, la quale innanzitutto afferma che il lavoratore a domicilio subordinato è quello che opera nel proprio domicilio o in un locale di sua disponibilità, e destina la propria attività a uno o più imprenditori e non al mercato. La legge fornisce una nozione di subordinazione in deroga all’articolo 2094, infatti afferma che nel lavoro a domicilio la subordinazione sussiste anche se: a) la prestazione non è strettamente personale; b) non c’è alienità rispetto alle materie prime e all’attrezzatura lavorative; c) non esiste un controllo diretto e costante da parte del datore di lavoro, ma solo direttive impartite all’inizio della prestazione e un controllo successivo. La legge vieta il ricorso al lavoro a domicilio se il locale dove si svolge la prestazione è di proprietà del datore di lavoro, se quest’ultimo cede al lavoratore a domicilio macchinari o attrezzature trasferite fuori dall’impresa, se l’impresa è interessata da programmi che comportino licenziamenti collettivi, se si tratta di attività che richiedono l’uso di sostanze o materiali nocivi per la salute. In tutti questi casi il rapporto di lavoro a domicilio si trasforma in rapporto di lavoro subordinato interno. La retribuzione deve essere determinata sulla base di tariffe di cottimo pieno, si tratta di un sistema basato sulla quantità del lavoro prodotto, ammesso solo nel caso del lavoro a domicilio, nel quale è impossibile verificare il tempo di lavoro. Tali tariffe di cottimo sono risultanti dai contratti collettivi della categoria, e ricevono applicazione generalizzata a prescindere dall’iscrizione del datore di lavoro e dei lavoratori al sindacato stipulante. 100. Il telelavoro Il lavoro domicilio ha trovato nella rivoluzione tecnologica la spinta per rinnovarsi; molte mansioni d’ufficio possono ora svolgersi anche nel domicilio del lavoratore, grazie all’utilizzo di strumenti elettronici. Si parla dunque di telelavoro, alludendo alla distanza spaziale tra datore di lavoro e dipendente, e all’utilizzo di una tecnologia che consente il collegamento con l’”azienda madre”. Il nuovo modo di lavorare rappresenta la soluzione di tanti problemi, come l’isolamento di determinate zone, l’esclusione dal lavoro di fasce deboli; ma per converso il controllo sulla prestazione risulta più continuo e pervasivo, la donna rischia di essere nuovamente relegata in una dimensione familiare, i diritti sindacali sono molto meno fruibili, la socializzazione tra lavoratori è inesistente. È difficile inquadrare il telelavoro negli schemi giuridici consueti; si è sollecitata perciò l’emanazione di una norma che disciplinasse questa fattispecie, ma non si è approdati ad esiti significativi, tanto che la materia si trova ad essere regolata soltanto della contrattazione collettiva, che le ha dedicato un importante accordo interconfederale nel 2004. L'unica definizione di telelavoro nel nostro ordinamento è quella fornita da un decreto del presidente della Repubblica del 1999, riguardo al telelavoro nelle pubbliche amministrazioni. Questa norma adotta la tecnica della “modulazione delle tutele” e applica alcune disposizioni tipiche del lavoro subordinato al telelavoro, del quale sono delineate le seguenti caratteristiche: a) l’effettuazione del lavoro in un qualsiasi luogo ritenuto idoneo, dove la prestazione sia tecnicamente possibile; b) il supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione che deve essere “prevalente”; c) il collegamento con il datore di lavoro cui la prestazione inerisce; d) la fornitura e la manutenzione della “postazione di telelavoro” a cura del datore di lavoro. Al telelavoratore viene garantito in ogni caso un trattamento equivalente a quello dei dipendenti impiegati nella sede di lavoro. 101. Il lavoro digitale nella gig economy L’epoca odierna sta comportando, nel campo del lavoro di tipo elettronico decentrato fuori dall’azienda (chiamato lavoro digitale), mutamenti ancora più forti, che disorientano il giurista. Accanto al telelavoro si assiste alla proliferazione di piattaforme online, che utilizzano il lavoro umano nelle modalità più varie. Queste piattaforme svolgono un ruolo centrale, innanzitutto nel favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma anche nel determinare standard di prestazione dell’attività lavorativa e nel vigilare sul suo rispetto sulla base del rating che i lavoratori ricevono da utente. Una delle principali forme in cui si manifesta questo tipo di lavoro è il crowdwork. In esso il lavoro viene distribuito su piattaforme online che consentono ai clienti di affidare l’esecuzione di qualsiasi tipo di compito che possa essere svolto da remoto, a una “folla” di lavoratori potenzialmente connessi da ogni parte del mondo. La natura di questi lavori può variare considerevolmente; tuttavia si tratta di compiti spesso molto parcellizzati e ripetitivi, che poco hanno a che fare con l’intelligenza artificiale che vantano, basati principalmente sul lavoro umano. Un’altra forma è il “lavoro a chiamata tramite piattaforma”, nel quale l’attività lavorativa viene svolta nel mondo “materiale”, e la piattaforma online interviene ancora una volta per fare incontrare le richieste dei clienti con l’offerta di una prestazione lavorativa. Anche in questo caso le piattaforme possono intervenire per fissare degli standard minimi di servizio da parte dei lavoratori, e garantire il loro rispetto anche basandosi sui giudizi dei clienti. Queste forme garantiscono alle aziende coinvolte un livello di flessibilità senza precedenti: i lavoratori sono disponibili “just in time” e remunerati a consumo, sono pagati cioè solo durante i momenti in cui si svolgono effettivamente la prestazione. Il rischio più grande è che, come il datore di lavoro pare non esistere più, il lavoro non venga nemmeno riconosciuto come tale; le operazioni che si verificano solo virtualmente, finiscono col creare una nuova categoria di lavoratori invisibili. Questo triangolazione tra piattaforma, lavoratore e cliente rende i rapporti in questione di difficile classificazione giuridica. Spesso la piattaforma detta unilateralmente termini e condizioni piuttosto rigide, e controlla molto pervasivamente la persona che si offre di lavorare, definibile nemmeno più come lavoratore, ma come “contraente”. A questo proposito si è iniziato a parlare di gig economy, cioè di un modello dove non esiste più il classico contratto di lavoro, ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi o prodotti. Sembra davvero il ritorno a un diritto senza regole, che non siano quelle dettate dal padrone, che utilizza la manodopera come se fosse la luce elettrica, accendendo e spegnendo un interruttore e poi ovviamente pagando solo quello che “consuma”. 102. Il lavoro agile e i “riders” Qualifiche e mansioni possono essere definita insieme, poiché, la mansione definisce in dettaglio l’oggetto specifico del lavoro del dipendente, mentre la qualifica non è altro che un insieme comprensivo di diverse mansioni, ritenute omogenee dalla contrattazione collettiva e raggruppate all’interno di uno stesso livello, corrispondente anche a un medesimo salario. Tutte le mansioni contenute in una stessa qualifica sono retribuite di base allo stesso modo. Si usa distinguere in dottrina tra una qualifica “soggettiva” e una “oggettiva”: la prima comprensiva di tutte le cognizioni e le capacità professionali che fanno capo al singolo lavoratore, la seconda (l’unica che conta) riassuntiva delle mansioni convenute nel contratto di lavoro. L’attribuzione della qualifica al lavoratore non è una prerogativa del datore di lavoro. L’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia l’inquadramento opera automaticamente in relazione alle mansioni effettivamente svolte, anche a prescindere da una diversa assegnazione da parte del datore di lavoro. La contrattazione collettiva ha superato lo schema della classificazione secondo le categorie legali, prevedendo soltanto un certo numero di qualifiche. I criteri utilizzati della contrattazione collettiva per definire le qualifiche sono ritenuti appartenere alla sfera intangibile dell’autonomia collettiva, e quindi non sono sindacabili da parte del giudice. Tale definizione avviene tramite una “declaratoria” piuttosto dettagliata del bagaglio di conoscenze, esperienza, professionalità, autonomia decisionale e responsabilità, ritenute necessarie per quella qualifica. In base al ricordato sistema dell’inquadramento unico, in tutte queste qualifiche sono collocate indifferentemente mansioni rapportatili alla categoria legale d’impiegato e di operaio. 107. La modifica delle mansioni: a) la mobilità orizzontale Al datore di lavoro è attribuito il potere di modificare le mansioni del proprio dipendente, anche indipendentemente dalla volontà di questo: un potere (jus variandi) giustificato dalle esigenze di flessibilità dell’organizzazione aziendale. La materia è regolata dall’articolo 2103 del codice civile, modificato sostanzialmente 2 volte: nel 1970 dallo statuto dei lavoratori e nel 2015 del Jobs Act. La vicenda si sviluppa secondo una parabola che parte dall’iniziale versione liberista, transita per una versione garantista, fino ad approdare ad una versione “neoliberista”, che in nome dell’efficienza dell’impresa torna ad attribuire di fatto mano libera alle strategie modificative. Vanno esaminati le 3 possibili ipotesi: quella dello spostamento a mansioni equivalenti, a mansioni inferiori e a mansioni superiori rispetto a quelle di partenza. Quanto alla mobilità orizzontale, la versione originaria dell’art.2103 la consentiva senza alcun limite, trattandosi di mansioni poste entrambe entro lo stesso livello salariale. La versione statuaria dell’art.2103 limitava invece il potere del datore di lavoro, affermando che erano possibili, in orizzontale, soltanto spostamenti “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”. Sul concerto di “equivalenza” si sviluppò un ampio dibattito, risolto della giurisprudenza nel senso che è richiesta la sussistenza contemporanea di 2 requisiti: a) che le nuove mansioni si trovassero formalmente nello stesso livello di inquadramento (e quindi stessa area salariale) di quelli originarie; b) che le nuove mansioni consentissero l’utilizzo o il perfezionamento delle esperienze e competenze acquisite con le mansioni originarie. Il giudizio relativo a quest’ultimo requisito si è dimostrato notevolmente incerto. L’ultima versione dell’art.2103 elimina il problema alla radice, perché richiede ormai la sola sussistenza del primo requisito. Inoltre, la norma vieta la retrocessione ad altra categoria legale (da mansioni impiegatizie ad operaie), un concetto che quindi la legge rivitalizza. Perciò ormai qualunque spostamento all’ interno dello stesso livello della stessa categoria legale è del tutto legittimo. Il nuovo testo dell’art.2103 non contiene più il richiamo alla conservazione della retribuzione precedente. Nel caso di spostamenti orizzontali, la retribuzione dovrebbe automaticamente essere la medesima, anche se talvolta i contratti collettivi operano distinzioni interne allo stesso livello. Il mutamento di mansioni è accompagnato da una attività di formazione del lavoratore, ma questo obbligo datoriale opera solo ove necessario e il suo mancato assolvimento non comporta la nullità del mutamento di mansioni. b) la mobilità verso il basso L’adibizione a mansioni inferiori (demansionamento) era ampiamente consentita dalla versione codicistica originaria dell’art.2103. La norma poneva di fatto un'unica condizione, cioè che il lavoratore conservasse la retribuzione originaria. Ma la giurisprudenza ammetteva anche mutamenti “consensuali” di mansioni verso il basso, che comportavano quindi il pagamento della retribuzione corrispondente alla nuova mansione inferiore, ignorando che il consenso, in un rapporto tra parti diseguali, è sempre una circostanza del tutto fittizia e mistificatoria. Su questo presupposto, tutto cambiò con la versione statuaria dell’art.2103, che vietava tassativamente qualsiasi mutamento di mansioni verso il basso, prevedendo esplicitamente la nullità di ogni patto contrario. Con il tempo qualche eccezione alla rigidità della norma cominciò a farsi strada, relativamente a quei demansionamenti giustificati da un interesse del lavoratore: le ipotesi nelle quali l’alternativa al demansionamento sarebbe stata quella della perdita del posto del lavoro. Lo precisò anche il legislatore stesso, quando previde la possibilità di adibizione a mansioni inferiori con conservazione della retribuzione originaria, nel caso della lavoratrice madre, dei lavoratori divenuti inabili a seguito di infortunio o malattia, per i lavoratori in esubero come alternativa al licenziamento collettivo (solo su accordo sindacale). La giurisprudenza allargò l’ambito delle ipotesi di demansionamento legittimo, estendendolo a tutti i casi in cui si sarebbe dovuto altrimenti procedere a un licenziamento “economico”, cioè giustificato da ragioni oggettive dell’impresa, istaurando a carico del datore di lavoro un cosiddetto “obbligo di repechage” del lavoratore in altre mansioni, prima di licenziarlo. La versione attuale dell’articolo 2103 consente di nuovo esplicitamente l’adibizone a mansioni inferiori, seguita dal già ricordato obbligo formativo. È prevista l’ipotesi del demansionamento unilaterale: il datore di lavoro può di sua iniziativa assegnare il lavoratore a mansioni inferiori nel caso di “modifica degli assetti organizzativi dell’azienda che incide sulla posizione del lavoratore”, o in tutte le altre ipotesi previste dei contratti collettivi, ma solo se stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale oppure dalle loro RSA dalla RSU. Ancora una volta l'autonomia collettiva è chiamata a ridurre diritti dei lavoratori e non più ad acquisirli. Il demansionamento va comunicato a pena di nullità in forma scritta e non può comportare la diminuzione di più di un livello di inquadramento, né il mutamento di categoria, né il decurtamento del trattamento retributivo. La seconda ipotesi è quella del demansionamento consensuale: il datore di lavoro e il lavoratore interessato stipulano un accordo individuale, che può prevedere anche l’adibizione a mansioni inferiori di più di un livello, il passaggio da impiegato ad operaio e la corrispondente decurtazione della retribuzione. Per conseguenze così estreme sono disciplinate comunque alcune garanzie: l’accordo deve essere stipulato a pena di nullità in una sede protetta, dove si possa testare la reale volontà del lavoratore nei confronti del demansionameento. L’accordo deve essere poi diretto a perseguire un interesse del lavoratore, che può consistere nella conservazione del posto di lavoro o ad esempio nel miglioramento delle condizioni di vita. c) la mobilità verso l’alto Gli spostamenti a mansioni superiori sono naturalmente liberi sia nella versione originaria che in quella statuaria dell’articolo 2103. Va messo in evidenza come il testo del 1970 contenesse una previsione piuttosto importante, animata dello scopo di evitare prassi fraudolente di reiterare l’adibizione a mansioni superiori senza un effettivo riconoscimento della posizione acquisita. Sì disponeva che l’assegnazione a mansioni superiori diventava definitiva automaticamente quando fosse passato un periodo di tempo fissato dei contratti collettivi, comunque non superiore a 3 mesi. L’ultima versione dell’articolo modifica questo punto. In primo luogo, il periodo decorso il quale la promozione diventa definitiva deve essere fissato dei contratti collettivi. Solo in mancanza di tale fissazione, il termine è stabilito dalla legge che lo raddoppia facendolo passare a sei mesi “continuativi”. Infine, con una disposizione piuttosto ambigua, si condiziona l’acquisizione definitiva di mansioni superiori alla volontà del lavoratore; non si dice nulla in ordine a questa rinuncia, soprattutto relativamente alla possibile verifica della sua genuinità. XV. LA DURATA DELLA PRESTAZIONE 110. L’orario di lavoro La dimensione temporale riveste ruolo centrale del contratto di lavoro. Il tempo misura la prestazione di lavoro subordinato e costituisce il più importante parametro di riferimento della controprestazione retributiva. La riduzione della durata della giornata lavorativa fu una delle prime richieste delle organizzazioni dei lavoratori contro i ritmi delle fabbriche di fine 800. Ma l’intervento legislativo fu limitato solo ai fanciulli e alle donne. Bisogna aspettare il 1923 per avere la prima disciplina organica sull’orario di lavoro, fissato ad un massimo di 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali. La norma del 1923 continuò ad avere vigore per lungo tempo, convivendo coi contratti collettivi, che si incaricarono di completarne le regole. In particolare, dagli anni 70, si impose il modello della settimana lavorativa di 40 ore, possibilmente distribuite in 5 giorni. In seguito a una direttiva comunitaria del 1993 e alla successiva condanna dell’Italia da parte della Corte per la sua in attuazione, un decreto legislativo del 2003 ha sostituito dopo tanti anni la disciplina ancora vigente, proponendo una revisione complessiva del tema dell’orario di lavoro e dando grande spazio ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. In via generale l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali; i contratti collettivi possono sia stabilire una durata minore, sia parametrare l’orario normale alla media dell’anno. Quest’ultima disposizione consente quindi la previsione di un “orario multiperiodale”, consistente nel superamento della settimana di 40 ore, da compensare entro l’anno con settimane di durata inferiore (media annua non superiore alle 40 ore settimanali). Il lavoro prestato oltre l’orario normale è considerato “lavoro straordinario”. In ogni caso la durata settimanale dell’orario di lavoro (comprensivo dello straordinario) calcolata come media in un periodo di 4 mesi non può comunque eccedere le 48 ore. Non esiste più lo storico limite delle 8 ore di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero, poiché al lavoratore sono assicurati 11 ore di riposo continuativo nelle 24 ore. Questa possibilità di calcolo “a contrario” fa si che la legge del 2003 non si ponga in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, secondo il quale la legge deve regolare la durata massima della giornata lavorativa. L’incostituzionalità potrebbe emergere laddove si consideri che il limite delle 11 ore di riposo continuativo può essere abbassato in alcuni casi specifici, ad opera dei contratti collettivi, ancora una volta “in perdita”. Dell’orario di lavoro la legge del 2003 fornisce una definizione ritenendolo “qualsiasi periodo in cui lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro, e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”. Controversa è la computabilità del cosiddetto “tempo tuta”, cioè del tempo necessario perché il datore indossi gli indumenti di lavoro, considerato dalla giurisprudenza rientrate nell’orario di lavoro se rispondente ad una necessità organizzativa che rende necessari o obbligatori quegli indumenti per lo svolgimento del lavoro. Al contratto collettivo è riservato il potere di determinare l’estensione temporale della prestazione lavorativa, mentre all’accordo individuale è lasciato il compito di specificare in concreto la distribuzione dell’orario di lavoro all’interno dell’unità di tempo (giorno, settimana, mese, anno). Le modifiche unilaterali di tale distribuzione sono attenuate dalla previsione nei contratti collettivi di obblighi di consultazione e di informazione. 111. Il lavoro straordinario e supplementare indicando precisamente la durata della prestazione e la collocazione dell’orario di lavoro; la forma è richiesta solo ai fini della prova. È possibile che il rapporto a tempo parziale subisca aumenti dell’orario di lavoro. Questo lavoro in più risponde a 3 tipologie: a) lavoro supplementare: è quello compreso tra l'orario a tempo parziale concordato e il tempo pieno. Il datore di lavoro è sempre libero di chiederne l'effettuazione rispettando quanto previsto in materia dal contratto collettivo. In mancanza, il datore non può chiedere al lavoratore più di un quarto delle ore settimanali concordate, mentre quest’ultimo può rifiutarsi solo adducendo comprovate esigenze lavorative, di salute e familiari; b) lavoro straordinario: è quello che eccede l’orario normale di lavoro, ed anche questo può essere richiesto al lavoratore osservando la disciplina già ricordata; c) lavoro derivante da clausole elastiche: sono quelle pattuizioni che le parti individuali possono prevedere per iscritto, nel rispetto del contratto collettivo, per aumentare la durata temporale della prestazione o anche per variarne la distribuzione nel tempo; è evidente che il lavoratore deve essere portato a conoscenza con un certo anticipo della richiesta del datore di lavoro. La legge prevede un preavviso di 2 giorni e l’attribuzione di specifiche compensazioni per il disagio arrecato. È previsto un diritto di ripensamento del lavoratore, che può revocare il suo consenso alla clausola elastica, solo se sussistono gravi motivi di salute del lavoratore o dei familiari, oppure se si tratta di studente non universitario. Mentre la disciplina previgente attribuiva alla contrattazione collettiva un ruolo importante, ora tutto è lasciato all’accordo individuale, il che troppo spesso equivale a dire alla sua volontà del datore di lavoro. La legge prevede anche che se il contratto collettivo non disciplina le clausole elastiche, queste possono essere pattuite dalle parti davanti a una commissione di certificazione. Una garanzia presente è quella della volontarietà del ricorso al contratto di lavoro a tempo parziale, che non può nascere senza il consenso del lavoratore interessato. È poi prevista, con accordo scritto tra le parti, la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in uno a tempo parziale. Hanno un vero e proprio diritto di compiere questa trasformazione, i lavoratori affetti da gravi patologie. Questo stesso tipo di lavoratori ha anche il diritto di trasformare nuovamente, a richiesta, il rapporto di lavoro a tempo parziale in uno a tempo pieno; mentre per gli altri lavoratori, che hanno tenuto di trasformare l’originario rapporto a tempo pieno in uno a tempo parziale, esiste un semplice diritto di precedenza, nel caso in cui il datore proceda ad assunzioni a tempo pieno. Il lavoratore a tempo parziale gode degli stessi diritti e delle stesse tutele del lavoratore a tempo pieno. Ovviamente la retribuzione e ogni altro trattamento economico e normativo va parametrato in proporzione all’orario di lavoro svolto. 115. Il lavoro intermittente L’altro tipo di lavoro a orario ridotto e flessibile è il “lavoro intermittente”, detto anche “lavoro a chiamata”. Siamo probabilmente ai limiti massimi della flessibilità temporale della prestazione. Infatti con tale contratto, che può essere a tempo indeterminato o a termine, il lavoratore si pone a disposizione del datore, il quale può decidere di utilizzarne le prestazioni se e quando desidera, in relazione alle sue esigenze. La legge ne propone 2 tipologie: a) senza obbligo di disponibilità, nel quale, così come il datore è libero di chiamare il dipendente in qualsiasi momento, questi non è obbligato a rispondere alla chiamata; ovviamente il lavoratore non ha diritto ad alcun trattamento economico e normativo nei periodi nei quali non effettua la prestazione; b) con obbligo di disponibilità, nel quale le parti inseriscono una “clausola di disponibilità” che fa nascere un doppio vincolo: per il lavoratore, quello di rispondere alla chiamata, per il datore, quello di corrispondere al lavoratore nei periodi in cui non effettua la prestazione una “indennità”, ovviamente inferiore a una retribuzione e il cui ammontare è fissato dai contratti collettivi. Trattandosi di una tipologia lavorativa estremamente flessibile, la legge pone alcune cautele per evitarne uno su distorto. Esistono infatti limiti oggettivi, nel senso che il ricorso al lavoro intermittente deve rispondere a esigenze individuate dai contratti collettivi o, in mancanza, da un decreto ministeriale. Al di fuori di tali esigenze, il lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con persone che abbiano meno di 24 anni o più di 55. Ci sono anche limiti quantitativi, nel senso che ogni lavoratore non può prestare a favore dello stesso datore di lavoro più di 400 giorni di lavoro effettivo nell’arco di 3 anni, e limiti formali, nel senso che il datore è tenuto a informare le controparti sindacali e effettuare comunicazioni alle competenti sedi ministeriali. Il lavoro intermittente è vietato per sostituire lavoratori in sciopero, o in aziende non in regola con la valutazione dei rischi in materia di salute sul lavoro, o interessate da cassa integrazione o licenziamenti collettivi riguardanti lavoratori adibiti alle stesse mansioni. Anche il lavoratore intermittente, per i periodi in cui presta la sua attività, gode degli stessi diritti e delle stesse tutele del lavoratore a tempo pieno. Tutti i trattamenti economici e normativi vanno parametrati in proporzione alle giornate di lavoro svolto. 116. Il lavoro accessorio e occasionale La “legge Biagi” aveva disciplinato un tipo di contratto chiamato di “lavoro accessorio”, destinato ai soggetti deboli sul mercato del lavoro (casalinghe, studenti, pensionati, disabiliti, disoccupati, extracomunitari) per lo svolgimento di attività lavorative del tutto occasionali, come lavori domestici, baby sitting, lezioni private. La disciplina è stata modificata più volte, fino alla sua completa revisione da parte del Jobs Act, che ne ha stravolto il significato originario, estendendo la possibilità di effettuare lavoro accessorio in pratica a tutti i lavoratori e ancorando l’occasionalità al solo dato quantitativo, cioè il contenimento del compenso, per ciascun lavoratore, entro 7000 euro lordi annui complessivi ed entro 2000 euro lordi annui per ciascun datore di lavoro. Il compenso avveniva attraverso buoni acquistati dal datore di lavoro, per un valore di 10 euro per ora lavorativa e ceduti al lavoratore, il quale cambiandoli, incassava € 7,50 per ognuno, mentre la differenza finanziava il sistema previdenziale. Trattandosi di una forma particolarmente flessibile e poco controllata di utilizzo del lavoro, il ricorso al lavoro accessorio ha avuto un successo clamoroso, consentendo sostanziali elusioni delle garanzie legate al lavoro dipendente “normale”. Perciò, la CGIL ha proposto un referendum abrogativo della disciplina e, per evitarne l’effettuazione, il governo nel 2017 ha abrogato le norme sul lavoro accessorio. Senonché subito dopo ha introdotto una disciplina volta sostanzialmente a riproporre in altra veste lo stesso istituto, sul quale è poi intervenuto il “decreto dignità” del 2018. La legge ora parla di prestazioni occasionali, quando esse sono svolte, per ciascun lavoratore, per non più di 280 ore l’anno e quando il compenso è contenuto entro i € 5000 lordi annui complessivi ed entro i € 2500 lordi annui per ciascun datore di lavoro. Ne sono previste 2 tipologie distinte a seconda del committente, che può essere: a) una persona fisica (che non esercita attività professionale o d’impresa), che può utilizzare prestazioni occasionali per piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare o lezioni private; il committente deve munirsi di un “libretto di famiglia”, contenente titoli di pagamento del valore di 10 euro per ora lavorativa, che andranno per € 8 al lavoratore e per € 2 al sistema previdenziale; b) Ogni altro utilizzatore che non abbia più di 5 dipendenti e non operi nell’edilizia o nel settore minerario (limite elevato a 8 per aziende alberghiere e strutture ricettive turistiche); questi può stipulare con l’interessato un “contratto di prestazione occasionale”, da retribuire con un minimo di € 9 l’ora. Il lavoro occasionale che superi la soglia massima oraria o retributiva fissata dalla legge, si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. XVI. GLI OBBLIGHI DEL LAVORATORE 117. L’obbligo di diligenza L’obbligo principale del lavoratore è quello di svolgere le mansioni assegnate, secondo le direttive ricevute e in relazione all’orario di lavoro concordato. Accanto a questo obbligo principale, ci sono una serie di altri obblighi. Il codice civile pone in generale a carico del debitore, l’osservanza di alcuni comportamenti, cioè la correttezza, la diligenza e la buona fede. La diligenza riceve dal codice una riscrittura particolare, modellata sul rapporto di lavoro. L’articolo 2104 co. 1, impone al dipendente di usare, nell’adempimento della propria prestazione, “la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”. Il primo dei 3 parametri, la natura della prestazione, fa riferimento alle mansioni svolte dal lavoratore, e si pone come una misura qualitativa della diligenza. La mansione va eseguita a “regola d’arte”, secondo le regole che la tecnica e l’esperienza impongono. Il secondo parametro, quello dell’interesse dell’impresa, ha dato luogo a opinioni contrastanti: c’è chi lo ritiene coincidente con l’interesse soggettivo dell’imprenditore e chi lo legge invece come un interesse oggettivo dell’impresa. Quest’ultima versione appare senz’altro la più convincente. La prestazione del lavoratore, svolta diligentemente dal punto di vista della professionalità legata alla mansione, deve ben coordinarsi insieme con le prestazioni degli altri dipendenti, all’interno del contesto produttivo organizzato dall’imprenditore. Il parametro dell’interesse superiore della produzione nazionale, strettamente legato all’ideologia corporativa, non ha più alcun valore giuridico. 118. L’obbligo di obbedienza Lo stesso articolo 2104 al co.2, impone al lavoratore di “osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo”. Si tratta dell’obbligo definito “di obbedienza”. Questo obbligo, correlato al potere direttivo del datore di lavoro, risente dei limiti ad esso posti da parte soprattutto dello statuto dei lavoratori, intervenuto a “democratizzare” il rapporto di lavoro, ridimensionando dunque la portata di tale obbligo. Ulteriore decremento è stato comportato da quei nuovi modelli di organizzazione del lavoro, fondati su un sempre maggiore grado di autonomia decisionale del lavoratore e del gruppo. Dedicato appare il problema del limite fino a cui può spingersi la “disobbedienza” del dipendente nei confronti di una disposizione impartita dall’imprenditore. La giurisprudenza condanna, oltre alla mancata esecuzione, anche la contestazione aperta di un ordine; ammette invece che il lavoratore possa rifiutarsi di eseguire una direttiva illecita (ad esempio se si accorge che la sua esecuzione comporterebbe un’irregolarità fiscale). 119. L’obbligo di fedeltà L’articolo 2105 pone in capo al lavoratore un’ulteriore dovere, l’obbligo di “fedeltà”. L’obbligo, ben lontano dal fondare un vero e proprio dovere di fedeltà del lavoratore nei confronti dell’impresa i dell’imprenditore, si sostanzia praticamente soltanto in 2 ben determinati comportamenti, entrambi di “non fare”. Il primo è il divieto di fare concorrenza al datore di lavoro; è vietato qualsiasi comportamento oggettivamente concorrenziale, e dunque non soltanto quella concorrenza che il codice definisce “sleale”, ma anche un atto in sé del tutto corretto, costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà. Questo divieto opera soltanto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Se il datore desidera estendere il divieto anche al periodo successivo, deve stipulare un “patto di non concorrenza”, che è nullo se non risulta da atto scritto, se non è previsto un corrispettivo a favore dell’ex dipendente e se comunque il divieto di fare concorrenza non è circoscritto entro precisi limiti di oggetto e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a 5 anni se si tratta di dirigenti e a 3 anni negli altri casi. L’altro obbligo è quello di riservatezza, che si sostanza in 2 divieti posti al lavoratore: quello di “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa” e quello di fare uso di tali notizie in modo da poter recare pregiudizio all’impresa. Questi divieti si intrecciano con i reati di “rivelazione del contenuto di documenti segreti”, “rivelazione di segreto professionale” e “rivelazione di segreti scientifici o industriali”. Ovviamente deve trattarsi di notizie segrete o riservate, non rientrando in quest’ambito tutte le conoscenze tecniche e professionali acquisite dal lavoratore nello svolgimento della prestazione. L’obbligo di riservatezza vale anch’esso per la sola durata attengono invece specificatamente alla vigilanza dei lavoratori devono essere a questi comunicati, impedendo così controlli occulti o polizieschi. La giurisprudenza, comunque, ritiene legittimi i controlli occulti effettuati da soggetti diversi dalle guardie giurate e dal personale di vigilanza (ad esempio un investigatore privato). Una norma molto importante è l’articolo 4, che vietava l’utilizzo di “impianti audiovisivi” e di “altre apparecchiature” che consentissero controlli a distanza, a meno che non fossero richiesti da esigenze organizzative e produttive o da ragioni di sicurezza, nel qual caso era necessario l’accordo sindacale o, in difetto, un’autorizzazione amministrativa. La norma alludeva sostanzialmente agli impianti televisivi a circuito chiuso, ma il suo riferimento col passare del tempo e con lo sviluppo delle tecnologie elettroniche, è stato esteso ai computer, che consentono innegabilmente un controllo molto più preciso, con la conseguenza paradossale (mai applicata) di poter vietare l’utilizzo di un apparecchiatura che è contemporaneamente strumento di lavoro e strumento di controllo. Ciò ha comportato l’obsolescenza della norma e la necessità di adeguarne il testo in relazione anche alle nuove esigenze di privacy dei lavori. Alla fine, nel 2015, è stato scritto l’articolo 4, la cui norma ribadisce che tutti gli strumenti del quali derivi “anche la possibilità” di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere utilizzati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. Si deve trattare di apparecchiature destinate ad altri fini, che però, finiscono col controllare anche l’operato del dipendente (telecamera della casa di un supermercato). In questi casi, gli impianti possono essere installati solo previo accordo sindacale (rsa, rsu, sindacati comparativamente più rappresentativi); in difetto, il datore può richiedere la necessaria autorizzazione amministrativa. La vera novità sta nell’assoluta libertà di utilizzo degli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e degli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. Perciò, il datore di lavoro, senza alcuna necessità di accordi o autorizzazioni, ma previa adeguata informazione sui modi di utilizzo e sulla possibilità di effettuazione dei controlli, potrà consegnare al dipendente strumenti di lavoro come tablet o smartphone e potrà far utilizzare i badge elettronici che rilevano le presenze. Inoltre, il datore di lavoro, nel rispetto della normativa sulla privacy, è libero di utilizzare le informazioni raccolte dagli strumenti di cui sopra “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, quindi anche al fine di comminare sanzioni disciplinari o di procedere al licenziamento. L’articolo 6 disciplina le “visite personali di controllo”, cioè le perquisizioni personali. Queste sono ammesse solo se ritenute indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, a seconda dell’attività dell’impresa e quindi degli strumenti di lavoro, delle materie prime o dei prodotti in essa adoperate (azienda orafa). In questi casi le perquisizioni potranno essere effettuate solo all’uscita dei luoghi di lavoro, in ogni caso tutelando la dignità dei lavoratori (stanza appartata e personale dello stesso sesso) e applicando meccanismi automatici che garantiscono la casualità nell’individuazione del lavoratore da perquisire, che non potrà mai essere scelto discrezionale. Anche per le perquisizioni è prevista la stessa procedura richiesta dell’articolo 4, cioè l’accordo sindacale o, in mancanza, l’autorizzazione amministrativa. La norma è stato oggetto di rilievi di incostituzionalità, ma la Corte la dichiarata legittima, sul presupposto che il lavoratore, pure esponendosi a sanzioni disciplinari, può sempre rifiutare di sottoporsi alla perquisizione. 124. Le indagini sulle opinioni e il diritto alla riservatezza del lavoratore L’articolo 8 vieta al datore di lavoro che voglio assumere un dipendente (ma anche in ogni altro momento del rapporto di lavoro), di effettuare indagini, anche se commissionate a terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore oppure “su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Si tratta di un corollario della libertà di opinione del dipendente, affermata all’articolo 1, che coinvolge anche la delicata materia del diritto alla riservatezza. Anche in questo caso, la norma è frutto di comportamenti scorretti ampiamente praticati per tutti gli anni 50 e oltre, soprattutto nelle grandi fabbriche, dove avvenivano “schedature” dei dipendenti in base alle loro opinioni e ai loro comportamenti extra-lavorativi. Lo statuto attribuisce la sua tutela sia ad una sfera “interna” che ad una “esterna” della persona: cioè, sia all'esigenza di intimità della vita privata, intesa nel senso di tenere celate le proprie abitudini di vita; sia al diritto di comportarsi pubblicamente nel modo in cui si preferisce, esprimendo le proprie opinioni. In ogni caso, le indagini sulla sfera privata “interna” sono consentite, purché siano pertinenti alla valutazione delle attitudini professionali. La norma patrocina la spersonalizzazione del rapporto di lavoro, sancendo l’irrilevanza di fatti personali estranei al corretto adempimento dell’obbligazione lavorativa. Comunque, la distinzione tra fatti rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore e fatti riguardanti solo la sua vita privata si dimostra molto delicata, anche per l’elasticità della formula usata della legge. Potrebbe non essere sempre semplice giudicare la rilevanza, ai fini dell’attitudine a svolgere una determinata mansione, di una scelta di vita del lavoratore come portare il velo, avere un piercing o frequentare locali gay. La materia va poi raccordata con la normativa generale sul trattamento dei dati personali. Essa riguarda tutti coloro che detengono una banca dati, quindi anche i datori di lavoro, e tutela soprattutto i “dati particolari”, un tempo “sensibili”. In generale, questi dati possono essere trattati solo col consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante della privacy; ma per quelli relativi al rapporto di lavoro non è richiesto il consenso del lavoratore, mentre normalmente il Garante rilascia un’autorizzazione generale una tantum e non caso per caso. 125. Il potere disciplinare Nel contratto di lavoro è presente la possibilità, per una delle parti, di comminare delle “pene private” all’altra. Infatti, il datore di lavoro, in virtù della sua posizione giuridica di supremazia nel rapporto, ha il potere di irrogare sanzioni disciplinari al lavoratore che non adempie correttamente la propria obbligazione. La materia del potere disciplinare venne regolata dal codice civile, che, nel caso in cui il datore di lavoro ravvisasse una violazione degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà posti e carico del lavoratore, gli attribuiva la possibilità di applicare sanzioni disciplinari graduate a seconda della gravità dell’infrazione (art.2016). L’unico principio della proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione, legittimava comunque comportamenti arbitrari da parte del datore, tanto che lo statuto dei lavoratori è intervenuto in questa materia, sottoponendola a una radicale revisione e spogliandola dell’eccessivo carattere autoritativo. L’articolo 7 dello statuto procedimentalizza il potere disciplinare, condizionandolo all’osservanza di una serie di rigidi passaggi. Innanzitutto, le sanzioni possono applicarsi soltanto se esiste un “codice disciplinare” che va affisso in luogo accessibile a tutti. Esso può provenire dagli accordi collettivi o, in assenza, ben può provvedere unilateralmente l’imprenditore. Facendo riferimento ai principi garantisti basilari del diritto penale, si ritiene che il codice debba determinare con chiarezza quali siano i comportamenti sanzionabili, e quali siano le sanzioni applicabili alla singola infrazione, evidentemente rispettando il principio di proporzionalità tra comportamento e sanzione, già presente nell’articolo 2106 che non viene abrogato. La tipologia delle sanzioni applicabili è definita dalla norma statuaria che ne prevede 4: in ordine di gravità, il rimprovero verbale, l’ammonizione scritta, la multa fino a un massimo di 4 ore di retribuzione, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a un massimo di 10 giorni; sono esplicitamente vietate, al di là del licenziamento, sanzioni che comportino “mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”; il che dovrebbe rendere impossibile sanzionare il dipendente con un demansionamento o con un trasferimento geografico. Per irrogare una sanzione, il datore di lavoro deve necessariamente osservare delle precise regole procedurali. Innanzitutto, nel rispetto del contraddittorio, egli è tenuto a contestare l'addebito al lavoratore in forma scritta e in maniera circostanziata, sia al fine di consentire al lavoratore di potersi difendere, sia per “cristallizzare” i fatti oggetto dell'addebito in una eventuale futura sede giudiziale. Il datore non potrà comunque applicare la sanzione prima di 5 giorni dalla contestazione dell’addebito, nel corso dei quali il lavoratore ha diritto ad esporre le sue ragioni, eventualmente assistito da un rappresentante sindacale. Tutto ciò non si applica al semplice rimprovero verbale, che interviene nell’immediatezza del comportamento negligente o inadempiente. In seguito il datore di lavoro potrà decidere se irrogare o meno la sanzione (in genere i contratti collettivi prevedono i tempi massimi decorsi i quali il datore di lavoro decade dal potere sanzionatorio). In caso affermativo, egli potrà anche aggravarla se c’è recidiva, ma soltanto se la nuova violazione è stata commessa entro 2 anni da quella precedente. Una volta comminata la sanzione disciplinare, il lavoratore può decidere di impugnarla o rivolgendosi al giudice del lavoro o ricorrendo a eventuali procedure stragiudiziali previste dai contratti collettivi o attivando, entro 20 giorni dall’applicazione della sanzione, la costituzione di un collegio arbitrale; il ricorso a quest’ultima soluzione viene incentivato della previsione della sospensione della sanzione. XVIII. LA RETRIBUZIONE 126. Onerosità e corrispettività, proporzionalità e sufficienza L’obbligo principale che incombe sul datore è quello di pagare la retribuzione al proprio dipendente, come corrispettivo della sua messa a disposizione delle energie lavorative. Nel contratto di lavoro, per il carattere in qualche modo “personale” che esso assume e per la funzione anche “sociale” che la prestazione retributiva svolge, la corrispettività si presenta in maniera peculiare rispetto agli altri contratti sinallagmatici, proponendo scostamenti dal modello civilistico. Ad esempio, ci sono casi nei quali la prestazione non è resa, perché sospesa, e la controprestazione retribuita viene comunque adempiuta, così come talune voci della retribuzione, come la 13ª, non sono rigorosamente riferite a un determinato lavoro svolto. La maggior parte della disciplina relativa alla retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva, nata proprio per sottrarre la fissazione delle tariffe salariali all'arbitrio della negoziazione individuale. Lo ribadisce l'articolo 2099 c.c., quando afferma che la misura della retribuzione va determinata “dalle norme corporative”, quindi dei contratti collettivi. Perciò, il contratto individuale assolve soltanto la funzione di assicurare trattamenti economici “premiali” ai lavoratori con professionalità molto elevate. La legge occupa uno spazio davvero minimo. La disposizione fondamentale in materia è l'articolo 36 della Costituzione, che garantisce al lavoratore il “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Il parametro base dovrebbe essere quello della “sufficienza”: esso dovrebbe comportare la corresponsione di una retribuzione non semplicemente legata al minimo vitale. Diversamente, il criterio della “proporzionalità”, rappresenta il perfetto paradigma dell’obbligazione corrispettiva, fondandosi su dati del tutto interni e “oggettivi”, quali il tempo di lavoro (“quantità”) e le mansioni svolte (“qualità”). Negli anni, la giurisprudenza ha sostanzialmente eliso il primo riferimento a tutto vantaggio del secondo, reputando che una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro, sia anche automaticamente sufficiente. In questo modo, i giudici hanno ritenuto che i minimi tabellari (retribuzione base) previsti dai contratti collettivi, realizzino la retribuzione proporzionata e che quindi essi costituiscano i minimi vincolanti per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria. È stata questa la strada imboccata in Italia per assicurare a tutti i lavoratori un minimo retributivo, e non quel di fissare per legge un salario minimo garantito. Questa soluzione non è mai stata concretamente realizzata. Non è andato in porto neanche il tentativo fatto dal Jobs Act, di delega al governo per l’introduzione di un “compenso orario minimo” da applicare comunque nei soli settori non regolati da contratti collettivi, e previa consultazione delle parti sociali. 127. La parità di trattamento retributivo contingenza venne eliminata dall’”accordo Amato” del 1992 e formalmente dal “protocollo Ciampi” del 1993. Il compito di adeguare la retribuzione all’aumento dell’inflazione fu affidato ai periodici rinnovi contrattuali. In ogni caso, per mitigare gli effetti negativi dei ritardi nei rinnovi contrattuali collettivi, l'accordo del 1993 previde l’indennità di vacanza contrattuale, consistente in una maggiorazione retributiva da corrispondere una volta scaduto il contratto collettivo, e in attesa dell’entrata in vigore di quello nuovo. La funzione di tale indennità, oltre a quella di garantire i salari, era quella di incentivare le parti sociali per evitare dilazioni nella conclusione delle trattative. Sul tema è intervenuto l’accordo interconfederale del 2009, che è ha modificato il sistema, prevedendo: a) il rinnovo dei contratti ogni 3 anni e non più ogni 2; b) l’ancoraggio all’”Inpca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) determinato dall’Istat, e non più al tasso di inflazione programmato; c) l’integrale copertura degli eventuali scostamenti tra esso e l’inflazione reale; d) la graduale sostituzione dell’indennità di vacanza contrattuale con un nuovo sistema. 131. La nozione di retribuzione Molteplici sono gli elementi che compongono la retribuzione; si tratta di una complessità che si ripercuote anche sulla definizione stessa di retribuzione. Anche in questo campo è stata principalmente la giurisprudenza a tentare di delineare una nozione unitaria di retribuzione. Per lungo tempo, infatti, ha dominato un orientamento detto della “onnicomprensività della retribuzione”, in virtù del quale farebbe parte di tale nozione ogni emolumento che presenti caratteri della corrispettività, della determinatezza, della continuità e dell’obbligatorietà. In questo modo, nel concetto di retribuzione finisce col rientrare quasi tutto, esclusi i soli rimborsi spese. Per questo motivo, a partire dagli anni 80, la giurisprudenza ha mutato orientamento, affermando l'insussistenza di un principio generale di onnicomprensività e aprendo spazio alla contrattazione collettiva per la determinazione degli elementi che entrano a far parte della nozione di retribuzione. Così, ad esempio, si è deciso che nel calcolo della retribuzione da corrispondere nel periodo feriale non rientrano i compensi per straordinario, lavoro festivo e notturno; che la 13ª rientra nella nozione di “retribuzione globale di fatto”. Questo atteggiamento giurisprudenziale ha ricevuto un importante avallo da parte del legislatore, che con una legge del 1996, afferma esplicitamente che non può individuarsi un concetto di retribuzione difforme da quello definito dai contratti collettivi. 132. La retribuzione differita: il trattamento di fine rapporto In realtà una parte della retribuzione non viene corrisposta immediatamente al lavoratore, ma “conservata” dal datore (o da un fondo pensione) che gliela verserà solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro. È il “trattamento di fine rapporto” (tfr), che discende da un antico istituto, l’indennità di anzianità, nata con l’industrializzazione come una sorta di premio di fedeltà attribuito al dipendente che terminava il lavoro per un’azienda: l’indennità non spettava al lavoratore che si fosse dimesso o fosse stato licenziato per sua colpa. Solo nel 1966 l'indennità di anzianità venne estesa a tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro, facendole definitivamente assumere natura di retribuzione differita. Il suo sistema di computo ne ha causato la fine; infatti, veniva calcolata moltiplicando l’ultima retribuzione mensile per gli anni di servizio prestati dal lavoratore presso la stessa azienda. Tale sistema, da un lato non “fotografava” correttamente il percorso del dipendente all’interno dell’azienda, tenendo conto soltanto della sua parte finale, normalmente quella meglio retribuita; dall’altro lato, finiva col costituire una sorta di ingiustificato automatismo, poco tollerabile nella realtà di crisi degli anni 70, quando l’imperativo era quello di limitare il costo del lavoro. Una legge del 1992 intervenne a sostituire l’art.2120 c.c., novellando l’istituto e dandogli il nuovo nome di “trattamento di fine rapporto”. Il suo meccanismo di calcolo riflette ora molto bene la storia professionale di ogni lavoratore: è previsto che TFR si calcoli accantonando ogni anno una somma pari alla retribuzione annua, divisa per 13,5; si tratta di un coefficiente fisso sul quale non può intervenire la contrattazione collettiva, la quale riveste uno spazio minimo nel disegno del legislatore del 1982. Infatti, “sono nulle tutte le clausole dei contratti collettivi regolanti la materia del trattamento di fine rapporto”. La retribuzione annua da prendere a base per il calcolo comprende tutte le somme corrisposte, esclusi i rimborsi spese. Le quote di retribuzione annuale devono poi essere rivalutate ogni anno per garantirle contro l’inflazione, applicando un tasso costituito dal 1,5% in misura fissa, più i tre quarti dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat. Al termine del rapporto, al lavoratore spetta la somma di tutti gli accantonamenti rivalutati. Ad avvalorare la ricostruzione della natura giuridica del TFR in termini di retribuzione differita, che entra cioè a far parte del patrimonio del lavoratore ancor prima della sua materiale corresponsione, sta anche la possibilità che il lavoratore possa chiederne un’anticipazione parziale. Questa facoltà è riservata al dipendente con almeno 8 anni di anzianità che debba affrontare spese sanitarie straordinarie o l’acquisto della prima casa di abitazione, fino a un massimo del 70% del TFR maturato fino a quel momento. Il datore è tenuto a soddisfare le richieste entro il limite del 10% degli aventi titolo e comunque entro il 4% del totale dei dipendenti. Nel caso di cessazione del rapporto per morte del lavoratore, l’articolo 2122 dispone regole particolari per la devoluzione del TFR ai superstiti. La tesi dominante vuole che questa attribuzione avvenga a titolo originario e non jure successionis. È poi prevista a tutela del credito dei lavoratori, l’istituzione presso l’Inps di un Fondo di garanzia, che si sostituisce al datore di lavoro insolvente nel corrispondere il TFR. Si cerca, infine, di incentivare un utilizzo previdenziale del TFR, prendendo atto delle insufficienze del sistema pensionistico pubblico. Una legge del 2006 prevede, infatti, che il lavoratore possa scegliere di destinare tutti gli accantonamenti del proprio tfr, o parte di essi, a forme pensionistiche complementari; in tal modo, non riceverà il TFR dal datore di lavoro come somma una tantum, ma un trattamento pensionistico integrativo mensile dal fondo presso cui ha deciso di effettuare l’accantonamento. Opera una sorta di silenzio-assenso: se il lavoratore, entro sei mesi dall’assunzione, non manifesta la volontà di conservare gli accantonamenti presso il datore di lavoro, si presume che li voglia destinare al fondo pensione. IX. LA SICUREZZA SUL LAVORO 133. La tutela dell’integrità psico-fisica nei luoghi di lavoro: un problema antico L'obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori viene riconosciuto come un obbligo accessorio del datore di lavoro. A ben vedere, guardando le norme civilistiche e penalistiche che presidiano la materia, il ruolo dell’imprenditore emerge davvero alla stregua di una “posizione di garanzia” ed è quindi molto più opportuno non ragionare in termini di mera “accessorietà” della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ma considerare questo profilo come una parte essenziale dello stesso concetto di impresa: questa esiste solo in quanto impresa sicura. Che la sicurezza sul lavoro sia ancora oggi un tema drammatico, è dimostrato dalle statistiche: in Italia, si registrano quasi 3 morti al giorno per infortuni sul lavoro, una media insopportabile per un paese industriale avanzato. Nel mondo muoiono sul lavoro ogni anno 1.300.000 persone, e si parla solo di infortuni mortali, perché se si estende il dato a quelli “non mortali”, nel mondo ogni secondo accadono 8 infortuni sul lavoro, e da questi conti sfuggono ovviamente tutte le malattie che i dipendenti contraggono sul lavoro, meno evidenti e “contabilizzabili”. Il problema di garantire la sicurezza dei dipendenti si pose già agli inizi dell'industrializzazione; uno dei primi provvedimenti della “legislazione sociale” fu quello che nel 1898 apprestava una prima tutela contro gli infortuni sul lavoro. Il fascismo perfezionò la legislazione di tutela, estesa già ad altri eventi dannosi, come le malattie professionali. Poi, l'articolo 2087 c.c., codificò l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei suoi dipendenti. La Costituzione ha previsto la previdenza sociale come un diritto per i lavoratori, garantendo loro i “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria”. Negli anni 50 il problema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro fu affrontato con numerosi decreti, in un’ottica volta alla riparazione dell’evento dannoso subito dal lavoratore e non già alla sua prevenzione. Solo con lo statuto dei lavoratori sì inizio finalmente a ragionare in termini di tutela preventiva e collettiva, dando il via a normative più compiute e realmente attente ai bisogni di una concreta visione globale del problema: i passaggi più importanti sono stati la riforma sanitaria del 1978, nella quale si stagliava con maggiore evidenza l'idea della prevenzione, e il decreto sulla sicurezza del 1994, sollecitato dal necessario processo di adeguamento a standard comunitari, che disegnava una ampio sistema generale, affermando un ruolo attivo dei lavoratori. La portata di questa disciplina faticò comunque ad essere compresa dal tessuto imprenditoriale italiano, che ancora vedeva tali misure essenzialmente come dei costi inutili. Ultima tappa è stato un decreto legislativo del 2008, emanato da un governo di centrosinistra sotto la spinta dell'opinione pubblica segnata da tragedie quotidiane di grande risalto mediatico. Su di esso è intervenuto un decreto legislativo del 2009, emanato da un governo di centro destra, che ne ha fortemente intaccato lo spirito originario, continuamente aggiustato in seguito, fino a un ulteriore decreto legislativo nel 2015. Nel frattempo, il nuovo articolo 117 della Costituzione ha incluso la tutela e la sicurezza del lavoro tra le materie per le quali regioni hanno potestà legislativa concorrente con quella statale. 134. L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro Il principio fondamentale resta quello posto dall’articolo 2087, che stabilisce l'obbligo del datore di lavoro di predisporre le misure che “secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale” del lavoratore. La dimensione dell’obbligo è piuttosto aperta, tendendo ad adattarsi a ogni diversa realtà. L’ampiezza della sua previsione, però, gioca anche nella direzione opposta, perché rispettarne il comando potrebbe anche risultare praticamente impossibile, fondando una sorta di assurda responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro. L’articolo 2087 ha perciò subito un indispensabile processo interpretativo. Per “necessarie” sono state intese innanzitutto quelle misure stabilite espressamente dalle norme antinfortunistiche e, comunque, tutte quelle imposte dall'obbligo generale incombente sul datore di lavoro, che è tenuto a valutare quali misure si debbano ritenere, in concreto, indispensabili, valutando i rischi e le nocività della lavorazione, le conseguenze dannose prevedibili sulla base dell’esperienza e, di conseguenza, i necessari aggiornamenti delle misure di sicurezza: il cosiddetto criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Oggetto della tutela non è soltanto il danno fisico subito dal lavoratore, ma anche quello morale. Il danno patito per l'inosservanza datoriale dell'articolo 2087, può essere valutato dal punto di vista civilistico, con la possibilità per il dipendente di chiedere l’esecuzione coattiva per via giudiziale delle misure di sicurezza, di rifiutare legittimamente la prestazione senza timore di ritorsioni, di costituirsi parte civile nei procedimenti contravvenzionali; ma anche dal punto di vista penalistico, con la possibilità di configurare per “colpa specifica”, i reati di omicidio colposo o di lesioni personali colpose. L'inosservanza dell'obbligo posto dall’articolo 2087, costituisce inadempimento contrattuale con conseguente obbligo del risarcimento del danno, purché sussista un nesso di causalità tra l'evento dannoso e la cautela omessa (grava sul datore di lavoro l'onere di provare che l’inadempimento è derivato da impossibilità per causa a lui non imputabile). Se l'infortunio o la malattia professionale riguardano una lavorazione per la quale il datore di lavoro è obbligato ad assicurarsi, questi è esonerato della responsabilità civile, a meno che non abbia riportato condanna penale per reato perseguibile d’ufficio per il fatto da cui l’infortunio o la malattia sono derivati. Alcuni specifici principi e lo spirito complessivo della Costituzione portano a ritenere la prevalenza dell’interesse alla sicurezza e alla salute del lavoratore, rispetto alla libertà dell’imprenditore di organizzare la propria attività economica. 135. Salute e sicurezza dopo il “testo unico” lavoro ha una responsabilità diretta in caso di mobbing verticale, e indiretta nel caso di mobbing orizzontale. XX. LA SOSPENSIONE DEL RAPPORTO 138. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione Durante l'esecuzione del rapporto di lavoro possono accadere avvenimenti che rendano temporaneamente impossibile l'adempimento dell'obbligo principale del dipendente, cioè quello di mettere le proprie energie lavorative a disposizione dell'imprenditore. Dall'altro lato, non è tecnicamente configurabile un impossibilità nell'adempimento dell'obbligo principale del datore, cioè quello di pagare la retribuzione, classica obbligazione pecuniaria. Nondimeno possono verificarsi circostanze non dipendenti dal datore, le quali impediscono il normale svolgimento dell’obbligazione lavorativa. In tutti questi casi, l’ordinaria disciplina privatistica in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore comporterebbe come effetto l'estinzione del rapporto se l'impossibilità è definitiva oppure se il creditore non vi ha più interesse. Il diritto del lavoro, ha invece elaborato regole diverse, allo scopo di salvaguardare la continuità del rapporto: si tratta dei casi di sospensione, nei quali il rapporto di lavoro resta giuridicamente in vita, anche se la prestazione non viene effettuata. Trattandosi di eccezioni alla regola generale, i casi di sospensione del rapporto di lavoro sono considerati tassativi (anche se sono sempre possibili sospensioni concordate tra le parti). Esse ricomprendono una nutrita serie d’ipotesi, spesso del tutto eterogenee tra loro, accomunate dall’unica circostanza del venir meno della prestazione di lavoro, ma non dell’intero rapporto. In quasi tutte queste ipotesi, il legislatore ha previsto che il dipendente abbia diritto, oltre che a conservare il posto di lavoro, anche a continuare a percepire la retribuzione, la quale non sempre è a carico del datore di lavoro, quanto invece delle assicurazioni sociali. In ogni caso, quando essa è pagata dal datore, non ne viene meno il carattere retributivo, poiché nei casi di sospensione del rapporto cessa il sinallagma funzionale, cioè quello che lega la prestazione lavorativa alla controprestazione retributiva, ma non il sinallagma genetico, cioè quello che lega più generalmente il lavoratore al rapporto di lavoro. Tradizionalmente, le ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro, vengono divise tra quelle relative alla sfera del lavoratore e quelle relative alla sfera del datore di lavoro. Sono di gran lunga più rilevanti le prime; esse emergono dalle ipotesi già previste dalla legge sull’impiego privato del 1924, poi generalizzate del codice civile agli articoli 2110 e 2111: malattia, infortunio, gravidanza, puerperio, servizio militare. 139. La malattia e l’infortunio L’articolo 2110 dispone che in caso di infortunio e di malattia, se non esistono forme previdenziali equivalenti, il datore deve al lavoratore “la retribuzione o un’indennità” nella misura e per il tempo determinati, per lo più, dai contratti collettivi, che normalmente li graduano a seconda della gravità dell’evento e dell’anzianità di servizio del dipendente. La conseguente assenza dal lavoro va computata nell’anzianità di servizio. Per tutto questo lasso di tempo, che prende il nome di “periodo di comporto”, il lavoratore conserva il suo posto: è esplicitamente inibito al datore il licenziamento, a meno che non si configuri una giusta causa. Le nozioni di malattia ed infortunio che rilevano ai fini della sospensione del rapporto di lavoro sono diverse rispetto a quelle mediche, poiché per applicare l’articolo 2110 occorre semplicemente che l’evento risulti impeditivo dell’adempimento della prestazione. I contratti collettivi prevedono che il lavoratore sia tenuto a comunicare immediatamente l’evento al datore, consegnandogli il protocollo informatico del certificato predisposto del medico curante e da questi contestualmente inviato all’Inps con modalità telematiche. Dal canto suo, il datore ha il diritto di operare un controllo sull’assenza dei lavoratori. Per tutti gli anni 50 e 60, normalmente il datore si serviva a tal proposito del medico di fabbrica, un suo dipendente che di certo non offriva le migliori garanzie di neutralità. L’articolo 5 st.lav. modificò questo sistema, vietando tassativamente al datore di lavoro di effettuare accertamenti sulla infermità per malattia o infortunio del dipendente, lasciati alla competenza esclusiva delle strutture pubbliche, attivabili sul richiesta datoriale. A sua volta, la rigidità della disposizione statuaria comportò abusi dal lato del lavoratore, favorendo usi distorti del periodo di sospensione. La materia è stata rivista da una legge nel 1983, che ha previsto l’obbligo per il lavoratore di farsi trovare nel proprio domicilio, salvo giustificati motivi, per sottoporsi ai controlli della struttura pubblica in apposite fasce orarie di reperibilità (10-12 17-19 tutti i giorni), pena la decadenza da ogni trattamento economico per i primi 10 giorni (oltre eventualmente a sanzioni disciplinari). Una piccola singolarità va segnalata a proposito del trattamento economico della sospensione. Mentre quella per infortunio copre allo stesso modo impiegati e operai, in quella per malattia si riscontra uno dei pochissimi casi in cui c'è differenza di disciplina tra le 2 categorie. Infatti, gli operai hanno diritto a una indennità, erogata dall'Inps ma anticipata dal datore, pari al 60% della retribuzione e decorrente dal terzo o quarto giorno successivo all'evento. Mentre gli impiegati dell’industria e dell’artigianato hanno diritto al mantenimento della retribuzione (integrale per un certo periodo di tempo e parziale per quello successivo) a carico del datore di lavoro. Naturalmente il datore di lavoro riacquisterà il suo potere di intimare il licenziamento una volta decorso il periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva, che spesso delinea un comporto “secco”, riferito a un unico episodio morboso, e uno “per sommatoria” riferito a malattie reiterate. 140. Le altre cause di sospensione Sono poi previste altre ipotesi di sospensione del rapporto con diritto alla conservazione del posto, aventi lo scopo di consentire al lavoratore lo svolgimento di compiti o attività facenti riferimento a preminenti valori di rango costituzionale. Possiamo distinguerne vari gruppi: a) sospensioni relative alla tutela della salute: vengono in evidenza le assenze per cure termali, cui il lavoratore si può sottoporre per esigenze certificate da un medico del servizio pubblico, e le assenze non retribuite del lavoratore tossicodipendente che voglia sottoporsi a programmi riabilitativi; permessi retribuiti spettano ai donatori di sangue e di midollo osseo; b) sospensioni relative alla tutela della famiglia: va ricordato il congedo fino a 15 giorni per contrarre matrimonio, il permesso di 3 giorni per morte o grave infermità del coniuge o di un parente stretto; entrambe le essenze sono retribuite, mentre non lo è il periodo di congedo, non superiore a 2 anni, per gravi e documentati motivi familiari; le espressioni “matrimonio” e “coniuge” vanno estesi anche alle unioni civili; c) sospensioni relative alla “difesa della patria”: l’articolo 2111, relativo al servizio militare di leva, non ha più senso dopo l’abolizione della coscrizione obbligatoria; in ogni caso, il principio della garanzia del posto di lavoro e il decorso dell’anzianità di servizio operano anche nel caso del servizio civile; ancora vigente è l’ipotesi del “richiamo alle armi” per qualunque esigenza delle forze armate, retribuito con la differenza fra trattamento economico militare e stipendio; d) sospensioni relative alla partecipazione alla vita politica e sociale del paese: lo statuto dei lavoratori prevede l’aspettativa non retribuita per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive (anche permessi retribuiti in alcuni casi); è poi prevista l’assenza dal lavoro retribuita per i dipendenti impegnati nei seggi elettorali; e) sospensioni relative alla attività sindacale: oltre ai già ricordati permessi per i lavoratori dirigenti di RSA o membri di organi direttivi sindacali, la stessa tutela dei lavoratori eletti a funzioni pubbliche è estesa a quelli chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali; è da ricordare che la sospensione dell’obbligazione lavorativa, ovviamente non retribuita, si verifica nei casi di esercizio del diritto di sciopero; f) sospensioni relative all’elevazione culturale e professionale: lo statuto dei lavoratori attribuisce agli studenti lavoratori permessi giornalieri retribuiti per sostenere gli esami, mentre una legge del 2000 prevede la possibilità di “congedi per la formazione”, non retribuiti e finalizzati al conseguimento di un titolo di studio; nonché di “congedi per la formazione continua”, retribuiti secondo quanto stabilito della contrattazione collettiva, e finalizzati ad accrescere le competenze professionali lungo tutto l’arco della vita lavorativa. 141. La sospensione per motivi riconducibili al datore di lavoro La sospensione del rapporto può derivare anche da cause facenti capo alla sfera del datore di lavoro: si tratta principalmente di circostanze relative a crisi o a processi di riadattamento dell’impresa. La maggior parte di queste ipotesi è regolata dal legislatore in modo, da un lato, da salvaguardare il più possibile i rapporti di lavoro, e dall'altro, di “socializzare” il rischio di impresa, facendo ricadere sulle strutture pubbliche dell'assicurazione sociale i costi delle crisi produttive e delle ristrutturazioni imprenditoriali. Al di fuori di tali ipotesi, viene alla luce l’onere per l’imprenditore di predisporre il cosiddetto “substrato reale” della prestazione, cioè tutto quanto è necessario per il suo corretto e proficuo svolgimento da parte del dipendente: quel che si usa definire la “cooperazione all’adempimento”. La mancata cooperazione comporta come conseguenza la situazione tipica della mora del creditore, che si verifica quando il datore non riceve la prestazione offertagli o “non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l'obbligazione”; la mora non opera se sussiste un “motivo legittimo”, come ad esempio se la prestazione offerta è difforme da quella dovuta. In ogni caso, per il lavoratore l’unica conseguenza pratica della mora del datore di lavoro è il risarcimento del danno, che equivale al pagamento della retribuzione. Non rientra nella fattispecie della mora del creditore, quanto piuttosto in quella del legittimo esercizio del potere direttivo, l’ipotesi in cui il datore decida di tenere a disposizione il dipendente senza farlo materialmente lavorare, ma corrispondendogli comunque la retribuzione. Non rientrano nella mora del creditore i casi di interruzione del lavoro dovuti a oggettiva impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, riferibili sostanzialmente a cause di tipo tecnico, come la mancanza di elettricità o il guasto di un macchinario. La regola civilistica generale imporrebbe la sospensione del rapporto senza pagamento della retribuzione, ipotesi mitigata, seppur formalmente per i soli impiegati, dalla legge sull’impiego privato del 1924, per la quale “in caso di sospensione del lavoro per fatto dipendente dal principale, l’impiegato ha diritto alla retribuzione normale”. La materia è regolata in modo più incisivo della contrattazione collettiva, che pone a carico dell’imprenditore le soste di breve durata, imponendogli il pagamento della retribuzione entro un certo periodo di tempo (di solito 2 ore), cui può seguire la sospensione del rapporto con la “messa in libertà” non retribuita dei lavoratori. XXI. L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO 142. Le cause di estinzione del rapporto Il rapporto di lavoro si può estinguere in molti modi: a) per la scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato; b) per la morte del lavoratore, essendo la sua prestazione infungibile; di regola, invece, non incide sulle sorti del rapporto di lavoro la morte del datore, poiché l’impresa si trasferisce agli eredi, a meno che il rapporto non fosse legato strettamente e infungibilmente alla persona del datore; c) per risoluzione consensuale, e naturalmente, essendo in presenza di un rapporto squilibrato, va verificata la genuinità del consenso prestato dal lavoratore; d) per impossibilità sopravvenuta della prestazione e per forza maggiore; si suole distinguere tra ipotesi riguardanti l’impresa e riguardanti il lavoratore; per tali casi, col tempo la giurisprudenza ha quasi unanimemente escluso l’applicabilità delle regole civilistiche generali sull’impossibilita parziale e sull’impossibilità temporanea della prestazione, prevedendo l’applicabilità delle norme sulla giustificazione del licenziamento; e) per cause tassativamente previste dalla legge; f) per recesso unilaterale: è l’ipotesi di gran lunga più importante e merita perciò di essere approfondita. 143. Il recesso Il recesso configura un atto unilaterale con il quale la parte manifesta la propria volontà di porre fine al rapporto di lavoro, esercitando in tal modo un proprio diritto potestativo. Si tratta di un atto recettizio, sindacare la correttezza o addirittura la convenienza economica dell’operazione. In ogni caso, molta giurisprudenza chiede che il datore valuti sempre la possibilità di reimpiegare il dipendente, anche in un'altra posizione lavorativa di livello inferiore: il licenziamento economico deve essere considerato una sorta di extrema ratio. Secondo un orientamento fattosi strada successivamente, nel giustificato motivo oggettivo rientrano anche alcune vicende relative al lavoratore, che comunque comportino un oggettivo impedimento al regolare funzionamento dell’attività aziendale. Sono i casi, ad esempio, della carcerazione del lavoratore o del ritiro della patente a un autista, che di per sé non integrerebbero né una giusta causa né un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Molto spesso i contratti collettivi propongono delle esemplificazioni, tipizzando un determinato fatto o comportamento alla stregua di una giusta causa o di un giustificato motivo. Si riteneva generalmente che questa tipizzazione non vincolasse in nessun modo il giudice. Sennonché sul punto è intervenuta una legge nel 2010, che ora impone al giudice di “tener conto” (conservando comunque un margine di discrezionalità) delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo, contenute nei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi e nei contratti individuali stipulati con l’assistenza delle commissioni di certificazione. 146. La forma del licenziamento La legislazione di tutela in materia di licenziamento ha posto anche precisi vincoli formali, che costituiscono imprescindibile condizione di legittimità dell'atto. Le regole sulla forma del licenziamento sono poste dalla legge del 1966, rivista sul punto nel 2012. Innanzitutto, a pena di inefficacia, il licenziamento va intimato in forma scritta (anche whatsapp o SMS ha ammesso la recente giurisprudenza) e deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. Il vecchio testo, invece, disponeva che la motivazione dovesse essere fornita dal datore solo su espressa richiesta del lavoratore interessato. La nuova previsione serve a far conoscere immediatamente al lavoratore le ragioni del licenziamento, nonché a “cristallizzare” la motivazione per un eventuale ricorso proposto dal lavoratore. Il nuovo testo introdotto nel 2012, ha poi previsto ulteriori obblighi di natura procedurale per una corretta intimazione del licenziamento, diversificando i 2 casi del licenziamento economico e di quello disciplinare. Quanto al licenziamento disciplinare, si prevede che a tutti i licenziamenti intimati per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo vada applicata senz’altro la normativa prevista per le sanzioni disciplinari dall’art.7 st.lav., che prevede la pubblicizzazione di un codice disciplinare e il preventivo contradditorio tra le parti. Il licenziamento economico, intimato in unità produttiva con più di 15 dipendenti, va invece obbligatoriamente preceduto da una comunicazione che il datore deve effettuare in sede amministrativa, per poi partecipare a un tentativo di conciliazione; se questo fallisce, il datore può procedere al licenziamento; se invece ha esito positivo e prevede comunque la risoluzione del rapporto, il lavoratore licenziato gode dei benefici dell’assicurazione sociale per l’impiego e può essere affidato a un’agenzia di somministrazione. Sul punto è intervenuto il Jobs Act, con una tecnica che incontreremo più volte in materia di licenziamenti: la nuova disciplina non abroga quella precedente, ma si sovrappone, poiché si applica ai soli rapporti di lavoro instaurati dopo la sua entrata in vigore (7 marzo 2015), mentre la precedente disciplina continua ad applicarsi a tutti i rapporti già in essere in quella data. Per quanto riguarda il tema degli obblighi procedurali del datore, il Jobs Act ha esplicitamente abrogato quello relativo al licenziamento economico. 147. L’impugnazione del licenziamento Il lavoratore che intenda contestare il suo licenziamento deve impugnarlo entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione scritta. Per l’impugnazione è sufficiente un qualsiasi atto scritto. La giurisprudenza ammette che l’impugnazione possa essere fatta anche dal sindacato (in ogni caso) o dall’avvocato del lavoratore (solo se munito di procura). L’impugnazione perde di efficacia, rendendo definitivo il licenziamento, se entro il successivo termine di 180 giorni il lavoratore non presenta ricorso al giudice o non richiede una conciliazione. Evidentemente, l’impugnazione del licenziamento intimato in forma orale non è soggetta ad alcun termine di decadenza. Quanto alla fase processuale, nel 2012 è stato introdotto un nuovo modello dedicato alle controversie in materia di licenziamento, subito battezzato “rito Fornero”, improntato all'inserimento di tali giudizi in una più celere corsia preferenziale: si prevede, sul modello dell’articolo 28 st.lav, una prima fase a cognizione sommaria che termina con un ordinanza, e una seconda fase, eventuale, a cognizione piena che termina con una sentenza. Comunque il Jobs Act ha stabilito che questo rito non si applica a contratti di lavoro instaurati a partire dal 7 marzo 2015. L'onere della prova della sussistenza del giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro. Si opera un trattamento di favore nei confronti del lavoratore, ribaltando la classica regola processuale per cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova della giustezza della sua rivendicazione. Il lavoratore dovrà dimostrare solo l’esistenza del licenziamento e toccherà al datore provare la sussistenza del motivo su cui questo è fondato. Esiste un’eccezione nella quale l’onere della prova tocca al lavoratore ricorrente, è il caso di licenziamento discriminatorio. 148. Il licenziamento discriminatorio La fattispecie del licenziamento discriminatorio era prevista già nel 1966, e poi rivista nel 1990. La prima norma alludeva al licenziamento comminato sostanzialmente “per rappresaglia” in relazione a motivazioni ideologiche (politiche, sindacali, religiose). La norma successiva ha esteso l’ambito di operatività del divieto, aggiungendovi le discriminazioni razziali, di lingua, di handicap, di età, di sesso, di orientamento sessuale. La tutela contro questo tipo di licenziamento si estende anche ai dirigenti, che invece sono per il resto ancora licenziabili liberamente, senza motivo. Il licenziamento discriminatorio è nullo a prescindere dalla motivazione. È necessario andare quindi alla ricerca del motivo reale su cui si basa la decisione del datore, che risulterà formalmente mascherata da giusta causa o giustificato motivo. Nel caso in cui IL lavoratore lamenti la discriminatorietà del licenziamento, dovrà essere lui a darne prova; lo potrà fare anche semplicemente allegando argomenti dai quali sia possibile presumere statisticamente la sussistenza di un motivo discriminatorio. Le ipotesi di licenziamento discriminatorio, essendo tipizzate, sono da ritenersi tassative. Comunque, la giurisprudenza ha elaborato la contigua categoria del licenziamento determinato da motivo illecito, sanzionandolo con la nullità (ritorsione a un lavoratore che ha denunciato il datore). Parimenti nullo sarà il licenziamento in frode alla legge, diretto cioè a eludere l’applicazione di una norma imperativa. 149. La tutela obbligatoria Occorre ora affrontare il tema delle conseguenze riconnesse al licenziamento che devii rispetto al modello del licenziamento legittimo. Si tratta di un tema sul quale il legislatore si è ritenuto in dovere di intervenire spesso, con soluzioni di tenore anche molto diverso. È opportuno adottare una chiave di lettura storica, inquadrando l’evoluzione degli istituti posti a tutela del lavoratore colpito dal licenziamento illegittimo. La legge del 1966 individuava 3 gradazioni di invalidità ai possibili vizi del licenziamento, che veniva qualificato: a) nullo, se discriminatorio; b) annullabile, se carente di giustificazione; c) inefficiente, se carente dei requisiti di forma. Va precisato che il legislatore ha usato queste categorie in senso diverso rispetto alle omonime categorie del diritto privato. Mentre il licenziamento nullo e quello inefficace comportavano la stessa conseguenza, cioè quella di non produrre alcun effetto, la legge del 1966 intervenne sulle sanzioni da comminare al licenziamento annullato perché ritenuto privo di giusta causa o giustificato motivo: venne previsto un tipo di tutela obbligatoria, nel senso che il datore di lavoro era posto davanti a un’obbligazione alternativa: riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato oppure pagargli una somma di denaro (da 5 a 12 mensilità dell’ultima retribuzione) a titolo di risarcimento del danno, con piena libertà di risolvere comunque il rapporto. In questa ipotesi il licenziamento veniva semplicemente “monetizzato”. Il datore, se voleva comunque liberarsi di un dipendente pur senza avere una motivazione plausibile, poteva in ogni caso intimare un licenziamento sorretto da una fasulla giusta causa o giustificato motivo, che una volta annullato dal giudice, gli avrebbe consentito comunque di allontanarlo semplicemente pagandogli il risarcimento del danno. In una parola, il licenziamento libero da gratuito era diventato a pagamento. Nel sistema della tutela obbligatoria, il licenziamento, pur dichiarato illegittimo, costituiva comunque un atto di per sé idoneo risolvere il rapporto, al punto che nel caso in cui datore avesse scelto di riassumere il dipendente, si riteneva iniziasse un rapporto di lavoro nuovo e diverso dal precedente. 150. La tutela reale Una svolta in materia fu prodotta nel 1970, dall’articolo 18 st.lav., il quale, innanzitutto, unificò gli effetti delle 3 tipologie di licenziamento illegittimo create dalla legge del 1966: sia il licenziamento nullo, sia quello annullabile, sia quello inefficace, producevano la stessa conseguenza e cioè l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare il dipendente nella posizione occupata e di risarcirgli i danni. Si realizzava una tutela reale del posto di lavoro; il datore non poteva più scegliere di monetizzare il licenziamento illegittimo, il quale, nel sistema di tutela reale, non era idoneo a interrompere il rapporto di lavoro, che dal punto di vista giuridico continuava idealmente anche nel periodo intercorrente tra l'intimazione del licenziamento e la sentenza che ordinava la reintegrazione. Il datore era tenuto, più che a un risarcimento dei danni, a restituire al lavoratore tutte le retribuzioni perdute tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione, comunque in misura non inferiore a 5 mensilità (una sorta di penale). In ogni caso, un intoppo all’effettiva reintegrazione del lavoratore poteva venire dalla giuridica impossibilità di ottenere un’esecuzione in forma specifica del relativo ordine. Le regole civilistiche generali affermano che gli obblighi “di fare” non sono coercibili e perciò il datore ben poteva decidere di non reintegrare materialmente il lavoratore, pur continuando a pagargli regolarmente la retribuzione. 151. Il coordinamento delle tutele Gli effetti dei 2 tipi di tutela finora descritti non si applicavano a tutti i licenziamenti, ma tenevano conto delle dimensioni dell’impresa: la tutela obbligatoria del 1966 operava infatti per i datori di lavoro con più di 35 dipendenti, mentre la tutela reale dell’articolo 18 per le unità produttive con più di 15 dipendenti. Nelle aree non coperte vigeva ancora la regola del licenziamento libero. L'esistenza di tutele differenziate a seconda delle dimensioni dell'impresa, venne giudicata legittima dalla Corte, sia per il maggiore tasso di fiduciarietà ritenuto insito nelle aziende più piccole, sia per non gravare queste ultime di costi eccessivi. La sussistenza di limiti disomogenei tra le 2 fonti creò numerose incertezze interpretative, finché non intervenne una legge nel 1990, che faceva chiarezza nel sistema distinguendo nettamente 3 fasce: 1) Il sistema della tutela reale si applicava nella “medio-grande impresa”, cioè quella che soddisfacesse almeno uno dei seguenti requisiti dimensionali: a) occupare in “ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto” più di 15 dipendenti (5 per le imprese agricole); b) occupare nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 per le imprese agricole) anche se ciascun unità produttiva singolarmente non raggiungeva tale limite; c) occupare complessivamente più di 60 dipendenti sul territorio nazionale. La legge introduceva anche la possibilità per il lavoratore di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione al lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, fermo restando il suo diritto al risarcimento dei danni. Si trattava di un diritto potestativo che non necessitava del consenso del datore. 2) Il sistema della tutela XXII. LA PERDITA DEL LAVORO 154. Il mercato del lavoro e le “politiche passive” La perdita del posto di lavoro può non riguardare soltanto un lavoratore, ma una collettività, nel caso in cui il datore di lavoro decida di effettuare operazioni che portino a ridimensionamenti, tagli, ricollocazioni, e con evidenti forti conseguenze che interessano un numero, spesso cospicuo, di lavoratori e di famiglie. Trattandosi di vicende che molto spesso travalicano l’ambito della sola azienda interessata, l’interesse dell’ordinamento statale è stato attratto dalla regolazione degli strumenti di tutela collettiva del posto di lavoro; in una parola, dall’intervenire nel “mercato del lavoro”. Si tratta un po’ dell’altra faccia delle “politiche attive” del mercato del lavoro, quelle che puntano a favorire il meccanismo dell’incontro tra domanda e offerta, stimolando gli imprenditori ad assumere attraverso meccanismi di incentivazione. Qui entrano in gioco quelle che non a caso sono definite le “politiche passive”, volte cioè ad attribuire gli effetti della crisi, a regolare le strategie di mercato imprenditoriali, a governare la disoccupazione. Queste politiche possono essere raggruppate in sequenza cronologica in 3 grande filoni a seconda che si tratta interventi diretti: a) a sostegno del reddito dei dipendenti colpiti da contrazioni del lavoro; b) a disciplinare le modalità di espulsione “collettiva” dal lavoro; c) ad attutire gli effetti negativi della disoccupazione. 155. Il sostegno del reddito e la cassa integrazione guadagni Nel 1941 la contrattazione collettiva diede vita ha un istituto chiamato cassa integrazione guadagni (cig), destinato a garantire il reddito degli operai delle imprese industriali impossibilitati a lavorare a causa di eventi bellici. Trattandosi di un caso di impossibilità sopravvenuta, il datore di lavoro sarebbe stato liberato dall’obbligazione di corrispondere le retribuzioni. Il sistema, che prevedeva appunto un’integrazione dei guadagni degli operai, venne recepito in legge subito dopo la fine della guerra: si garantiva una percentuale della retribuzione, versata dall’Inps, agli operai industriali sospesi o messi a orario ridotto a casa di involontarie e brevi interruzioni dell’attività lavorativa. Fino agli anni Sessanta, la cig assolse, quindi, la funzione di garantire il reddito dei dipendenti in caso di impossibilità non imputabile alla prestazione, civilisticamente intesa. I presupposti dell’intervento erano sostanzialmente 2: la sussistenza di una crisi congiunturale dell’impresa, e la stipula di un accordo sindacale, che “certificasse” l’esigenza e distribuisse i disagi. Proprio una certezza della ripresa costituiva l’elemento centrale della cig, finanziato dalle stesse imprese che ne avrebbero potuto beneficiare. Col passare del tempo, la cig inizio a rivestire anche l’altra funzione di della crisi, attutendone le prevedibile conseguenze sociali mediante aiuti alle imprese, volti a scongiurare licenziamenti di massa. Già una legge del 1968 e una del 1972 previdero un nuovo tipo di intervento della cig, chiamato “straordinario”, in quanto la ripresa dell’attività poteva anche essere programmata e lunga; anzi, poteva anche non avere un esito certo: si trattava di crisi non più transitorie, ma strutturali. Quest’intervento, a differenza del tempo “ordinario”, talvolta necessitava del finanziamento statale, per cui l'onere del suo finanziamento passava alla gestione pubblica. La cigs mutò quasi definitivamente la funzione originaria dell’istituto: da un lato portò a estendere l’intervento praticamente ad ogni caso di difficoltà dell’impresa; dall’altro lato, le continue proroghe dell’intervento favorirono situazioni di sostanziale abuso, con aziende che sfruttarono la cigs anche per più di 10 anni. In sostanza, la cigs diventò per le imprese lo strumento per scaricare la crisi sulla collettività. Un intervento razionalizzatore fu offerto da una legge del 1991, che rivide sia l'intervento ordinario sia soprattutto quello straordinario cercando di riportarlo all'uso originario. Ma la razionalizzazione si perse subito in un mare di provvedimenti, spesso ad hoc e “in deroga”. Il riordino complessivo dell’istituto è intervenuto dapprima con una legge del 2012 e poi il JOBS ACT che ha sostanzialmente abrogato la legislazione previgente. 156. Cassa integrazione ordinaria e straordinaria Nel sistema del sostegno del reddito, la casa integrazione ordinaria rappresenta, un intervento “minimale”, mirato a risolvere crisi temporanee, di presumibile breve durata. L’evento non deve rientrare nella sfera della volontarietà, cioè deve essere imprevedibile e non risultare legato ad un programma aziendale. Per la legge le “cause integrabili”, quelle cioè che legittimano il ricorso alla cigo, sono: a) situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili né all’impresa né ai dipendenti; b) situazioni temporanee di mercato. L’intervento della cigo, ha una durata massima di 13 settimane continuative, prorogabile trimestralmente fino a un massimo complessivo di 52 settimane. Per accedere all’intervento, il datore deve innanzitutto comunicare alla rsa o rsu e al sindacato rappresentativo la sua intenzione di procedere a una sospensione o riduzione di orario, indicandone la prevedibile durata e numero dei lavoratori interessati; nei casi più rilevanti, il sindacato può richiedere un esame congiunto della situazione. Solo dopo il datore può presentare domanda alla sede territoriale dell'Inps, che la valuta e, nel caso, la mette al finanziamento. La cassa integrazione straordinaria col tempo è diventata un vero e proprio strumento di politica economica e di sostegno alle imprese, perché legata strettamente alle gestione delle crisi strutturali. La legge prevede che si possa accedere alla cigs nei casi di: a) riorganizzazione aziendale; b) crisi aziendale, escluse le ipotesi di cessazione dell’azienda o di un suo ramo; c) contratto di solidarietà. Quest'ultimo è un contratto collettivo aziendale che ripartisce tra i dipendenti le riduzioni dell’orario di lavoro, al fine di riassorbire le eccedenze di personale, evitando quindi, i licenziamenti. L’intervento della cigs è limitato in via generale alle sole imprese industriali con più di 15 dipendenti, ma sono previste numerosi estensioni. La durata è fissata in 24 mesi anche continuativi, in un quinquennio se la causale è la riorganizzazione aziendale o il contratto di solidarietà, in 12 mesi, anche continuativi, se la causale è la crisi aziendale. La fase procedurale è simile a quella della cigo: comunicazione preventiva al sindacato ed eventuale esame congiunto del “programma” predisposto dall’impresa. Dopo la domanda può essere presentata al Ministero del lavoro e all’Ispettorato territoriale del lavoro competente. Regole comuni a cigo e cigs sono previste riguardo agli aventi diritto all’integrazione: i lavoratori subordinati, esclusi dirigenti lavoratori a domicilio, con un’anzianità di servizio di almeno 90 giorni; la misura del integrazione è fissata all’ 80% della retribuzione spettante per le ore di lavoro non prestate. La legge non dispone nulla riguardo ai criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e all’eventuale modalità di rotazione tra di essi per distribuire il più possibile sacrifici. in ogni caso, la giurisprudenza ritiene che i criteri di scelta debbano essere razionali e obiettivi non discriminatori. Si provvede infine anche per i settori esclusi dall’ambito di operatività della cig. È ora prevista per questa realtà l'istituzione, attraverso la contrattazione collettiva, di fondi di solidarietà bilaterali aventi appunto la finalità di assicurare ai lavoratori di queste imprese “una tutela in costanza di rapporto di lavoro” nei casi di riduzione a sospensione dell'attività lavorativa. Per il caso di inerzia della contrattazione collettiva, soccorre un fondo di integrazione salariale istituto presso l’inps a cui possono attingere le imprese escluse. 157. I rapporti tra licenziamenti collettivi e cassa integrazione Sia nell’ipotesi in cui la cig abbia terminato di operare senza la ripresa, della normale attività d’impresa, sia nell’ipotesi in cui autonomamente l’imprenditore abbia deciso di procedere a licenziare un certo numero di lavoratori, l’ordinamento interviene a dettare regole che assicurino un’uscita guidata dal mercato del lavoro. La complessità degli interessi coinvolti in tali strategie datoriali, ha fatto si che la materia dei licenziamenti collettivi attraversasse una lunghissima fase nella quale sua unica regolamentazione è stata affidata alla contrattazione collettiva, per l'esplicita scelta del legislatore di non occuparsi del tema. Due accordi interconfederali del 1950 è del 1965, posero al datore di lavoro che volesse procedere a riduzioni del personale di un paio di limiti procedurali, cioè il dovere di instaurare col sindacato una procedura conciliativa e quello di procedere all’eventuale licenziamento dei lavoratori nel rispetto di alcuni specifici criteri di scelta. Il sistema “sindacale” del licenziamento collettivo funzionò anche dopo che una legge del 1966 pose dei limiti giustificativi a tale libertà. Il dibattito si accese solo a proposito della destinazione tra un licenziamento collettivo e una pluralità di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. Dopo 2 condanne inflitte dalla Corte di giustizia europea il legislatore si vide costretto a intervenire con la già più volte citata legge del 1991, ancora oggi in vigore. Questa prevede 2 possibilità di licenziamento collettivo: a) quello “in mobilità”, che opera quando l’impresa, durante il godimento della cigs, <<ritiene di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative>>; b) quello “per riduzione di personale”, nel quale l’impresa agisce direttamente, senza che i licenziamenti siano preceduti da un periodo di cigs. Entrambe le strade portano al licenziamento dei lavoratori ritenuti in esubero, ed entrambe possono essere percorse separatamente e autonomamente. 158. La disciplina dei licenziamenti collettivi Per avviare un licenziamento “per riduzione di personale”, la legge del 1991 richiede la compresenza di alcuni requisiti di vario tipo: a) che l’impresa occupi più di 15 dipendenti, un decreto legislativo del 2004 estende poi le disposizioni sui licenziamenti collettivi anche ai datori di lavoro non imprenditori; b) che, nell'arco di 120 giorni, essa intenda licenziare almeno 5 dipendenti in ciascuna unità produttiva; c) che la causa dell'operazione sia “conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”; si tratta di una specificazione delle ragioni che legittimano il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo; le differenze tra le 2 fattispecie risiedono non tanto in una diversità ontologica, quanto nel semplice requisito numerico e temporale; d) che tale intenzione sia manifestata preventivamente in forma scritta alle RSA o RSU e alle rispettive associazioni di categoria oppure, in mancanza di RSA o RSU, alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La procedura da osservare è la stessa sia per il licenziamento collettivo “in mobilità”, che per quello “per riduzione di personale”; nel primo caso, però, non è necessario che l’intenzione di licenziare riguardi almeno cinque lavoratori. Innanzitutto l’imprenditore deve inviare una comunicazione scritta ai sopra ricordati organismi sindacali, nella quale vanno indicati i motivi della scelta di riduzione del personale; i profili professionali del personale in eccedenza e di quello normalmente impiegato; i tempi di attuazione il programma. Il sindacato può chiamare il datore di lavoro a un esame congiunto della situazione, con l'obiettivo di scongiurare l’esubero o ridurre il numero dei licenziamenti. In caso di esito negativo dell’ esame congiunto, l’Ispettorato del lavoro territorialmente competente o il Ministero del lavoro (ambito multiregionale) darà corso ad un ulteriore tentativo di conciliazione amministrativa. La procedura ha un costo anche diretto per il datore di lavoro, che è tenuto a versare all’Inps una determinata somma per ogni lavoratore che intende licenziare. Se fra le parti non interviene un accordo, nella fase dell’esame congiunto o in sede amministrativa, l'importo di tale contributo è triplicato. Una volta conclusa l’intera procedura, che per legge non dovrebbe durare complessivamente più di 75 giorni, l’imprenditore individua i lavoratori colpiti dal provvedimento, servendosi dei criteri di scelta previsti dai contratti collettivi o dall’accordo sindacale eventualmente raggiunto. In mancanza, è tenuto a rispettare i criteri legali, che devono applicarsi “in concorso tra loro”: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive e organizzative. Oltre che l’ovvio divieto di criteri discriminatori, è previsto che non si possa licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale occupata nelle mansioni prese in considerazione. A ciascuno dei lavoratori interessati il licenziamento vieni intimato individualmente in forma scritta e con preavviso, senza necessità di motivazione. I nominativi dei licenziati devono essere comunicati ai sindacati e alla parte pubblica. Il lavoratore può impugnare il licenziamento nelle forme con i termini di decadenza previsti per i licenziamenti individuali. Il giudice non può sindacare il merito delle scelte datoriali, ma secondo un’opinione minoritaria, può accertare la sussistenza della causa invocata, il nesso di causalità tra questa e i singoli provvedimenti espulsi, rispetto alla procedura di mobilità e dei criteri di scelta dei lavoratori. Per la giurisprudenza maggioritaria, opererebbe una mera tutela procedurale, nel senso di riconoscere
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