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DIRITTO DEL LAVORO - 50227, Dispense di Diritto del Lavoro

Accurata dispensa degli appunti presi alle lezioni di Diritto del Lavoro. Per gli argomenti trattati si consulti l'indice.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 14/06/2023

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Scarica DIRITTO DEL LAVORO - 50227 e più Dispense in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 1 DIRITTO DEL LAVORO INTRODUZIONE _________________________________________________________________ 5 LE ORIGINI DEL SINDACATO _______________________________________________________ 6 L’AZIONE SINDACALE NEL PERIODO CORPORATIVO ____________________________________ 8 L’AVVENTO DELLA COSTITUZIONE __________________________________________________ 8 LIBERTA’ E ORGANIZZAZIONE SINDACALE ____________________________________________ 9 IL SISTEMA SINDACALE “DI FATTO” ________________________________________________ 10 IL SINDACATO COME ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA ______________________________ 10 IL RAPPORTO TRA SINDACATI E ISCRITTI ____________________________________________ 11 LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEI SINDACATI ______________________________________ 12 SINDACATI E UNIONE SINDACALE __________________________________________________ 12 IL CASO FIAT ___________________________________________________________________ 13 LA RAPPRESENTANZA IN AZIENDA _________________________________________________ 14 LO STATUTO DEI LAVORATORI ____________________________________________________ 14 LIBERTA’ SINDACALE A LIVELLO AZIENDALE __________________________________________ 15 ATTIVITA’ SINDACALE A LIVELLO AZIENDALE _________________________________________ 15 LE RSA ________________________________________________________________________ 16 I DIRITTI DELLE RSA _____________________________________________________________ 18 NATURA DEL CONTRATTO COLLETTIVO _____________________________________________ 19 CONTENUTO DEL CONTRATTO COLLETTIVO __________________________________________ 19 EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO _________________________________ 20 RAPPORTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO E CONTRATTO INDIVIDUALE ___________________ 21 RAPPORTO TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO ___________________________ 22 RAPPORTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO E LEGGE ___________________________________ 24 EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NEL TEMPO __________________________________ 24 LO SCIOPERO __________________________________________________________________ 24 IL DIRITTO DI SCIOPERO _________________________________________________________ 25 LA TITOLARITA’ DEL DIRITTO DI SCIOPERO __________________________________________ 26 I LIMITI E GLI EFFETTI DELLO SCIOPERO _____________________________________________ 26 LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI ______________________________________ 28 LE PRESTAZIONI MINIME INDISPENSABILI ___________________________________________ 29 LA COMMISSIONE DI GARANZIA ___________________________________________________ 29 Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 2 LA CONDOTTA ANTISINDACALE ___________________________________________________ 30 LA PLURIOFFENSIVITA’ DELLA CONDOTTA E LA SUA REPRESSIONE _______________________ 31 IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO ___________________________________________ 32 IL PROBLEMA DELLA QUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO ________________________________ 33 IL METODO SUSSUNTIVO ________________________________________________________ 33 IL METODO TIPOLOGICO _________________________________________________________ 34 LE COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE __________________________________ 34 IL LAVORO A PROGETTO _________________________________________________________ 35 LE COLLABORAZIONI ETERORGANIZZATE ____________________________________________ 35 ETERODIREZIONE, ETERORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO _________________________ 36 IL LAVORO AUTONOMO _________________________________________________________ 37 TUTELA DEL LAVORO AUTONOMO NON IMPRENDITORIALE ____________________________ 38 LO SMART WORK _______________________________________________________________ 39 DISCIPLINA LEGALE E ACCORDO TRA LE PARTI ________________________________________ 39 IL CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE _____________________________________________ 41 LA DISCIPLINA _________________________________________________________________ 42 IL LAVORO INTERMITTENTE ______________________________________________________ 43 IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE _______________________________________ 44 LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO _______________________________________________ 45 LA DISCIPLINA _________________________________________________________________ 46 SOMMINISTRAZIONE E APPALTO __________________________________________________ 47 OBBLIGHI DEL PRESTATORE DI LAVORO E POTERI DEL DATORE DI LAVORO ________________ 48 POTERE DIRETTIVO E IUS VARIANDI ________________________________________________ 49 IL PARAMETRO DELL’EQUIVALENZA ________________________________________________ 49 LO IUS VARIANDI NEL JOBS ACT ___________________________________________________ 50 IL POTERE DI CONTROLLO DEL DATORE DI LAVORO ___________________________________ 53 I CONTROLLI A DISTANZA ________________________________________________________ 54 IL POTERE DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO ____________________________________ 56 LA PROCEDURA DISCIPLINARE ____________________________________________________ 57 EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI ____________ 58 LA DISCIPLINA DEL CODICE _______________________________________________________ 59 LE CONDIZIONI DI LEGITTIMITA’ DEL LICENZIAMENTO NELLA LEGGE 604/1966 _____________ 59 TIPOLOGIE DI LICENZIAMENTO E CONDIZIONI ________________________________________ 60 Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 5 INTRODUZIONE Il contratto di lavoro, inteso come il contratto di scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, è una acquisizione dogmatica tutto sommato recente, degli ultimi centovent’anni. Prima di allora non esisteva il lavoro (appunto l’oggetto del contratto di lavoro) come lo intendiamo oggi; il diritto del lavoro è a sua volta un fenomeno giuridico che nasce con la prima industrializzazione. L’uomo da sempre lavora, il lavoro è un’attività umana essenziale alla sopravvivenza in ciascuna società, e tendenzialmente ha sempre presupposto, oltre che una dimensione personale, una dimensione collaborativa per il sostentamento a livello interpersonale (familiare/comunitario). L’ordinamento giuridico inizia però ad interessarsi al lavoro, divenendo quest’ultimo oggetto di un contratto, solo quando muta la struttura organizzativa entro cui viene reso il lavoro stesso. Fino alla seconda metà dell’800 il lavoro era svolto secondo schemi di carattere puramente proprietario o, in alternativa, secondo un modello corporativo; in ogni caso questa impostazione era priva di qualsiasi logica di mercato. (Le corporazioni erano organizzazione che, sulla base di regole scritte o consuetudinarie, conservavano non solo la capacità, ma anche la prerogativa giuridica di esercitare un determinato mestiere; in un mondo corporativo non c’è un mercato del lavoro perché l’accesso alla corporazione è garantito da logiche illiberali, per es. il ceto di appartenenza). Fino alla rivoluzione industriale il concetto di lavoro si riduce all’attività dell’artigiano che completa in autonomia il proprio manufatto; è con l’avvento dell’industria che sorge la figura dell’imprenditore, come coordinatore e organizzatore di un lavoro parcellizzato, affinché ciascuno apporti un certo contributo in vista del risultato finale. Due sono i tratti che contraddistinguono il contratto di lavoro, rendendolo un tipo di contratto affatto peculiare, bisognoso di una sua disciplina: 1) Il contratto di lavoro ha carattere personale, poiché ha ad oggetto la prestazione di lavoro, un’attività umana non chiaramente distinguibile da chi la rende. In altre parole, il lavoro contempla un coinvolgimento diretto del lavoratore; il contratto di lavoro è sì un contratto di scambio, ma uno dei due termini prevede il coinvolgimento della persona umana. Il punto è: come può la persona essere oggetto di scambio? Come si può ammettere ciò in un ordinamento liberale e democratico? Dal punto di vista teorico la distinzione che salva è tra prestazione lavorativa e lavoratore, e questo si traduce dal punto di vista giuridico nella necessità di adottare uno strumento, il contratto, in grado di separare ciò che è oggetto da ciò che è soggetto. Infatti, il contratto deve avere un oggetto lecito, possibile, determinato o determinabile su cui si è formato il consenso, libero e uguale, delle parti. In questo, un elemento importante per separare oggetto da soggetto è il fattore tempo: l’attività lavorativa non può coincidere con l’intera attività svolta da una persona, il lavoro è necessariamente una parte, ancorché molto significativa, di una più ampia dimensione personale. Questa considerazione, che ci pare ovvia, è stata in realtà una conquista dei lavoratori. Nonostante gli argini imposti, anche in termini di durata, alla prestazione di lavoro, il coinvolgimento della persona è ineliminabile, restando una delle principali linee interpretative del contratto del lavoro, e riflettendosi inevitabilmente sulla sua disciplina. 2) Il contratto di lavoro presuppone, come ogni contratto, il libero consenso di tutte le parti; tuttavia, il fatto che si lavori per il sostentamento fa sì che il consenso del lavoratore sia meno libero. Detto altrimenti, una parte del contratto (il prestatore di lavoro) è più debole e ha un minor potere contrattuale perché l’offerta di lavoro è fisiologicamente e infinitamente più alta Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 6 della domanda di lavoro: il mercato del lavoro, anche se molto efficiente, è geneticamente afflitto da questo squilibrio contrattuale. (Come in tutti i contratti di scambio le parti sono portatrici di interessi opposti e confliggenti). La disparità del mercato si traduce nel diverso potere contrattuale delle parti dal momento che il datore di lavoro potrà sempre scegliere il lavoratore (e tendenzialmente lo farà rispetto al costo del lavoro) e, se noi immaginiamo un mercato del lavoro libero in cui lo scambio avviene alle sole condizioni di mercato, ci sarà sempre qualcuno disposto a lavorare a condizioni più deteriori (magari per noi inaccettabili). Due sono i correttivi di fronte alla debolezza contrattuale del prestatore di lavoro: - L’intervento normativo eteronomo del legislatore che detti norme imperative (cioè inderogabili dalle parti, altrimenti saremmo punto a capo). Il legislatore osserva che un contratto in cui il consenso di una delle parti sia così debole è problematico: lo squilibrio contrattuale espone il lavoratore ad accettare pessime proposte di lavoro e può ben tradursi in uno squilibrio anche nel corso del rapporto di lavoro. Per queste ragioni il legislatore è portato a diffidare dal consenso del lavoratore - La logica della coalizione: i lavoratori smettono di competere l’uno con l’altro, ma si coalizzano per negoziare assieme condizioni migliori. Questo secondo correttivo nasce dallo stesso mercato e storicamente è stato il primo; le prime forme di lavoro nascono proprio in seguito a fenomeni di coalizione, da cui si svilupperanno i moderni sindacati. Questi correttivi è importante tenerli separati: nel primo caso la fonte è costituita da norme di legge aventi per lo più carattere inderogabile, nel secondo caso la fonte è negoziale, si tratta di un contratto collettivo siglato tra rappresentanti dei lavoratori (i sindacati) e quelli dei datori di lavoro (le associazioni datoriali), un contratto pur sempre di diritto privato (o di c.d. diritto comune), ma che ha una funzione normativa, perché si preoccupa di definire le clausole di un altro contratto (quello individuale di lavoro). (Problematica è la doppia anima privatistica-pubblicistica dei contratti collettivi di lavoro). Spesso però queste due fonti comunicano: sovente il legislatore affida proprio alla contrattazione collettiva (quella qualificata dalla maggior rappresentatività delle parti stipulanti) la definizione delle norme che regolano il rapporto di lavoro (c.d. contrattazione delegata, diffusasi a partire dagli anni ’70). Il nostro corso si divide in due parti: lo studio del diritto sindacale, e lo studio del contratto di lavoro subordinato (reso alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore). N.B. Il diritto del lavoro si occupa certamente di tutelare il lavoratore, ma non dimentichiamo che si preoccupa di garantire anche il datore di lavoro. LE ORIGINI DEL SINDACATO Nel nostro paese la rivoluzione industriale è arrivata piuttosto tardi, all’incirca l’ultimo quarto del XIX secolo. Con essa si è avuto un graduale passaggio da un’economia prevalentemente agricola ad una industrializzata con conseguente spostamento di massa dalle campagne alle città. L’industria è un fenomeno nuovo consistente in un’organizzazione sociale in cui un soggetto può dirsi proprietario di mezzi di produzione e organizzare capitale e lavoro al fine di svolgere un’attività economica produttiva rivolta al profitto. La nascita delle prime industrie si è accompagnata, come si è visto, ad un nuovo concetto di lavoro. Posto che vi è sempre un fisiologico margine di ritardo del legislatore rispetto ai fenomeni naturali (socioeconomici), il legislatore di fine Ottocento e primo Novecento, della c.d. fase precorporativa Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 7 ha mostrato reticenza nell’intervenire a regolare un fenomeno così travolgente come l’industrializzazione, che ha modificato i paradigmi di organizzazione del lavoro. Ecco che il diritto del lavoro come lo conosciamo oggi non trova un terreno fertile nei principi dell’ordinamento liberale, che postulano l’uguaglianza formale e l’astensione dello stato dall’intervenire nei rapporti tra privati. In questo periodo ai rapporti di lavoro si applica la disciplina generale in materia di contratti, che si fonda sulla formale eguaglianza tra le parti del contratto, quand’anche il lavoro nell’industria dia prova di una evidente soggezione del lavoratore al datore di lavoro. Il legislatore preferisce restare in silenzio, si tratta di un silenzio che però fa molto rumore perché lascia di fatto privi di tutela i prestatori di lavoro (cfr. disuguaglianza sostanziale), ammettendo che il lavoro nell’industria si svolga in condizioni precarie, di insicurezza, sfruttamento e carenza di igiene. (Per assistere ai primi timidi interventi dobbiamo attendere per es. il 1894 quando venne limitato il lavoro minorile). Nell’inerzia del legislatore, la reazione proviene dal mercato. È la stessa logica di mercato che, per far fronte alla disuguaglianza funzionale tra datori e lavoratori, spinge spontaneamente i lavoratori alla coalizione: solo con un’azione collettiva la sostanziale debolezza economica e sociale di ciascuno di loro poteva essere superata. All’inizio dobbiamo immaginarci coalizioni disorganizzate e impacciate, ma è da queste prime esperienze che nascono i sindacati, come volontarie e libere associazioni di lavoratori alle quali è affidato il perseguimento del loro interesse collettivo. N.B. Da un punto di vista prettamente pratico, la nascita dei sindacati si spiega con l’avvento dell’industria perché in fabbrica i lavoratori vivono le stesse condizioni, dialogano e sono a strettissimo contatto (tanto è vero che negli ultimi tempi i sindacati sono progressivamente entrati in crisi, colpa anche dello smart working). Nel 1848 lo Statuto albertino ha soppresso le corporazioni nel Regno di Sardegna e, successivamente, lo stesso è avvenuto per il Regno d’Italia, nel 1864. Questa prima forma di liberalizzazione ha permesso la nascita di società operaie di mutuo soccorso, società formate dai lavoratori al fine di mettere insieme denaro e sostenersi a vicenda, assicurando sostegno economico e assistenza sanitaria ai soci nei momenti di difficoltà. È su questa scia, e grazie all’appoggio del partito dei lavoratori italiani (poi partito socialista italiano), che si formano le prime organizzazioni sindacali propriamente dette. Le neonate organizzazioni sindacali sono distinte per mestieri (sul modello delle corporazioni), cioè l’elemento aggregativo è il tipo di attività svolta dai lavoratori aderenti. Nel nostro sistema questa prima forma di aggregazione (c.d. sindacalismo per mestieri) si è però rivelata debole rispetto alla finalità di contrapposizione al datore di lavoro, e si è via via convertita in un diverso modello organizzativo che riunisce i lavoratori che, pur svolgendo attività differenti, operano un determinato settore o ramo d’industria (i.e. il settore economico produttivo in cui si svolge l’impresa). Il c.d. sindacato di categoria presenta infatti il vantaggio di riunire i lavoratori che hanno i medesimi interlocutori negoziali. Naturalmente, come contraltare dell’associazionismo sindacale si assiste anche al fenomeno dell’associazionismo datoriale, prendono cioè vita le prime associazioni dei datori di lavoro, con lo stesso scopo di riunire soggetti aventi interessi comuni e interagire con i sindacati. Con gli anni, i sindacati si riuniscono poi in confederazioni e federazioni, per rafforzare reciprocamente il proprio potere contrattuale. Oggi le maggiori sigle sindacali sono CGIL, CISL e UIL. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 10 svolgimento di un’attività di lavoro. È quindi la finalità sindacale (i.e. di tutela del lavoro e dei lavoratori) a qualificare un’organizzazione sindacale (sempre lecita per Costituzione) rispetto agli altri fenomeno associativi (che talvolta soffrono delle limitazioni). La definizione di organizzazione sindacale si completa, a contrario, grazie all’art. 17 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970), che vieta i c.d. sindacati di comodo (o sindacati gialli, associazioni sindacali costituite e sostenute dai datori di lavoro, portatrici di interessi opposti a quelli dei lavoratori); se ne ricava che sindacale è un’organizzazione che sia autenticamente tale, libera cioè da interferenze del datore di lavoro, che finirebbero per negare in radice il conflitto di interesse alla base dell’ordinamento liberale (e presupposto dell’ordinamento sindacale). Quale è l’efficacia soggettiva della libertà sindacale? Quali lavoratori ne sono titolari? Ovviamente la libertà sindacale spetta anzitutto ai lavoratori subordinati (per cui storicamente i sindacati sono nati). Invece, mentre la corte di giustizia dell’Unione Europea ha tradizionalmente escluso che i diritti collettivi in materia di lavoro possano riguardare i lavoratori autonomi, secondo l’interpretazione prevalente avvallata anche dalla Corte costituzionale, la libertà sindacale deve riconoscersi pure ai lavoratori autonomi e “parasubordinati”. I soli limiti soggettivi alla libertà sindacale riguardano militari e appartenenti alla Polizia di Stato, in ragione del fatto che si tratta dei soli corpi cui pertiene il monopolio della forza pubblica e che necessariamente non possono essere portatori di interessi propri distinti e opposti all’interesse pubblico. La Corte costituzionale nel 2018 ha però dichiarato l’illegittimità costituzionale di un divieto assoluto di associazionismo sindacale per le predette categorie, il risultato è una libertà sindacale limitata. IL SISTEMA SINDACALE “DI FATTO” La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (seconda parte) ha comportato due importanti conseguenze, oltre al fatto che nell’ordinamento italiano l’unica previsione normativa applicabile alla materia sindacale è l’art. 39, co. 1, Cost., in ragione della sua portata immediatamente precettiva. 1) Quanto al profilo soggettivo, visto che nessuna legge ordinaria disciplina le regole dell’azione e della rappresentanza sindacali, i soggetti dell’attività sindacale (i.e. i sindacati) sono organismi di diritto privato (che operano al pari di soggetti privati perseguendo i propri interessi privati, ancorché collettivi), e più esattamente sono associazioni private non riconosciute (ai sensi degli artt. 36 e ss. c.c.) 2) Quanto al profilo oggettivo, il sistema delle relazioni industriali non può che basarsi sulla disciplina generale dei contratti (sulle prassi, sul potere negoziale), che significa che oggetti dell’attività sindacale sono contratti collettivi di diritto comune (o privato), ancorché dotati di una funzione paranormativa (hanno natura ibrida: da un lato soggiacciono alle regole generali del c.c., dall’altro sono idonei a stabilire il contenuto di altri contratti conclusi tra i soggetti rappresentati dalle parti sociali). Insomma, il sistema sindacale in Italia è un sistema difficile che si regge su poche norme e tanti fatti. IL SINDACATO COME ASSOCIAZIONE NON RICONOSCIUTA Mancando una disciplina ad hoc, come si è detto, si applica il diritto comune, e i sindacati sono giuridicamente qualificabili come associazioni di diritto privato non riconosciute: enti che hanno una soggettività giuridica propria distinta da quella degli associati (che consente loro di essere titolari di Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 11 rapporti giuridici), ma che sono privi di personalità giuridica (intesa come autonomia patrimoniale perfetta). N.B. Nella straordinaria libertà assicurata dalla Costituzione non sono mancate e non mancano esperienze sindacali che non hanno forma associativa. Le regole essenziali dettate dal c.c. per le associazioni non riconosciute, valevoli dunque per i sindacati sono: - Gli accordi degli associati regolano l’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione - L’associazione può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali è conferita la presidenza o la direzione - L’associazione ha un fondo comune, costituito con i contributi degli associati e i beni acquisiti - Il fondo serve per rispondere delle obbligazioni dell’associazione, salva la responsabilità personale e solidale di coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (vs autonomia patrimoniale perfetta) La giurisprudenza ha talvolta esteso l’applicazione di alcune diposizioni previste per le associazioni riconosciute (atteggiamento che risente anche degli effetti dell’art. 39 Cost.), tra cui: a) Il diritto di recedere dall’associazione, che può sempre esercitarsi se non si è assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato b) L’esclusione dell’associato, che può essere deliberata dall’assemblea solo per gravi motivi IL RAPPORTO TRA SINDACATI E ISCRITTI Il rapporto tra sindacato e iscritti, ossia tra associazione e associati, è spiegato dalla teoria della rappresentanza volontaria: i lavoratori, tramite la libera adesione al sindacato, gli conferiscono un mandato con rappresentanza, in forza del quale il sindacato stesso rappresenta i propri iscritti e negozia il contratto collettivo. Alcune importanti considerazioni: - la volontà negoziale viene formata e manifestata da un soggetto, il sindacato, diverso da quello a cui sono imputabili gli effetti giuridici dell’atto, il lavoratore. In particolare, il sindacato stipula secondo una propria determinazione il contratto collettivo, i cui effetti sono però destinati a riversarsi sui contratti individuali di lavoro, imputabili ai singoli lavoratori. - il sindacato è qualcosa di più e di diverso dalla semplice sommatoria dei propri iscritti: il sindacato è portatore di un interesse di sintesi, irriducibile alla somma degli interessi dei singoli. Il meccanismo di rappresentanza/mandato (strumento che ci serve da un punto di vista descrittivo ma che non coglie la complessità del rapporto) risultante è affatto peculiare: il sindacato non è vincolato all’interesse degli iscritti (un po’ come avviene per la rappresentanza elettorale) e, a conferma di questo, l’art. 28 dello Statuto prevede un’ipotesi in cui il sindacato può stare in giudizio per tutelare un interesse proprio. Quanto detto si condensa nel dire che i sindacati sono titolari di un’autonomia negoziale collettiva. Per autonomia negoziale intendiamo l’autonomia privata, cioè la potestà riconosciuta dall’ordinamento in capo ai soggetti privati di regolare liberamente i propri interessi, disciplinando i propri rapporti giuridici. Soggetto privato è non solo il singolo individuo (portatore di un interesse individuale), ma anche un gruppo sociale portatore di un interesse collettivo (che, come si è detto, sintetizza e non somma gli interessi individuali). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 12 N.B. l’interesse collettivo è qualitativamente diverso dagli interessi individuali, ma è pur sempre un interesse privato. Il concetto di rappresentanza non coincide con quello di rappresentatività; cosa significa che CIGL CISL e UIL sono tradizionalmente i sindacati più rappresentativi? Il concetto di rappresentatività può andare molto oltre quello di rappresentanza, è un concetto pre- giuridico e sociologico con cui si indica la capacità di fatto di un certo soggetto di dare tutela e perseguire gli interessi di un certo gruppo, indipendentemente dal numero o dall’identità dei soggetti rappresentati. Insomma, un sindacato è molto rappresentativo se, in via di fatto, ha una forza ed un potere negoziale tali da muovere i lavoratori. Il concetto di rappresentatività ci interessa perché è divenuto giuridicamente rilevante, entrando nel lessico del legislatore in materia sindacale: nel tempo sono state introdotte disposizioni di legge che riconoscono diritti o prerogative ai sindacati maggiormente o comparativamente più rappresentativi. Il legislatore non ha però mai definito i parametri per l’accertamento della maggiore rappresentatività, le cui regole di misurazione hanno finito nel tempo per essere congiuntamente definite dalle parti sociali (le quali hanno anche imputato alla rappresentatività effetti ulteriori rispetto a quello previsti dalla legge). LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEI SINDACATI Originariamente i sindacati erano organizzati per mestiere, ma ben presto già agli inizi del ‘900, i sindacati hanno iniziato a organizzarsi sulla base della categoria (per le ragioni già menzionate). Ora, sia durante il corporativismo che a seguito della Costituzione, i sindacati hanno continuato ad essere essenzialmente sindacati di categoria, ma con una importante differenza: il fascismo ha soppresso i sindacati, costituendo una sola federazione corporativa per ciascuna categoria, la Costituzione ha riaffermato il pluralismo sindacale, e la categoria non è giuridicamente definita né rilevante ai fini dell’esercizio della libertà sindacale. Oggi. l’organizzazione per categoria non vincola dunque il sindacato (che può mutare nel tempo i contorni del settore di provenienza degli iscritti) e c’è spazio per l’esistenza di sindacati non di categoria. I modelli organizzativi sono diversi perché, assicurando la Costituzione ampissima libertà, ciascuna sigla sindacale è libera di organizzarsi come meglio crede. Certo è che le maggiori confederazioni sindacali (aggregazioni di sindacati) presentano una struttura organizzativa complessa, che si dispiega su due livelli: - struttura orizzontale: per settore (es. chimico, metalmeccanico, bancario, …) - struttura verticale: per livello (aziendale < territoriale < regionale < nazionale) SINDACATI E UNIONE SINDACALE Il legislatore costituente, fermo il pluralismo sindacale, aveva in mente sindacati che collaborassero, e anzi possiamo dire che quello immaginato con l’art. 39 fosse un modello cucito addosso alla CIGL unitaria. Sappiamo però che già dal 1948 l’unità sindacale tra le maggiori componenti è venuta meno con la formazione di tre grandi confederazioni sindacali e, da quel momento, la nostra storia è caratterizzata da periodi di forte unità e da altri di spaccature. Il punto di maggior frizione che ha portato alla prima rottura e giustifica anche gli attriti successivi, soprattutto tra CGIL e CISL è il tema dell’attuazione dell’art. 39 Cost. con una legge sulla rappresentanza sindacale e la regolazione delle relazioni industriali a diversi livelli di Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 15 LIBERTA’ SINDACALE A LIVELLO AZIENDALE Il secondo titolo si rivolge a tutti i lavoratori, per garantire loro (per la priva volta) l’esercizio dell’attività sindacale (es. proselitismo, volantinaggio, …) dentro l’azienda; ciò però non significa boicottaggio dell’attività d’impresa: l’attività sindacale non può compromettere l’attività lavorativa, non può cioè alterare le obbligazioni assunte con il contratto di lavoro (questo corollario ovvio deriva dalla disciplina generale sull’adempimento dell’obbligazione contrattuale). - L’art. 14 riconosce a tutti i lavoratori il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacali all’interno dei luoghi di lavoro. Come vedremo tra un attimo questa disposizione si contrappone da un punto di vista teorico all’art. 19 (che invece prevede un filtro sindacale e non si rivolge a tutti i lavoratori). - L’art. 15 dà supporto al precedente, vietando gli atti discriminatori, e in particolare sanziona con la nullità quei patti o atti diretti a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore all’adesione o meno ad un’associazione sindacale (vs clausole closed shop in UK) b) licenziare, o comunque discriminare un lavoratore recandogli pregiudizio, a causa della sua attività sindacale o della sua partecipazione ad uno sciopero. La norma aggiunge poi che la disposizione si applica anche ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali. N.B. il principio di non discriminazione non equivale al principio di parità di trattamento (che invece da noi non è imposto, lo è per es. negli USA). Nel nostro ordinamento è forte la prospettiva del contratto di lavoro come contratto individuale, non paragonabile con quello altrui, ciò che è vietato è assumere determinazioni discriminatorie, e discriminatoria è la diversità di trattamento quando si basa su una delle tassative ragioni elencate. - L’art. 16 completa il precedente, vietando i trattamenti economici collettivi discriminatori, cioè la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio ai sensi del precedente articolo. (Quini la discriminazione non può aversi né in senso peggiorativo, né in senso migliorativo). - L’art. 17 infine vieta i c.d. sindacati di comodo (se infatti consentissimo ai datori di lavoro di costituire o sostenere associazioni sindacali verrebbe meno l’alterità di interessi, di questo abbiamo già parlato come definizione in negativo di sindacato). - L’art. 18 lo studieremo in altre sedi. ATTIVITA’ SINDACALE A LIVELLO AZIENDALE Il terzo titolo si spinge oltre. Se con il precedente il legislatore ha garantito la libertà sindacale in azienda, qui il legislatore riconosce diritti altri e ulteriori solo ad alcuni rappresentanti sindacali aziendali o RSA (che soddisfino i criteri di cui all’art. 19). La protezione accordata dallo Statuto si articola su due livelli: mentre il titolo II assicura un primo livello di tutela, comune a tutte le organizzazioni sindacali, garantendo a tutti i lavoratori la libertà di associazione e di azione sindacale in azienda; il titolo III assicura un secondo livello di tutela, per i soli sindacati selezionati, garantendo diritti e tutele alle RSA. La diversa estensione si spiega alla luce del fatto che i diritti di cui al titolo III (che poi elenchiamo) incidono anche sulla posizione del Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 16 datore di lavoro, comportano per lui un gravame e richiedono da parte sua un comportamento attivo, e non solo di tolleranza. Per questa ragione, tali diritti non possono essere riconosciuti a tutti i rappresentanti sindacali (per assurdo altrimenti basterebbe che un lavoratore ne rappresentasse una altro), occorre che il legislatore rivolga la sua politica promozionale a rappresentanze sindacali qualificate. Il legislatore dello Statuto ha scelto di promuovere una rappresentanza aziendale collegata al sindacato esterno, piuttosto che affidare la rappresentanza a coalizioni spontanee (quali le commissioni interne e i consigli di fabbrica) scelte dai lavoratori e poste al di fuori di qualsiasi collegamento con i sindacati. N.B. Il terzo titolo dello Statuto dei lavoratori si applica soltanto alle imprese (e rispettive unità produttive) con più di 15 dipendenti. (Spesso il numero dei dipendenti in materia lavoristica gioca un ruolo centrale nel selezionare la normativa applicabile). LE RSA - L’art. 19 fissa i criteri per la costituzione ad iniziativa dei lavoratori e in ogni unità produttiva delle rappresentanze sindacali aziendali. Questa norma ha avuto una storia travagliatissima: dalla sua prima formulazione è stato più e più volte attenzionato dalla Corte costituzionale che lo ha giudicato sempre conforme a Costituzione fino al 2013 (a seguito della mutazione di fatto seguita al caso FIAT), nel mentre la formulazione si è modificata nel 1995 ad opera di un referendum abrogativo. L’art. 19 sostanzialmente cerca di tradurre il concetto di fondo della rappresentatività, per selezionare i soggetti a cui riconoscere i diritti di cui agli artt. seguenti. La primissima formulazione del 1970 indica due criteri alternativi e concorrenti, prevedendo che le RSA possono essere costituite (ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva) nell’ambito di: a) Associazioni aderenti alle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale (in sostanza, il legislatore aveva in mente CGIL, CISL e UIL, e vuole qui garantire ai sindacati istituzionali più forti e consolidati una rappresentanza aziendale). b) Associazioni sindacali firmatarie di un contratto collettivo di lavoro a livello nazionale o territoriale (attenzione, non a livello aziendale) applicati nell’unità produttiva (questo può essere indice di rappresentatività perché significa che qualcuno ha preso l’associazione in considerazione come controparte, e l’interesse a fare questo non ci sarebbe in assenza di rappresentatività) Questa norma è più volte oggetto di un controllo di costituzionalità, dietro la principale censura di violare il principio di uguaglianza (art. 3) e la libertà sindacale (art. 39), favorendo una rappresentanza aziendale che fosse solo espressione di sindacati e di quei sindacati più forti (in altri termini, che ne è del pluralismo sindacale se il sistema si autoalimenta rafforzando chi già è maggiormente rappresentativo?) La Corte costituzionale, prima nel 1974, e poi nel 1988 e 1990, ha sempre confermato la legittimità costituzionale, affermando che non si tratta di una disposizione che discrimina qualcuno, ma semplicemente che promuove qualcun altro. E il diverso trattamento si giustifica in considerazione del fatto che serve fare selezione, altrimenti si avrebbe un aggravio inaccettabile della posizione del datore (in contrasto con l’art. 41 Cost.). Per la Corte, il criterio della rappresentatività sembra un buon criterio, perché è destinato a adeguarsi alla realtà, è un criterio mobile: niente vieta di guadagnarsi Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 17 una maggiore rappresentatività. La Corte aggiunge poi che il secondo criterio allude ad un fatto ben preciso, la cui realizzazione è aperta ad ogni singola associazione sindacale. Il referendum abrogativo del 1995, con l’obiettivo di alterare gli equilibri delle confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, abroga interamente la lettera a ed elide dalla lettera b le parole “nazionali o territoriali”, con il risultato che le RSA possono costituirsi nell’ambito delle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi di lavoro (a livello non meglio specificato) applicati nell’unità produttiva. Resta un unico criterio: è sufficiente l’aver concluso un contratto collettivo di lavoro (applicabile all’unità produttiva), di qualsiasi livello, pure aziendale. (La Corte costituzionale ha poi precisato che deve però trattarsi di una partecipazione attiva e non di una mera adesione formale al contratto, e che questo deve regolare in modo organico i rapporti di lavoro, non soltanto alcuni suoi aspetti). Anche avverso questa versione viene sollevata questione di legittimità costituzionale, lamentando che la sopravvivenza di quell’unico criterio di selezione di fatto concede un potere di accreditamento al datore di lavoro (che naturalmente sceglie con chi contrattare). Nel 1996 la Corte rigetta la questione facendo leva, ancora una volta, sul concetto di rappresentatività. Infatti, parlare di potere di accreditamento del datore ha senso solo se si presuppone che la controparte sia priva di potere contrattuale, ma così non è. Il problema dell’accreditamento è solo apparente perché il fatto di aver firmato un contratto collettivo è sintomatico di rappresentatività, solo se la controparte è rappresentativa il datore di lavoro ha interesse a negoziare; c’è una stretta correlazione tra la convenienza del datore di lavoro e la rappresentatività del sindacato. Solo nel 2013 la Corte costituzionale arriva a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, lett. b, nella parte in cui non prevede che la RSA possa costituirsi anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non essendo firmatarie, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda (sentenza additiva). Ora, ferma la formulazione dell’art. 19 e dei parametri, gli artt. 3 e 39 Cost., come mai una disposizione che era conforme nel 1996 è nel 2013 incostituzionale? La ragione sta nel cambiamento della realtà fattuale, e cioè del mutamento del sistema sindacale, di cui il caso FIAT è evidente prova. (N.B. la Costituzione va sempre letta alla luce dei mutamenti in via di fatto, questo vale soprattutto in un sistema così povero di norme, come la materia sindacale). Premettendo che tradizionalmente, nel nostro ordinamento le tre grandi confederazioni più rappresentative e forti hanno sempre firmato gli stessi contratti collettivi (unità sindacale), per reciproca convenienza degli stessi sindacati (che insieme sono più forti) e dei datori di lavoro (che più semplicemente applicano lo stesso contratto collettivo), la rottura segnata dal caso FIAT ha delle conseguenze che interessano l’art. 19. In particolare, ai sensi dell’art. 19 la CIGL perde il diritto ad una RSA in FIAT e le relative tutele e prerogative che ne discendono, e questo è problematico e contraddittorio se si considera che la CIGL era il sindacato più forte all’interno della FIAT (per l’elevato numero di iscritti, quasi i 2/3). La Corte costituzionale torna ad essere investita della questione dell’art. 19 perché, in ciascuna unità produttiva, CIGL fa causa a FIAT e i giudici chiamati a decidere le controversie si dividono, chi a favore di una lettura più formalistica della disposizione, chi a favore di un’interpretazione più logica. Come anticipato, la Corte opera un’integrazione (ferma la necessità di una selezione), quello della partecipazione alla negoziazione. Questo altro criterio ha senso perché la partecipazione alla negoziazione, forse più che la effettiva stipula, è indice di rappresentatività: essere ammessi alla negoziazione significa essere accettati e riconosciuti come rappresentativi dell’interlocutore. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 20 - Efficacia soggettiva: a quali lavoratori si applica il contratto collettivo? Rispetto a quali rapporti di lavoro il contratto collettivo svolge la sua funzione normativa? - Efficacia oggettiva: qual è il rapporto tra il contratto collettivo e le altre fonti? Con la legge? Con i contratti individuali? Con gli altri contratti collettivi? EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO Innanzitutto, in virtù del rapporto di rappresentanza tra sindacati/associazioni datoriali e lavoratori/datori aderenti, gli atti posti in essere dal rappresentante produrranno effetti nella sfera giuridica del rappresentato (eccezione alla normale efficacia inter-partes), e dunque il contratto collettivo si applicherà solo, in via di principio, ai soggetti iscritti al sindacato ed ai soggetti affiliati all’associazione datoriale. Questa è la regola, ma ci sono tutta una serie di eccezioni. - Primo e unico tentativo del legislatore di estendere l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi si è avuto con la legge Vigorelli nel 1959. Il legislatore era consapevole dell’assenza di una legge sulla rappresentanza attuativa dell’art. 39 Cost., ma voleva risolvere in via transitoria la questione dell’efficacia soggettiva; In effetti, estendendo l’efficacia soggettiva si sarebbe riusciti ad evitare la concorrenza al ribasso e a garantire una base minima di tutela (solo migliorabili dalle parti). La legge Vigorelli costituiva delega per il Governo a emanare decreti legislativi che recepissero i contratti collettivi (depositati dai sindacati presso il Ministero del Lavoro), così da ottenere sostanzialmente l’efficacia erga omnes. (Il sistema prevedeva che le parti avrebbero potuto applicare i nuovi contratti collettivi stipulati, solo se di maggior favore per i lavoratori, e che comunque il contratto collettivo elevato a legge perdesse la sua efficacia con l’attuazione dell’art. 39 Cost.). Quando il parlamento ha adottato una prima proroga di 10 mesi per consentire al Governo di emanare decreti legislativi di recepimento dei contratti collettivi medio tempore stipulati, è intervenuta la Corte costituzionale con una declaratoria di incostituzionalità poiché anche un solo rinnovo avrebbe eliminato l’elemento della transitorietà, elemento necessario a giustificare un meccanismo che altrimenti è diverso, e dunque viola, la procedura codificata nella seconda parte dell’art. 39 Cost. Da questo momento il legislatore si è rassegnato, senza una legge sulla rappresentanza sindacale, ed è intervenuta la giurisprudenza, con lo stesso intento di ampliare in modo più o meno creativo l’ambito di efficacia soggettiva della contrattazione collettiva. La giurisprudenza e la prassi delle parti hanno via via ammesso una serie di eccezioni alla regola dell’applicabilità ai soli iscritti, e la giurisprudenza si è mostrata sensibile all’esigenza di dare forza al contratto collettivo, pur non disconoscendone la natura privata ed i limiti posti dall’inattuazione della Costituzione. Possiamo individuare almeno quattro vie, attraverso cui il contratto collettivo finisce per applicarsi a soggetti che formalmente non aderiscono a organizzazioni sindacali/datoriali: 1) Il rinvio esplicito al contratto collettivo voluto dalle parti del contratto individuale (non iscritte a sindacati/associazioni datoriali) consente di affermare che l’accordo individuale ha recepito il contratto collettivo, e quindi il suo contenuto è così determinato per relationem. 2) Anche in assenza di una clausola di rinvio espressa, è possibile rilevare un rinvio implicito al contratto collettivo, e quindi applicarlo al rapporto, nel caso in cui le parti applichino un numero di clausole derivate dal contratto collettivo tale da accertate l’effettiva volontà di applicare il contratto collettivo nel suo complesso. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 21 3) In via di fatto poi, sovente il datore di lavoro (anche dietro pressione dell’associazione datoriale) dà spontanea applicazione al contratto collettivo ai lavoratori non iscritti al sindacato. L’interesse del datore di lavoro è quello di disincentivare l’iscrizione al sindacato. 4) Un’ultima strada percorribile nasce dal fatto che nel nostro ordinamento non esista una legge sul salario minimo, ma l’art. 36 Cost. prevede che il lavoratore abbia diritto ad una retribuzione proporzionata a qualità e quantità del suo lavoro (principio di proporzionalità), e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (principio di sufficienza). Se a questo si aggiunge che l’art. 2099 c.c. stabilisce che in mancanza dell’accordo tra le parti la retribuzione è determinata dal giudice ben si comprende che il giudice, chiamato a risolvere una controversia sulla retribuzione, per soddisfare l’art. 36 Cost. farà di fatto riferimento ai contratti collettivi di categoria, così estendendone la parte economica anche ai non iscritti. In altre parole, i minimi retributivi fissati dai contratti collettivi applicabili a quel settore saranno sostanzialmente il parametro assunto dal giudice per determinare la retribuzione proporzionale e sufficiente. (Il giudice non sarebbe certo tenuto a farlo, ma di fatto per giurisprudenza consolidata è questo che avviene, perché il contratto collettivo è un buon indicatore per il quantum della retribuzione). Una precisazione: l’art. 2070 c.c. stabilisce che ai fini dell’applicazione del contratto collettivo l’appartenenza alla categoria professionale si determina in base all’attività esercitata dal datore di lavoro; giurisprudenza e dottrina ritengono però che questa norma abbia una portata residuale (es. rinvio al contratto collettivo senza null’altro specificare, o giurisprudenza ex art. 36 Cost.) e non sia per forza applicabile ai contratti collettivi di diritto comune: il datore è libero di applicare o non applicare il contratto della categoria in cui opera, ovvero di applicarne altri. N.B. Oggi, il tasso di copertura dei contratti collettivi nel nostro paese è del 97%, eppure i tassi di iscrizione ai sindacati non sono mai stati così bassi (limitati per lo più a soli over 50 e pensionati). RAPPORTO TRA CONTRATTO COLLETTIVO E CONTRATTO INDIVIDUALE Questo problema non si poneva nel sistema corporativo, ma si pone in un sistema in cui il contratto collettivo è un contratto di diritto privato. E questa è una questione centrale perché da un lato non si vede come un contratto privato dovrebbe essere vincolato da un altro contratto pur sempre privato, dall’altro negare la funzione normativa della contrattazione collettiva significa far venir meno la ragion d’essere del sistema sindacale. L’art. 2077 c.c., disposizione che originariamente si riferiva al contratto corporativo, stabilisce che: i contratti individuali devono uniformarsi al contratto collettivo della categoria di riferimento (ovviamente qui stiamo ragionando con parti iscritte ai soggetti stipulanti) e che le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo modificazioni in melius. Ora, anche dopo l’avvento della Costituzione e nonostante il riferimento non possa farsi più al contratto corporativo, ma piuttosto ad un contratto collettivo a natura privata, la giurisprudenza granitica ha continuato fin da subito a sostenere l’applicabilità della norma. La ratio è quella di salvaguardare la funzione normativa del contratto collettivo, evitando di minare le fondamenta dell’ordinamento sindacale. N.B. In materia giuslavoristica il formante giurisprudenziale ha giocato e gioca tuttora un ruolo rilevantissimo. Questo orientamento giurisprudenziale è stato fortemente criticato da parte della dottrina in quanto il contratto collettivo, al pari del contratto individuale e di ogni altro contratto privato, soggiace alla Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 22 legge e non vi è formalmente alcun rapporto gerarchico tra contratto individuale e collettivo. Tuttavia, ammettere la possibilità che un contratto individuale di lavoro apporti una deroga in peius alle condizioni previste dal contratto collettivo svuoterebbe di senso la stessa azione sindacale. Con l’art. 2113 c.c., come modificato nel 1973 nell’ambito della riforma del processo del lavoro, il legislatore sembra avallare la giurisprudenza, confermando il carattere di inderogabilità del contratto collettivo (ancorché contratto di diritto comune). La norma infatti prevede l’invalidità (e conseguente annullabilità) delle rinunzie e le transazioni (intervenute durante o dopo il rapporto di lavoro) aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi. Come sovente capita, qui il legislatore non si fida della genuinità della volontà del lavoratore, ma a noi interessa che, ponendo sullo stesso piano la legge e i contratti collettivi, si sta affermando che il contratto collettivo è fonte di diritti tendenzialmente irrinunciabili. N.B. Attenzione, il carattere inderogabile del contratto collettivo (di cui agli artt. 2077 c.c. e 2113 c.c.) non va confuso con l’ambito di applicazione soggettiva del contratto stesso (su cui ci siamo già soffermati): è inderogabile il contratto collettivo solo quando applicabile al rapporto tra le parti (e cioè quando queste siano iscritte alle organizzazioni firmatarie, ovvero nelle altre eccezioni). RAPPORTO TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO Libertà sindacale significa pluralismo sindacale, e dunque pluralismo dei contratti collettivi non solo tra diversi sindacati, ma anche a diversi livelli. Guardando alla nostra storia osserviamo fasi di accentramento sindacale (soprattutto su impulso della CIGL) e altre di forte decentramento (soprattutto su impulso della CISL). Fino agli anni ‘50 la contrattazione collettiva si è giocata principalmente a livello nazionale, è a partire dagli anni ‘60 che si è fatta strada una contrattazione più articolata, con un’importanza crescente della contrattazione aziendale (e, più in generale, territoriale) spesso in antitesi alla contrattazione nazionale. La stagione delle lotte operarie nel biennio 1968-69 rappresenta il momento di massima tensione tra i due livelli. Negli anni ‘70 torna ad essere centrale la contrattazione a livello nazionale e dalla metà degli anni ‘80 la contrattazione collettiva riprende a tutti i livelli. Da un punto di vista giuridico la contrattazione a più livelli (specie se contraddittoria) pone il problema di chiarire quale sia il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, e in particolare quale livello debba prevalere. (Es. può il contratto aziendale derogare al contratto nazionale? Lo può fare anche in peius?) Formalmente non vi è alcun rapporto gerarchico, poiché sia il contratto nazionale che quello aziendale sono contratti di diritto comune e nessuna legge prevede la prevalenza dell’uno sull’altro (legge che comunque sarebbe quasi certamente incompatibile con il principio di libertà sindacale). La giurisprudenza consolidata ha escluso categoricamente qualsiasi rapporto gerarchico, ritenendo assolutamente legittimo che un contratto aziendale successivo deroghi in peius ad un precedente contratto nazionale. (D’altra parte, tra contratti collettivi di diverso livello, non si applica l’art. 2077 c.c., che invece riguarda i contratti individuali e a loro è applicato dalla giurisprudenza). N.B. Tutto questo non significa che i sindacati stessi non abbiano regolato, attraverso accordi collettivi, il rapporto tra contratti di diverso livello (si veda poi). 1) Secondo un primo orientamento, che presuppone la pari dignità giuridica tra contratto nazionale e aziendale, era il principio temporale ad individuare il contratto collettivo applicabile in caso di conflitto: si applica il contratto stipulato successivamente. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 25 che non equivale a parlare di diritto (per cui serve invece un riconoscimento). Tanto è vero che lo sciopero non ha più rilevanza penale, ma in quanto inadempimento contrattuale nulla esclude una reazione datoriale, a cominciare dalla sospensione della retribuzione e finanche al licenziamento (ritenuto legittimo dalla giurisprudenza dell’epoca). N.B. Oggi invece lo sciopero è un diritto, e ciò non consente quale reazione il licenziamento: l’esercizio di un diritto non può e non deve avere conseguenze negative sino a questo punto. Con l’avvento dello stato totalitario fascista lo sciopero torna ad essere un reato, perché arreca danno all’interesse superiore della nazione (che assorbe e azzera tutti gli interessi privati), ed insieme a lui la serrata. Gli artt. 502 e 503 del Codice Rocco del 1930 vietavano rispettivamente due tipi di sciopero: lo sciopero (e la serrata) per fini contrattuali (cioè per portare avanti pretese legate al rapporto di lavoro), e lo sciopero per fini non contrattuali (e cioè per fini di protesta politica); per la seconda fattispecie erano previste pene più aspre. Questa distinzione ha avuto una certa rilevanza anche nell’ordinamento post-costituzionale, in seno al legislatore costituente e per la giurisprudenza. IL DIRITTO DI SCIOPERO L’art. 40 Cost., riproducendo il testo del preambolo della Costituzione francese del 1946, sancisce che il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. Quindi, certamente lo sciopero è divenuto un diritto, qualcosa in più di una libertà, ma senza dubbio non ha carattere assoluto: il compromesso tra la sinistra comunista e socialista (favorevole ad un diritto di sciopero privo di limiti) e la posizione dei cattolici (favorevoli invece al riconoscimento di un diritto di sciopero entro certi limiti, e in particolare per i soli scopi legati al rapporto di lavoro) si è consolidato nella riserva di legge. In tal modo i padri costituenti hanno affidato al legislatore ordinario il compito di tracciare i limiti del diritto di sciopero, compito che non è mai stato veramente adempiuto, esattamente per le stesse ragioni di convenienza politica per cui non è mai stata attuata la seconda parte dell’art. 39 Cost. Infatti, ad oggi, non è mai stata emanata una legge ordinaria che disciplinasse in via generale forme e limiti del diritto di sciopero, ma solo una legge in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali del 1990 (perché proprio il carattere essenziale ne ha imposto una regolazione). Nel silenzio del legislatore, ruolo fondamentale hanno avuto la giurisprudenza di legittimità e quella costituzionale: per comprendere natura e limiti dello sciopero i nostri punti di riferimento principali sono le pronunce della Consulta e della Cassazione. La portata precettiva dell’art. 40 Cost., tanto nei confronti dello Stato quanto nei confronti dei privati, si limita al primo sintagma, con cui si riconosce allo sciopero la natura di diritto soggettivo. Tale riconoscimento costituzionale implica: - Anzitutto, le disposizioni del Codice penale che incriminano lo sciopero sono incompatibili con il precetto costituzionale: la Corte costituzionale, più volte chiamata a pronunciarvisi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 502 c.p., e la censura pressoché totale delle disposizioni seguenti (di cui sono sopravvissuti solo alcuni frammenti). - A livello dei privati: l’astensione dal lavoro per aderire ad uno sciopero non costituisce inadempimento contrattuale (bensì l’esercizio di un diritto), pertanto il datore di lavoro non può sanzionare disciplinarmente né licenziare gli scioperanti; cionondimeno, cade l’obbligo del datore di corrispondere la retribuzione per il tempo in cui il lavoratore ha scioperato. - Nei rapporti con lo Stato: la legge non può disconoscere il diritto di sciopero, può solo regolarlo. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 26 N.B. Il diritto di sciopero è coperto anche da fonti sovranazionali, tra cui l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. LA TITOLARITA’ DEL DIRITTO DI SCIOPERO Lo sciopero, per dottrina e giurisprudenza consolidate, è un diritto individuale a esercizio collettivo. Quando si parla di sciopero è necessario distinguere la dimensione della titolarità dalla dimensione dell’esercizio: a) Quanto alla prima, ciascun lavoratore, per il fatto di essere tale, è titolare del diritto di sciopero, direttamente riconosciutogli dalla Costituzione. b) Quanto alla seconda, lo sciopero, per definirsi tale, deve essere esercitato collettivamente dai lavoratori per la tutela di un interesse collettivo. Ciò che conta per qualificare lo sciopero, e quindi invocarne il diritto ed escludere che si tratti di una semplice assenza ingiustificata dal lavoro (che invece sostituisce inadempimento), è che l’azione sia diretta a tutelare un interesse collettivo (e non individuale), e quindi conseguentemente collettivo ne sia pure l’esercizio. Chiaro che l’interesse collettivo assorbe anche interessi individuali, ma lo sciopero ha ragion d’essere solo e soltanto a livello collettivo, senza con ciò contraddire la titolarità individuale del diritto. Concretamente sarà quindi necessaria la partecipazione di almeno un gruppo di lavoratori (non essendo mai sufficiente l’astensione del singolo) e, attenzione, non rileva che il gruppo di lavoratori costituisca un sindacato o sia una coalizione spontanea, né il numero dei lavoratori che aderiscono allo sciopero. (C’è chi in dottrina ha sostenuto, con scarsi risultati, che titolari del diritto di sciopero fossero i sindacati, ma ciò non sembra compatibile con l’art. 40 Cost.). Sul profilo della titolarità dobbiamo precisare che il diritto di sciopero soffre di alcuni limiti soggettivi: non proprio tutti i lavoratori ne sono titolari, in particolare, sono esclusi: militari e appartenenti alla Polizia di Stato durante il servizio (per le stesse ragioni per cui limitata è anche la loro libertà sindacale). A detta della Consulta, il diritto di sciopero spetterebbe poi anche ai lavoratori autonomi quando il rapporto con il committente è caratterizzato da una situazione di subordinazione o dipendenza economica. I LIMITI E GLI EFFETTI DELLO SCIOPERO Come si diceva, il diritto di sciopero non è un diritto assoluto, e il mancato assolvimento della riserva di legge non ha impedito alla giurisprudenza di individuarne i limiti, rispondendo a due domande di fondo: quali sono le modalità legittime di esercizio? Quali le finalità legittime? I limiti sono di due tipi: a) limiti interni, cioè imposti dalla nozione giuridica di sciopero che si assume (lo sciopero per definirsi tale e rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 40 dovrà pur soddisfare certe caratteristiche) b) limiti esterni, cioè imposti dalla tutela che l’ordinamento garantisce ad altri diritti concorrenti (equivalenti o prevalenti) In una prima fase storica dottrina e giurisprudenza, sentendo l’eco dell’impostazione fascista, accoglievano una nozione molto restrittiva di sciopero, considerando effettivamente come sciopero (legittimo) solo quell’astensione collettiva dei lavoratori esercitata per finalità strettamente Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 27 contrattuali e organizzata in modo lineare. Erano pertanto da ritenersi illegittimi, e sottratti alla tutela di cui all’art. 40 Cost., gli scioperi per fini ulteriori (politici, di solidarietà, di protesta) o gli scioperi articolati (come scioperi a singhiozzo o scioperi a scacchiera) N.B. Per sciopero a singhiozzo s’intende uno sciopero non continuativo, effettuato a più intervalli frazionati di tempo; Per sciopero a scacchiera (o di settore) s’intende invece uno sciopero che coinvolge a catena gruppi alternati di addetti. L’interpretazione dell’art. 40 si evolve (cioè cambia la nozione di sciopero) a partire dagli anni ’60 e, soprattutto, con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (che, attenzione, nulla dice sullo sciopero). La Cassazione, preso atto che l’ordinamento non definisce lo sciopero, deve rinviare alla realtà: è sciopero ciò che il senso comune, nel contesto sociale di riferimento, considera tale. Ecco che la parola sciopero significa e deve significare astensione collettiva del lavoro per il perseguimento di interessi collettivi, nulla di più e nulla di meno; non ci sono altri limiti interni, e sono quindi legittime tutte le modalità e le finalità, purché l’interesse perseguito sia comune. - In merito alle finalità è intervenuta anche la Corte costituzionale, riconoscendo dapprima la legittimità costituzionale dello sciopero di solidarietà e poi quella dello sciopero politico (incostituzionalità dell’art. 503 c.p.), salvo che in quest’ultimo caso lo sciopero sia diretto a sovvertire l’ordine costituzionale o ad impedire il regolare funzionamento delle istituzioni democratiche. Se la realtà sociale non consente di apporre chissà quali limiti interni allo sciopero, esso deve poter trovare limiti almeno nei rapporti con gli altri diritti (cfr. limiti esterni). Il diritto di sciopero non può impunemente mettere a rischio il diritto alla vita, il diritto alla salute o il diritto all’incolumità personale, ma neppure può recare danno al diritto all’integrità del patrimonio aziendale e più in generale il diritto alla continuazione dell’attività. - In merito alle modalità alternativa (forme anomale) è intervenuta la Corte di cassazione che ha ammesso, a partire dagli anni ’70, la legittimità di ogni modalità, purché non si pregiudichi la produttività aziendale (ma solo la produzione), ovvero non comporti la distruzione o la duratura inutilizzabilità degli impianti (cosa che entrerebbe in contrasto con l’art. 41 Cost.). Sono quindi legittimi gli scioperi improvvisi (o a sorpresa, salvo il caso dei servizi pubblici essenziali), gli scioperi a singhiozzo, gli scioperi a scacchiera, gli scioperi parziali, … N.B. Le forme di sciopero anomale sono adottate per ridurre al minimo la durata dell’astensione dal lavoro per il singolo scioperante, ottenendo però il risultato di disorganizzazione aziendale per tutta la durata dello sciopero. Comunque, il datore di lavoro può rifiutare le prestazioni inutilizzabili. Gli effetti dello sciopero sono: a) Sospensione temporanea del rapporto di lavoro e sospensione delle prestazioni, anche della retribuzione, essendo venuto meno il principio di corrispettività b) Crumiraggio interno: il datore di lavoro può sostituire i lavoratori scioperanti con altri dipendenti, nel rispetto dell’art. 2103 c.c. (che vedremo più avanti in tema di ius variandi), ovverosia senza alterare il sinallagma dei lavoratori che non scioperano c) Crumiraggio esterno: è fatto divieto al datore di lavoro di sostituire i lavoratori scioperanti con assunzione di lavoratori a termine o tramite somministrazione di lavoro, rivolgendosi alle apposite agenzie. (Sono concetti che illustreremo più in là) Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 30 queste due eventualità la Commissione formula alle parti una proposta; le parti hanno 15 giorni per formulare le proprie osservazioni, decorsi i quali la Commissione ha 20 giorni per emanare una regolamentazione provvisoria. La provvisorietà sta nel fatto che può essere in ogni momento sostituita da un accordo collettivo o da un codice di auto-condotta (che siano positivamente valutati). 2) Previene gli scioperi illegittimi Una volta ricevuta la notizia della proclamazione di uno sciopero (in un servizio pubblico essenziale) la Commissione, se individua profili di illegittimità (es. manca il preavviso, o l’intervallo) invia una comunicazione al sindacato che ha indetto lo sciopero e, se necessario, un invito formale a posticipare/annullare lo sciopero. Se infine ritiene che i diritti degli utenti siano esposti al pericolo di un pregiudizio grave e imminente può fare una segnalazione al ministero o al prefetto. 3) Sanziona i comportamenti illeciti di associazioni sindacali o datoriali Quando rileva cause di illegittimità dello sciopero la Commissione può erogare sanzioni amministrative pecuniarie collettive a carico delle associazioni sindacali o datoriali. Nella ipotesi più grave di cui al punto 2, l’autorità amministrativa competente (Presidente del Consiglio dei ministri, ministro delegato o prefetto, a seconda del fatto che lo sciopero sia nazionale o locale) può emanare, entro 48 ore dallo sciopero e dopo aver invitato le parti a rinunciarvi e tentare la conciliazione, un’ordinanza di precettazione. L’ordinanza ha carattere vincolante e può disporre il rinvio dello sciopero, il suo annullamento, la riduzione della durata, … LA CONDOTTA ANTISINDACALE L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (ultima diposizione) si preoccupa di assicurare una tutela processuale a quei diritti precedentemente riconosciuti dalla stessa legge, assicurandone l’effettività. Più tecnicamente, la norma predispone uno strumento processuale che sia in grado di reprimere in tempi rapidissimi gli effetti della c.d. condotta antisindacale del datore di lavoro. (Se infatti non si prevedesse una procedura ad hoc, la lunga durata di un giudizio ordinario renderebbe di fatto inutile e inesistente la tutela) Ancora una volta il legislatore rende una definizione teleologica del concetto di condotta antisindacale: non è possibile predeterminare tutte le condotte antisindacali (dando invece una definizione analitica), ma il minimo comun denominatore è rappresentato dalla finalità, dall’effetto impeditivo o limitativo, ossia dalla idoneità a ledere uno dei beni protetti dalla norma (un diritto appartenente a quelle categorie). Si dà condotta antisindacale ogniqualvolta il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero. Alcune osservazioni: a) Il soggetto attivo della condotta è solo e soltanto il datore di lavoro, non anche le associazioni datoriali o sindacali b) Non rileva l’intento soggettivo perseguito dal datore di lavoro (non è necessario un intento lesivo), ma solo l’oggettiva idoneità della condotta a ledere uno tra i diritti protetti. c) I comportamenti lesivi non sono definibili a priori, e possono consistere sia in atti giuridici, che in comportamenti materiali (anche solo omissivi). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 31 L’art. 28 non è destinato a riconoscere un danno, ma è finalizzato a rimuovere gli effetti della condotta antisindacale e, pertanto, condizione di ammissibilità del ricorso è che la condotta antisindacale sia attuale, o quantomeno ne devono perdurare gli effetti. Se la condotta antisindacale è esaurita e non ne perdurano più gli effetti la procedura ex art. 28 è inesperibile, al più si potrà chiedere tutela e ristoro con gli strumenti ordinari (essendo che non vi è più la necessità di celerità). La legittimazione attiva a ricorrere ai sensi dell’art. 28 è riconosciuta agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Non sono invece titolari dell’azione i singoli lavoratori o le RSA/RSU, il legislatore ha così voluto evitare abusi che compromettessero l’attività produttiva assegnando la titolarità ad un soggetto esterno alla dimensione aziendale. La Corte costituzionale ha poi confermato la ragionevolezza della riserva di legittimazione attiva alle sole organizzazioni sindacali aventi dimensione/struttura nazionale, in quanto più responsabili e meno propense ad azioni meramente strumentali. LA PLURIOFFENSIVITA’ DELLA CONDOTTA E LA SUA REPRESSIONE L’interesse giuridicamente rilevante tutelato per il tramite della procedura di cui all’art. 28 può indifferentemente consistere in una lesione di diritti/interessi spettanti ai singoli lavoratori o alle organizzazioni sindacali. È vero, infatti, che l’interesse ad agire è un interesse collettivo (tant’è che il singolo lavoratore non è legittimato ad agire), ma è altrettanto vero che l’interesse collettivo è leso sia quando la condotta datoriale lede direttamente un diritto/interesse sindacale, sia quando lede un diritti/interesse individuale del singolo lavoratore (anche in questo caso c’è condotta antisindacale). Quindi, da un punto di vista processuale l’interesse rilevante è sempre e solo quello collettivo, ma da un punto di vista sostanziale la condotta può essere (e di solito è) plurioffensiva, lede cioè una pluralità di interessi (sia collettivi che individuali). Esempio: se il datore di lavoro licenzia tre lavoratori per aver scioperato, non solo i tre lavoratori hanno interesse a far accertare l’illegittimità del licenziamento e la sua radicale nullità, ma anche il sindacato avrà interesse a censurare tale condotta, perché se tutti i lavoratori scioperanti fossero esposti al rischio di licenziamento nessuno sciopererebbe più. Ora, il singolo agirà ex art. 414 c.p.c. e il sindacato ex art. 28 St. lav.: due procedimenti autonomi e indipendenti, il primo diretto ad assicurare tutela al singolo, il secondo diretto a rimuovere gli effetti della condotta antisindacale. Il procedimento volto a reprimere la condotta antisindacale si compone, in primo grado, di due fasi: - Una prima fase, a cognizione sommaria: o Ricorso al tribunale del luogo in cui si è realizzata la condotta antisindacale, da parte dell’organizzazione sindacale interessata o Convocazione delle parti e assunzione di sommarie informazioni ad opera del giudice o Se la domanda è fondata, il tribunale entro 2 giorni con decreto motivato e immediatamente esecutivo ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. - Una fase di opposizione, a cognizione piena: la parte soccombente può, entro 15 giorni, fare opposizione al decreto. Il tribunale decide sull’opposizione con sentenza immediatamente esecutiva. N.B. Resta salvo il regime di appellabilità della sentenza di primo grado pronunciata dal tribunale. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 32 IL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO A partire da questa lezione abbandoniamo il diritto sindacale per abbracciare il diritto del lavoro, e studiare il rapporto di lavoro tra singolo datore e singolo prestatore, in forza del contratto individuale di lavoro. Passiamo quindi dalla dimensione collettiva a una dimensione individuale. Se fino ad oggi ci siamo occupati del correttivo indotto dal mercato (il fenomeno sindacale), adesso ci resta da analizzare il secondo correttivo, l’intervento eteronomo del legislatore. Il legislatore da un lato sostiene il datore di lavoro, dall’altro e principalmente sostiene la posizione del lavoratore, garante con norme tendenzialmente imperative delle condizioni minime di lavoro. La disciplina puntuale del rapporto di lavoro si trova nel libro V del Codice civile, dedicato all’impresa, e non nel libro IV (sulle obbligazioni e i contratti); questo perché il contratto di lavoro è un contratto di scambio e di durata affatto peculiare, a cominciare dal fatto che soggetto e oggetto sono difficilmente separabili (il lavoratore è come se vendesse le sue energie), ma anche in considerazione della nauta ibrida del datore di lavoro sia come parte contrattuale, sia come capo dell’organizzazione all’interno della quale deve essere eseguita la prestazione lavorativa. È di fondamentale importanza comprendere che il datore di lavoro ha lo specifico interesse di acquisire la prestazione di lavoro per destinarla alla propria organizzazione, finalizzata ad esercitare un’attività economica. N.B. Le disposizioni del codice in materia di lavoro fanno sempre riferimento all’imprenditore, perché il legislatore storico aveva in mente il lavoro nell’impresa, ma noi oggi dobbiamo leggervi datore di lavoro, essendo una qualifica più ampia che non necessariamente si riduce a quella di imprenditore. Storicamente, e in gran parte ancora oggi, il diritto del lavoro non interessa di tutti i lavoratori, ma è il diritto dei soli lavoratori subordinati. La subordinazione (come vedremo esser definita dall’art. 2094 c.c.) è la fattispecie di accesso alla normativa protetta; in altre parole, è la subordinazione a tracciare l’ambito di applicazione soggettiva del diritto del lavoro. Tradizionalmente vi è una logica di secca distinzione tra lavoratori subordinati, destinatari dell’intero diritto del lavoro, e lavoratori autonomi (a cui non si applica il diritto del lavoro, e privi, almeno fino al 2017, di una propria disciplina). Le parti del contratto sono libere di scegliere, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, il tipo di contratto in cui iscrivere lo scambio tra retribuzione e prestazione, alla luce di una duplice alternativa: contratto di lavoro subordinato o contratto di lavoro autonomo. Tuttavia, fatta la scelta, ne consegue che: - Al contratto di lavoro subordinato si applica integralmente la disciplina legale del lavoro subordinato, disposizioni quasi sempre imperative e inderogabili in peius (inderogabilità della disciplina del lavoro subordinato). Il muto consenso non ha la forza di far disapplicare la mano eteronoma del legislatore, perché il legislatore presume che la volontà del lavoratore subordinato non sia libera, quanto piuttosto indirizzata dalle pressioni del datore di lavoro. - Al contratto di lavoro autonomo è riconosciuta, al contrario, una sostanziale libertà delle parti nella determinazione del rapporto, anche se dal 2017 sono state introdotte disposizioni anche in materia di lavoro genuinamente autonomo (si veda più avanti). E questo sull’assunto (sempre meno vero) che il lavoratore autonomo non sia soggetto al potere altrui e possa atteggiarsi sul mercato come libera parte contrattuale. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 35 Infatti, per la prima volta la legge esplicitamente ammette che dei rapporti a carattere continuativo, implicanti un coordinamento, e in cui la prestazione è prevalentemente personale, possono svolgersi in forma autonoma. In conclusione, dal 1973, sappiamo per certo che non è sufficiente il carattere personale, coordinato e continuativo della collaborazione per soddisfare il vincolo della subordinazione. Questo mette in crisi la distinzione tra autonomia e subordinazione, fermi gli artt. 2094 e 2222 c.c. che restano invariati, perché suggerisce la compatibilità con il lavoro autonomo di caratteristiche che sembrano e sembravano invece tipiche del lavoro subordinato. A questo punto si assiste ad un fiorire di collaborazioni coordinate e continuative (co-co-co), dato che ad esse, naturalmente, non si applica il diritto del lavoro (trattandosi di forme di lavoro autonomo). I giudici devono fare i conti con l’art. 409 c.p.c. e la domanda non è più quale sia la distinzione tra autonomia e subordinazione, ma diventa: qual è la distinzione tra subordinazione e coordinamento? Comprendere dove finisce l’una e inizia l’altro è molto difficile, e da questo enorme problema di qualificazione sorge un contenzioso a livelli inimmaginabili. IL LAVORO A PROGETTO Per risolvere la questione, il legislatore lavoristico, che spesso insegue l’opinione pubblica con poca lungimiranza, ha inizialmente optato per un aumento dei contributi INPS sui co.co.co.; la logica era quella di rendere meno convenienti le co.co.co. da un punto di vista economico, e quantomeno per i contributi previdenziali. Tuttavia, tali collaborazioni, convenienza economica a parte, restavano convenienti per un’infinità di ragioni, non risolvendosi così il problema. Il primo intervento significativo e sistematico in tema di co.co.co. si ha con il c.d. decreto Biagi del 2003, che ha introdotto la disciplina del c.d. lavoro a progetto, diretta a limitare gli abusi delle co.co.co. Si è previsto che le collaborazioni coordinate e continuative fossero formalizzate in un contratto che ex ante stabilisse progetti specifici, determinati dal committente ma gestiti autonomamente dal collaboratore. Ecco che si parla di collaborazioni a progetto; in questo modo infatti si poteva garantire la genuinità del rapporto autonomo. Il decreto ha poi esteso ai collaboratori a progetto alcune specifiche forme di tutela, anche prendendo spunto da quelle già previste per i lavoratori subordinati. (Alcune di queste tutele sono tuttora vigenti, nonostante l’integrale abrogazione della disciplina in materia nel 2015). Neppure a seguito del decreto Biagi il contenzioso sembra dar cenno di diminuire, i dubbi sono ancora molti: cosa significa progetto? Che ne è del rapporto se il progetto manca? In caso, si presume un rapporto di lavoro subordinato in via assoluta o relativa? LE COLLABORAZIONI ETERORGANIZZATE Qualche nota di contesto: negli anni è anche andato in crisi l’assunto di fondo che aveva giustificato la stessa distinzione tra autonomia e subordinazione; con le nuove tecnologie e modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, schiere di lavoratori autonomi erano diventati non meno deboli dei lavoratori subordinati. Nel 2015 interviene una riforma del diritto del lavoro giornalisticamente nota come Jobs Act (in realtà una serie di decreti legislativi attuativi di una complessa legge delega, noi ci occuperemo dei nn. 23 e 81), e in particolare il d.lgs. 81/2015 (gemello rispetto al decreto Biagi, ma con risposte diverse) torna sulla questione delle co.co.co., prevedendo: 1) L’abrogazione delle collaborazioni a progetto (decreto Biagi) 2) L’introduzione della nozione di collaborazioni eterorganizzate Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 36 N.B. L’art. 409, n. 3, c.p.c. è ancora in vigore, e non viene modificato dal d.lgs. 81/2015, ma lo sarà successivamente nel 2017 con una rilevantissima integrazione. In particolare, noi ci concentriamo sull’art. 2, co. 1, d.lgs. 81/2015 che estende l’applicabilità della disciplina del lavoro alle c.d. collaborazioni eterorganizzate, prescrivendo che, a far data dall’anno successivo (il 2016), deve applicarsi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali (che in seconda formulazione del 2019 diviene prevalentemente personali), continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (in prima formulazione del 2015, anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro). Questa previsione (che non ha alcun effetto retroattivo) è stata variamente interpretata dalla dottrina: a) Alcuni hanno ritenuto che la norma ampliasse sostanzialmente i confini del lavoro subordinato, aggiornando la nozione di subordinazione ex art. 2094 c.c. b) Altri hanno creduto che la norma si limitasse a estendere la disciplina del lavoro subordinato ad un sottotipo del lavoro autonomo, senza perciò modificare i confini della distinzione c) Altri ancora hanno parlato di norma apparente, in quanto sembrerebbe dirci di applicare la disciplina del lavoro subordinato a una fattispecie che comunque la giurisprudenza (anche grazie al metodo tipologico) già ricomprendeva nel lavoro subordinato. In realtà, sembra preferibile e condivisibile la teoria per cui il legislatore non abbia affatto modificato la portata normativa e definitoria dell’art. 2094 c.c., non abbia cioè ampliato la nozione di lavoratore subordinato, ma abbia piuttosto scelto di estenderne la disciplina anche alla fattispecie di cui all’art. 2. Tra l’altro, la stessa Corte di cassazione (chiamata a definire il concetto di eterorganizzazione, si veda poi) non si è occupata di risolvere la questione sulla collocazione delle collaborazioni eterorganizzate tra le fila del lavoro subordinato o del lavoro autonomo, sottolineando che non ci interessa la categorizzazione, quel che conta è la chiarezza in merito alla disciplina applicabile. A) Ai lavoratori subordinati (ex art. 2094 c.c.) e alle collaborazioni eterorganizzate (ex art. 2 d.lgs. 81/2015) si applica il diritto del lavoro. Gli accessi alla disciplina di tutela ora sono due. B) La disciplina del lavoro autonomo si applica sulla base dell’art. 2222 c.c. e dell’art. 409 c.p.c. (qui senza dubbio, l’uno in rapporto di genere-specie rispetto all’altro). ETERODIREZIONE, ETERORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Le questioni da chiarire sono ancora un paio: - Da un punto di vista teorico, cosa distingue la subordinazione dalle collaborazioni eterorganizzate? Che vuol dire chiedersi: che differenza c’è tra (etero)direzione e (etero)rganizzazione? (Questa è una domanda prettamente teorica perché, come abbiamo detto, è sufficiente l’eterorganizzazione per applicare la disciplina del lavoro subordinato). La differenza sta nel fatto che il lavoratore eterodiretto è tale in quanto soggetto al potere direttivo, mentre il collaboratore eterorganizzate, pur non essendo soggetto al potere direttivo, è nondimeno integrato nell’organizzazione datoriale. La Cassazione parla di integrazione funzionale del lavoratore/collaboratore nella organizzazione predisposta unilateralmente ed esclusivamente dal datore/committente. Ciò basta per estendere le tutele proprie al lavoro subordinato. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 37 - Da un punto di vista pratico, cosa distingue le co.co.co. dalle collaborazioni eterorganizzate? Che vuol dire chiedersi: che differenza c’è tra coordinamento ed eterorganizzazione? (Questa è una domanda molto pratica perché, mentre il coordinamento è senz’altro compatibile con il lavoro autonomo, l’eterorganizzazione, almeno in punto di disciplina, è trattata come subordinazione. E sappiamo che la distinzione ha conseguenze drastiche: o si applica il diritto del lavoro, oppure no) In effetti l’art. 409 c.p.c. è molto simile all’art. 2 d.lgs. 81/2015, solo che da un lato le collaborazioni (a carattere personale e continuativo) sono coordinate, dall’altro sono eterorganizzate. Per capire la differenza è fondamentale l’interpretazione autentica fornita dal legislatore nel 2017, che ha integrato l’art. 409 c.p.c. con la definizione di coordinamento. È aggiunto: la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa. In questo sta la natura genuinamente autonoma del rapporto. In sintesi: a) Eterodirezione: soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro che ne determina le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. b) Eterorganizzazione: integrazione del lavoratore/collaboratore nell’organizzazione datoriale (del committente), predisposta interamente da quest’ultimo. c) Coordinamento: pattuizione ex ante tra collaboratore e committente delle modalità di coordinamento, con organizzazione autonoma dell’attività lavorativa da parte del primo. N.B. La vera differenza tra eterorganizzazione e coordinamento sta nel fatto che: nel primo caso c’è una dinamica di potere tra le parti (anche se la soggezione non riguarda il potere direttivo, ma un più generale potere organizzativo); nel secondo caso c’è reciproco consenso tra le parti. IL LAVORO AUTONOMO Partiamo dallo studio della disciplina del lavoro autonomo, essendo questa molto scarna, essenzialmente riconducibile a poche disposizioni del Codice civile e alla l. 81/2017. La ragione è semplice: quando si parla di lavoratore autonomo non abbiamo bene in mente un archetipo, come invece lo abbiamo per il lavoratore subordinato, e la diversità delle fattispecie rende complicata la progettazione di una disciplina uniforme. N.B. La l. 81/2017 è stata partorita dallo stesso legislatore che aveva scritto l’art. 2 d.lgs. 81/2015: prima ha provato a fare chiarezza ed estendere l’applicabilità del diritto del lavoro, eliminando categorie terze e incerte; poi ha tentato di dare una disciplina generale e astratta anche per il lavoro autonomo, almeno per alcuni aspetti. Quanto alla disciplina del codice: - Art. 2223, rapporto con la vendita: le norme sul contratto d’opera si osservano anche quando il prestatore d’opera fornisca materia, a meno che le parti non abbiano avuto prevalentemente in considerazione la materia, nel qual caso si applicano le norme sulla vendita. - Art. 2224, esecuzione dell’opera: se il prestatore d’opera non esegue la prestazione conformemente al contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un termine congruo entro il quale il prestatore deve conformarvisi; se il termine trascorre inutilmente il Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 40 lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Smart working è lavoro senza precisi vincoli di luogo e orario. La legge si appresta poi ad aggiungere che la prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali, in parte all’esterno, nei soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Ciò significa che il lavoro agile: - Non può prevedere lo svolgimento del 100% dell’attività lavorativa fuori dall’azienda; qui il legislatore vuole tutelare la dimensione collettiva del lavoro (contatto umano, socializzazione e non alienazione). - Non può prevedere un monte ore maggiore rispetto ai limiti imposti; su questo punto c’è un acceso dibattito: come si accerta l’orario di lavoro da remoto? Come si garantisce il diritto alla disconnessione? N.B. Il fatto che la legge, tracciati questi contorni, lasci poi i dettagli della disciplina del rapporto all’accordo individuale tra le parti sconta l’idea che, in fondo, lo smart working sia una cosa vantaggiosa per il lavoratore. L’accordo con cui le parti optano per il lavoro agile, che, come sappiamo, si sposa con un contratto di lavoro subordinato (indifferentemente a tempo determinato, indeterminato, pieno o parziale): a) Deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità b) Può essere, a sua volta, a termine o a tempo indeterminato c) Deve disciplinare l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore e agli strumenti utilizzati dal lavoratore. Parlare di accordo all’esercizio di un potere sembra una contraddizione (in teoria a colui che è soggetto al potere non dovrebbe richiedersi di concordare le forme di esercizio del potere stesso), ma il legislatore vuole che ci sia un accordo scritto ex ante perché in questo caso ciò che è lavoro e ciò che è vita privata si sovrappongono, aumentando il rischio di ingerenze inopportune nella vita privata. Qui si parla di potere direttivo che, essendo il cuore della subordinazione, è per definizione nella titolarità del datore, ma noi studieremo anche il potere di controllo e quello disciplinare, ciascuno strumentale all’altro, e anche per questi si pone il problema del loro esercizio quando la prestazione è eseguita fuori dai locali aziendali (cosa è suscettibile di controllo? cosa può essere disciplinarmente rilevante?), mentre è indiscussa la titolarità del datore di lavoro. Ecco che l’accordo deve anche disciplinare l’esercizio del potere di controllo sulla prestazione resa all’esterno dei locali aziendali, nel rispetto di quanto disposto dalla legge; e deve individuare le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione all’esterno dell’azienda, che danno luogo a sanzioni disciplinari. d) Deve individuare i tempi di riposo del lavoratore e le misure necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Questo, si badi bene, non è un problema di come regolamentare sulla carta, ma di come di fatto distinguere il tempo di lavoro e il tempo di riposo; il legislatore si astiene dal dare una soluzione, rimettendo all’accordo delle parti il compito di garantire l’effettività del diritto alla disconnessione. Tale diritto non è previsto per il contratto standard perché il problema è più sentito per lo smart working, sorge infatti nel momento in cui la prestazione lavorativa è eseguita fuori dall’azienda con strumenti tecnologici in grado di connettersi. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 41 La legge disciplina poi tre ulteriori aspetti: 1) La parità di trattamento: il lavoratore che svolge la sua attività in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. 2) La salute e sicurezza sul lavoro: anzitutto, il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa; il datore di lavoro garantisce poi la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile consegnando un’informativa scritta che indichi rischi generici e specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione della prestazione. Inoltre, posto che il lavoratore svolge parte dell’attività in un luogo estraneo alla sfera di controllo datoriale, è prevista la sua cooperazione all’adempimento, si vuole cioè specificamente che colui che si aspetta di essere tenuto incolume, cooperi all’attuazione delle misure di prevenzione proposte dal datore di lavoro, quando si trovi a lavorare fuori dai locali aziendali. 3) Il diritto di priorità: il datore di lavoro è tenuto a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi al congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli in condizioni di disabilità. IL CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE Come già detto, l’art. 1 d.lgs. 81/2015 statuisce che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (e pieno) costituisce la forma comune di rapporto di lavoro. Un contratto di lavoro a tempo determinato, nel quale cioè il rapporto di lavoro ha una durata predeterminata, va pertanto espressamente pattuito attraverso l’apposizione di un termine. È importante disciplinare il contratto a termine perché il rischio è quello della permanente precarietà, cosa che il legislatore vuole scoraggiare e scoraggia imponendo dei limiti. Originariamente, il contratto di lavoro subordinato a termine era visto con enorme sospetto, e la legge lo consentiva solo in casi tassativi. Solo dal 2001 la legge ha previsto una clausola generale, che imponeva la c.d. causale del termine: l’apposizione del termine era legittima per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro. Questa formula è troppo generica e ha scatenato un contenzioso infinito. Nel 2012, con la riforma Fornero si è avuta la liberalizzazione del primo contratto a termine di durata non superiore a 12 mesi, per cui non era più necessaria la causale, una scelta che al tempo aveva fatto molto discutere. Nel 2014 il c.d. decreto Poletti, poi confermato dal Jobs Act, ha abrogato la necessaria giustificazione, ma ha introdotto limiti quantitativi. Infine, nel 2018, il c.d. decreto Dignità, ha fissato la durata massina in 12 mesi senza necessità di causale, e ha ammesso la possibilità di estendere la durata fino a 24 mesi solo in presenza di alcune condizioni. Questa disciplina è arrivata sino ad oggi, non con qualche riforma introdotta a causa della pandemia. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 42 LA DISCIPLINA Innanzitutto, per ragioni di certezza, è prescritta la forma scritta a pena di inefficacia: il termine deve risultare, direttamente o indirettamente, da un atto scritto, una copia del quale deve essere consegnato al lavoratore prima dell’inizio dell’esecuzione della prestazione. La legge prevede poi limiti temporali: - Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a 12 mesi; - Il contratto può avere durata superiore, ma comunque non superiore a 24 mesi, solo in presenza di una delle seguenti condizioni: o Esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività o Esigenze di sostituzione di altri lavoratori o Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria N.B. Se il contratto ha durata superiore a 12 mesi e non ricorre alcuna delle condizioni, ovvero si superi il limite dei 24 mesi complessivi, il contratto si trasforma ex lege in contratto a tempo indeterminato (dopo i 12 mesi, ovvero i 24 mesi) - Un ulteriore contratto a tempo determinato fra gli stessi soggetti (che superi cioè i 24 mesi, già lavorati), della durata massima di 12 mesi, può essere stipulato con l’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro competente. N.B. In caso di mancato rispetto della procedura il contratto si trasforma ex lege in contratto a tempo indeterminato (dalla stipulazione) Quanto alla proroga: il contratto è liberamente prorogabile nei primi 12 mesi mentre, fino a 24 mesi, solo in presenza di una delle condizioni. In ogni caso, a prescindere dal numero di contratti, la proroga può aversi per un numero massimo di 4 volte. Dalla data di decorrenza della quinta il contratto si trasforma ex lege in contratto a tempo indeterminato. Quanto al rinnovo: il contratto può essere rinnovato solo in presenza di una delle condizioni, anche se complessivamente di durata inferiore a 12 mesi. Per far sì che sia chiara la distinzione tra un primo ed un secondo contratto a tempo determinato (poiché le condizioni di legittimità sono diverse dalla semplice proroga), è previsto che trascorra un certo numero di giorni, a pena di trasformazione ex lege in contratto a tempo indeterminato: a) 10 giorni dalla scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi b) 20 giorni dalla scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi N.B. In caso di continuazione del rapporto oltre il termine (fissato o prorogato), il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione (del 20% fino al decimo giorno, poi del 40%). Qualora la continuazione superi certi limiti (il 30° giorno o il 50° a seconda che il contratto avesse durata inferiore a 6 mesi oppure no) il contratto, ancora una volta, si trasforma ex lege in contratto a tempo indeterminato. Oltre a limiti di durata, la legge impone limiti quantitativi: salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20% del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato all’inizio dell’anno. Questo limite non si applica ai datori di lavoro con 5 o meno dipendenti totali. Questo limite sopporta alcune eccezioni, Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 45 Sempre nel rispetto dei contratti collettivi, le parti possono pattuire per iscritto clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione ovvero alla sua durata in aumento. In ogni caso il datore ha l’obbligo di preavviso di 2 giorni, e il lavoratore diritto alla compensazione. (Le clausole elastiche prevedono quindi a pena di nullità le condizioni e le modalità con cui il datore di lavoro, con preavviso di almeno 2 giorni, può modificare collocazione temporale o durata in aumento della prestazione; l’aumento non può eccedere il 25% delle ore annuali, fermo l’aumento della retribuzione oraria del 15%). Vale anche qui la parità di trattamento: il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento economico e normativo meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento; il trattamento economico, normativo e previdenziale è riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa. Infine, sulla trasformazione del contratto a tempo parziale in contratto a tempo pineo, e viceversa, è previsto che: - Su accordo delle parti e per iscritto è ammessa la trasformazione da tempo pieno a parziale - Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento - I lavoratori gravemente malati, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa hanno diritto alla trasformazione del tempo pieno in parziale. In questo caso a richiesta del lavoratore il rapporto può ritrasformasi in rapporto a tempo pieno. - In caso di gravi malattie di conviventi e familiari, per ragioni di assistenza, ai lavoratori è riconosciuta la priorità nella trasformazione del tempo pieno in parziale. - La priorità è riconosciuta anche ai lavoratori con figli minori di 13 anni o portatori di handicap - Il lavoratore ha diritto di chiedere, per una sola volta, la trasformazione del rapporto dal tempo pieno al tempo parziale in luogo del congedo parentale. LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO Per molto tempo la legge ha vietato la partecipazione di parti terze, diverse cioè da prestatore e datore di lavoro, al rapporto di lavoro; e in particolare il divieto escludeva che il lavoratore potesse intrattenere formalmente rapporti di lavoro con un soggetto diverso da quello che, esercitando il potere direttivo in via di fatto, traeva beneficio dalla prestazione. Come si può intuire, la ratio del divieto era quella di evitare l’imputazione del rapporto di lavoro ad un datore di lavoro interposto (guarda caso in genere una testa di paglia, incapace di onorare alcuna obbligazione), consentendo al datore di lavoro interponente (quello cioè effettivo), di eludere le sue responsabilità altrimenti derivanti dal rapporto di lavoro. (Cfr. fenomeno del caporalato). Per questa ragione la legge dal 1960 al 1997 ha categoricamente vietato un rapporto di lavoro che non fosse bilaterale, formalmente e sostanzialmente. Solo nel 1997 l’Italia, su incentivo della comunità europea ha introdotto con cautela la disciplina della somministrazione di lavoro: fattispecie in cui il lavoratore svolge la sua attività lavorativa per l’utilizzatore (datore di lavoro sostanziale), sotto la sua direzione e il suo controllo, ma intrattiene un rapporto di lavoro nei confronti del somministratore (datore di lavoro formale). Oggi è l’art. 30 d.lgs. 81/2015 (Jobs Act) a definire il contratto di somministrazione di lavoro come il contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali per la durata della missione svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 46 La somministrazione dà quindi luogo ad un rapporto triangolare fondato su due contratti: 1) Il contratto di somministrazione di lavoro, tra agenzia e utilizzatore (è un contratto di carattere commerciale) 2) Il contratto di lavoro subordinato, tra lavoratore e agenzia N.B. Tra utilizzatore e lavoratore invece non c’è alcun contratto. In questo sta l’eccezionalità della somministrazione di lavoro, nella scissione tra la titolarità del rapporto di lavoro e l’effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa (si parla infatti di rapporto interposto): l’utilizzatore riceve la prestazione e la gestisce come se a tutti gli effetti fosse un datore di lavoro, ma in realtà non intrattiene alcun rapporto di lavoro con il lavoratore (c’è subordinazione di fatto, non di diritto). Siccome questo è esattamente il disegno che il legislatore del 1960 aveva voluto vietare, dovremo poi chiederci quali previsioni oggi ne giustificano la liceità, anche assicurando la responsabilità dell’utilizzatore. Fuori dai limiti della somministrazione di lavoro (e dalle sue condizioni di legalità), resta ferma la regola della bilateralità. LA DISCIPLINA Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, e deve indicare un certo contenuto, a cominciare dagli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore (dal Ministero), e una serie di parametri volti ad accertare la serietà del rapporto (numero di lavoratori interessati, durata della somministrazione, mansioni, livello di inquadramento, luogo e orario di lavoro, trattamento economico e normativo, …) Posto che vi è una scissione della titolarità del rapporto, la legge individua una sorta di compromesso: A) Riconosce il potere direttivo in capo all’utilizzatore (ex art. 30), si tratta di una vistosa eccezione al principio per cui il potere direttivo spetta al datore di lavoro. B) Assegna sempre all’utilizzatore il potere di controllo, anche questa è un’eccezione, coerente con la precedente C) Riserva però al datore di lavoro, cioè all’agenzia, il potere disciplinare: spetta all’agenzia esercitarlo, sulla base delle comunicazioni fornite dall’utilizzatore in merito alle condotte disciplinarmente rilevanti (i.e. oggetto della contestazione) Due previsioni forti, salvaguardano il lavoratore somministrato: 1) Parità di trattamento economico-normativo rispetto a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, e a parità di mansioni svolte. Questo è fondamentale, altrimenti la somministrazione verrebbe usata per abbattere i costi del lavoro. 2) Responsabilità solidale dell’utilizzatore (insieme al somministratore) per la corresponsione dei trattamenti retributivi e previdenziali. Regola altrettanto importante, che assicura la responsabilità anche di colui che effettivamente beneficia dell’attività lavorativa. N.B. A questo punto potremmo chiederci: perché l’utilizzatore non assume direttamente? Anche perché il lavoratore somministrato costa di più: al trattamento retributivo, che deve essere pari a quello degli altri dipendenti, si aggiunge il corrispettivo per l’agenzia. Concretamente la ragione è duplice: da un lato cercare un lavoratore sul mercato richiede risorse e il datore può avere interesse ad esternalizzare questa attività di human resources (specie quando si cercano profili professionali particolari); dall’altro, come sovente capita, il datore ricorre alla somministrazione per “provare” il lavoratore, eludendo così la disciplina del periodo di prova. Vi sono due tipologie di somministrazione: Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 47 - Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato - Il contratto di somministrazione a tempo determinato N.B. Per lungo tempo l’ordinamento non ha ammesso un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, sull’argomento che altrimenti l’eccezionalità di un rapporto trilaterale sarebbe permanente. Solo di recente la somministrazione a tempo indeterminato è stata ammessa, è il c.d. staff leasing, perché possono esserci anche in questo caso interessi leciti, genuini. N.B. La durata del contratto di somministrazione non necessariamente implica la durata del contratto di lavoro (così, il lavoratore può essere assunto a tempo indeterminato dall’agenzia, ma essere somministrato a termine); Tuttavia: - Nella somministrazione a termine l’agenzia può somministrare all’utilizzatore sia lavoratori assunti a tempo determinato che indeterminato - Nell’ambito dello staff leasing l’agenzia può inviare all’utilizzatore esclusivamente lavoratori assunti a tempo indeterminato N.B. Se il lavoratore è assunto con contratto di lavoro intermittente e si è reso disponibile ad essere chiamato dall’agenzia e quindi inviato dall’utilizzatore, ha diritto all’indennità di disponibilità. I divieti di somministrazione sono uguali a quelli visti per il lavoro a termine ed il lavoro intermittente. Il regime sanzionatorio: - Se il contratto di somministrazione è nullo per assenza di forma scritta i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore - Se sono violati limiti quantitativi, i divieti o il contenuto del contratto è carente il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore ed un’indennità risarcitoria - Se la somministrazione è fraudolenta è irrogata una pena pecuniaria SOMMINISTRAZIONE E APPALTO Ai sensi dell’art. 1655 c.c. l’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore), con organizzazione dei mezzi e con gestione a proprio rischio, assume l’obbligazione di compiere in favore di un’altra (appaltante) un’opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro. Ha senso parlare qui di appalto perché esso potrebbe fungere da mezzo per eludere la disciplina in materia di somministrazione (cosa che succede molto spesso), violando il generale divieto di interposizione. Infatti, mentre l’utilizzatore esercita il potere direttivo sui lavoratori del somministratore (in forza delle cautele previste dalla disciplina), in un appalto genuino, l’appaltante non avrebbe alcun potere nei confronti dei lavoratori dell’appaltatore. Cosa succede se l’appaltante inizia a ingerirsi? Cosa succede se l’appaltatore è fittizio? Se nella somministrazione tra utilizzatore e lavoratori sorge un rapporto di lavoro anche solo di fatto, questo non può e non deve accadere nell’appalto. La legge sanziona l’appalto illecito/fittizio con l’instaurazione di un rapporto di lavoro tra lavoratori e sedicente appaltante. La legge prevede però anche ulteriori tutele per i lavoratori, anche nel caso di appalto genuino, che ricordano le tutele della somministrazione: Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 50 - Un primo orientamento, adottato per lunghissimo tempo dalla giurisprudenza, era particolarmente restrittivo: professionalità è tutto ciò che il lavoratore sa già fare. Secondo questa interpretazione la norma tutelava la c.d. professionalità acquisita. - Un secondo orientamento, minoritario e giunto più tardi a seguito dei problemi sollevati dal precedente, era arrivato a parlare di professionalità potenziale: professionalità è non solo ciò che il lavoratore sa già fare, ma anche quello che può ragionevolmente imparare con gli strumenti che ha a disposizione. Sposare il primo orientamento significava legittimare con un margine particolarmente stretto lo ius variandi: l’adibizione a nuove mansioni (equivalenti) è legittima se e solo se consente di sfruttare la professionalità acquisita (e, tra l’altro, acquisita presso quello stesso datore di lavoro, non altri). Questa logica di conservazione volta al passato (è una logica statica che forse andava bene per il modello d’azienda del 1970, non oltre) oltre a limitare moltissimo lo ius variandi del datore di lavoro aveva conseguenze negative anche per il lavoratore, esponendolo ad un significativo rischio di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (lo studieremo, si tratta di quel licenziamento motivato da ragioni oggettive e economiche), nella misura in cui il cambiamento aziendale rendesse inutilizzabile la sua prestazione lavorativa. Qui si cela un paradosso: per tutelare ciò che il lavoratore sa già fare rischio addirittura di fargli perdere il posto. La giurisprudenza questo problema l’ha visto e ha reagito: a) Tentando di estendere la nozione di professionalità a quella potenziale, ma questo abbiamo detto esser stato un orientamento del tutto minoritario di sfondo; b) Tentando di ammettere un’eccezione per affermare la legittimità dell’accordo con cui il lavoratore venga adibito a mansioni che non sono equivalenti (nel senso della professionalità acquisita), nella misura in cui sia finalizzato a salvaguardare il posto di lavoro. In particolare, la giurisprudenza è giunta ad ammettere il patto di demansionamento al fine di evitare il licenziamento per motivo oggettivo, con una vera e propria interpretazione abrogatrice della lettera dell’art. 13 St. Lav., che invece sanziona con la nullità i patti contrari. Tutto questo ha generato molti problemi: in fondo, serve il consenso del lavoratore (visto che l’alternativa è il licenziamento)? Il demansionamento fino a che punto può spingersi (in nome del virtuosismo dello scopo)? Insomma, questa visione di professionalità anacronistica ha alla fine determinato una situazione di totale incertezza. LO IUS VARIANDI NEL JOBS ACT Nel 2015 l’art. 2103 c.c. subisce una profonda modifica e da 2 commi passa ad un testo lungo e complesso di 9 commi, per eliminare l’incertezza sullo ius variandi. - Co. 1: il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Questo primo comma stabilisce cosa è la regola, introducendo il nuovo concetto di inquadramento. La legge distingue i lavoratori in 4 categorie: dirigenti, quadri, impiegati e operai; è poi la contrattazione collettiva che, da sempre, inquadra i lavoratori di ciascuna categoria in livelli, al fine di stabilirne la retribuzione. Il legislatore del 2015, nel dubbio, preferisce affidarsi ad un parametro chiaro e facilmente accertabile, già preparato dai contratti collettivi, che inquadrano nello stesso Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 51 livello tutte le mansioni per le quali è prevista la stessa retribuzione. Questa operazione non è del tutto priva di problemi interpretativi: a) il contratto collettivo non è onnisciente e potrebbe trascurare alcune mansioni; b) inoltre, i livelli di inquadramento non si erano mai preoccupati di accorpare mansioni simili (con professionalità affini), ma solo di mettere insieme mansioni, anche diversissime, da retribuire allo stesso modo. Dal 2015, vista la scelta del legislatore, la contrattazione collettiva ha faticosamente iniziato a disegnare livelli di inquadramento più omogenei. c) altri problemi: quali contratti collettivi? Cosa succede se nessun contratto collettivo è applicabile (problema dell’efficacia soggettiva)? Si ritorna al parametro dell’equivalenza o è ormai superato? N.B. Nei commi successivi individuiamo tre disposizioni che disciplinano il demansionamento (ritenuto in via generale illegittimo fino al 2015): i commi 2 e 4 prevedono due ipotesi di demansionamento disposto unilateralmente dal datore di lavoro, il comma 6 prevede invece un patto di demansionamento, a determinate condizioni. Il co. 5 stabilisce le condizioni di legittimità per i commi 2 e 4. - Co. 2: in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale. In questa prima ipotesi è previsto un potere di demansionamento (esercitabile unilateralmente dal datore di lavoro) che non è né arbitrario né discrezionale, ma subordinato ad una ragione oggettiva: la modifica degli assetti organizzativi aziendali. La norma, alludendo poi all’incidenza della modifica sulla posizione del lavoratore, pone una condizione implicita: deve esserci un nesso di causalità tra il mutamento dell’assetto organizzativo e il demansionamento. - Co. 3: il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Il legislatore sa che il mutamento di mansioni deve fare i conti con la professionalità del lavoratore, pertanto, pone a capo del datore di lavoro l’obbligo di formare il lavoratore alle nuove mansioni, si tratta di un obbligo di cooperazione all’adempimento (perché il datore deve mettere il lavoratore nelle condizioni di adempiere alla prestazione lavorativa). Comunque, è una disposizione strana perché il mancato assolvimento dell’obbligo non è sanzionato. - Co. 4: ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi. Oltre che nel caso di cui al co. 2, il legislatore ammette con una norma in bianco che altre ipotesi di esercizio del potere di demansionamento (quindi, per determinazione unilaterale) possano essere stabilite dalla contrattazione collettiva, fermo il limite della categoria legale. - Co. 5: nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento Questo comma sancisce che l’esercizio del potere di demansionamento, ai sensi dei commi 2 e 4, è legittimo solo se si svolge in forma scritta e se non modifica il livello di inquadramento del lavoratore Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 52 (che formalmente deve restare invariato) e il suo trattamento retributivo. Il demansionamento unilaterale finisce così per essere costoso: la ratio è certamente di tutelare il lavoratore, ma anche di responsabilizzare il datore di lavoro. Infatti, l’unilateralità della decisione infrange il principio di corrispettività, e giustifica come il datore debba poi pagare più ti quanto riceva. Per modificare le mansioni, la categoria legale, il livello di inquadramento e la retribuzione urge invece un accordo di demansionamento ex co. 6, che deve essere stipulato in sedi protette (che garantiscano la genuinità della volontà, soprattutto del lavoratore, anche con l’assistenza di legali consulenti o rappresentati sindacali) e può essere stipulato solo nell’interesse del lavoratore. Tre sono gli interessi in nome dei quali è legittimo sottoscrivere il demansionamento (da indicarsi espressamente): 1) L’interesse alla conservazione dell’occupazione 2) L’interesse all’acquisizione di una diversa professionalità 3) L’interesse al miglioramento delle condizioni di vita Infine, il co. 7 (noi non ci occupiamo dell’ottavo, mentre il nono semplicemente commina la nullità per i patti contrari) statuisce che in caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto ad un trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo 6 mesi continuativi, salvo diversa volontà del lavoratore e salvo che l’assegnazione non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive. Ricapitolandolo, lo ius variandi può esercitarsi in senso: - ORIZZONTALE: assegnazione di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (ex art. 2103, co. 1, c.c.). Non vi sono ulteriori limiti, anche perché non ci sono problemi di livello retributivo. - VERTICALE: o Verso l’alto (promozione): assegnazione di mansioni superiori. È sempre possibile, con le conseguenze ex art. 2103, co. 7, c.c. o Verso il basso (demansionamento): assegnazione di mansioni inferiori che comportino: ▪ Minor livello di inquadramento, ma stessa categoria legale: è possibile unilateralmente nell’ipotesi ex art. 2103, co. 2, c.c. (ius variandi ordinario) e nelle ulteriori ipotesi ex art. 2103, co. 4, c.c. (ius variandi straordinario); sempre nel rispetto dell’art. 2103, co. 5, c.c. ▪ Minor livello di inquadramento, e minore categoria legale: è possibile solo consensualmente e alle condizioni ex art. 2103, co. 6, c.c. N.B. In tutti i casi vale la regola di cui all’art. 2103, co. 3, c.c. N.B. La nuova disciplina dello ius variandi riconosce alla contrattazione collettiva il ruolo centrale di individuare l’area del debito del prestatore di lavoro (cosa è esigibile e cosa non lo è), delegandole anche la individuazione di ulteriori ipotesi di legittimità del potere di demansionamento (cfr. ius variandi straordinario). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 55 logico perché fintanto che l’illecito non venisse accertato, il controllo avrebbe ad oggetto la nomale attività lavorativa e dunque dovrebbe essere vietato. Nel tempo la giurisprudenza ha cercato di tenere in piedi la categoria dei controlli difensivi (perché in fondo si vuole andare in contro alle esigenze del datore di lavoro: sarebbe insoddisfacente e frustrante sapere di un illecito e ciononostante non poter reagire) parlando di fondato sospetto e illecito rilevante sul piano extracontrattuale: i controlli difensivi sarebbero legittimi solo se c’è un fondato sospetto e la condotta accertata va oltre il semplice inadempimento contrattuale, consistendo in una condotta con rilevanza esterna al rapporto (es. penale o amministrativa). Anche in questo caso però il vizio logico di fondo resta e per di più talvolta è difficile comprendere quando una condotta ha rilevanza altra rispetto al solo inadempimento. Con il Jobs Act il legislatore interviene per fronteggiare l’incertezza e riscrive l’art. 4; questa volta la norma distingue la fase dell’installazione degli impianti da quella di utilizzo delle informazioni acquisite per il tramite degli apparecchi installati. La disposizione, nella nuova formulazione, quanto all’installazione degli strumenti di controllo a distanza: - Consente l’installazione degli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, esclusivamente per: o Esigenze organizzative e produttive o La sicurezza del lavoro o La tutela del patrimonio aziendale E previo accordo con le RSA (o le associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, se le unità produttive sono ubicate in diverse zone), o in mancanza, autorizzazione amministrativa dell’ispettorato del lavoro. Attenzione: queste regole non si applicano agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. (Dato un po’ anacronistico, è chiaro che oggi il controllo si effettua principalmente attraverso gli strumenti di lavoro, e qui si apre un dibattito: cosa è strumento di lavoro? Tutti i software? Solo certi software? Certi applicativi?) N.B. In buona sostanza, con riguardo all’installazione degli strumenti di controllo a distanza la norma non è più di tanto cambiata, mentre ne è stata stravolta la formulazione: prima si poneva il divieto e la relativa eccezione, ora si pone ciò che è lecito e il divieto risulta a contrario. La novità più interessante è l’aggiunta della tutela del patrimonio aziendale quale fine che legittima l’installazione degli strumenti: così, il legislatore ha riconosciuto i controlli difensivi, e li ha attratti nell’estensione dell’art. 4 (sottoponendoli cioè alle medesime condizioni di legittimità). La disposizione, sempre nella nuova formulazione, quanto all’utilizzo dei dati raccolti mediante gli strumenti di controllo a distanza legittimamente installati: - Prevede che le informazioni siano utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione: o delle modalità d’uso degli strumenti o dell’effettuazione dei controlli, nel rispetto della normativa sulla privacy N.B. Oggi la legge è molto chiara anche su quest’aspetto. Ora, parte della dottrina oggi ritiene che i controlli difensivi siano assorbiti nell’art. 4, grazie al riferimento alla tutela del patrimonio aziendale, ma la giurisprudenza di legittimità non ne è poi così Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 56 convinta. Secondo la Corte di Cassazione (nel 2020) ci sono dei margini per riconoscere la legittimità di controlli a distanza fuori dall’art. 4 (perché ci sono casi in cui per es. il datore di lavoro ha interesse a porre in essere un controllo occulto): se infatti buona parte dei controlli difensivi sono entrati nell’art. 4, ci sarebbero i c.d. controlli difensivi in senso stretto che, accertando attività illecite che non ricadano nella tutela del patrimonio aziendale, devono comunque farsi salvi. Si tratta di comportamenti straordinari e difficilmente prevedibili il cui accertamento non può passare in sordina, quand’anche il controllo a monte non rispettasse i limiti di legalità tracciati dall’art. 4; il problema è sempre quello di una logica viziata e come distinguere in concreto i controlli difensivi in senso stretto dagli altri. IL POTERE DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO Il potere disciplinare è un fondamentale strumento che permette al datore di lavoro di sanzionare le condotte disciplinarmente rilevanti con l’irrogazione di una pena privata (in questo sta l’eccezionalità). Infatti, se l’ordinamento non consentisse al datore di lavoro di sanzionare direttamente (a livello privatistico) il lavoratore, il datore sarebbe costretto a rivolgersi al giudice in occasione di qualsiasi inadempimento anche minimo, cosa che ingolferebbe l’attività d’impresa. Il potere disciplinare, il cui esercizio è, alle condizioni di legge, facoltativo nel privato e obbligatorio nel pubblico, si dimostra un’estrinsecazione del potere direttivo, spesso ad esso strumentale. N.B. le sanzioni disciplinari: a) hanno funzione afflittiva, mai riparatoria b) sono applicabili anche in riferimento a condotte irrilevanti sul piano dell’inadempimento in senso stretto. I fondamenti normativi dell’esercizio del potere disciplinare sono: - l’art. 2106 c.c., quanto ai presupposti sostanziali - l’art. 7 St. Lav., quanto ai presupposti procedurali (disciplina infatti il procedimento disciplinare) L’art. 2106 c.c. statuisce che l’inosservanza degli artt. 2104 e 2105 (relativi agli obblighi del prestatore di lavoro, diligenza, obbedienza e fedeltà) può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione. Se ne ricava che le condizioni di legittimità sostanziale (limiti sostanziali) del potere disciplinare sono: 1) la sussistenza e l’imputabilità di un fatto contrario agli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. 2) la proporzionalità tra infrazione e sanzione (principio di proporzionalità) Le possibili sanzioni disciplinari possono avere: A) natura conservativa: non comportano la risoluzione del rapporto di lavoro, e sono, in ordine crescente di gravità: a. il rimprovero verbale b. il rimprovero scritto (o censura) c. la multa d. la sospensione dal lavoro o dalla retribuzione Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 57 B) natura espulsiva: comportano la risoluzione del rapporto di lavoro. L’unica sanzione che comporta un mutamento definitivo del rapporto è il licenziamento disciplinare; non sono invece ammessi mutamenti di mansioni o trasferimenti a scopi disciplinari. LA PROCEDURA DISCIPLINARE L’art. 7 St. Lav. regola la procedura di irrogazione della sanzione disciplinare, dettando le condizioni di legittimità procedurale (limiti procedurali) anche e soprattutto finalizzate a consentire al lavoratore di difendersi. A tal fine, i contratti collettivi possono prevedere una disciplina in parte diversa, ad esempio con tempistiche più lunghe. N.B. Il procedimento disciplinare si applica a tutti i tipi di sanzioni, escluso il richiamo verbale, e a tutti i lavoratori, inclusi i dirigenti (che al pari di tutti gli altri lavoratori subordinato sono soggetti al potere disciplinare). - Precondizione all’esercizio del potere disciplinare è anzitutto la necessaria pubblicità del codice disciplinare, che deve essere affisso in un luogo accessibile a tutti i lavoratori per garantire il rispetto del principio di conoscibilità e predeterminazione delle sanzioni. (La giurisprudenza è però elastica nel ritenere valida la sanzione disciplinare anche quando il codice disciplinare è divulgato in modalità diverse, ovvero la rilevanza disciplinare del comportamento è autoevidente per qualsiasi lavoratore medio) Nel sistema dell’art. 7 i contratti collettivi, specie quelli nazionali, assumono enorme rilevanza: quasi sempre si dedicano non solo a specificare e integrare (alzando il livello di tutela) la disciplina legale del procedimento disciplinare, ma si preoccupano anche di individuare le condotte passibili di sanzione disciplinare nonché di graduarne la sanzione. Tutto questo contribuisce a declinare il principio di proporzionalità (prima menzionato) ed evitare un potere disciplinare arbitrario. (I comportamenti elencati dai contratti collettivi nazionali hanno valore esemplificativo e non tassativo), Assolta la precondizione, la procedura disciplinare consta di tre fasi: 1) La contestazione del fatto: una volta accertato il comportamento disciplinarmente rilevante il datore di lavoro deve contestare al lavoratore la condotta messa in atto, mediante comunicazione scritta. La giurisprudenza ha elaborato tre principi che individuano altrettante condizioni di legittimità della contestazione (e quindi condizioni della procedura disciplinare): a. Il principio di tempestività della contestazione: la contestazione deve avvenire non appena sia stata accertata la condotta, in tempi ragionevolmente brevi b. Il principio di specificità della contestazione: la contestazione deve essere il più possibile precisa (quanto a modalità, circostanze, tempo, luogo), in modo da consentire una difesa puntale del lavoratore c. Il principio di immutabilità della contestazione: il fatto risultante dalla contestazione non può essere successivamente modificato N.B. In caso di contestazione di addebiti più gravi è ammessa la sospensione cautelare del lavoratore dalla prestazione lavorativa (anche prima dei termini per le difese); salvo che il CCNL disponga altrimenti, il datore deve comunque corrispondere la retribuzione. (Nella pratica la sospensione viene disposta in caso di furto al patrimonio aziendale o comportamenti violenti, o che comunque non rendano opportuna la permanenza del lavoratore nell’ambiente lavorativo durante lo svolgersi del procedimento disciplinare) Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 60 N.B. Originariamente la legge del ’66 non si applicava ai datori di lavoro che occupassero meno di 35 lavoratori. - Art. 1: nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato il licenziamento del prestatore può avvenire solo per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. ovvero per giustificato motivo - Art. 3: il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (c.d. giustificato motivo soggettivo) ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo oggettivo). Quindi, mentre per la definizione di giusta causa si rinvia all’art. 2119 c.c., per la definizione di giustificato motivo (che può essere, oggettivo o soggettivo) bisogna guardare all’art. 3 l. 604/1966. La distinzione è significativa: a) Nel caso di giusta causa il licenziamento può aversi in tronco b) Nel caso di giustificato motivo deve rispettarsi il preavviso Le condizioni di legittimità del licenziamento che risultano dalla legge 604/1966 sono: - Condizioni sostanziali di legittimità: la necessaria giustificazione (rispettivamente o giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo) - Condizioni formali/procedurali di legittimità: l’obbligo della comunicazione in forma scritta, contenente l’esplicitazione della motivazione (da cui il datore non potrà più discostarsi), ex art. 2 l. 604/1966; inoltre, per il licenziamento disciplinare (e, ovviamente, a partire dal 1970), il rispetto della procedura disciplinare di cui all’art. 7 St. Lav. (in quanto qui il licenziamento è l’esito, la sanzione di un più ampio procedimento). TIPOLOGIE DI LICENZIAMENTO E CONDIZIONI Come probabilmente è facile intuire leggendo le definizioni di giusta causa e di giustificato motivo, il licenziamento può aversi: A) Per ragioni disciplinari (c.d. licenziamento disciplinare, deve necessariamente essere preceduto dal procedimento disciplinare): a. Per giusta causa: causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto (ex art. 2119 c.c.). N.B. senza preavviso. Il licenziamento per giusta causa può essere disposto dal datore quando il lavoratore realizza comportamenti disciplinarmente rilevanti così gravi da non consentire neppure una prosecuzione provvisoria del rapporto; la giusta causa si sostanzia dunque in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento in tronco risulterebbe insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro. La giusta causa, secondo la giurisprudenza, può anche consistere in comportamenti estranei alla sfera del contratto e diversi dall’inadempimento (c.d. condotte extralavorative), purché idonei a riflettersi nell’ambiente lavorativo, facendo venir meno in modo irrimediabile il rapporto fiduciario (deve cioè esserci correlazione, altrimenti le condotte extralavorative in genere sono irrilevanti). (Invero, la nozione di giusta causa è più generale rispetto a quella del giustificato motivo soggettivo, che parla invece sempre e solo di inadempimento). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 61 b. Per giustificato motivo soggettivo: notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (ex art. 3 l. 604/1966, prima parte), N.B. con preavviso. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo si realizza quando il lavoratore pone in essere comportamenti disciplinarmente rilevanti gravi, ma non così gravi da giustificare l’assenza di preavviso (proprio alla giusta causa). La differenza tra licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, come la giurisprudenza non ha mancato di sottolineare, è quindi di tipo quantitativo: anche il secondo costituisce una sanzione disciplinare a fronte di condotte che incidono negativamente e in modo insanabile sul regolare proseguimento del rapporto (es. scarso rendimento o negligenza), ma sono condotte tutto sommato meno gravi da non richiedere una risoluzione immediata del rapporto. N.B. Come abbiamo detto studiando la procedura disciplinare, normalmente i contratti collettivi nazionali elencano i fatti ritenuti tali da costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento; tali tipizzazioni non vincolano però il giudice e comunque non esauriscono le possibili condotte passibili di licenziamento disciplinare. B) Per ragioni oggettive, ovverosia per giustificato motivo oggettivo: ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (ex art. 3 l. 604/1966, seconda parte). N.B. con preavviso. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha luogo per ragioni oggettive che attengono alla sfera datoriale (cfr. art. 41 Cost.) e che non riguardano il lavoratore e la sua condotta (per intenderci non deve interessarci che sia Tizio o Caio); la giurisprudenza ha nel tempo declinato questa clausola generale (per esempio, a lungo non ha ammesso il licenziamento per il motivo oggettivo della riduzione dei costi, se non in stato di crisi), ma intanto la legge ci dice che una ragione oggettiva deve esserci (e che deve essere dimostrabile), anche se non ci dice esattamente quale. La giurisprudenza ha elaborato tre passaggi per verificare che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia legittimo: 1) Accertamento della sussistenza della ragione obiettiva addotta dal datore di lavoro; il che non significa sindacare le scelte di merito del datore di lavoro circa l’organizzazione della sua attività produttiva (che non possono essere sindacate da nessuno). 2) Verifica del nesso di causalità tra l’esigenza organizzativa aziendale ed il licenziamento intimato. 3) Verifica dell’assolvimento del c.d. obbligo di repêchage. L’obbligo di repêchage è frutto di una elaborazione giurisprudenziale consolidata, in assenza di un appiglio normativo che chiaramente lo preveda. L’obbligo prende forma nel momento in cui la Corte di cassazione afferma che l’onere della prova gravante sul datore di lavoro relativo all’esistenza di un giustificato motivo oggettivo comporta anche la dimostrazione di non poter ragionevolmente adibire il lavoratore ad altre mansioni che siano disponibili e utili nell’organigramma aziendale. (Non si può invece pretendere lo stravolgimento dell’organizzazione, al solo scopo di conservare il rapporto di lavoro). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 62 Tale obbligo trova la sua ragion d’essere in una lettura dell’art. 3 l. 606/1966 in combinato disposto con l’art. 2103 c.c. (che abbiamo ampiamente studiato di ius variandi) e sulla premessa, da sempre assunta dalla giurisprudenza, che il licenziamento sia una extrema ratio. Il ragionamento è il seguente: o siccome al datore di lavoro è riconosciuto il potere dello ius variandi, e quindi possiamo dire che l’oggetto del contratto di lavoro ricomprende, oltre alle mansioni di assunzione, anche quelle in potenza esigibili ai sensi dell’art. 2103 c.c. o e siccome il licenziamento deve essere l’ultima spiaggia, allora il datore di lavoro deve quantomeno sforzarsi ragionevolmente di salvare il posto di lavoro al lavoratore assegnandogli altre mansioni (anche inferiori). Così come l’art. 2103 c.c. fonda l’obbligo di repêchage, allo stesso modo lo limita: il repêchage può aversi solo entro i limiti di esercizio dello ius variandi. La dottrina sulla questione ha sollevato numerose critiche: o non c’è una base normativa solida per affermare tale obbligo o il repêchage rischia di avere un perimetro incerto, cosa intollerabile per una condizione di legittimità del licenziamento o tale obbligo potrebbe tradursi una probatio diabolica, tanto più quanto l’organizzazione è grande N.B. Per capire l’ordine con cui mandare a casa i lavoratori, specie se il fine del licenziamento è quello di ridurre i costi, la giurisprudenza applica in via analogica i criteri oggettivi che la legge prevede per i licenziamenti collettivi (quando vengono licenziati almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni); in assenza di particolari accordi con le RSA, la legge valuta: carichi di famiglia, anzianità di servizio, ragioni organizzative. (Altrimenti, senza dei criteri oggettivi, si svuoterebbe di senso la seconda parte dell’art. 3, legittimando la scelta arbitraria se licenziare Tizio o Caio). LE SANZIONI PER IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO NELLA LEGGE 604/1966 Fino al 1966 non aveva senso parlare di sanzioni per il licenziamento illegittimo (tanto meno si poteva parlare di licenziamento) perché non vi erano particolari condizioni di legittimità; era solo previsto un indennizzo per la mancanza di preavviso ex art. 2118 c.c. (sempreché non ci fosse una giusta causa), indipendentemente nel caso di recesso del lavoratore o del datore di lavoro. Solo con la legge n. 604 nasce il problema di sanzionare il licenziamento illegittimo, perché per la prima volta si parla di licenziamento (come recesso del datore), e lo si sottopone a peculiari condizioni di legittimità sostanziale e formale. Nel disegno della legge 604 del 1966: › per le imprese con meno di 35 dipendenti continuano ad applicarsi gli artt. 2118 e 2119 c.c. (ex art. 11 l. 604/1966) › per le imprese con 35 o più dipendenti si prevede: o l’inefficacia del licenziamento orale (ex art. 2 l. 604/1966) L’atto di licenziamento non scritto è inidoneo a sciogliere il rapporto di lavoro, pertanto, applicando i principi generali del diritto privato, la sanzione è l’obbligo di reintegro del lavoratore nel posto di lavoro (e non di riassunzione, perché il rapporto Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 65 ▪ Licenziamenti vietati dalla disciplina in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (es. lavoratrici madri). ▪ Licenziamenti riconducibili ad altri casi di nullità previsti dalla legge ▪ Licenziamenti determinati da motivi illeciti (es. licenziamento ritorsivo) N.B. La presente tutela si applica: indipendentemente dal numero dei dipendenti, anche ai dirigenti e anche al licenziamento orale (che tecnicamente è inefficace, non nullo). o Ai co. 4 e 7 è prevista la tutela reintegratoria debole, consistente in: reintegrazione nel posto di lavoro (o opzione delle 15 mensilità) + risarcimento nella misura massima di 12 mensilità di retribuzione – aliunde perceptum – aliunde percipiendum (quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione) N.B. Il giudice dichiara l’annullamento del licenziamento Si applica quando: ▪ Non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa perché: (1) il fatto contestato non sussiste o (2) il fatto rientra tra le condotte punibili con sanzioni conservative, sulla base dei contratti collettivi o dei codici disciplinari. N.B. per fatto non dobbiamo intendere accadimento storico, ma fatto giuridicamente e disciplinarmente rilevante; se così non facessimo il datore di lavoro potrebbe sbarazzarsi del lavoratore contestandogli un fatto accaduto ma irrilevante, perché rientreremmo nell’ambito della tutela di cui al co. 5 ▪ Si accerta la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (qui è intervenuta la Corte costituzionale, prima era solo “possibile” per il giudice disporre la tutela reintegratoria debole). N.B. il fatto manifestamente non sussiste quado, altrettanto manifestamente non sussiste il nesso di causalità ovvero non è stato assolto l’obbligo di ripescaggio. o Al co. 5 è prevista la tutela risarcitoria forte, consistente in: risarcimento tra 12 e 24 mensilità della retribuzione N.B. Il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro Si applica negli altri casi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, o del giustificato motivo oggettivo o Al co. 6 è prevista la tutela risarcitoria debole, consistente in: risarcimento tra 6 e 12 mensilità della retribuzione N.B. Il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro Si applica ai licenziamenti inefficaci per: ▪ Violazione del requisito della motivazione del licenziamento ex art. 2 l. 604/1966 ▪ Violazione della procedura disciplinare ex art. 7 St. Lav. Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 66 IL JOBS ACT Il legislatore interviene da ultimo con il Jobs Act (poi modificato dal c.d. decreto Dignità nel 2018), ma questa volta, per evitare di alimentare ulteriori malumori (scatenati dalla Riforma Fornero), sceglie l’escamotage normativo di applicare la nuova disciplina del d.lgs. 23/2015 solo ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo 2015 (anche nel caso di conversione successiva di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato). › Per le imprese con meno di 15 dipendenti: o Per i licenziamenti discriminatori, intimati in forma orale o comunque nulli continua a valere la disciplina del 2012 della tutela reintegratoria forte. (Il giudice dichiara nullo/inefficace il licenziamento). o Tutti i casi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, o del giustificato motivo oggettivo è prevista una indennità tra 3 e 6 mensilità di retribuzione. (Il giudice dichiara risolto il rapporto). (Cfr. tutela risarcitoria forte) o Per la violazione del requisito di motivazione o della procedura disciplinare è previsto un risarcimento tra 1 e 6 mensilità di retribuzione. (Il giudice dichiara risolto il rapporto). (Cfr. tutela risarcitoria debole). › Per le imprese con 15 o più dipendenti: o Per i licenziamenti discriminatori, intimati in forma orale o comunque nulli continua a valere la disciplina del 2012 della tutela reintegratoria forte. (Il giudice dichiara nullo/inefficace il licenziamento). o Nei casi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, o del giustificato motivo oggettivo è prevista un’indennità tra 6 e 36 mensilità di retribuzione (qui nel 2018 è intervenuta la Corte costituzionale, prima la legge stabiliva che l’ammontare dell’indennità dovesse calcolarsi solo sull’anzianità di servizio). (Il giudice dichiara risolto il rapporto; la legge dice “estinto”). (Cfr. tutela risarcitoria forte). N.B. la riforma ha quindi limitato la tutela reintegratoria in caso di licenziamento ingiustificato al solo punto che segue. o Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, nei casi di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore continua ad applicarsi la tutela reintegratoria debole. (Il giudice dichiara l’annullamento del licenziamento). o Per la violazione del requisito di motivazione o della procedura disciplinare è previsto un risarcimento tra 2 e 12 mensilità di retribuzione. (Il giudice dichiara risolto il rapporto). (Cfr. tutela risarcitoria debole). Università Bocconi DIRITTO DEL LAVORO Nicola Girelli a.a. 2022/2023 cod. 50227 II sem. – cl. 20 Prof.ssa Elena Gramano 67 Dunque, in sintesi, il Jobs Act essenzialmente ha esteso la tutela risarcitoria (forte e debole, con modifiche degli importi) anche ai datori di lavoro che occupano meno di 15 lavoratori (sostituendosi all’art. 8 l. 604/1966); ha poi modificato gli importi della tutela risarcitoria forte e debole per gli altri datori di lavoro, prevedendo che buona parte dei casi che prima ricadevano nell’ambito della tutela reintegratoria debole oggi ricadano nella tutela risarcitoria forte.
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