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Diritto del lavoro - Riccardo Del Punta - Tredicesima edizione - 2021, Sintesi del corso di Diritto del Lavoro

Riassunto accurato del libro diritto del lavoro di Riccardo Del Punta con gli aggiornamenti della tredicesima edizione, 2021

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 06/05/2021

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Scarica Diritto del lavoro - Riccardo Del Punta - Tredicesima edizione - 2021 e più Sintesi del corso in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! SEZIONE PRIMA – TEMI GENERALI E FONTI CAPITOLO 1: DIRITTO DEL LAVORO E DINTORNI 1. DIRITTO DEL LAVORO: DEFINIZIONE E PARTIZIONI La definizione di “diritto del lavoro” è più problematica di quanto possa sembrare a prima vista. Il genitivo potrebbe indurre alla conclusione che il diritto del lavoro concerna il complesso delle regole giuridiche che presiedono allo svolgimento di quella attività umana che è il lavoro, senza specificazioni. Non è così, invece. L’esperienza quotidiana insegna che le forme giuridiche nelle quali viene prestata un’attività lavorativa possono essere molteplici, e il diritto del lavoro si occupa soltanto di alcune di esse. La più importante e nota, oltre che consistente in termini quantitativi, è senz’altro quella del lavoro subordinato o dipendente, ma non certo secondaria è quella del lavoro autonomo o professionale. In lavoro può essere prestato, altresì, all’interno di contratti di società (come l’associazione in partecipazione), o reso in forma volontaria o comunque gratuita. Difficile è anche la situazione del lavoro di cura delle persone, molto spesso svolta da badanti e soggetti esterni, altre volte dai familiari, comportando lavoro casalingo, in aggiunta ad attività ordinarie di lavoro. Di quale lavoro si occupa il diritto del lavoro? A poter dare risposte non è tanto la filosofia del lavoro, quanto la storia, ossia i percorsi storici in virtù dei quali soltanto alcune forme di lavoro, e non altre, sono state prese in considerazione dal diritto, e prima ancora dall’azione sindacale. È in quei processi storici che trova agevole spiegazione il fatto che, tanto sul versante del sindacalismo, quanto su quello della legislazione a tutela del lavoro, la figura sociale che il diritto del lavoro ha preso a riferimento, pressoché unico, sia stato il “lavoratore subordinato”, che rappresenta, da sempre, l’ossatura del lavoro delle imprese. Questo dato di identità originario si è conservato nel corso dei decenni, nel senso che quel vasto complesso normativo che va sotto il nome di diritto del lavoro si caratterizza per il fatto di riferirsi non a tutte le categorie di lavoro, ma esclusivamente ai lavoratori subordinati. La materia tradizionalmente non copre, per converso, l’altra grande macro-area del lavoro, il già evocato lavoro autonomo, reputata in grado, di massima, di curare i propri interessi da sola, vale a dire di determinare contrattualmente le condizioni e di sopportare in proprio i rischi dell’attività svolta. La differenza principale tra lavoro subordinato e autonomo appare quasi l’esemplificazione di una differenza antropologica: da un lato i lavoratori subordinati, deboli, dall’altro gli autonomi, capaci di autodeterminarsi. Col tempo, però, alcune figure di lavoratori autonomi, ritenute deboli e meritevoli di protezione (esempio: collaboratori a progetto), hanno beneficiato dell’applicazione mirata di alcune norme lavoristiche, o comunque aventi contenuto protettivo. In sostanza, l’ambito soggettivo del diritto del lavoro, pur rimanendo concentrato sul lavoro subordinato, ha teso ad allargarsi, attraendo alcune classi di lavoratori non subordinati. Il diritto del lavoro si applica anche ai datori di lavoro non titolari di un’impresa, mentre l’impresa ha trovato applicazione in tutti i settori economici, a partire da quello dei servizi. All’interno dei pur “mobili” confini così tracciati, il diritto del lavoro si ripartisce classicamente nel diritto sindacale (il diritto dei rapporti collettivi, che concerne i sindacati, il contratto collettivo, il conflitto, le rappresentanze dei lavoratori in azienda, la partecipazione dei lavoratori e dei sindacati alla gestione delle imprese) e nel diritto del lavoro in senso stretto (il diritto del rapporto individuale di lavoro subordinato, e di altri rapporti contigui). Tra queste due aree ci sono relazioni continue, soprattutto in relazione ai rapporti di lavoro, visto che solo in parte le norme della regolazione provengono dalla legislazione, essendo integrate dai contratti collettivi, che molto spesso vengono visti dal lavoratore come “diritto del lavoro”, come se fosse la legge del singolo settore/rapporto. 2. LA FUNZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO Il diritto del lavoro ha manifestato, da sempre, un’identità molto precisa dal punto di vista della funzione sociale da esso perseguita: essa consiste nella vocazione protettiva di lavoratori reputati economicamente, socialmente e giuridicamente deboli. In sostanza, il diritto del lavoro interviene là dove ritiene che vi sia bisogno di proteggere, tramite regole di ordine pubblico o comunque esterne alla negoziazione individuale tra le parti, un lavoratore altrimenti non in grado di determinare, alla pari con la controparte imprenditoriale, le condizioni (retributive, di orario etc.) del lavoro. La stessa, più recente, tendenza espansiva nei riguardi di altre figure di lavoratori, come i collaboratori a progetto, è stata ispirata dalla presa d’atto di altre situazioni di “lavoro debole”, meritevoli di protezione. Il diritto del lavoro vuole controbilanciare la disparità di potere tra datore di lavoro e lavoratore. Si vuole difendere la dignità del lavoratore. Altri ritengono che il diritto del lavoro serva per svolgere la funzione redistributiva del reddito a vantaggio della classe storicamente penalizzata rispetto ai detentori del capitale. Il diritto del lavoro è un diritto fortemente sociale. È chiaro che per svolgere appieno la funzione in vista della quale sono state prodotte, le norme lavoristiche si sono poste come norme “di ordine pubblico”, che cioè si impongono agli imprenditori in forza di prevalenti ragioni di interesse pubblico, consistenti appunto nella protezione dei lavoratori subordinati. Questa matrice ha portato a consolidare in tali norme, col tempo, quell’attributo dell’inderogabilità a livello individuale, che ne è tuttora la caratteristica saliente, e secondo molte opinioni il bastione ultimo dell’identità del diritto del lavoro. Ma il quadro non sarebbe completo se non si aggiungesse che, quanto meno a partite dagli anni ’90 del secolo scorso, caratterizzati dall’inasprirsi esponenziale della concorrenza a livello europeo e globale, le esigenze di recupero della competitività e dell’efficienza del sistema produttivo del nostro Paese, sono tornate a riscuotere una grande attenzione pubblica, inducendo alla ricerca di nuovi modi e livelli di contemperamento fra l’istanza di tutela dei diritti orientati al progresso delle condizioni dei lavoratori, tipica del discorso giuslavoristico, e quella dell’efficienza economica. Dagli sviluppi della materia sono venute fuori importanti riforme come la Fornero e il Jobs Act, in cui si tenta di superare il paradigma protettivo tradizionale in funzione di uno ispirato alla flexicutiry europea, il luogo di esplicazione non è più il rapporto di lavoro, ma il mercato del lavoro. La cultura giuslavoristica invece si è sempre difesa innalzando con orgoglio la superiorità del paradigma lavoristico. Intanto un filone minoritario ha cercato nuovi possibili fondamenti del diritto del lavoro. Tutto ciò mostra quanto complesso sia il tema. In un contesto nuovo come quello delineato, l’unilateralità della missione del diritto del lavoro ha meno opportunità di manifestarsi. 3. DIRITTO DEL LAVORO E DIRITTO PRIVATO Quanto si è osservato in ordine alla definizione, e soprattutto alla funzione del diritto del lavoro, fornisce anche la chiave per comprenderne il rapporto con il diritto privato, alla cui famiglia “allargata” appartiene. Sin dai primissimi interventi di “ordine pubblico” rivolti a disciplinare particolari aspetti dell’utilizzazione dei lavoratori, le misure di diritto del lavoro sono state caratterizzate dal fatto di incidere dall’esterno, in modo imperativo e con norme inderogabili a danno del lavoratore, limitando la libertà di acquisto e di vendita della forza lavoro, e con essa l’autonomia contrattuale delle parti implicate. Ciò sulla premessa che senza questa “espropriazione” del lavoratore, che si realizza precludendo al predetto la stipulazione di patti derogatori delle norme legali o contrattuali, l’imprenditore potrebbe facilmente riguadagnare, in via di fatto, la preminenza nel dettare i termini della relazione contrattuale, sfruttando la circostanza che il bisogno di lavorare potrebbe indurre il lavoratore ad accettare condizioni inferiori agli standard minimi, o finanche indecenti. I risultati di queste grande rivoluzione sono controversi anche a causa della forte resistenza alle innovazioni, manifestata dalle varie componenti di settore, prima fra tutte quella sindacale. 5. IL DIRITTO AMMINISTRATIVO DEL LAVORO Nel diritto del lavoro, in considerazione della sua funzione economico-sociale, sono sempre stati presenti spiccati connotati ed elementi pubblicistici, che hanno comportato, la presenza di un ampio corpus di discipline, definibile diritto amministrativo del lavoro in quanto regola la struttura e le funzioni dei numerosi organismi pubblici destinatari di competenze in materia di lavoro. Si ha presenza di un ampio corpus di discipline definibile come diritto amministrativo del lavoro, perché regola la struttura e le funzioni di numerosi organismi pubblici destinatari di competenze in ordine al lavoro. Su tutti questi organismi, spicca il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali che ha acquisito di recente una notevole centralità sia come luogo privilegiato di elaborazione delle politiche del lavoro (elabora disegni di legge poi approvati dal consiglio dei ministri), che come, di fatto, di produzione ministeriale, centro di indirizzo interpretativo della normativa del lavoro, recentemente è infatti intervenuto sul terreno interpretativo. Il ministero del lavoro si avvale di organismi periferici sia regionali che provinciali, come le Direzioni Regionali del Lavoro (DRL) e le Direzioni Provinciali o territoriali del Lavoro (DPL o DTL) che svolgono: - Funzioni amministrative del mercato del lavoro; - Funzioni ispettive; In seguito al Jobs Act le funzioni di questi sono state trasferite all’Ispettorato nazionale del lavoro. Quest’ultime funzioni ispettive sono finalizzate alla vigilanza sull’osservanza delle tante disposizioni amministrative relative alla gestione dei rapporti di lavoro (es. relative alla gestione degli orari e dei riposi), come la potestà pubblicistica di irrogare sanzioni amministrative nel caso che vengano accertati illeciti penali (es. fenomeno del lavoro nero). Contro gli atti di accertamento di illeciti e le conseguenti ordinanze/ingiunzioni delle DPL è possibile presentare ricorsi amministrativi e giurisdizionali da parte dell’impresa che ne è destinataria. Un’altra attività di vigilanza è svolta dalle Aziende Sanitarie Locali (ASL), per quanto riguarda l’osservanza delle disposizioni concernenti la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro. Per quanto riguarda le funzioni relative ai SERVIZI PUBBLICI PER L’IMPIEGO a seguito del decentramento amministrativo operato con il D.lgs 469/1997 (dallo Stato alle Regioni, e dalle Regioni alle Provincie) esse sono state affidate ai Centri per l’impiego, che sono gestiti dalle Province ma coordinati dalle Regioni. È ad essi che debbono rivolgersi le persone in cerca di occupazione. Abortita la revisione costituzionale i centri per l’impiego sono tornati sotto la gestione delle regioni, restando a livello logistico sotto le province. Altre funzioni pubbliche, che riguardano la gestione della crisi dell’impresa, sono svolte attraverso l’intervento di alcuni istituti come la cassa integrazione guadagni (gestita dal Ministero del Lavoro e dall’INPS) o la mobilità (gestita dalle DRL e dall’INPS), i quali sono volti ad “ammortizzare” (ammortizzatori sociali) l’impatto sociale che la crisi dell’impresa ha sui lavoratori, favorendo, sin dove è possibile, la ripresa dell’attività imprenditoriale e la salvaguardia dell’occupazione. 6. IL DIRITTO DELLA PREVIDENZA E DELLA SICUREZZA SOCIALE Parente prossimo del diritto del lavoro è il diritto della previdenza sociale, che concerne quel vasto complesso di istituti, di massima pubblicistici, che, in particolare tramite lo storico strumento delle assicurazioni sociali obbligatorie (l’iscrizione alle quali, cioè, è obbligatoria per il lavoratore, a cura del datore di lavoro di questi), sono destinati a realizzare finalità di solidarietà sociale, segnatamente a favore dei lavoratori dipendenti in condizioni di qualificato bisogno. Di ciò sono espressione, nella Costituzione, i commi 2 e 4 dell’art. 38 Cost., secondo i quali “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”, e “ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato”. L’intreccio con il diritto del lavoro è massimo, in quanto il tradizionale beneficiario degli istituti previdenziali è quello stesso lavoratore subordinato, già preso in considerazione, come si è rilevato, dalle norme del diritto del lavoro. Attorno a questa figura si radicano e si svolgono i due classici rapporti nei quali si sostanziano gli istituti in discorso: a) Il rapporto contributivo, finalizzato al finanziamento del sistema previdenziale attraverso l’imposizione di obblighi contributivi sui datori di lavoro dipendente (l’esatto adempimento dei quali è l’oggetto di una costante attenzione degli organismi ispettivi). b) Il rapporto previdenziale, che sorge tra il lavoratore beneficiario, al maturare di certe condizioni (di bisogno e in particolare di età, di avvenuti versamenti contributivi, etc.), di date prestazioni economiche, e l’ente tenuto all’erogazione delle stesse. Il cuore del sistema è rappresentato dagli istituti di carattere pensionistico, gestiti dall’INPS e previsti a tutela della vecchiaia (pensione di vecchiaia), ed entro certi limiti dell’anzianità lavorativa (pensione di anzianità). È questo un settore che va soggetto da tempo, in tutti i Paesi ad economia avanzata, a forti sommovimenti, soprattutto a causa dei maggiori oneri finanziari legati all’aumento dell’età media della popolazione beneficiaria delle pensioni. L’urgenza finanziaria di procedere ad un riassetto strutturale del sistema pensionistico si è condensata, da ultimo, nella “Riforma Fornero”, adottata dal Governo Monti, che ha previsto misure volte all’innalzamento dell’età pensionabile, alla generalizzazione del metodo contributivo, al superamento delle pensioni di anzianità. Tuttavia, sono state successivamente introdotte misure correttive. Come conseguenza della crisi delle pensioni pubbliche, si sta cercando di sviluppare, in tutti i paesi avanzati, il cd. “secondo pilastro” della tutela pensionistica, tramite meccanismi di previdenza complementare, gestiti da fondi privati. Altre forme previdenziali sono: - tutela per l’invalidità e l’inabilità da rischio professionale. - tutela per l’invalidità e l’inabilità da rischi comuni. - tutela della salute, ancora riservata ai dipendenti per sostegno economico in caso di malattia o infortunio comune. - tutela contro la disoccupazione. - tutela di maternità e paternità. Recentemente c’è la tendenza alla fuoriuscita dai confini della previdenza sociale, riservata ai lavoratori, in direzione di una più ampia prospettiva di sicurezza sociale, destinata a beneficio di tutti i cittadini, lavoratori o meno, in condizioni di bisogno. Una tendenza messa però in crisi dalle difficoltà finanziarie dei sistemi pubblici del welfare, che per il futuro fa prevedere modalità più intense di cooperazione fra organismi pubblici e forme di welfare in qualche modo privatizzate, cioè affidate ad enti e a soggetti della società civile, come le imprese. CAPITOLO 2: ORIGINI ED EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO DEL LAVORO 1. PREMESSE STORICHE DEL DIRITTO DEL LAVORO: LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Quando parliamo di diritto del lavoro evochiamo uno dei grandi capitoli della storia contemporanea, che ha preso avvio dagli sconvolgimenti economici prodotti dalla Rivoluzione industriale. Essa è stata il frutto di una molteplicità di fattori, tra cui le innovazioni tecnologiche che hanno consentito un incremento progressivo ed esponenziale della produttività del lavoro, e quindi della ricchezza. In questa sede interessano di più i fattori politici ed economico-sociali, in virtù dei quali la nascita dell’industria moderna si è intrecciata con quel processo di affrancamento dei vincoli del mondo feudale che ha avuto il suo culmine politico nella Rivoluzione francese. Prima di essere proclamato in Francia, il principio di libertà, nella sua declinazione economica, è stato praticato in Inghilterra; vedi il pensiero di Adam Smith e la sua “mano invisibile”: l’interesse della società richiede che i singoli individui siano lasciati liberi di perseguire il proprio personale e egoistico interesse, da ciò risultando, grazie alla mano invisibile del mercato, un accrescimento della ricchezza complessiva. Tanto in Inghilterra quanto in Francia, la classe sociale promotrice delle Rivoluzioni era la borghesia, che aveva vitale bisogno di libertà per poter esprimere appieno il proprio potenziale economico. I compiti dello Stato dovevano rimanere circoscritti alla politica estera, alla tutela dell’ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini: stato come guardiano notturno. Dalle trasformazioni economiche sono scaturiti anche grandi sconvolgimenti sociali, per effetto dei quali ha preso forma una vera e propria classe sociale, quella del nuovo esercito industriale operaio (il proletariato) composto da contadini sradicati dalle campagne, artigiani, donne e fanciulli. Operai privi di qualificazione professionale e che oltre alla prole possedevano soltanto le proprie energie lavorative. Le condizioni di lavoro e di reddito di questa nuova classe erano infime, se non disumane; erano venuti meno quei legami sociali che avevano garantito alle persone condizioni di pur minima sussistenza. Marx, nel famoso Manifesto del 1848, in cui chiamava i proletari di tutto il mondo alla rivoluzione socialista, aveva ben presente la classe operaio che nulla aveva da perdere se non le proprie catene. Serviva un adattamento della cultura politica liberale uscita dalla Rivoluzione Francese, condotta in nome della libertà e dell’uguaglianza. Ma l’eguaglianza del 1789 non aveva messo in discussione la legittimità della proprietà privata, perseguendo il diverso obiettivo di rendere quest’ultima più contendibile in nome del principio di libertà economica. Quella che si proclamava era un’uguaglianza che si fondava sulla proprietà privata e che restava indifferente alle profonde diversità di condizione sociale fra i proprietari delle terre e/o delle attività economiche e le classi subalterne. 2. LA NASCITA DEL SINDACALISMO Le nuove classi dirigenti non gradivano che le classi lavoratrici si organizzassero per difendere i propri interessi; tale attività era vista come un modo di far rivivere le istituzioni corporative del vecchio mondo e come un mortale attentato alla libertà di commercio. In conseguenza di ciò si è instaurato un regime di repressione penale dell’incipiente sindacalismo. La giustificazione era dunque la volontà di impedire il corporativismo. Il riferimento è alla legge Le Chapelier che, abolendo le corporazioni e introducendo il delitto di coalizione, proibiva l’associazionismo dei lavoratori e lo sciopero perché il regime che aveva distrutto le corporazioni non poteva permettere che se ne costruissero di nuove. Di questa spinta hanno approfittato i ceti dominanti, Tali leggi protettive hanno inizialmente assunto la veste di una legislazione speciale parallela al codice civile, imperativa e non derogabile, e come tale non aggirabile attraverso pattuizioni individuali. Tali leggi hanno toccato i problemi più allarmanti della condizione operaio, tramite la previsione di norme limitatrici della libertà imprenditoriale: 1) Il lavoro dei fanciulli 2) Gli infortuni sul lavoro 3) La condizione delle lavoratrici madri 4) Il lavoro delle mondine e degli addetti ai forni (lavoratrici stagionali) A queste leggi si è affiancata la giurisprudenza dei probiviri, arbitri cui i lavoratori potevano ricorrere per far valere e per decidere secondo equità le controversie di lavoro. A loro si deve la nascita di regole importanti, come il preavviso di licenziamento ad nutum e l’efficacia meramente sospensiva dello sciopero sul contratto di lavoro. Il diritto del lavoro di fonte legale ha conosciuto una pausa in coincidenza con la grave parentesi bellica. Ha cominciato poi a svilupparsi, in connessione con lo sviluppo del sindacalismo di categoria, il sistema della contrattazione collettiva, nazionale e aziendale. Ciò anche se non si sapeva bene come trattare giuridicamente quella strana creatura che era il contratto collettivo. Con le commissioni esterne si è avuta anche la nascita delle prime, embrionali, forme di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale. L’accordo stipite è quello della fabbrica Itala (poi fiat). Le istituzioni operaie sono entrate poi in crisi nel periodo di convulsione e violenza politica seguito alla fine della Prima guerra mondiale. 5. IL VENTENNIO FASCISTA Con l’ascesa al potere del fascismo, non soltanto le forze politiche di opposizione, ma anche i sindacati rossi e bianchi, sono stati di fatto eliminati. Le associazioni sindacali fasciste nel 1925 ottennero il monopolio della rappresentanza sindacale. Si è così apeta la strada all’edificazione del regime corporativo, dove l’interesse dei singoli individui e delle classi doveva restare rigorosamente subordinato al perseguimento dell’interesse superiore della nazione, interpretato da uno stato autoritario. Sul versante sindacale, ciò si è risolto in un drammatico ritorno al passato, con la soppressione della libertà sindacale e di quella di sciopero. Pur ammettendosi in astratto la possibilità di costituire più sindacati, il governo si riservava la facoltà, che poi ha esercitato, di conferire il riconoscimento giuridico, per ciascuna categoria produttiva, a un solo sindacato, purché espressivo di almeno il 10% dei lavoratori di quella categoria e guidato da persone di sicura fede nazionale. Ne è conseguito il riconoscimento dei soli sindacati legati al Partito nazionale fascista. Per quanto riguarda il contratto collettivo, era stipulato erga omnes e cioè esteso a tutte le imprese e a tutti i lavoratori di categoria. Questo era proclamato inderogabile a livello individuale, lasciando così spazio alla contrattazione e perdendo l’efficacia protettiva tipica. Si lasciavano alle spalle i tormenti teorici in merito all’efficacia giuridica del contratto collettivo; ma ciò al costo di un allontanamento irreversibile dai principi liberali e democratici. Quanto allo sciopero, esso è stato penalmente incriminato nel codice penale del 1930. I conflitti del lavoro avrebbero dovuto essere risolti da una speciale magistratura del lavoro, costituita presso le corti d’appello, con la partecipazione di esperti. I ricorsi a questo organismo sono però stati limitati. Ciò detto, occorre riconoscere che, se la disciplina sindacale del ventennio ha segnato una netta cesura con l’età liberale, la legislazione del lavoro e previdenziale ha invece avuto un significativo sviluppo, attestato da molte leggi: a) Legge sull’orario di lavoro b) Legge sull’impiego privato c) Leggi sulle lavoratrici madri d) Legge istitutiva del diritto al riposo domenicale e) Perfezionamento sugli infortuni sul lavoro f) Istituzione della tutela pensionistica obbligatoria La legislazione del periodo è culminata nel codice civile 1942, che è riuscita poi a sopravvivere alla fase post- costituzionale, sino a rappresentare ancora oggi il cuore della normativa lavoristica. Con il codice civile la nozione di lavoro subordinato (art.2094) è ufficialmente comparsa nella legislazione italiana. 6. IL DIRITTO DEL LAVORO REPUBBLICANO: DALLA COSTITUZIONE ALLO STATUTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORI Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, si è creata una confusa situazione, troncata con l’ordinanza che ha disposto la soppressione delle strutture sindacali corporative e la ricostituzione di un regime di libertà sindacale. Per non lasciare i lavoratori privi di qualsiasi tutela sociale, sono state mantenute provvisoriamente in vigore le norme contenute nei contratti collettivi dell’epoca corporativa. Nel frattempo, dal 1. gennaio 1948, è entrata in vigore la Costituzione repubblicana. Ha segnato la trasformazione dello Stato liberale classico in Stato democratico liberale sul piano politico, e in Stato sociale nei rapporti economico-sociali. Per l’imperativo di dare attuazione alla Costituzione, il testimone è passato, di nuovo, alla legislazione speciale, che pure ha impiegato del tempo per svilupparsi. Il vero salto di qualità c’è stato negli anni ’60 che hanno visto l’avvento al governo del centro-sinistra; è iniziato allora un pur lento processo di riequilibrio economico sociale, contrassegnato da una maggiore presenza della contrattazione collettiva e dell’emanazione di leggi importanti a tutela del lavoro subordinato. Negli anni ’70, la tendenza verso una redistribuzione del potere e della ricchezza a favore delle classi lavoratrici ha preso un eccezionale abbrivio con fenomeni di contestazione, talora violenta, dell’ordine politico e sociale esistente. Nel c.d. autunno caldo del 1969 la lotta per il rinnovo dei principali contratti collettivi di categoria si fece intensa. Nel clima di quegli anni è maturata l’emanazione di una legge da tempo attesa, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, finalmente approvato con la legge 20 maggio 1970 n.300. Lo Statuto (il cui padre è Gino Giugni) aveva due finalità principali: - Stabilire norme a tutela della libertà e della dignità dei lavoratori - Promuovere nei luoghi di lavoro la presenza di organismi di rappresentanza dei lavoratori, collegati ai sindacati più rappresentativi, e lo svolgimento di attività sindacale Lo Statuto ha rafforzato la protezione del lavoratore illegittimamente licenziato. È di poco posteriore la legge che ha istituito un rito processuale “speciale” per le controversie di lavoro, rivolto a rendere più facile e spedita la tutela processuale dei diritti dei lavoratori. Quegli anni hanno registrato un’imponente crescita della contrattazione collettiva, tanto nazionale quanto aziendale. Le retribuzioni dei lavoratori erano protette anche nei confronti dell’inflazione, mediante il meccanismo della scala mobile, che ne comportava un incremento automatico in correlazione all’aumento del costo della vita. Vi è stata dunque in quel periodo, una grande valorizzazione del ruolo sociale e del peso politico delle classi lavoratrici che ha costretto il mondo imprenditoriale sulla difensiva ed ha permesso al diritto del lavoro di toccare il proprio zenit. Al diritto del lavoro non è stato dato il tempo di godersi in pace la raggiunta maturità. 7. IL DIRITTO DEL LAVORO DELLA CRISI: GLI ANNI ‘80 La crisi petrolifera innescata dalla guerra arabo-israeliana aveva determinato il ritorno dell’inflazione. L’inflazione induceva, nei lavoratori, la spinta ad ulteriori rivendicazioni retributive, che però, ove non corrispondenti ad incrementi di produttività, generavano nuove pressioni inflazionistiche. In questo contesto, ha iniziato a porsi l’esigenza di commisurare la crescita dei livelli di reddito all’andamento dei parametri macroeconomici. Lo stesso sindacato ha riconosciuto che il salario non può essere trattato come una variabile indipendente dall’andamento dell’economia. Sono maturate, in questo contesto, le condizioni per aprire trattative a tutto campo sui costi del lavoro e sulle strategie industriali, sovente riassorbite nel più ampio alveo di una contrattazione trilaterale, cui partecipava anche il governo, tanto a presidio dell’interesse pubblico al controllo dell’inflazione, quanto per mettere a disposizione compensative dei sacrifici richiesti ai lavoratori. Non è un caso che proprio in quegli anni si sia registrato un aggravamento del già elevato indebitamento pubblico. Ne è scaturito un acceso dibattito sull’ammissibilità o no di un’ingerenza del legislatore in un campo, come quello retributivo, tradizionalmente riservato alla contrattazione collettiva. Quanto alla scala mobile, questa è stata definitivamente soppressa nel 1992. Il difficile andamento economico rendeva urgente rilanciare un sistema produttivo appesantito da alti costi e bassa produttività; sono state così introdotte normative tendenti a ridurre il peso di alcuni istituti, o a restituire alle imprese margini di libertà nella gestione del lavoro. Si è cercato di combattere la pesantezza del sistema con strumenti che sono ricaduti sulle spalle dei lavoratori (tempo determinato, visite di controlli per i malati). Nondimeno, anche negli anni ’80 è andata avanti una linea legislativa di continuità col decennio precedente, rivolta a rafforzare il patrimonio delle garanzie individuali dei lavoratori. Il diritto del lavoro ha dunque continuato a svilupparsi in modo disordinato, attraverso un succedersi alluvionale di stratificazioni normative non sempre armonizzabili. 8. LA CRISI DEL DIRITTO DEL LAVORO: GLI ANNI ‘90 Negli anni ’90 del secolo scorso nuovi processi di trasformazione economico-sociale sono sopraggiunti a modificare ulteriormente lo scenario mondiale. Una nuova realtà caratterizzata da una crescente interrelazione fra le diverse aree del mondo; è entrato nell’uso parlare di globalizzazione: C) Legge sui congedi parentali D) Legge sulla tutela della salute e della sicurezza La maggiore realizzazione normativa del decennio è stata comunque la privatizzazione del lavoro pubblico (contrattualizzazione), rivolta all’obiettivo di conciliare la tutela dei diritti dei lavoratori pubblici con un recupero di efficienza dell’apparato amministrativo. L’azione di governo di questo periodo è stata alquanto complessa e non facilmente riconducibile a un disegno unitario. 9. IL LIBRO BIANCO SUL MERCATO DEL LAVORO E IL DECRETO BIAGI (2001 E 2006) I temi del lavoro sono stati fra i più caldi dell’azione del secondo Governo Berlusconi, caratterizzato da una forte politicizzazione del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. Sfondo obbligato del dibattito era, ormai, l’Europa con la Strategia Europea per l’Occupazione con l’intendo di dare vitalità ai depressi mercati del lavoro europei. Strategia perfezionata nel Consiglio europeo di Lisbona con l’obiettivo di portare l’Europa allo stesso livello competitivo degli Stati Uniti. Concentrarsi sull’incremento dell’occupazione ha significato porre enfasi sull’obiettivo di portare più persone nel mercato del lavoro, anche al fine di concorrere alla crescita della ricchezza complessiva. Sul versante nazionale, entrambi gli schieramenti politici si sono richiamati al modello europeo. L’Europe che avevano in mente i due partiti di riferimento non era però la medesima: per il centro-sinistra era quella della carta dei diritti fondamentali di Nizza, mentre per il centro-destra era l’Europa della modernizzazione e del recupero competitivo. In realtà entrambe le Europe esistono e debbono essere tenute insieme. Tra i vari governi che si sono succeduti infatti, in materia di lavoro, ci sono stati tratti di continuità e tratti ti discontinuità, come ad esempio nel rapporto tra organizzazioni sindacali. Il manifesto programmatico del governo Berlusconi è stato il Libro bianco sul mercato del lavoro, presentato nel 2001, la cui dichiarata priorità era l’incremento dell’insoddisfacente tasso di occupazione italiano. Era rimarcata la necessità di spostare il baricentro della protezione del lavoratore dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro: meno regole di protezione dei già occupati e più sostegno per consentire ai lavoratori, rimasti privi di posto, di ritrovarne presto un altro. Una parte del programma del Libro bianco è stata tradotta in provvedimenti legislativi, animati in generale da una ricerca di flessibilità e da una minore attenzione alla ricerca del consenso sindacale: • La nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato • La riforma dell’orario di lavoro e dei riposi • Al Decreto Biagi si deve una serie di riforme: - Apertura ai privati nei servizi per l’impiego - Norme tese a favorire le esternalizzazioni - Modificazioni della disciplina di alcuni contratti tipici - Riforma del contratto di apprendistato - Introduzione della collaborazione a progetto - Procedura di certificazione dei contratti di lavoro In sostanza riguardo la flessibilizzazione delle tutele nel rapporto di lavoro, il governo non ha avuto la volontà o la forza politica di intaccare il nucleo della disciplina del rapporto di lavoro standard, ed ha puntato sull’incremento della flessibilità al margine, cioè sulla liberalizzazione dell’accesso a forme contrattuali non standard, quali il contratto a termine e il contratto di somministrazione di lavoro. Altre tappe del programma delineato nel Libro bianco, come la pur promessa riforma degli ammortizzatori sociali non sono state realizzate, soprattutto a causa della carenza di risorse finanziarie pubbliche. Si è così iniziato a parlare di precarietà del lavoro, definibile come il rischio per il lavoratore di non riuscire a provvedere nel medio periodo al proprio sostentamento attraverso il mercato del lavoro o la protezione sociale. Riguarda tutte quelle persone non capaci di raggiungere o mantenere autonomamente, attraverso il proprio lavoro, un dignitoso livello di benessere economico perché la retribuzione da loro percepita è bassa o perché la loro carriera lavorativa è segnata da frequenti e lunghe interruzioni non adeguatamente compensate dalla protezione sociale. La precarietà, se non ci sono altre fonti di reddito, si traduce in disagio economico che può limitare il lavoratore nel pianificare progetti di medio-lungo periodo. Anche il lavoratore a tempo pieno o indeterminato può essere precario o attraversare periodi di precarietà. Il Decreto Biagi non ha avuto un impatto stravolgente ma ha permesso una qualche riduzione del tasso di disoccupazione e un incremento, pur debole, del tasso di occupazione. 10. IL BREVE RITORNO DEL CENTRO-SINISTRA (2006-2008) Il pur non trionfale ritorno al governo del centro-sinistra con Prodi ha aperto una nuova fase delle politiche del lavoro. Il Decreto Biagi era oggetto di richiesta di abrogazione da parte della sinistra radicale; dall’altro lato vi era il problema della bassa competitività della produzione italiana. Il Governo Prodi ha scelto una linea mediana di concentrazione su alcuni temi specifici (quelli meno controversi): la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, il contrasto alla precarietà, la lotta al lavoro nero. Alcuni dei predetti impegni sono stati tradotti in misure legislative: 1. Tempo limite del contratto a tempo determinato 2. Irrigidimento della disciplina del contratto a tempo parziale 3. Aboliti il lavoro a tempo indeterminato e il lavoro intermittente 4. Norme di stabilità per i lavoratori precari del settore pubblico Infine, dopo anni di gestazione, è stato emanato il Testo unico in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Lo stallo tra le due sinistre ha pesato nell’ingenerare una complessiva debolezza progettuale del centro-sinistra sui temi del lavoro. Importanti sollecitazioni sono arrivate poi dall’attuale unione europea, che dopo essersi focalizzata sull’incremento del tasso di partecipazione ai mercati del lavoro, ha suggerito una linea di riforma dei sistemi nazionali di diritto del lavoro all’insegna dell’obiettivo della flexicurity, cioè di una flessibilità bilancia dalla sicurezza. Si voleva intendere che l’inevitabile apertura alla flessibilità doveva essere estesa a tutta la popolazione lavorativa, senza scaricarne tutto il peso sui lavoratori atipici o non-standard. Il contrappeso sociale della flessibilità era una nuova accezione di sicurezza: concepita ora in termini di sostegno al reddito nelle fasi di disoccupazione involontaria, assistenza nel mercato del lavoro, tutela pensionistica. La formula di flexicutiry, criticata dalla sinistra, ha avuto molto successo, essendo capace di indicare una direzione evolutiva di fondo alla quale le politiche europee hanno tutte dovuto adattarsi. 11. IL CENTRO-DESTRA NELLA CRISI GLOBALE (2008-2011) Il ritorno del governo del centro-destra nel 2008 ha posto le premesse di una ripresa degli indirizzi di politica del lavoro che erano stati avviati dal Libro bianco in poi. La formula è stata “liberare il lavoro”. L’azione governativa si è concretizzata nel decreto-legge del 2008 n. 112 tramite il quale sono state cancellate alcune scelte del centro-sinistra (ad esempio l’abolizione dell’abolizione del contratto di lavoro intermittente). In seguito, l’azione governativa è stata assorbita soprattutto dal tentativo di attutire le conseguenze occupazionali della grava recessione globale scatenata dalla crisi dei mercati finanziari scoppiata nell’estate del 2007. Il sistema degli ammortizzatori ha retto, ma è stato integrato da misure eccezionali. Sul finire del 2010, l’approvazione del c.d. Collegato lavoro ha ripreso proposto del Libro bianco del 2001. Sono in particolare da segnalare: - La riforma del regime di impugnazione del licenziamento - Un regime risarcitorio alleggerito per il caso di contatto a termine illegittimo - Norme tese a limitare i poteri interpretativi del giudice in date situazioni - Nuove misure di liberalizzazione Un grande movimento si è registrato, nel contempo, sul versante sindacale i tentativi di riformare il sistema della contrattazione collettiva, sono sfociati nella stipulazione di un Accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali, che ha portato ad uno scenario di profonda divisione sindacale, tanto che esso non è stato sottoscritto dalla CGIL. Le prospettive sono dunque rimaste molto incerte, anche se a causa della persistente irresoluzione dei nodi storici del diritto sindacale in merito alle regole della contrattazione collettiva, in specie aziendale; nodi emersi in occasione della vertenza Fiat. Vertenza fiat: innescata da una strategia di attacco di questa importante impresa, che ha condizionato l’effettuazione di alcuni ingenti investimenti all’adozione di soluzioni organizzative di efficienza e soprattutto di precise garanzie sindacali sull’effettivo rispetto di tali soluzioni da parte dei sindacati stessi e dei lavoratori. Ciò ha provocato l’opposizione del maggiore dei sindacati del comparto, la FIOM CGIL. Le parti sono poi arrivate alla stipulazione dell’Accordo interconfederale, di grande importanza per il futuro delle relazioni sindacali. Il provvedimento più ambizioso del periodo è stato il Decreto Brunetta del 2009 che ha riformato profondamente la disciplina del lavoro pubblico, con l’obiettivo dell’ottimizzazione della produttività e dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Nel complesso è una riforma che si basa principalmente sulla flexicurity, il cui senso fondamentale è quello di rendere il più flessibile possibile anche il contratto di lavoro standard, e non solo quello non standard, così da permettere ad esso di attrarre il grosso della domanda di lavoro e di ridurre il dualismo del mercato, e di controbilanciare la minore tutela nel rapporto di lavoro con una più efficace tutela nel mercato del lavoro, fatta di migliori ammortizzatori e trattamenti di disoccupazione e di più efficaci servizi per il lavoro. I primi esiti relativi alle misure introdotte hanno segnalato una significativa tendenza alla trasformazione di contratti di lavoro subordinato flessibile e di collaborazioni non subordinante in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Si è registrato così un calo del tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani. Più di recente sono tornate a crescere in misura buona le assunzioni a termine. Per quanto riguarda l’altro lato della flexicurity, ossia le politiche attive del lavoro, i ritardi sono rimasti notevoli, essendo appena partita la fase di sperimentazione di misure di sostegno di nuova fattura e filosofia, come l’assegno di ricollocazione. Si sono avuti promettenti risultati delle misure di incentivazione fiscale e in campo retributivo. Il tutto è rimasto condizionato da un andamento economico comunque debole o lento nel miglioramento e sfidato da fattori interni (indebitamento pubblico) ed esterni (terrorismo, Brexit, guerra ai dazi come in USA di Trump). Il diritto del lavoro deve tenere il passo anche con l’Industria 4.0: impiego su larga scala di tecnologie digitali in modo da arrivare ad una produzione automatizzata e interconnessa, dove il lavoratore si occupa di gestire le macchine. Rischi: disoccupazione e sostituzione del lavoro umano con le macchine. Vantaggi: i lavoratori sarebbero valorizzati come risorse e si ridurrebbero così le tendenze del lavoro usa-e- getta (lavoro troppo flessibile). In tutto ciò le tecniche di regolazione tradizionale, fondate su norme che impattano fortemente sulla realtà economico-sociale, potrebbero dover essere supportate da tecniche più soft, volte a promuovere l’autoregolazione degli stessi attori. 14. LE POLITICHE DEL LAVORO DEI GOVERNI CONTE I e II I punti fondamentali del contratto di governo erano i seguenti: • previsione di un salario minimo legale nelle situazioni non coperte da contrattazione collettiva. • Riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. • Semplificazione burocratica • riforma dei centri per l’impiego e rilancio delle politiche attive • contrasto alla precarietà e al jobs act nella parte in cui l’ha incentivata • ripristino lavoro accessorio • riorganizzazione del sistema educativo e formativo la prima mossa del governo è stata l’emanazione del d.l n.87/2018 decreto Dignità che ha previsto interventi restrittivi sui contratti di lavoro a termine e di lavoro somministrato, identificati come principali responsabili della precarietà. Il decreto-legge ha anche ritoccato verso l’alto l’importo risarcitorio previsto per il lavoratore ingiustificatamente licenziato nell’ambito del regime delle tutele crescenti. La Corte Costituzionale ha poi previsto che spettava al giudice determinare l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore illegittimamente licenziato. Infine, il d.l. ha previsto una misura contro la delocalizzazione delle imprese italiane o operanti in Italia, le quali sono state costrette, qualora trasferiscano la propria attività all’estero, a restituire i contributi pubblici che hanno percepito. Il governo ha poi voluto correggere la riforma pensionistica Fornero, con una parziale anticipazione dell’età pensionistica (quota 100) e ha istituito il reddito di cittadinanza, una misura di sostegno alla povertà, scollegata al lavoro che mira però anche al reinserimento dei beneficiari nel mondo del lavoro contenendo incentivi in tal senso. Il passaggio dal Governo Conte I a Conte II non ha segnato particolari svolte se non nel ritorno di alcune tematiche come l’introduzione del salario minimo legale. L’agenda da realizzare è stata stravolta completamente dalla grave crisi legata alla pandemia da Covid-19 che ha costretto il Governo ad una serie di interventi emergenziali volti soprattutto a neutralizzare o ritardare il più possibile l’impatto che la pandemia avrà sull’occupazione. Si è prevista una causale “Covid-19” della cassa integrazione guadagni per consentire alle imprese di non sostenere i costi fissi legati ai lavoratori che è stato vietato licenziare per ragioni economiche, e si è badato a predisporre un quadro di misure di protezione per garantire la sicurezza del rientro in servizio dei lavoratori, riuscendo a congelare momentaneamente la situazione. 15. MODELLO SOCIALE EUROPEO E GLOBALIZZAZIONE La dimensione nazionale è sempre meno importante nell’elaborazione delle politiche del lavoro. Ciò fa parte della crisi dello Stato nazionale che è assorbita in misura crescente da entità più ampie come l’UE. D’altra parte, processi come quelli di unificazione europea rappresentano anche un modo di resistere alla competizione dei paesi emergenti. Quella che stiamo vivendo è anche una grande trasformazione del capitalismo globale che sta creando le condizioni strutturali di una prevalenza degli interessi dei consumatori e degli investitori su quelli dei lavoratori. Non si sbaglia a ravvisare nella globalizzazione la causa di fondo delle difficoltà attraversate dai sistemi di diritto del lavoro. L’UE sta cercando sin dal 2000 un modo per rilanciare il potenziale economico dell’Europa difendendone e riqualificandone il modello sociale ma ad oggi è una questione ancora irrisolta. L’UE ha provato a riaffermare la propria caratterizzazione sociale tramite la proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, che da voce ad obiettivi nel campo della sostenibilità sociale dello sviluppo economico. L’azione pubblica deve concentrarsi oltre che sul lavoro, sul fenomeno della povertà e sull’emarginazione sociale. Ma tutto dipende, dal punto di vista dal quale ci poniamo se proviamo ad immedesimarci nei paesi emergenti, la prospettiva muta sensibilmente. Le risposte alla domanda se la globalizzazione sia positiva o negativa sono innumerevoli; in questa sede ci si limiterà a notare come la crescita della ricchezza di ampie aree del mondo sia stata, nel recente periodo, vistosa, se non strabiliante. La globalizzazione ha sottratto alla povertà quote enormi di popolazione mondiale. D’altra parte, però solo un terzomondismo infantile poteva indurre a pensare che un riequilibrio del reddito mondiale, come quello che si sta verificando, non avesse ripercussioni sui livelli di ricchezza dei paesi più avanzati. Riguardo la globalizzazione, rimane irrisolto il problema del governo di questo fenomeno, perché non vi sono istituzioni mondiali abbastanza incisive sulla realtà di un capitalismo che sta sconvolgendo gli assetti del pianeta e anche per l’incertezza sulle strategie da adottare. È difficile dividere il mondo tra buoni e cattivi, nonostante si possa convenire su alcuni obiettivi: come i diritti fondamentali e gli standard di lavoro decente. Ancor più importante sarebbe che lo sviluppo economico portasse con sé la dote di una crescita dei livelli di protezione e degli standard sociali. Nei paesi della nostra parte di mondo crescono ogni giorno di più le resistenze e le reazioni nei confronti della globalizzazione. Basi pensare alla Presidenza Trump, che per la prima volta da molto tempo ha portato la maggiore economia mondiale sul fronte dell’opposizione alla globalizzazione e della protezione, con il vecchio strumento dei dazi, dell’economia nazionale. Quella fra i difensori e gli oppositori della globalizzazione è indicata da molti come la grande divisione dei tempi che ha persino messo da parte quella tradizionale tra destra e sinistra. La pandemia del Covid-19 potrebbe rafforzare la posizione degli oppositori a meno che ci sia un grande avanzamento del tasso di digitalizzazione. In ogni caso la sfida resta quella di come realizzare e avviare un processo regolativo globale orientato alla sostenibilità economica, sociale e ambientale che tuttavia, mancando uno stato globale, dovrà procedere sulla base di tecniche regolative nuove, rivolte a promuovere l’autoregolazione degli attori (stati, imprese multinazionali, sindacati, consumatori, organizzazioni non governative ecc…) secondo un paradigma di diritto riflessivo. CAPITOLO 3: DIRITTO DEL LAVORO E SCIENZE SOCIALI 1. NOTE MINIME SUL DIRITTO DEL LAVORO E POLITICA Nella lettura e interpretazione del diritto c’è un intreccio tra punto di vista interno al sistema giuridico ed esterno, che comporta l’esposizione della conoscenza giuridica a saperi non giuridici. Può trattarsi di semplici saperi esperienze, che cioè rimandano ad esperienze specifiche proprie di determinati campi di azione, come ad esempio il sapere politico. Il giurista è un cittadino e come tale ha le sue idee politiche, che non possono non influenzarlo nell’approccio al diritto, specie in ambiti così sensibili come il diritto del lavoro. La politica è anche la sede del potere legislativo, per cui è quasi fatale che il dibattito tra i giuristi sul diritto “posto” si intrinsechi, e talora si confonda, con quello sul diritto “da porre”. Ma come deve muoversi, il giurista, rispetto alla politica? Deve essere un mero tecnico o può spendersi senza remore nella costruzione del diritto, nella “politica del diritto”? La risposta della stragrande maggioranza dei giuristi del lavoro, a cominciare dal caposcuola Giugni, è sempre stata nel secondo senso, dal che è derivato l’impegno diretto di molti giuslavoristi nel ruolo di consulenti della politica, o di politici a tutti gli effetti, il che ha alimentato un dibattito pubblico già molto sensibile ai temi del lavoro. La politica del diritto viene in auge nelle fasi di trasformazione della società, in particolare negli anni ’90 con la crisi del diritto del lavoro. Il tocco finale è stato poi dato dal berlusconismo. Ciò dovrebbe interessare molto il giuslavorista che da sempre ha privilegiato l’effettività dei codici di azione sociale e ha prestato attenzione a sé, quanto e come le norme riescano a influenzare effettivamente il funzionamento quotidiano delle relazioni sociali. Tale attenzione alla fattualità non si è esercitata su tutti i fronti: il giuslavorista ha sempre prestato molta attenzione alle violazioni ed elusioni delle norme di tutela, ignorando problematiche anche più complesse, come quelle relative al mercato del lavoro. La materia lavorista si interseca molto anche con i comportamenti collettivi, che devono essere in primis studiati nelle loro dinamiche spontanee. I sindacati, le politiche e il sistema delle relazioni sindacali, sono oggetto di un filone della ricerca sociologica che ha acquisito nel tempo un’autonomia, per quanto oggi sia stata messa in crisi dalle difficoltà del sindacalismo occidentale. La rilevanza sociale dei temi di impresa e del lavoro è tale che tutte queste teorie, intersecandosi con la riflessione economica e con quella filosofica, non possono non riguardare da vicino il diritto del lavoro. 4. TRA EGUAGLIANZA E LIBERTÀ: IL DIRITTO DEL LAVORO E LA FILOSOFIA SOCIALE Il diritto del lavoro si è sempre posto quale portatore di valori umanistici riconducibili alla parte migliore della tradizione civile europea, ed ha sempre mantenuto con tali valori, uno stretto collegamento. Il diritto del lavoro ha partecipato a pieno al progetto illuministico del progresso guidato dalla ragione nel quale poi si è incarnata l’idea di modernità. La connotazione umanistica e di emancipazione del diritto del lavoro, si è mantenuta intatta anche mentre si profilava lungo il corso del Novecento, la crisi delle pretese totalizzanti del razionalismo contemporaneo (crisi della modernità). Il grande rimescolamento di carte prodotto dalla globalizzazione ha riaperto il dibattito sui modelli di convivenza sociale e sui rispettivi valori ispiratori. E pare tuttora difficile che quel dibattito possa prescindere dal tornare a misurarsi con le due più vecchie conoscenze della riflessione politica e sociale occidentale: la liberà e l’eguaglianza. Libertà ed eguaglianza erano riuscite a condurre una pur non tranquilla convivenza nell’esperienza della Rivoluzione francese. Negli instabili assetti post-rivoluzionari, i due concetti hanno preso strade decisamente diverse; si sono create le condizioni di un crescente intervento diretto dello Stato nella sfera delle attività economiche, in funzione correttiva delle dinamiche dei mercati. A quel punto si è consumata una divaricazione, che ha si che libertà ed eguaglianza non riuscissero più a procedere di concerto (vedi le limitazioni sulla libertà del lavoratore sottratte per non farlo cedere al “monopolio” del datore di lavoro. Da un lato, la libertà è divenuta sinonimo di astensionismo legislativo, dall’altro l’eguaglianza è assurta a mera regolativa dei programmi di azioni pubblica. Ebbene, pare possibile sostenere che questa esclusiva propensione della materia all’eguaglianza, a scapito della libertà, debba essere oggi ripensata. Non perché l’eguaglianza non debba continuare ad essere una valore fondante, ma per adattare tale valore ad un contesto pluralistico, nel quel possa trovare posto anche la libertà. La globalizzazione ha riportato in auge il modello della competizione concorrenziale tra economie e imprese, ma anche tra individui. Anche oggi si ripete che la principale dotazione del lavoratore è la conoscenza. Quella del merito individuale che dovrebbe regolare la competizione, è una categoria concettuale e sociologica rimasta quasi del tutto nell’ombra del tradizionale approccio al diritto del lavoro. Per converso il fatto che i modelli collettivi siano in crisi e quelli individualistici siano tornati dominanti non implica una resa senza condizioni al liberismo, spesso bollato come selvaggio, e con essa l’abbandono di prospettive di equità e coesione sociale. È possibile continuare a coltivare una dimensione valoriale che consenta di fondare l’utilità di un’azione pubblica all’interno di una prospettiva di buona regolazione del mercato. Ma in nome di quali valori dovrebbe dunque essere sviluppata l’azione pubblica? Personale opinione è che i tempi siano maturi perché la cultura giuslavoristica cominci a includere tra i suoi riferimenti privilegiati quelle correnti del liberalismo sociale, che si sono impegnate nello sforzo di riconciliare una visione del mondo con l’idea che debba essere non soltanto sopportata, ma promossa, un’azione pubblica finalizzata al perseguimento di obiettivi sociali. Un’azione rivolta a fornire a ciascuna persone quelle “capabilities” che le restituiscano un’effettiva sovranità e piena responsabilità sulla propria esistenza e quindi capace di conferire uno spessore di sostanzialità al principio di eguaglianza di pari opportunità. Una nuova focalizzazione della cultura lavoristica sul principio di libertà sostanziale non è in antitesi con i diritti, che la libertà presuppone, nei limiti in cui tali diritti sono rivolti a proteggere e promuovere la libertà di scelta dell’individuo e non ad orientarla e condizionarla. Infatti, un eccessivo o poco calibrato ritrarsi dei diritti tende a ricreare condizioni di libertà senza autonomia. Per cui fra i diritti da salvaguardare dovrebbero essere inclusi anche i tradizionali diritti di opposizione. Se la tutela si focalizzasse sulla persona, dovrebbe esserne oggetto anzitutto il lavoro come mezzo, piuttosto che il lavoro come fine. È l’individuo, insomma, il sovrano ultimo del senso da attribuire al lavoro, anche se questo non esclude che l’ordinamento debba incoraggiare la qualità complessiva del medesimo. 5. I VALORI DEL DIRITTO DEL LAVORO Il diritto del lavoro non può essere giustificato da una sola grande teoria. Alcuni hanno affermato che per uscire dalla crisi del diritto del lavoro l’unica opzione sia discutere in modo aperto dei fini della materia, nonché soprattutto dei corrispondenti mezzi. Per Guy Davidov questi sono i valori: la democrazia (nel posto di lavoro), la redistribuzione delle risorse, la protezione dei diritti umani e della dignità della persona, la promozione dell’inclusione sociale e/o dell’idea di cittadinanza sociale la stabilità/sicurezza delle relazioni di lavoro, la libertà e le capacità umane e l’efficienza economica. Alcuni rientrano nella libertà e eguaglianza. Non tutti i diritti dei lavoratori sono qualificabili come diritti umani. Quello sui valori rimane tuttora un dibattito aperto, per quanto sia discusso se si debba fare riferimento a teorie di ordine generale o si debba focalizzarsi su riferimenti più specifici della materia. 6. IL VALORE DEL LAVORO La proposta focalizzazione sul valore della libertà ha come corollario una sorta di svuotamento simbolico del lavoro, in quanto se il lavoro viene riguardato da una prospettiva di libertà e delle vite individuali, non può non risaltare che esso è la fonte di produzione di reddito, e quindi un’attività economica affine ad ogni altra. Ed è in questa aspirazione al reddito che il lavoratore deve essere tutelato. Se si tutela la persona, l’oggetto è il lavoro come mezzo. Ma il lavoro è anche un fine, una dimensione fondamentale della vita personale e sociale di ciascuno e quindi uno strumento di realizzazione della propria personalità e di socializzazione. È la persona stessa il sovrano ultimo del senso da attribuire al lavoro. Ma ciò nulla toglie al lavoro come fonte di integrazione sociale e accesso alla cittadinanza, che quindi deve essere tutelato e promosso complessivamente. Ma di quale lavoro si parla? Quello astratto o quello concreto dell’esperienza individuale e sociale? Il lavoro può essere inteso come attività umana non creativa che fa parte del ciclo biologico naturale, volto a produrre beni di consumo e condannata e nascere e morire perennemente. Oppure può essere l’opera, prodotta dalle nostre mani e dal nostro intelletto, che non da luogo a beni, ma ad oggetti d’uso il cui impiego non determina sparizione. Il lavoro oggi è anche espressione di noi stessi. CAPITOLO 4: LA COSTITUZIONE 1. FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DEL LAVORO La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 ha per il diritto del lavoro italiano, un’importanza non soltanto giuridica (in quanto fonte superiore dell’ordinamento), ma anche storica, come parte integrante di quel movimento costituzionale contemporaneo che ha accompagnato e consolidato la trasformazione dello Stato liberale in Stato democratico-liberale e sociale. La Carta Costituzionale ha conferito al diritto del lavoro una definitiva legittimità nell’ambito dell’ordinamento giuridico, influenzando in misura decisiva i successivi sviluppi della legislazione del lavoro, in quanto diritto “di attuazione costituzionale”. Ciò è avvenuto tramite il riconoscimento, in aggiunta alla tutela dei diritti civili (liberali) e politici (democratici), di una terza generazione di diritti, i diritti sociali, aventi ad oggetto la protezione o liberazione da una condizione materiale di dipendenza e/o di bisogno. Proprio perché il presupposto del loro riconoscimento è una condizione reale, i diritti sociali non conoscono, in linea di principio, limitazioni di ambito, e, di conseguenza, comprendono: a) Diritti aventi ad oggetto la pretesa a prestazioni pubbliche, erogate dallo Stato o da altri enti pubblici, come il diritto all’istruzione, a una pensione decente etc. b) Diritti aventi rilievo “orizzontale”, ossia afferenti al piano dei rapporti inter privati, quale il rapporto di lavoro subordinato. L'esempio più famoso è il diritto ad una retribuzione “sufficiente”, garantito dall’art. 36 Cost. Questa seconda tipologia di diritti sociali è stata la più “rivoluzionaria”, avendo inciso sulle relazioni economico- sociali. È dunque pienamente lecito, in conclusione, parlare di un fondamento costituzionale del diritto del lavoro. 2. “FONDATA SUL LAVORO” àSe il diritto del lavoro si fonda sulla Costituzione, la Repubblica italiana è, a sua volta, “fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.). La “riscoperta” del principio di tutela del lavoro, in questa più ampia accezione, ha alimentato critiche nei riguardi della condizione di privilegio che, secondo alcune opinioni, il successo del diritto del lavoro ha comportato a favore dei lavoratori subordinati. Pertanto, l’art. 35 comma 1 è talora invocato per giustificare un riequilibrio delle tutele a favore di alcune categorie di lavoratori – quelle supposte più deboli – non subordinati. 8. LA LIBERTÀ DI INIZIATIVA ECONOMICA E I SUOI LIMITI → L’art. 41 è importante, per il diritto del lavoro, soprattutto in ragione del comma 2 il quale, sul presupposto del riconoscimento della libertà di iniziativa economica, pone limiti all’esercizio della medesima, la quale “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. Peraltro, la norma in discorso non è considerata, dai più, direttamente precettiva, giacché essa richiede un’attuazione da parte del legislatore, in una logica che dovrebbe essere di equilibrato contemperamento tra la libertà economica e l’utilità sociale. È quello che ha fatto negli anni, per l’appunto, il legislatore lavoristico, instancabile produttore di limiti esterni allo svolgimento della libertà economica, di modo che il diritto del lavoro nel suo complesso insieme si può considerare una normativa di attuazione (oltre che dei principi di tutela del lavoro e di eguaglianza sostanziale) art. 41 comma 2. 9. LA COLLABORAZIONE DEI LAVORATORI ALLA GESTIONE DELL’IMPRESA → Il legislatore non si era limitato a disegnare uno scenario di polarizzazione (e di tendenziale contrapposizione) tra la libertà di iniziativa economica e l’utilità sociale, ma aveva altresì immaginato, in positivo, che “ai fini dell’evoluzione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione”, i lavoratori fossero chiamati a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende (art. 46 Cost.). È qui contenuta la giustificazione costituzionale dell’idea della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, che è stata peraltro oggetto, per lungo tempo, di un vero e proprio discredito. Ciò in un contesto sindacale e culturale dominato da una visione conflittuale dei rapporti sociali, e dunque dal rifiuto di compromessi strategici con la controparte sociale. L’epoca del discredito si è poi esaurita, tanto che gli istituti partecipativi si sono fatti strada, prima a livello di contrattazione collettiva e poi di legislazione. 10. IL PRINCIPIO DI BUONA AMMINISTRAZIONE → L’art. 97 comma 1, il quale recita che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”, potrebbe sembrare estraneo, a prima vista, al campo di interesse del diritto del lavoro, concernendo le finalità, tipicamente pubblicistiche, dell’azione delle pubbliche amministrazioni. La riflessione su questa norma è tornata, tuttavia, di attualità, da quando il legislatore ha ritenuto, col processo di “privatizzazione” della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che la finalizzazione pubblica dell’azione amministrativa potesse essere salvaguardata, ed anzi ancor meglio realizzata, sottoponendo i rapporti di lavoro pubblico alla logica, tipicamente privatistica, della contrattualità, soprattutto di marca collettiva. 11. IL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ECONOMIA E DEL LAVORO L’art. 99 Cost. prevede l’istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) composto da esperti e rappresentanti delle categorie produttive e del mondo sindacale. Il CNEL è un organo di consulenza del Parlamento e del Governo nelle materie dell’economia e del lavoro, è titolare del potere di iniziativa legislativa e può contribuire alla legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge. Le funzioni del CNEL sono soprattutto consultive e di valutazione e studio, inoltre gestisce l’archivio nazionale dei contratti di lavoro. L’idea alla base di questo organo era la creazione di un canale diretto tra produttori, organi di governo e legislazione, l’obiettivo non è mai stato raggiunto. Il disegno di legge di revisione costituzionale proposto dal Governo Renzi prevedeva l’abolizione di questo ente, dopo essere stata approvata dal parlamento la riforma è stata però respinta dal referendum popolare del 2016. Allo stato il CNEL è impegnato nell’opera di ricognizione dei CCNL. CAPITOLO 5: IL DIRITTO DEL LAVORO INTERNAZIONALE E DELL’UE 1. IL DIRITTO INTERNAZIONALE DEL LAVORO L’ordinamento italiano non vive in una condizione di isolamento, ma si collega in vario modo a fenomeni istituzionali che ne travalicano, in vario modo, i confini. È il caso delle norme di diritto internazionale, che in forza dell’adesione dell’Italia a Trattati e/o Convenzioni, debbono essere applicate dal Paese, e, soprattutto, del diritto dell’Unione Europea. Fra le due situazioni vi è, tuttavia, un’importanza differenza. L’applicazione delle norme di diritto internazionale è il frutto dell’assunzione di obblighi specifici da parte dello Stato, sotto l’egida dell’art. 10 comma 1 Cost., e non è mai un’applicazione diretta (bensì al massimo indiretta, ossia – come specificato dalla Corte Costituzionale – per il tramite di un giudizio interno di incostituzionalità). In materia di lavoro, rientrano tra le norme in discorso, tra le altre, alcune normative di respiro molto generale, e pertanto dotate di un ovvio impatto anche nelle relazioni del lavoro, come: - La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea Generale ONU il 10 dicembre 1948; - La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950; - Le numerose Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia specializzata ONU, della quale l’Italia fa parte sin dalla fondazione avvenuta nel 1919. Tuttavia, le norme appena ricordate, proprio perché indirizzate a tutti i Paesi, anche e soprattutto quelli in via di sviluppo, sono rapportate a livelli minimali di protezione, che in genere sono abbondantemente garantiti dalle leggi italiane e europee. È questa una ragione per cui l’esistenza di tali norme viene, spesso, quasi dimenticata. Assai maggiore, invece, è l’importanza del diritto dell’Unione Europea, ma non tanto perché le sue norme sono rapportate alla più vicina realtà europea, bensì per la loro diversa capacità di incidenza nell’ordinamento interno. 2. IL DIRITTO SOCIALE EUROPEO: GENESI E SVILUPPO Il “diritto sociale europeo” (l’equivalente di ciò che nell’esperienza italiana si designa come diritto del lavoro) ha avuto un’importanza crescente nello sviluppo del diritto del lavoro italiano e degli altri paesi membri della Comunità Europea. Si rende opportuna, a tal fine, una breve premessa storico-giuridica. La Comunità Europea è stata istituita, il 23 marzo 1957, con il Trattato di Roma, che si è proposto l’obiettivo della creazione di uno spazio commerciale comune, nel quale merci, capitali e lavoratori potessero circolare, e dunque competere, liberamente. Si è soliti affermare, di conseguenza, che la ratio originaria della Comunità è puramente economica, rimanendone estranei obiettivi di maggiore respiro, come l’unificazione degli standard sociali. È probabile che la creazione di un modello sociale europeo non rientrasse nelle finalità originarie dei padri fondatori della Comunità. La propensione sociale dei paesi europei era, beninteso, già delineata, ma il radicamento dei diritti sociali era saldamente nazionale. La versione originaria del Trattato conteneva, infatti, soltanto due disposizioni aventi ricadute sociali, entrambe ancora vigenti. La prima di esse (art. 45 TFUE) stabilisce il principio della libera circolazione dei lavoratori (privati) fra tutti i paesi dell’Unione, con l’apertura delle frontiere alle migrazioni di lavoratori. L’altra disposizione “sociale” (art. 157 TFUE) sancisce la regola della parità di retribuzione tra uomini e donne sul lavoro, che è stata inserita nel Trattato non tanto per una preoccupazione sociale, bensì come parte dello strumentario finalizzato al perseguimento dell’obiettivo primario della Comunità: proteggere la libertà di concorrenza all’interno del mercato comune. La concorrenza è condizionata infatti dai differenziali nei costi del lavoro, per cui le imprese che applicano standard protettivi inferiori hanno buon gioco nel fare concorrenza alle imprese dei paesi socialmente più evoluti. La norma è diventata così, acquisendo una sfumatura sociale, l’embrione del diritto sociale europeo, che ha iniziato a prendere forma nel 1975 circa con la presa di coscienza che per garantire una concorrenza paritaria tra imprese europee bisognasse armonizzare gli standard sociali. L’espressione istituzionale di tale presa di coscienza è l’attuale art. 115 TFUE, ove è prevista l’emanazione di direttive “volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato interno”. I temi toccati dalle direttive di “armonizzazione sociale” sono stati svariati e importanti: licenziamenti collettivi; diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese; parità tra uomo e donna; tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori […] Tali direttive hanno dato vita a un importante corpus di diritto sociale, che ha profondamente inciso, in senso modernizzante, sul diritto nazionale. Non c’è quasi legge italiana importante che non abbia alle spalle una direttiva europea. La nascita del diritto sociale europeo, che trovava ragione di esistere in sé stesso, ha portato anche alla modifica di alcuni trattati. Il trattato di Amsterdam ha impresso una forte svolta in campo sociale al processo di integrazione, aggiungendo l’obiettivo di un elevato livello di occupazione e della parità tra uomini e donne nelle condizioni di lavoro. Il Trattato di Nizza ha agito sulla lotta all’esclusione sociale e alla modernizzazione dei regimi di protezione sociale. È stata anche adottata la Carta dei diritti fondamentali. Il Trattato di Lisbona ha attribuito carattere vincolante alla Carta, stabilendo anche le clausole sociali orizzontali, per le quali l’Unione nell’elaborazione e attuazione delle sue politiche deve tenere di conto i livelli di occupazione, la protezione sociale e la tutela dell’ambiente. Oggi le prospettive dell’Unione sono incerte. L’azione di ravvicinamento normativo, pur ancora forte, è comunque rallentata. Inoltre, la sfida della globalizzazione è ardua da fronteggiare. Le tensioni sono esplose con la crisi dei debiti pubblici degli stati sovrani che ha prodotto una frattura tra i paesi dell’area tedesca e nordica e quelli dell’area mediterranea (con Francia in bilico tra i due gruppi). Questi paesi per restare nell’euro si sono trovati a dover rispettare rigorose prescrizioni che hanno avuto un impatto recessivo sulle loro economie (Grecia). Il problema di fondo è l’aver realizzato un’unione monetaria non supportata da un’unione finanziaria e bancaria, che avrebbe richiesto passaggi politici di tipo federale. Lo smarrimento è stato accresciuto dalla Brexit anche se potrebbe trasformarsi in un’opportunità per la rispettivamente, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri, ed interviene, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista possano essere conseguiti meglio a livello di Unione piuttosto che di Stati membri. Ma, al di là di tale principio generale, in campo sociale è decisiva l’indicazione delle materie di competenza dell’Unione Europea. È molto importante, altresì, la regola procedurale (maggioranza o unanimità) da seguire per l’adozione delle direttive, giacché l’unanimità consente, anche a uno solo fra i 28 Stati membri, di porre il veto. L’art. 153 TFUE distingue, a tale riguardo, tre categorie di materie: a. Materie per le quali l’adozione di direttive, da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, è possibile secondo la procedura legislativa ordinaria, cioè a maggioranza qualificata, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni: condizioni di lavoro; miglioramento dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori. b. Materie nelle quali l’adozione di direttive è possibile, da parte del Consiglio, previa consultazione del Parlamento Europeo e dei predetti Comitati, secondo una procedura legislativa speciale, all’unanimità: protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro; condizioni di impiego dei lavoratori extraeuropei. c. Materie nelle quali è escluso qualsiasi intervento degli organi comunitari: retribuzioni, diritto di sciopero. 5. LA DIRETTIVA La fonte di gran lunga più importante del diritto sociale europeo è rappresentata dalle direttive. Tra i soggetti istituzionali deputati ad adottarle, oltre al Consiglio e al Parlamento, un ruolo importante è affidato alle associazioni sindacali europee (associazioni sindacali di secondo grado: principalmente Ceep per i sindacati dei lavoratori, e Unice per gli imprenditori). Ciò con la previsione (art. 154 TFUE) di una procedura in virtù della quale, prima di presentare proposte nel campo della politica sociale, la Commissione europea deve consultare le parti sociali a livello europeo, per conoscerne l’orientamento. In occasione di tali consultazioni, le predette possono informare la Commissione della volontà di addivenire, entro 9 mesi, alla stipulazione di un accordo collettivo sulla materia oggetto della possibile direttiva. Tale accordo può mantenere uno status di contratto (la cui attuazione viene a dipendere dalle regole e dalle prassi vigenti, al riguardo, nei singoli Stati), oppure, se verte su una materia di competenza dell’Unione, può essere versato, “a richiesta congiunta delle parti firmatarie”, in una direttiva formale, e ciò in base ad una decisione del Consiglio (a maggioranza qualificata o all’unanimità a seconda delle materie), adottata su proposta della Commissione (art. 155 TFUE). Importanti direttive sociali, come quelle sul part-time e sul contratto a tempo determinato, sono state precedute da accordi quadro stipulati tra le associazioni sindacali europee. Sotto il profilo dell’efficacia giuridica, le direttive vincolano lo Stato membro (e non direttamente i cittadini) per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in ordine alla forma e ai mezzi rivolti a perseguire tali risultati. A differenza delle norme del Trattato, e dell’altra fonte costituita dai regolamenti, essi non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento interno, ma necessitano di essere recepite da una legge nazionale. Sul punto c’è stata, peraltro, un’evoluzione nella giurisprudenza della CGUE, il cui esito è stato che la direttiva continua a non essere considerata efficace nei rapporti tra privati (ossia non ha efficacia “orizzontale”), ma si ammette che essa abbia un’efficacia “verticale”, nel rapporto fra cittadini e rispettivo Stato, a condizione, però, che le prescrizioni della direttiva in questione siano chiare, precise e incondizionate (direttive c.d self- executing). Qualora tali attributi non ricorrano, e lo Stato non abbia ottemperato all’obbligo di recepire la direttiva entro il termine concesso, il cittadino ha titolo ad un risarcimento dei danni da parte dello Stato di appartenenza (in tal senso, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza Francovich). L’efficacia verticale non riguarda quasi mai le questioni di diritto del lavoro, che si svolgono sul piano del rapporto privatistico tra lavoratore e datore di lavoro. Se fa difetto l’efficacia diretta, il soggetto interessato a far valere la violazione della direttiva (di solito il lavoratore), o riesce a persuadere il giudice che la norma nazionale è interpretabile in conformità alla direttiva (è il cd. dovere di interpretazione uniforme), o – se questa interpretazione non è possibile – non ha a disposizione rimedi decisivi. Il percorso normale è che una direttiva sia recepita dallo Stato nazionale, se possibile entro il termine all’uopo previsto. La recezione deve avvenire tramite una legge dello Stato, che rimane sovrana, in linea di massima (ma esistono anche prescrizioni comunitarie di dettaglio, che non consentono alcuna discrezionalità in sede attuativa), in ordina alla scelta e ai mezzi migliori per perseguire i fini indicati dalla direttiva. Del pari, la legge è libera di prevedere o mantenere trattamenti più favorevoli, per i lavoratori, di quelli previsti da una direttiva, che contiene prescrizioni minime di trattamento. Effetti particolari si ricavano dalle direttive che contengono clausole di non regresso, le quali escludono che l’attuazione di una direttiva da parte di uno stato giustifichi il regresso del livello di protezione, ove lo stato lo garantisca in misura più elevata della direttiva. Una volta emanata, la legge di recepimento delle direttive non perde il collegamento con le altre direttive, in quanto comunque permane il dovere del giudice di scegliere, tra le varie interpretazioni di una disposizione, quella più conforme alla direttiva. Si deve tenere conto, infine, che anche a proposito della recezione delle direttive, il TFUE riserva un ruolo significativo alle parti sociali, giacché prevede che uno Stato membro affidi ad esse, su loro richiesta congiunta, il potere di recepire una direttiva tramite contratto collettivo. Ma nell’ordinamento italiano, a dispetto dell’importanza del contratto collettivo, questa tecnica di recezione non ha potuto, sinora, essere utilizzata, in quanto il contratto collettivo non dispone di un’efficacia erga omnes, a causa della non attuazione dell’art. 39 seconda parte Cost. 6. LA POLITICA EUROPEA PER L’OCCUPAZIONE Gli stati membri dell’UE hanno inoltre acquisito, una crescente consapevolezza, della necessità di un maggiore coordinamento fra le politiche occupazionali europee, rivolto a migliorare l’efficienza dei rispetti mercati del lavoro. In questa direzione un importante traguardo raggiunto dalla UE è l'istituzione (sin dal Consiglio europeo di Lussemburgo del 1997) della “Strategia europea per l'occupazione” che prevede la presentazione annuale da parte di ogni stato, di un Piano nazionale per l'occupazione, seguita da una discussione a livello europeo per valutare i risultati raggiunti da ciascuno stato e permettere agli altri stati di riprendere, se non proprio copiare, queste esperienze. La Strategia europea per l’occupazione, non si fonda su una integrazione normativa in senso classico, ma su un metodo detto di “Coordinamento aperto” che si fonda sull'indicazione di criteri guida dell’azione comune, (il cui rispetto viene verificato ogni anno qualora siano presentati, da parte di ogni stato i rapporti nazionali sull’occupazione); e su strumenti non coercitivi di pressione politica. La politica occupazionale europea è partita sulla base di 4 obiettivi: - occupabilità: per promuovere la quale, gli stati sono sollecitati a promuovere la formazione e qualificazione professionale della forza lavoro, in modo da rendere i lavoratori appunto occupabili, cioè capaci di inserirsi o reinserirsi, in mercati di lavoro più fluidi e più dinamici di quelli del passato, nei quali, quindi, potrà essere più facile perdere il posto di lavoro, ma dovrebbe anche essere meno difficile trovarne uno nuovo. - adattabilità: l’opportunità di una gestione dinamica della forza lavoro, adattata alle mutevoli condizioni produttive e commerciali - imprenditorialità: politiche miranti, ad incentivare lo sviluppo di iniziative imprenditoriali qualificate - pari opportunità: la cui promozione implica azioni a favore delle categorie svantaggiate. La strategia per l’occupazione ha sì contribuito all’integrazione e al coordinamento delle politiche occupazionali europee, ma ha poi perduto smalto, specie quando la crisi globale del 2007-2008, ha portato ciascuno stato a reagire in modo isolato, alle ricadute, che la recessione ha provocato in materia occupazionale. A tale indirizzo si è sovrapposta l’adozione della flexicurity, con la quale gli organismi europei hanno alzato il tiro in favore di una riforma dei diritti del lavoro nazionali sotto il segno di una maggior flessibilità, compensata da una maggior sicurezza del lavoratore nel mercato del lavoro. Gli Stati Membri hanno approvato nel 2017 il Pilastro europeo dei diritti sociali, che prevede 20 principi e diritti sociali: dal diritto all’occupabilità, a quello dell’apprendimento permanente, dall’equa retribuzione al reddito minimo, dalla parità di genere a una miglior conciliazione della vita-lavoro. CAPITOLO 6: LE FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO 1. LA BASE LEGISLATIVA DEL DIRITTO DEL LAVORO Il diritto del lavoro italiano ha da sempre puntato in modo forte, oltre che sulla contrattazione collettiva, sulla legislazione. La legge statale ne costituisce, in effetti, l’ossatura fondamentale, che si è formata nel tempo tramite un’opera incessante di addizioni e interpolazioni. Il panorama della legislazione lavoristica è, dunque, molto intricato, e soltanto in minima parte ha contribuito a semplificarlo l’avvento di alcuni testi unici (su materie come la tutela della salute e della sicurezza, la disciplina della maternità e della paternità). Oltretutto, il tasso di qualità della normazione ha subito un crescente scadimento, anche a causa della prassi di inserire norme di settore, anche di diritto del lavoro, all’interno di maxi-provvedimenti, il che aggrava i già seri problemi di conoscibilità delle norme. L’istanza di semplificazione ha trovato una prima traduzione nel diritto positivo nell’ambito del Jobs Act, dove un d.lgs ha previsto una disciplina organica delle forme di contratto di lavoro non standard, tramite la riscrittura e il riordino delle norme precedenti, nel contempo abrogate. Un diverso fenomeno, anch’esso non esente da tratti degenerativi, è quello per cui la legislazione di diritto del lavoro tende sempre più a procedere, non attraverso leggi elaborate e discusse in Parlamento, bensì per decreti legislativi, emanati sulla scorta di leggi delega spesso carenti sotto il profilo della specificità dei principi e dei criteri direttivi. Il diritto del lavoro è da sempre caratterizzato da un pluralismo di fonti, del quale si mira ad offrire una rappresentazione statica e dinamica. 2. LA COMPETENZA LEGISLATIVA STATALE E QUELLA REGIONALE Nel testo originario non vi erano dubbi che il diritto del lavoro fosse di competenza statale. Alla luce del nuovo testo dell’art. 117, come modificato con legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3, si è creata una deprecabile situazione di incertezza sulla futura ripartizione delle competenze normative nella materia del diritto del lavoro. È stata introdotta la distinzione fra le seguenti categorie di materie: a) Materie di competenza statuale esclusiva. b) Materie di potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni, con competenza dello Stato in merito alla delineazione dei principi fondamentali, e delle Regioni per quanto concerne la relativa normativa di attuazione. c) Materie di competenza regionale esclusiva, cioè tutte quelle non comprese nelle categorie sub a) e b). SEZIONE SECONDA – DIRITTO SINDACALE CAPITOLO 1: ORGANIZZAZIONE E AZIONE SINDACALE 1. DIRITTO SINDACALE: DEFINIZIONE Il diritto del lavoro, come sappiamo si ripartisce in: - diritto del lavoro in senso stretto cioè il diritto del rapporto individuale di lavoro subordinato - diritto sindacale cioè quel complesso di norme poste dallo Stato o dalle associazioni sindacali contrapposte, volte a disciplinare le relazioni intercorrenti fra i soggetti collettivi, sul terreno dei rapporti di produzione e lavoro. Atteso che, l’attività di autotutela degli interessi delle categorie economiche fa capo, anche se non esclusivamente, alle associazioni sindacali, il diritto sindacale è quella branca del diritto del lavoro che si occupa di sindacati, contratto collettivo e sciopero. Tuttavia, prima delle regole, vengono i comportamenti spontanei dei soggetti collettivi. Le relazioni sindacali, si svolgono anzitutto sul terreno della prassi, e solo in minima parte si lasciano catturare da regole giuridiche, le quali, dove esistenti, costituiscono un mero tentativo di indirizzare su determinati sentieri i comportamenti dei soggetti collettivi. Tra l’altro, bisogna altresì dire che, al di là dei principi e delle regole di provenienza legislativa o giurisprudenziale, il sistema sindacale è inoltre in grado di elaborare regole “proprie”, alcune delle quali, in particolare quelle di natura contrattuale (come quelle dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011) riescono ad acquisire una valenza giuridica. Ma vi sono, anche altre regole, che fungono solo da codici di condotta per le parti (es. quelle per cui non si proclamano scioperi nell’immediatezza della conclusione di una vertenza, oppure quelle per cui alla stipulazione di accordo segue l’effettiva sottoscrizione di un contratto collettivo): questa dimensione è stata valorizzata nella teoria del cd. ordinamento “intersindacale”. Tutto ciò non toglie che la dimensione delle regole, nelle relazioni sindacali, rimanga comunque importante, siano esse di fonte costituzionale-legislativa oppure collettiva. E ciò presuppone che le regole in discorso, seppur prodotte dall’ordinamento intersindacale, abbiano valore anche in quello statuale. 2. I SINDACATI Il movimento sindacale si è espresso, nel tempo e nelle differenti esperienze nazionali, attraverso una estrema diversità di forme organizzative e attraverso un’estrema diversità di rapporti con il sistema economico e politico. Detto ciò, è da dire che, l’identità di un sindacato è connotata in primis dal tipo di modello organizzativo, ossia dalla composizione “quantitativa e qualitativa” dei soggetti (lavoratori) che vi aderiscono. Il modello organizzativo, in pratica, delimita l’ambito dell’azione di rappresentanza del sindacato. La forma più antica di sindacalismo è il sindacalismo di mestiere, che è il frutto dell’aggregazione di lavoratori accomunati dal fatto di svolgere un medesimo mestiere. È sorto nell’800, attorno ai mestieri più importanti e qualificati dell’epoca cioè le cd. aristocrazie operaie, gli unici a poter avere un qualche peso negoziale nei confronti degli imprenditori. I sindacati di mestiere, (nonostante abbiano perso il primato nel momento del passaggio alla produzione di massa e alla conseguente standardizzazione dei mestieri), esistono tuttora sotto l’identità di sindacati professionali, e non di rado conoscono rinascite. Ciò accade quando, categorie di lavoratori, (per lo più intellettuali o in possesso di una qualificazione che li rende preziosi come gli insegnanti, i medici, i piloti ecc.), insoddisfatti dal sindacalismo generale, si organizzano autonomamente al fine di difendere meglio, o in maniera più aggressiva, i propri interessi: quindi i sindacati di mestiere, sia antichi che moderni, hanno un forte senso d’identità, cui fa riscontro una ridotta sensibilità agli interessi generali. Su un piano diverso, essendo più legato al ruolo professionale che alla professione, si pongono i sindacati come quelli dei dirigenti e dei quadri, nei quali il tratto aggregante è dato dalla posizione apicale o sub apicale di tali figure nella scala di comando aziendale. Essendo i dirigenti diretti collaboratori dell’imprenditori, non avrebbe senso che facessero parte dei sindacati generali. Nel caso dei quadri, la spinta al sindacalismo è nata dal desiderio di separare i propri destini sindacali da quelli della manodopera operaia e impiegatizia. Dopo il declino del sindacato di mestiere, il modello prevalente fu nel corso del 900 (ed è tuttora) il sindacato di industria, o di categoria. Esso raccoglie tutti i lavoratori operanti in un medesimo settore economico (metalmeccanici, chimici, bancari, edili, etc.), indipendentemente dallo specifico mestiere a cui sono addetti (per cui l’operaio FIAT è accomunato al centralinista FIAT, il dipendente bancario è accomunato al direttore di banca e così via). Il sindacato di categoria, tenendo assieme tutti i lavoratori di un dato settore, realizza un’aggregazione più ampia di interessi. I più importanti sindacati italiani sono ascrivibili a tale modello del sindacato di categoria (o sindacato di industria/settore), pur differenziandosi tra loro, in ragione delle diverse identità politico-sindacali (es. per il settore metalmeccanico vi sono la FIOM/CGIL, FIM/CISL). Nell’esperienza italiana, il sindacato di categoria, si interseca con il modello del sindacalismo confederale, con il quale ha, di massima, una relazione di appartenenza e complementarietà (il che non toglie che, tra sindacato di categoria e confederazione possano emergere, a volte, posizioni di conflitto, anche latenti, come avvenne più di una volta nella relazione tra FIOM e CGIL. Le confederazioni (CGIL, CISL, UIL, UGL etc.), sono associazioni che raggruppano i lavoratori di una medesima categoria, che sono accomunati da una medesima identità politico sindacale, e quindi le rispettive associazioni di categoria, su base “orizzontale”, vale a dire intercategoriale. La confederazione si articola in diramazioni territoriali (es. le camere del Lavoro per la CGIL, e le Unioni sindacali territoriali per la CISL). La confederazione, in virtù della generalità dell’ambito cui si rapporta, è il sindacato dotato della maggiore caratterizzazione politica, ed è come tale, il protagonista della concertazione. La confederazione ha inoltre una legittimazione negoziale, che si esplica nella stipulazione, col corrispondente soggetto imprenditoriale (es. Confindustria), di accordi interconfederali (o accordi trilaterali nel caso della concertazione). L’ultimo modello di sindacato da considerare è, il Sindacato di azienda, non diffuso in Italia, e che si costituisce all’interno di una singola azienda, in genere in chiave di dissenso dal sindacato generale. Ne sono un esempio i COBAS (Comitati di base), coalizioni sindacali particolarmente combattive, formatesi in aziende caratterizzate da vivaci confronti sindacali. Infine, a fronte del sindacalismo dei lavoratori, si è sviluppato anche il Sindacalismo imprenditoriale, (c.d. “di risposta”) ai fini della stipulazione dei contratti collettivi (es.: Confindustria, Confcommercio, Confesercenti etc.). Il modello organizzativo dei sindacati imprenditoriali, tende a plasmarsi su quello del sindacalismo contrapposto, con associazioni di categoria che stipulano contratti nazionali di categoria, (ad es. nel settore metalmeccanico la Federmeccanica) ed una più ampia struttura confederale, che raccoglie le istanze di categoria (Confindustria, Confesercenti, Confartigianato ecc.) e (allo stesso modo della Confederazione nel sindacalismo dei lavoratori), è il soggetto primo delle prassi di concertazione. Per ciò che riguarda ai temi dei meccanismi di funzionamento delle singole organizzazioni sindacali, e gli strumenti di reperimento delle risorse (es. contributi dei lavoratori iscritti, sovvenzioni pubbliche ecc.), è da dire che, nella recente pubblicistica, hanno cominciato ad apparire indagini sui maggiori sindacati dei lavoratori, tese a denunciare fenomeni, pur non generalizzati, di scarsa trasparenza finanziaria, conservazione di privilegi, e incrostazioni di potere. La cosa merita di essere rilevata come segno del fatto che, dopo gli eccezionali anni 90, in cui il potere dei sindacati è complessivamente cresciuto, sembra approssimarsi, per i sindacati italiani, il momento di una “verifica pubblica”. 3. L’AZIONE SINDACALE L’azione sindacale procede in una serie di modelli tipici, tuttavia variabili in relazione ai diversi contesti nazionali e momenti storici. Il fine fondamentale dell’azione dei sindacati è la “regolazione accorpata delle condizioni di lavoro”, che si realizza soprattutto, tramite la stipulazione, a vari livelli, di contratti collettivi. In Italia la contrattazione collettiva resta tuttora una realtà importante e profondamente inserita nel tessuto economico-sociale. Il tasso di copertura della contrattazione è di circa l’80. Il rapporto tra sindacati e base di riferimento è inoltre un qualcosa che loro devono sempre guadagnarsi soprattutto nei periodi di transizione. Il compito del sindacato è divenuto sempre più difficile a causa della frammentazione del lavoro e la diffusione di lavori precari o sottopagati (working poor). Se il contratto collettivo è lo scopo dell’azione sindacale, lo sciopero è stato tradizionalmente il mezzo di pressione più impiegato dal sindacato e dalle coalizioni dei lavoratori. Tuttavia, pur mantenendo la sua importanza come risorsa strategica, il conflitto (sciopero) non è più l’unica dimensione dell’azione sindacale, visto che, a partire dagli anni 80, esso è stato sostituito, o se non altro affiancato, da logiche di azione orientate alla “collaborazione sociale”. La prevalenza degli atteggiamenti conflittuali, o viceversa degli atteggiamenti collaborativi, dipende da una serie di variabili interne (es. orientamento politico-sindacale delle singole associazioni) oppure di contesto (le politiche economiche governative, il colore del governo in carica). Comunque sia, pur nell’esistenza di tali varianti, le relazioni sindacali, si proiettano ormai al di là del tradizionale binomio contratto collettivo/sciopero. Infatti: - a livello territoriale (regionale/nazionale) si può verificare il fenomeno della concertazione (fenomeno delle c.d. leggi contrattate), che proietta il sindacato sul terreno politico; - a livello di settore produttivo, i sindacati possono trovarsi a collaborare con la controparte sociale negli enti bilaterali - a livello di azienda o di gruppo, la contrattazione pur presente, tende ad evolversi verso una periodica, se non quotidiana, partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti (sindacati o RSA-RSU) alla gestione dell’impresa, la quale può realizzarsi tramite una vasta gamma di istituti che comportano un coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti, in alcuni processi decisionali. Infine, è da dire inoltre, che l’azione del sindacato dei lavoratori, si esplica non soltanto nelle relazioni con la controparte sociale o comunque nella presenza pubblica, ma anche nell’erogazione di “servizi” ai lavoratori affiliati: consulenza, assistenza in vertenze, assistenza legale vera e propria. Secondo alcune visioni (ex. CISL) quella di un sindacato dei servizi è una possibile nuova dimensione di un sindacato in crisi di rappresentatività e uno strumento di maggiore presa sulla realtà lavorativa odierna. Altri (CGIL) vedono in ciò il pericolo di uno snaturamento del ruolo sindacale. In tutte queste forme di azione sindacale prendono poi piede le tecnologie digitali. La digitalizzazione sta cambiando il mondo del lavoro, e se sindacati e sindacalisti vogliono continuare a tutelare i lavoratori, devono comprendere ciò al fine di intercettare i nuovi bisogni. I social media stanno invece cambiando la modalità di organizzazione dei sindacati e di comunicazione tra essi e i lavoratori, comportando anche il rischio di scavalcamento dei sindacati, nel momento in cui le imprese li usano per comunicare direttamente con i lavoratori. “pluralismo sindacale”, cioè la possibilità che più organizzazioni/associazioni possano coagularsi, anche nei medesimi ambiti di riferimento. La libertà sindacale è anche garantita nel suo riflesso negativo, infatti libertà sindacale vuol dire non solo che il lavoratore è libero di organizzarsi/associarsi, ma anche che esso è libero di non farlo. A riprova di ciò vi è l’art. 15 dello statuto dei lavoratori che punisce le discriminazioni causate dal non aver aderito ad un’associazione sindacale, o dall’aver cessato di farne parte. Il contenuto positivo della libertà sindacale, invece, non si esaurisce nella libertà di organizzarsi/associarsi, ma implica anche la libertà di agire per fini sindacali. Infatti, è evidente che non ci si organizza soltanto per essere, ma anche per perseguire gli scopi dell’organizzazione/associazione, attinenti all’autotutela collettiva. Inoltre, poiché la più importante e tipica attività del sindacato è la contrattazione collettiva, la libertà di organizzazione/associazione sindacale implica la libertà di negoziazione collettiva, il che comporta, che nell’art.39 comma 1, è contenuto il riconoscimento solenne dell’autonomia collettiva, cioè della capacità dei soggetti collettivi di regolare autonomamente i propri rapporti ed interessi. La libertà sindacale significa inoltre libertà dalle interferenze altrui, e a tale stregua essa opera inoltre in una duplice direzione: - sia verticalmente, cioè come “diritto soggettivo pubblico” di libertà nei confronti dello stato e dei suoi poteri pubblici - sia orizzontalmente come diritto di libertà nei rapporti tra privati, cioè tra lavoratori e rispettive associazioni sindacali da un lato, e datori di lavoro e rispettive associazioni sindacali dall’altro. Nei confronti dello stato la libertà sindacale, può essere invocata non solo contro eventuali leggi penali che la reprimano, ma anche contro leggi lavoristiche che invadano il campo di competenza della contrattazione collettiva, disciplinando materie di spettanza di quest’ultima, come la materia retributiva. Invece nei confronti dei privati, la libertà sindacale può essere lesa da eventuali comportamenti degli imprenditori, tesi ad ostacolare l’affiliazione dei lavoratori o l’organizzazione degli stessi nell’ambito aziendale. Comunque, si tende a ritenere, per converso, che la garanzia costituzionale della libertà sindacale, non valga per gli imprenditori. Ciò significa che essi sono liberi di associarsi sindacalmente, ma in virtù della libertà comune di associazione → significa che di solito si ritiene che la garanzia “rafforzata” che scaturisce dall’art. 39.1 Cost. non li riguardi, in quanto essa si propone esclusivamente di bilanciare la minorità sociale dei lavoratori. 3. LEGISLAZIONE A TUTELA DELLA LIBERTÀ SINDACALE Ulteriori garanzie della libertà sindacale, sono rinvenibili, nella legislazione ordinaria, in particolare nello Statuto dei diritti dei lavoratori, legge n.300/1970, una delle cui finalità, è appunto quella di istituire le condizioni normative, affinché la libertà sindacale possa essere esercitata a pieno, e quindi anche dentro i “cancelli” della fabbrica. Il titolo II dello statuto (intitolato “della libertà sindacale”) si apre con una disposizione, (cioè l’art. 14), che è una reiterazione del principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39.1 Cost. e della quale è affermata l’operatività anche del luogo di lavoro; infatti tale art. 14 sancisce il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgervi attività sindacale. Comunque, la più importante disposizione del titolo II dello statuto è l’art.15: divieto di atti/patti discriminatori; infatti al comma 1 dice che: è' nullo qualsiasi patto o atto diretto a: a. subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale oppure cessi di farne parte; b. licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione sindacale o della sua attività sindacale oppure a causa della sua partecipazione ad uno sciopero. Discriminare come sappiamo, significa differenziare. Essendo che, i trattamenti applicati ai lavoratori, pur accomunabili dal punto di vista delle condizioni oggettive di lavoro, possono essere, entro certi limiti, legittimamente diversificati, il divieto di atti/patti discriminatori punta a reprimere un nucleo più ristretto di diversificazioni di trattamento, cioè quelle aventi, obiettivamente, una finalità antisindacale. Ne consegue che, è vietato qualsiasi atto o patto diretto a prevedere trattamenti diversi nei confronti di un lavoratore (sia assunto che non ancora assunto) a paragone di quelli praticati nei confronti degli altri lavoratori, o a paragone di quelli normalmente praticati nei confronti dello stesso dipendente interessato, a causa della sua affiliazione o non affiliazione sindacale, oppure a causa dell’attività sindacale o di sciopero da esso svolta. Il divieto non vale soltanto per gli atti/patti formali ma anche per i comportamenti materiali, inoltre con la formula “o recargli altrimenti pregiudizio” l’art. 15 non pone limiti alla gamma dei fatti che possono cadere nel raggio del divieto. L’onere della prova del carattere discriminatorio dell’atto/patto, ricade sulla parte che afferma di essere stata discriminata, cioè sul lavoratore (assunto o non ancora assunto). La sanzione prevista, una volta che la discriminazione sia stata accertata, è la radicale nullità dell’atto/patto discriminatorio; ma è da dire che, è inoltre riconosciuto al lavoratore, il risarcimento dei danni patrimoniali o non patrimoniali causati dalla discriminazione. Un corollario dell’art. 15, (rovesciato sul piano collettivo) è l’art.16: divieto di adottare trattamenti economici collettivi discriminatori, cioè trattamenti economici, atti a privilegiare lavoratori per il fatto di non aver preso parte ad attività sindacali (es. premi per aver disertato uno sciopero). L’art.17 invece bandisce i sindacati “di comodo” (i sindacati gialli, del sindacalismo nordamericano) il che comporta che è fatto divieto ai datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori (divieto quindi dei sindacati di comodo). Il bene protetto in questo articolo è la “genuinità” delle relazioni sindacali. In caso di violazione di tale divieto, il sindacato di comodo e le attività da esso svolte, oltre che essere considerate nulle, si ritengono inesistenti. Infine, altro articolo a tutela della libertà sindacale è l’art.28: il quale prevede uno speciale procedimento “giudiziario” di repressione dei comportamenti antisindacali, posti in essere dal datore di lavoro. 4. LA COSTITUZIONE INATTUATA: LA SECONDA PARTE DELL'ART 39. L’art. 39 seconda parte dice che: ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. Condizione per la registrazione è che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. L’assetto previsto dalla Cost. comporta innanzitutto che ai sindacati sia conferito lo status di “persone giuridiche” di diritto pubblico, come era accaduto nell’epoca corporativa. Ciò avrebbe dovuto realizzarsi tramite la “registrazione”, che ciascun sindacato, sarebbe stato onerato (ma non obbligato) a conseguire, secondo la procedura prevista dalla legge. Condizione unica, ma indispensabile, per la registrazione, è che il sindacato si doti di uno Statuto interno a base democratica, ossia di uno statuto tale da garantire l’espressione della volontà degli affiliati e l’influenza di questi sulla condotta dell’associazione/organizzazione. Tale requisito, avrebbe però creato problemi, all’epoca, anche alla maggiore confederazione italiana, visto che la CGIL era organizzata, secondo la tradizione comunista, su base rigidamente centralistica. Una volta registrati i sindacati acquisiscono la personalità giuridica, e con essa la facoltà di stipulare contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie di riferimento dei contratti medesimi (cd. efficacia erga omnes). Il contratto collettivo immaginato dalla Costituzione era insomma un contratto che, aveva la forma del contratto, ma l’anima e la valenza della legge. Proprio il conferimento ai sindacati registrati, di un potere normativo così rilevante, giustifica le condizioni imposte per accedere al riconoscimento come persona giuridica, che avrebbero presumibilmente comportato, a partire dalla registrazione, una qualche forma di controllo ammnistrativo, quanto meno a fini di verificare la consistenza quantitativa dell’associazione registrata (ossia il numero degli iscritti), in vista del procedimento della stipulazione dei contratti collettivi. Quindi il prodotto dell’attività sindacale acquisiva massimo rilievo giuridico solo se il sindacato accettava, con la registrazione, di sottomettersi ad una forma di controllo. Infatti, poiché, di contratti collettivi efficaci erga omnes, ce ne può essere, per definizione, soltanto uno per ciascuna categoria, mentre di sindacati possono essere molti, l’art.39 ha così previsto un meccanismo per ridurre la pluralità ad unità. I sindacati registrati, hanno titolo a partecipare alla stipulazione del contratto efficace erga omnes, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti. In pratica, supponendo che per ogni categoria vi siano più sindacati, questi debbono costituire una rappresentanza unitaria, (costituita su base strettamente proporzionale al n. di iscritti), investita del ruolo di agente contrattuale. Per quanto riguarda il procedimento decisionale, secondo la dottrina più accreditata, al principio proporzionale, si affianca quello “maggioritario” in base al quale, in caso di mancanza di unanimità tra sindacati, prevale la volontà delle associazioni maggioritarie in termini di iscritti (maggiormente rappresentative). La seconda parte dell’art.39, comunque, non è mai stata attuata dal legislatore ordinario, e tanto meno vi è oggi chi proponga di attuarla. Le ragioni storiche di tutto ciò risiedono nel fatto che: - i sindacati mal tolleravano un controllo pubblico, preferendo conservare una condizione di libertà; - in secondo luogo, non volevano “contarsi” perché ciò avrebbe consolidato determinati rapporti di forza; - in terzo luogo, l’attuazione dell'art 39 avrebbe comportato come conseguenza politica-legislativa anche l'attuazione dell'art 40 (diritto di sciopero), che era ancor più fieramente avversata a livello sindacale e politico. La scelta dell’ordinamento è stata improntata al rispetto della libertà dei soggetti collettivi e al pluralismo sociale. I costi e i rischi della regolazione sono apparsi troppo alti, paragonati ai traguardi dell’erga omnes. Rimane singolare che una branca così importante del diritto del lavoro si sia incentrata sulla non attuazione di una previsione costituzionale, per quanto essa sia stata letta in positivo, ossia come una attuazione dello spirito di libertà che pervade la costituzione formale e materiale. L’art.39 ha avuto perciò un’incidenza paralizzante sul diritto sindacale italiano, sbarrando la strada a qualunque regolazione legislativa della contrattazione collettiva, che fossa diversa da quella costituzionalmente prevista, e lasciando spazio solo per una normativa di natura contrattuale collettiva (che peraltro, si è anche essa fatta desiderare, visto che l’unico esempio, oltretutto concentrato sulla sola contrattazione collettiva aziendale, ne è l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011). 5. TRA ORDINAMENTO INTERSINDACALE E “SUPPLENZA” DEL DIRITTO PRIVATO La vicenda post costituzionale, ha lasciato aperto, quindi, il problema della regolazione da riservare al sindacato ed alla sua attività. Poiché la seconda parte dell'art 39 non è mai stata attuata, in sostanza il sindacato non sarebbe nessuno (giuridicamente parlando) e i suoi atti (i contratti collettivi) non avrebbero nessun valore. - formazione dei lavoratori - tutela contro le discriminazioni sul lavoro - favorisce l’entrata dei soggetti svantaggiati - gestione dei fondi di formazione e pensione - certificazione dei contratti di lavoro - rilascio della regolarità contributiva - sicurezza sul lavoro Più di recente, la legge 92 del 2012, ha ulteriormente promosso la bilateralità, rendendo obbligatoria, nei settori non coperti dalla cassa integrazione guadagni, la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali, per la tutela dei lavoratori nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa. In ogni caso, la questione di fondo resta quella di stabilire se, posta la tendenza sempre più maggiore all’assunzione di ruoli pubblici, gli enti bilaterali, possano rappresentare un terminale istituzionale di tale azione, fungendo da sede partecipativa permanente delle parti sociali, o se invece, come ritiene la CGIL, questo sviluppo sia pericoloso, contenendo il germe dello “snaturamento” della funzione essenzialmente privatistica della azione sindacale. CAPITOLO 3: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA 1. L’AUTONOMIA COLLETTIVA TRA LIBERTÀ E REGOLAZIONE L’autonomia collettiva è il potere dei soggetti collettivi, di regolare i propri interessi, mediante la produzione di norme collettive, ed in particolare mediante la conclusione di contratti collettivi. Quindi il contratto collettivo, è un contratto stipulato tra soggetti collettivi, cioè fra le contrapposte associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, oppure stipulato fra altri organismi rappresentativi come le RSA/RSU. Tali contrapposte associazioni sindacali, non entrano nel contratto per sé stesse, ma per tutelare gli interessi dei soggetti che rappresentano, a partire da quelli dagli interessi dei soggetti ad esse formalmente iscritti. La condizione necessaria, ma anche sufficiente, affinché possa aversi un contratto collettivo, è che vi partecipino collettivamente i lavoratori; ciò significa che, a tal fine, la presenza di un sindacato di lavoratori è indispensabile, mentre la presenza di un sindacato di datori di lavoro no, in quanto il contratto collettivo può anche essere stipulato dal sindacato dei lavoratori con un imprenditore uti singulus. Il riconoscimento giuridico dell’autonomia collettiva, e quindi di conseguenza, la facoltà di stipulare contratti collettivi, è dovuta alla sinergia(fusione) di due principi generali dell’ordinamento: a. la libertà di organizzazione sindacale (art.39 comma 1 Cost.), che ha come necessario corollario, il riconoscimento e la libertà della contrattazione collettiva; b. il potere di autonomia contrattuale spettante a qualsiasi privato, ossia il potere di “concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico” (art.1322, c.2 c.c.), potere che spetta alle associazioni sindacali così come a qualsiasi soggetto privato. I sindacati possono stipulare contratti collettivi così come ciascun soggetto privato ha il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi di aventi una disciplina particolare, purché diretti a interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Ne viene fuori un sistema molto vasto di contrattazione collettiva, che comprende tutti i contratti collettivi stipulati nel territorio di riferimento. In materia di contrattazione collettiva, si è presentata, tuttavia, l’esigenza di una “regolazione”, su due piani nettamente diversi: - soggetti, livelli, materie, e procedure della stessa; - valenza giuridica del contratto collettivo nei confronti dei contratti individuali di lavoro; Sul primo di tali piani, non essendo concepibile una regolazione di tipo legislativo, in quanto offenderebbe il principio di libertà sindacale, è stata battuta, con alterni successi , la strada della “regolazione per via contrattuale”, le cui principali realizzazioni sono state alcuni accordi interconfederali,(cioè stipulati cioè tra le contrapposte confederazioni dei lavoratori e degli imprenditori) come il Protocollo Ciampi del 1993 , o l’accordo interconfederale del 2011, che ha segnato il rientro in gioco della CGIL. Riguardo tali regole di matrice sindacale, tuttavia è da dire, che esse vincolano solo i sindacati che le hanno sottoscritte, e nei confronti di questi sindacati sottoscrittori creano un vincolo di natura sindacale più che giuridica, nel senso che se vengono violate (es. quando si stipula un contratto collettivo aziendale su una materia non autorizzata dal Contratto collettivo nazionale di lavoro, cd. CCNL), la violazione non ha riflessi sulla validità del contratto (non creano invalidità) “fuori linea”, ma al massimo, le violazioni di tali regole, possono dar luogo, a sanzioni “interne” all’organizzazione sindacale (es. misure disciplinari ecc.). Sul secondo piano, il compito di una regolamentazione, e quindi il compito di apprestare una disciplina riguardante la valenza giuridica dei contratti collettivi di lavoro nei confronti dei contratti individuali, è stato soprattutto assolto dalla giurisprudenza, la quale si è appoggiata al diritto privato dei contratti. La disciplina del contratto collettivo è stata comunque arricchita da elementi pubblicistici, che implicano la valenza di fonte normativa del contratto collettivo. Il ricorso in cassazione può ora essere proposto, oltre che per violazione di legge, anche per violazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, con parificazione di tali contratti alla legge, per tale aspetto. Il legislatore ha poi complicato il tutto nel momento in cui ha delegato alla contrattazione collettiva l’espletamento di funzioni normative per l’integrazione di varie fattispecie legali, senza chiarire però se la valenza giuridica di questi contratti resti privatistica o sia ormai pubblicistica a tutto tondo. Il quadro è dunque molto complesso, ma ad essere certo è che oggi il contratto collettivo è un contratto nominato, in quanto è riconosciuto costituzionalmente ed è richiamato da numerose fonti legislative. Non è quindi un contratto atipico. Tuttavia, è da dire che, la compresenza di elementi sia privatistici che pubblicistici, nel quadro della disciplina “vivente” dell’istituto del contratto collettivo, rende incerta la risposta alla classica domanda se il contratto collettivo sia o meno una fonte del diritto del lavoro. La risposta a questo interrogativo non è facile. Da un lato visto che il contratto collettivo è un contratto ed è stato costruito su basi fondamentalmente privatistiche, non è annoverabile tra le fonti del diritto del lavoro. Dall’altro lato, è da dire che, nella pratica, oggi il diritto del lavoro si basa in gran parte, più che su norme di legge, sulle norme dettate dai tantissimi contratti collettivi, per cui spesso la dottrina, anche costituzionalistica, considera il contratto collettivo fra le fonti di diritto del lavoro. In realtà, riguardo al contratto collettivo, si è parlato di una fonte “atipica” o meglio ancora di una fonte “di fatto”, cioè di una fonte i cui prodotti sono riconosciuti in anticipo, dalle norme di legge contenenti deleghe alla contrattazione, come meri presupposti “di fatto”, in vista del completamento delle fattispecie previste da tali norme. 2. FUNZIONI DEL CONTRATTO COLLETTIVO La funzione generale del contratto collettivo, come sappiamo, è la tutela degli interessi dei lavoratori rappresentati. Tale funzione si articola, a sua volta in funzioni più specifiche: Funzione normativa: il contratto collettivo, in via spontanea o/e su delega della legge, detta, tramite clausole normative, le regole destinate a valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato. Del resto, l’obiettivo primigenio dell’azione sindacale è sempre stato la regolazione congiunta delle condizioni di lavoro, appunto tramite il contratto collettivo. Quando, il contratto collettivo espleta tale funzione normativa, esso si inserisce dall’esterno nel contenuto dei singoli contratti di lavoro (come del resto fa anche la legge), verso i quali, lo stesso è soggettivamente efficace. Di conseguenza, quando il contratto collettivo, stabilisce ad esempio il regime dell’orario di lavoro, l’ammontare dei riposi, la misura della retribuzione etc., il contenuto delle relative previsioni collettive, vale, senza mediazioni, per le parti individuali, dispensando così ad esse, a seconda dei casi, diritti ed obblighi. Tramite la funzione normativa il contratto collettivo uniforma le condizioni di lavoro di un certo settore produttivo. Così facendo, il contratto collettivo, limita la concorrenza tra i lavoratori che si offrono sul mercato del lavoro; esprime in altre parole una sorta di “cartello” tra lavoratori, per mantenere le condizioni del lavoro al di sopra di una certa soglia. Sul fronte opposto, anche gli imprenditori si organizzano, tramite i loro sindacati, in “cartelli sindacali di risposta”, per fronteggiare le rappresentanze dei lavoratori e limitare la concorrenza, tra gli imprenditori, sui costi del fatto lavoro. Così facendo, all’originario carattere “monopsonistico” del mercato del lavoro, viene a sostituirsi una sorta di monopolio bilaterale dei due contrapposti sindacati. Per questo il contratto collettivo è talora accusato di porsi in contrasto con i principi del diritto comunitario che tutela la libertà di concorrenza. Per il momento però, la Corte di Giustizia Europea, ha scongiurato tale evenienza, affermando che la libertà di concorrenza non è l’unico valore protetto dal diritto comunitario europeo, dal quale è riconosciuto anche il diritto e l’interesse dei lavoratori ad organizzarsi collettivamente per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Funzione obbligatoria: il contratto collettivo istituisce, tramite clausole obbligatorie, diritti e obblighi valevoli per e tra gli stessi soggetti collettivi, e che quindi non riguardano direttamente i singoli lavoratori e datori di lavoro. Ad esempio, dal lato dei sindacati degli imprenditori, si possono menzionare gli obblighi di informazione, con i quali, i sindacati degli imprenditori si impegnano ad informare i sindacati dei lavoratori circa le condizioni del marcato, le strategie d’impresa ecc. Dal lato dei sindacati dei lavoratori, si possono menzionare gli obblighi di tregua sindacale, con i quali i sindacati dei lavoratori si impegnano a non proclamare scioperi in un determinato periodo (clausole di pace sindacale: tali clausole vincolano solo i sindacati e non i singoli lavoratori). Le clausole obbligatorie possono comunque avere i contenuti più vari, in chiave di regolazione ed istituzionalizzazione delle relazioni tra le parti sociali, soprattutto nell’ambito dell’azienda (ex. Costituzione comitati paritetici per la tutela della salute e della sicurezza). In caso di inadempimento delle clausole obbligatorie la tutela giurisdizionale della parte lesa è piuttosto problematica. La parte lesa ha due possibilità: - Ricorrere ad un’azione di responsabilità contrattuale, per chiedere l’adempimento e/o il risarcimento dei danni derivanti (rimedio questo poco utilizzato, soprattutto dai sindacati dei lavoratori, che premono per risultati più tangibili sul terreno sindacale). - Ricorrere allo speciale procedimento giudiziario di “repressione della condotta sindacale”, previsto dall’art.28 St. Lav. (ma ciò solo nel caso in cui l’inadempimento della clausola obbligatoria, sia stato posto in essere dall’imprenditore, unico soggetto legittimato passivo di tale procedimento). 3. LE REGOLE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA Per ciò che riguarda le tappe evolutive del sistema italiano di contrattazione collettiva, è da dire che, in realtà, per lungo tempo, il sistema si è sviluppato secondo mere dinamiche spontanee, tendenzialmente di accrescimento e refrattarie (cioè che si opponevano) alla regolazione. I) Facoltà, per i contratti collettivi aziendali, di attivare, a certi scopi ed entro certi limiti, soluzioni contrattuali comportanti una modifica o una deroga in senso peggiorativo, delle condizioni previste dal CCNL. J) Obbligo per le parti contraenti di garantire il rispetto degli impegni assunti con i contratti collettivi e possibile previsione, da parte dei contratti aziendali, di clausole di tregua sindacale vincolanti per tutti i sindacati firmatari del TU. Mentre alcune parti del TU sono già produttive di effetti, quelle su rappresentanza sindacale e contrattazione aziendale, altre non lo sono e non lo saranno a breve. Il TU soffre di un limite intrinseco poi: a. vincola soltanto le associazioni aderenti alle confederazioni sindacali che lo hanno sottoscritto, pur essendo aperto all’adesione di altre. b. Vale soltanto nei settori economici per i quali è stato sottoscritto, e cioè originariamente quello industriale. Accordi fotocopia sono stati poi stipulati nel settore delle imprese-pubbliche e del commercio. Ne restano fuori quello bancario e quello assicurativo. Recentemente è preoccupante il fenomeno della frammentazione della rappresentanza datoriale. A parte le imprese che sono semplicemente uscite dal sistema, dimettendosi dall’associazione cui erano affiliate, sono proliferate nuove associazioni datoriali, spesso di dubbia se non alcuna rappresentatività, che si sono impegnate, con la collab di associazioni sindacali più o meno marginali, nella stipulazione di contratti collettivi prevedenti trattamenti variamente peggiorativi rispetto a quelli dei CCNL più importanti, che nei casi più gravi sono definiti in gergo, contratti pirata. In un accordo interconfederale del 2018 le parti sociali principali hanno invocato l’adozione di un sistema di misurazione anche della rappresentatività delle associazioni datoriali. Il che comporta, per altro, difficoltà tecniche ancora non superate. Per misurare qualcosa infatti, si deve aver chiaro l’ambito in cui si effettua la misurazione, cosa che in questo caso non è. Occorrerebbe ricondurre più CCNL con un campo di applicazione omogeneo a un unico ambito o perimetro, ma non è chiaro chi abbia un’autorità per farlo. Le norme di legge per ora stanno cercando di arginare il problema. Il CNEL ha avviato, in collaborazione con le parti sociali, un complesso lavoro di ricognizione analitica della contrattazione nazionale, con l’obiettivo di giungere a una prima scrematura dei CCNL tramite l’isolamento di quelli certamente riconducibili a soggetti sindacali non rappresentativi. Il CNEL ha anche presentato insieme all’INPS n DDL mirato alla costituzione di una anagrafe dei CCNL, in sostituzione dell’attuale statico archivio. 4. LIVELLI, SOGGETTI, E MATERIE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA Come sappiamo, la struttura del sistema italiano di contrattazione collettiva, si basa su due livelli (nazionale e territoriale/aziendale). Per ciascuno di tali livelli, sono identificati i soggetti sindacali competenti alla stipula del contratto collettivo. 4.1 Il contratto collettivo nazionale di categoria Il livello dominante del sistema della contrattazione collettiva è tutt’ora quello di categoria, cui corrisponde il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, stipulato dalle associazioni sindacali di categoria dei lavoratori e delle imprese. Per questa classica tipologia, il processo contrattuale si svolge in maniera libera e volontaria, e quindi privatistica. In omaggio al principio del “mutuo riconoscimento”, di cui alla teoria dell’ordinamento intersindacale, il contratto collettivo nazionale di lavoro, è stipulato dal sindacato o dai sindacati di categoria dei lavoratori, che ha/hanno la forza di farsi riconoscere, in ragione della propria autorità o forza rappresentativa (non necessariamente sindacati maggioritari), dalla controparte negoziale. A determinare gli esiti contrattuali sono quindi le dinamiche spontanee del sistema sindacale, come quelle che hanno prodotto, in vare occasioni, il fenomeno dei CCNL separati, non sottoscritti dai sindacati aderenti alla CGIL (cioè da sindacati certamente rappresentativi nella categoria, anche se non necessariamente maggioritari). A questo tradizionale aspetto L’accordo interconfederale del 2011 ha aggiunto delle regole oggettive, per quanto riguarda la legittimazione a negoziare il CCNL, un sindacato deve contare su una rappresentatività superiore al 5% del totale dei lavoratori della categoria cui si applica il CCNL, secondo i dati associati risultati dalle deleghe per il pagamento dei contributi sindacali, da ponderare con quelli risultanti dalle elezioni triennali delle RSU. Inoltre, per quanto riguarda - a condizione che il CCNL sia approvato dai sindacati che rappresentano il 50%+1 dei lavoratori dipendenti dalle imprese che applicano quel CCNL e sono affiliate alle associazioni datoriali firmatarie del TU - l’esigibilità da parte di tutti i sindacati dei lavoratori aderenti al TU, anche se dissenzienti dal CCNL, e l’efficacia soggettiva verso tutti i lavoratori iscritti a tali sindacati. La rappresentatività è calcolata facendo la media tra il dato associativo, risultante da deleghe sindacali, e quello elettorale, desunto dai consensi conseguiti da ciascuna sigla sindacale nelle elezioni triennali della RSU, svoltesi presso le imprese affiliate alle associazioni datoriali firmatarie del TU. La raccolta e la ponderazione sono affidate all’INPS. Il TU prevede poi delle procedure per la stipulazione e il rinnovo dei CCNL, che riguardano i termini di presentazione della piattaforma sindacale, la composizione della delegazione trattante, i tempi per lo svolgimento delle trattative e clausole di tregua sindacale durante le trattative. Essendo queste regole contrattuali e non legislative, valgono solo per i sindacati aderenti alle confederazioni firmatarie del TU, o che vi hanno aderito, e per le imprese affiliate ad associazioni di categoria aderenti a Confindustria, ed eventualmente per le imprese che dichiarano di applicare il CCNL stipulato da tali associazioni sindacali di categoria. Riguardo l’ambito di applicazione dei CCNL, l’operazione finalizzata ad individuare il quale si definisce inquadramento collettivo della categoria, si vuole che esso sia delimitato dagli stessi sindacati firmatari, tramite previsioni contenute nella parte iniziale del CCNL. Tra CCNL che operano in settori affini, possono determinarsi “conflitti di competenza” quando più CCNL pretendono di applicarsi al medesimo ramo di industria. Il problema è risolvibile soltanto nel momento in cui si viene a stabilire a quale dei CCNL in “concorrenza” afferiscono l’impresa x (in quanto svolgente una determinata attività) e/o il lavoratore y. Questo è un momento che concerne non l’inquadramento collettivo di categoria, ma l’inquadramento individuale della singola impresa/lavoratore. Per quanto riguarda i contenuti del CCNL, non vi sono limiti, al numero e al tipo di materie esso può disciplinare; anche se ovviamente si deve sempre mantenere nei limiti della compatibilità con le disposizioni di legge. 4.2 Il contratto collettivo territoriale Regionale, provinciale o di distretto. Può trattarsi di accordi interconfederali o accordi territoriali di categoria (sottoscritti da istanze territoriali dei sindacati di categoria che hanno sottoscritto il CCNL, ad integrazione o in sostituzione dei CCNL. La competenza può esercitarsi dai soggetti sindacali. È un fenomeno minoritario. 4.3 Il contratto collettivo aziendale Il campo di applicazione in tal caso è delimitato dall’impresa, che può operare anche a livello nazionale (ex. Fiat). Il TU rappresentanza attribuisce la legittimazione a sottoscrivere il contratto collettivo aziendale alla RSA o RSU, secondo le procedure descritte. Nel TU è anche menzionato il sindacato territoriale di categoria per la stipulazione di contratti aziendali in deroga ai CCNL. Il Contratto è stipulato dalle RSA/RSU e/o indifferentemente da tutti i sindacati rappresentativi nell’azienda e operanti nel territorio o da alcuni di essi. Ne è possibile considerare invalido un contratto aziendale concluso soltanto dal sindacato territoriale. Occorre poi che il sindacato abbia, nell’azienda in questione, almeno un minimo di rappresentatività. Le materie dovrebbero essere stabilite dal CCNL o dalla legge, non comportare duplicazioni rispetto a cose già negoziate ad altri livelli e prevedere forme di retribuzione variabile: retribuzione, orario di lavoro, inquadramento, sicurezza e salute, formazione ecc. 5. EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO Il problema dell’efficacia soggettiva, cioè il problema nei confronti di chi, (cioè di quali imprese e quali lavoratori), il contratto collettivo è produttivo di effetti giuridici, è il problema più grave lasciato in eredità dalla mancata attuazione dell’art. 39 seconda parte. Ci si domanda, in pratica, se il contratto collettivo dei metalmeccanici, si applica o meno alla Fiat e ai suoi dipendenti in quanto impresa automobilistica/metalmeccanica; e ciò nonostante che, ne Fiat e ne i lavoratori, l’abbiano sottoscritto. Se fosse stata attuata la seconda parte dell’art. 39 non ci sarebbero stati dubbi sul fatto che il contratto collettivo metalmeccanico avrebbe avuto efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria (cd. efficacia erga omnes); ma come abbiamo visto non è stato così; quindi, i principi che hanno consentito di regolare l’efficacia soggettiva del contratto collettivo sono stati desunti, sin dagli anni 50, dal diritto privato dei contratti. La novità è arrivata dal TU rappresentanza del 2014 che si è discostato dai criteri privatistici per virare su criteri fondati sulla misurazione e certificazione della rappresentatività sindacale e sul principio di maggioranza. Queste regole non saranno di generale applicazione, e quindi ne deriverà un doppio regime di efficacia soggettiva del contratto collettivo. 5.1 L’efficacia del CCNL secondo i canoni privatistici In questa prospettiva, l’istituto privatistico anzitutto utilizzato è quello della rappresentanza (artt.1378 e ss. c.c.), in forza del quale gli effetti giuridici di determinati atti posti in essere da un rappresentante sono imputati direttamente ad un altro soggetto (rappresentato), nel cui nome e interesse essi sono stati compiuti. Il conferimento del potere rappresentativo può derivare, in base al diritto privato, da un negozio unilaterale come la procura, oppure da un negozio bilaterale (e quindi da un contratto) come il mandato. Il ricostruire in questi termini l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, presuppone che si configuri “l’adesione di una parte, (impresa o lavoratore), al rispettivo sindacato”, come atto di conferimento di un mandato a rappresentare (tramite la stipula del contratto collettivo) gli interessi degli stessi. Si è obiettato, che l’iscrizione al sindacato, non fosse qualificabile in tali termini (cioè come un atto di conferimento di un mandato di rappresentanza), sia da un punto di vista strettamente formale e sia perché la rappresentanza, è un istituto individualistico e che si realizza in un rapporto tra due soggetti legati da una particolare e reciproca fiducia. In effetti, il sindacato per definizione non cura l’interesse di ciascun lavoratore uti singulus. Tuttavia, è proprio alla luce di ciò, che la dottrina degli anni 50, per rendere compatibile il ricorso alla rappresentanza con la dimensione sindacale-collettiva, ha elaborato la tesi secondo cui il sindacato/rappresentante si prende cura “dell’interesse collettivo” dei lavoratori, inteso, non come “somma” degli interessi dei singoli, ma inteso come “sintesi” di essi. Così, grazie alle “fictio”, della rappresentanza e dell’interesse collettivo, il sistema ha acquisito, quanto meno sulla carta, una coerenza concettuale. La tesi della rappresentanza volontaria è stata a lungo il caposaldo della concezione privatistica del contratto collettivo. Non di meno, quel quid di “artificiosità” che essa ha sempre avuto, ha indotto la stessa dottrina fedele alla concezione privatistica del contratto collettivo, a rivederla, e in buona sostanza a superarla. In particolare, Persiani ha sostenuto che il fondamento della valenza giuridica del contratto collettivo, pur inteso in senso rigorosamente privatistico, non è costituito dall’istituto della rappresentanza civile, ma è costituito dal Utile anche la proliferazione delle norme legislative di rinvio, soprattutto quando fanno riferimento ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. In pratica, il regime dell’efficacia soggettiva dei CCNL è stato impostato dalla giurisprudenza in chiave “privatistica”, anche se con alcuni correttivi, tesi ad avvicinarsi, senza però raggiungerla, alla meta “ideale” dell’efficacia erga omnes. A ciò è da aggiungere che il fenomeno dei CCNL “separati”, non ha dato luogo a problemi irresolubili sotto il profilo dell’efficacia soggettiva. Infatti, pur discendendo dai principi privatistici, che i lavoratori affiliati a un sindacato non firmatario di un CCNL “separato” (di solito i lavoratori affiliati alla FIOM e CGIL) possono pretendere di non vedersi applicato il contratto medesimo, di fatto, questo non si è mai verificato, per difetto di interesse dei lavoratori in tal senso. Ciò in quanto, questi CCNL non contenevano veri e propri peggioramenti di trattamento, ma soltanto aumenti retributivi meno elevati di quelli rivendicato dal sindacato dissenziente, cioè non firmatario. Ed anche quando il CCNL separato contenga alcune previsioni derogatorie in peius, queste previsioni fanno parte di un pacchetto negoziale che comprende, di solito, aumenti retributivi (quelli del rinnovo contrattuale) per cui, qualora il CCNL sia dichiarato inscindibile nelle sue disposizioni, diviene difficile se non impossibile, per i lavoratori affiliati al sindacato dissenziente, sottrarsi ad esso. 5.2 L’efficacia del CCNL nel Testo Unico sulla Rappresentanza Il sistema prefigurato dal TU Rappresentanza prevede la misurazione della rappresentatività sindacale ai fini della stipulazione del CCNL. Ciascun datore di lavoro affiliato alle organizzazioni datoriali firmatarie del TU Rappresentanza ha l'onere di comunicare all'INPS quale CCNL applica nella propria azienda e il numero delle deleghe sindacali ricevute per ogni associazione che ha firmato il TU o vi aderisce. Si ritiene che dovrebbero comunicare ciò anche le imprese che pur non essendo affiliate, applicano comunque il CCNL del sistema Confindustria. La rilevazione delle deleghe deve avere ad oggetto le deleghe conferite dalle confederazioni firmatarie del TU, nonché quelle conferite alle associazioni sindacali che hanno successivamente aderito al TU e si sono impegnati a rispettarne integralmente i contenuti. Ogni anno l'INPS elabora i dati e per ciascun CCNL aggrega il dato relativo a tutte le imprese, in modo da calcolare la rispettiva consistenza di tali organizzazioni in termini di numero di iscritti. Il Comitato Provinciale dei Garanti intanto raccoglie i dati relativi ai consensi ottenuti nelle elezioni della RSU in imprese con più di 15 dipendenti che applicano quel CCNL. Il dato viene corretto aggiungendovi gli iscritti nelle unità produttive con più di 15 dipendenti con RSA (ipotizzando che l'iscritto, se avesse potuto votare, avrebbe votato per l'associazione), ovvero non è presente alcuna rappresentanza sindacale. In sostanza per svantaggiare i sindacati maggiormente presenti nelle imprese dove non può essere conteggiato il dato elettorale (non c’è RSU), si finge che la delega valga anche come voto, sul presupposto che se avesse potuto votare il lavoratore iscritto lo avrebbe fatto per l’associazione cui è affiliato. Il Comitato invia poi i dati all’INPS. Entro il 15 maggio dell’anno successivo l’INPS provvede a calcolare la media fra il dato elettorale e quello associativo, facendo pesare ciascuno dei due per il 50%. Entro la fine di maggio l’INPS comunica poi, per ogni CCNL, il dato della rappresentatività relativo a ciascuna associazione sindacale firmatarie del TU o aderente. Il dato è utile ai fini della parte III del TU. Il TU prevede che il dato si usi per diversi fini: 1. identificare le associazioni titolate a partecipare alle trattative per il CCNL (>5% di rappresentatività); 2. se i sindacati non presentano piattaforma unitaria, la parte datoriale può avviare la trattativa sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali con rappresentatività del 50% + 1; 3. il CCNL sottoscritto dalle associazioni che rappresentino 50% + 1 ha le seguenti caratteristiche: • è esigibile per (cioè debba essere rispettato da) tutti i sindacati aderenti al TU, anche se non hanno firmato il CCNL; • è soggettivamente efficace per tutti i lavoratori dipendenti da imprese affiliate a organizzazioni imprenditoriali che hanno firmato il TU a prescindere dall'associazione sindacale a cui sono iscritti • in questo modo si ha efficacia erga omnes del CCL, sui generis perché limitato alla cerchia delle associazioni sindacali e delle imprese affiliate ad associazioni firmatarie del TU. Questo modello dovrebbe portare ordine nelle relazioni contrattuali, grazie al fatto di ancorare l’efficacia soggettiva del CCNL a un criterio certo di rappresentatività. 6. EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE (E TERRITORIALE) Un esame a sé state, dev’essere fatto, per quanto riguarda l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di livello aziendale, i quali hanno seguito un percorso che li ha portati ad acquisire, progressivamente, un proprio status normativo. 6.1 L’efficacia tendenzialmente generale del contratto aziendale In merito, è da dire che la giurisprudenza, tramite svariati argomenti (indivisibilità oggettiva della materia trattata, dovere per l’imprenditore di trattare paritariamente tutti i lavoratori, anche se non iscritti ai sindacati firmatari ecc.) ha bene o male, trovato il modo di ritenere tali contratti efficaci nei riguardi di tutti i lavoratori dell’azienda. Questa tendenza si è rafforzata con riguardo a quella contrattazione aziendale che la legge ha delegato a derogare ai trattamenti standard, a fini di gestione di crisi aziendali o di distribuzione di sacrifici; sempre curandosi di accompagnare tale delega con l’individuazione dei sindacati (maggiormente rappresentativi o comparativamente più rappresentativi) legittimati a stipulare tali contratti. In ipotesi del tipo, e in virtù di argomenti come quelli sopracitati, l’efficacia generale dei contratti aziendali si “tende” a considerare acquisita. Esempio l’art. 5 della legge 223 del 1991, prevede che in caso di licenziamento collettivo, l’accordo sindacale stipulato con l’impresa che intende procedere al licenziamento, possa prevedere i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Si ipotizzi che l’accordo, sia concluso con le istanze locali dei tre più noti sindacati di categoria e stabilisca che debbano essere licenziati, prima degli altri, i lavoratori più prossimi al pensionamento; e che in applicazione di tale criterio venga scelto un lavoratore iscritto ad un sindacato minoritario (es. all’ UGL) e non firmatario dell’accordo. Sulla base delle regole privatistiche, il lavoratore iscritto al sindacato minoritario non firmatario, potrebbe chiamarsi fuori (dal licenziamento), mettendo in crisi il meccanismo di scelta previsto dal legislatore. Se invece a tale accordo riconosciamo, (come fa la giurisprudenza) efficacia generale, nessuno può sottrarvisi. Tuttavia, non è mai stato facile, calare quest’ultimo orientamento dell’efficacia generale, in quelle situazioni fioriere di incertezza, nelle quali un contratto aziendale è stato sottoscritto dai sindacati esterni (e quindi non da un sindacato rappresentativo di tutti i lavoratori come la RSU) ma con il dissenso di uno o più sindacati rappresentativi. In tali circostanze, tendono a riprendere quota i principi privatistici, dai quali discende il diritto del lavoratore appartenente a un sindacato dissenziente, di sottrarsi all’applicazione di un contratto reputato svantaggioso (a condizione però di respingerlo in blocco, e non solo relativamente alle clausole sgradite). Ebbene, la soluzione suggerita dalla maggior parte, per scongiurare situazioni di stallo come queste, è sempre stata quella del “perfezionamento dei meccanismi decisionali della base dei lavoratori” tramite il ricorso, alla classica e più utilizzata, regola della Maggioranza. 6.2 L’efficacia del contratto aziendale nel Testo Unico sulla rappresentanza A riguardo è da dire che, anche se con un processo di elaborazione lento e faticoso, la regola maggioritaria, è stata recepita dall’Accordo interconfederale del 28 giugno 2001, il quale ha stabilito che: • Il contratto aziendale è efficace nei confronti di tutto il personale in forza all’azienda se sono approvato dalla maggioranza semplice dei componenti della RSU. • Qualora i sindacati, in disaccordo tra loro, non abbiano costituito la RSU ma le RSA, e l’accordo sia stato stipulato da quest’ultime, esso è efficace se è approvato dalle RSA costituite nell’ambito di sindacati maggioritari in azienda, sulla base dei dati delle deleghe rilasciate dai lavoratori al datore di lavoro per la trattenuta, dalla propria busta paga, dei contribuiti da versare al sindacato prescelto dai lavoratori stessi. In quest’ultima seconda ipotesi, non essendovi a monte un voto democratico, l’accordo aziendale è sottoposto a referendum, se questo sia richiesto, entro 10 giorni dalla sottoscrizione dell’accordo, da almeno un sindacato aderente alle confederazioni firmatarie dell’accordo interconfederale oppure dal 30 % dei lavoratori dell’impresa. Per la validità del referendum è necessaria la partecipazione del 50% +1 degli aventi diritto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice di votanti. 6.3 L’efficacia del contratto aziendale e territoriale nell’art. 8 l n. 148/2011 La disciplina dell’Accordo del 2011 poi recepita dal TU Rappresentanza è stata legificata dall’art.8 della legge 14 settembre 2011 n.148, in base al quale i contratti collettivi aziendale purché abbiano ad oggetto le materie e siano rivolti al perseguimento delle finalità indicate dalla disposizione, e purché stipulati dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, (compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 possono realizzare “specifiche” intese con “efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”. Tale articolo 8 sembra intendere che i contratti collettivi aziendali stipulati su quelle materie sono efficaci erga omnes, cioè verso tutti i lavoratori dell’azienda interessata, a condizione che rispettino tre cose: 1) Condizione che il contratto aziendale verta su una delle materie indicate 2) Le sue previsioni siano finalizzate al perseguimento di uno degli obiettivi presi in considerazione dalla norma (non deve essere una finalizzazione di mera facciata ma verificabile in qualche modo in sede giudiziale). 3) Devono essere stipulati, anche in alternativa: - da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale. - Dalle RSA riconducibili alle predette associazioni sindacali, ergo non da tutte le RSA - dalla RSU. Negli ultimi due casi la stipulazione deve avvenire nel rispetto delle procedure maggioritarie di cui al TU Rappresentanza o altri accordi di analogo contenuto, anche se tale regola dovrebbe valere anche nel primo caso. Il rispetto delle condizioni illustrate può essere dal giudice. 7. SUCCESSIONE TEMPORALE TRA CONTRATTI COLLETTIVI Nei limiti in cui un contratto collettivo è soggettivamente efficace, le clausole “normative” in esso contenute si inseriscono dall’esterno nel contenuto del contratto individuale di lavoro, senza bisogno di espliciti rinvii al contratto collettivo in sede individuale (rinvii che comunque di solito ci sono nel contratto individuale). Le clausole normative hanno quindi un’efficacia reale nei riguardi del contratto individuale. Ciò pone, due problematiche. Anzitutto ci si chiede che cosa accade quando un contratto collettivo viene sostituito da un altro contratto collettivo di eguale livello (es. nel caso del rinnovo del contratto collettivo nazionale di categoria scaduto). Di solito il nuovo contiene miglioramenti rispetto al primo e questo evita problemi. Può però accadere che il nuovo contratto contiene qualche, sia pur parziale, peggioramento rispetto al primo. In tal caso il lavoratore non può continuare ad invocare i diritti derivanti dalla fonte precedente, più favorevole, considerandoli come ormai acquisiti alla propria sfera giuridica soggettiva, perché il contratto individuale, § Materie oggetto di diritti di partecipazione sindacale, per previsione dei contratti collettivi; § Materie rientranti nelle prerogative dei dirigenti in ordine alle determinazioni concrete per la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici e alle misure di gestione dei rapporti di lavoro. § Materie del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali. Alla contrattazione collettiva spetta anche disciplinare la struttura della contrattazione, i rapporti tra i diversi livelli contrattuali e la durata dei contratti collettivi. Il baricentro della contrattazione è rappresentato dal contratto collettivo nazionale di comparto, cui spetta di definire il trattamento normativo ed economico standard dei lavoratori pubblici (equivalente della categoria nel settore privato). La contrattazione collettiva si articola in 4 comparti: funzioni centrali, funzioni locali, sanità, istruzione e ricerca. Per i dirigenti è prevista una contrattazione autonoma che deve svolgersi su 4 aree contrattuali. Sono disciplinati inoltre i soggetti del contratto collettivo nazionale di comparto. Essi sono: Dalla parte delle pubbliche amministrazioni, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). Tale rappresentanza è esercitata autonomamente, ma nel rispetto degli atti di indirizzo preventivamente formulati dai Comitati di settore costituiti, per ciascun comparto, dalle amministrazioni del medesimo. Oltre al potere di indirizzo, a tali comitati di settore, spetta il potere di esprimere un parere “sull’ipotesi di accordo” conclusa dall’Aran, ai fini della sottoscrizione definitiva del contratto. Dalla parte dei lavoratori: l’Aran ammette alla contrattazione collettiva nazionale soltanto le organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto una rappresentatività non inferiore al 5%. A tal fine si considera la media tra, il dato associativo (espresso dal numero degli iscritti, verificato mediante le deleghe rilasciate dai lavoratori al datore di lavoro per il versamento dei contributi sindacali tramite trattenuta sulla busta paga) e quello elettorale (espresso dalla percentuale dei voti ottenuti da ciascuna sigla nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale, tenute nell’ambito di ciascuna amministrazione). Per quanto riguarda la dirigenza, non essendo disponibile il dato elettorale, sono invitate alle trattative le organizzazioni sindacali, in possesso della soglia del 5%, calcolata però sono in relazione al dato associativo. Per il procedimento di stipula, esso è disciplinato dalla legge e si svolge così: Il Ministero dell’economia e delle finanze definisce le risorse destinate alla contrattazione. Con norma da inserire nella legge di bilancio quantifica il relativo onere, da porre a carico dei bilanci dello stato e delle altre amministrazioni pubbliche. Un Comitato di settore emette un atto di indirizzo all'ARAN che a questo punto può dare inizio alle trattative, convocando le organizzazioni sindacali riconosciute rappresentative nel comparto o nell’area dirigenziale La trattiva si conclude con un'ipotesi di accordo, che l’ARAN deve trasmettere al Comitato si settore interessato, per acquisirne il parere vincolante, e al Governo, per eventuali osservazioni Acquisiti pareri ed eventuali osservazioni, l’Aran trasmette alla Corte dei Conti l’ipotesi di accordo, con la quantificazione dei costi contrattuali, ai fini della certificazione di compatibilità di bilancio Se la certificazione è positiva o se la corte non si pronuncia entro 15 giorni, l’ARAN sottoscrive il contratto collettivo, previa verifica, sulla base della rappresentatività accertata per l'ammissione alle trattative, che le organizzazioni sindacali che aderiscono all'ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell'area contrattuale, o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito. In caso di certificazione negativa, deve essere avviata una nuova trattativa e conclusa una nuova ipotesi di accordo, con la medesima procedura. Qualora la certificazione sia positiva, il contratto viene sottoscritto dall’ARAN e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, a rimarcarne ancora lo status fortemente pubblicistico. In secondo luogo, è prevista anche l’attivazione di una contrattazione decentrata o integrativa, presso le singole amministrazioni, la quale deve però svolgersi entro le regole previste dalla contrattazione nazionale, questo ad evitare che la spesa della contrattazione collettiva decentrata/integrativa esca fuori dal controllo finanziario. È quindi la contrattazione nazionale a definire l’entità delle risorse finanziarie disponibili per la contrattazione integrativa. Allo stesso modo, sono sempre i contratti nazionali che prescelgono i soggetti per questo livello di contrattazione. Essi sono, di massima la RSU, e i rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali territoriali di categoria, firmatarie, a livello nazionale, dei contratti nazionali. La contrattazione integrativa deve essere indirizzata a migliorare l’efficienza dei servizi, regolando in tale spirito la distribuzione del trattamento economico accessorio collegato alle performance organizzative e individuali e destinando ad esso una quota prevalente delle risorse disponibili. I contratti collettivi nazionali di lavoro devono prevedere apposite clausole che impediscano incrementi delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori per le amministrazioni che registrano livelli anomali di assenteismo. La normativa è attenta a scongiurare il pericolo di una contrattazione decentrata fuori controllo finanziario, al punto che gli eventuali conflitti tra un contratto nazionale e contratto decentrato sono risolti, diversamente dal settore privato, con la previsione di un radicale regime sanzionatorio: le pubbliche amministrazioni non possono in ogni caso sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti risultanti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportino oneri non previsti. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate e sono sostituite di diritti. È qui sancita l’inderogabilità non soltanto in peius, ma anche in melius, del contratto collettivo nazionale da parte del contratto decentrato. Essa comporta che le somme indebitamente erogate ai lavoratori a livello decentrato dovrebbero essere recuperate dall’amministrazione. Se l’amministrazione patisce un danno economico, ne rispondono a titolo di responsabilità contabile dinanzi alla corte dei conti, amministratori e dirigenti della stessa. Eventuali sforamenti dei limiti finanziari devono essere recuperati nell’ambito della sessione negoziale successiva. Le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi dalla data della loro sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti. In questo modo si realizza di fatto un regime di efficacia erga omnes del contratto collettivo pubblico. Tale regime è completato dall’obbligo a carico delle PA di garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi. CAPITOLO 4: LO SCIOPERO 1. SCIOPERO E TEORIE SOCIALI Lo sciopero è il principale strumento di pressione a disposizione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali per sostenere le proprie rivendicazioni. L’arma di pressione consiste nel danno produttivo ed economico, che “l’astensione collettiva dal lavoro” comporta per l’imprenditore. Il discorso giuridico relativo allo sciopero chiama necessariamente in causa le teorie della società, dal momento che, assegnare allo sciopero un posto nel sistema giuridico, non può non risentire delle opzioni in merito alla funzione che ad esso, si ritenga di attribuire nei modelli di azione sociale. Per le stesse ragioni, lo sciopero è un istituto centrale del diritto del lavoro. Tale centralità è stata conquistata “sul campo” all’epoca delle prime lotte operaie, che segnarono il battesimo dell’istituto, e poi è stata mantenuta, (a parte nella parentesi corporativa), per tutto il corso dell’età classica del diritto del lavoro, impreziosita dal suggello costituzionale. Lo sciopero contiene infatti, tutti gli ingredienti fondamentali del paradigma lavoristico: - La presa d’atto di una condizione di strutturale contrapposizione di interessi fra la classe proprietaria dei mezzi di produzione e la classe subalterna detentrice della sola forza lavoro; - L’idea della centralità sociale del conflitto industriale; - Il programma di emancipazione, incarnato dall’attribuzione ai lavoratori di uno strumento di difesa collettiva dei propri interessi. Nella costituzione repubblicana, l’obiettivo del superamento della subalternità dei lavoratori subordinati, è stato reputato talmente importante, da far conferire ai medesimi (attraverso l’art.40) il diritto di accompagnare e proseguire sul terreno sociale quelle battaglie che, pur avevano titolo ad intraprendete come cittadini, utilizzando i canali della democrazia parlamentare. Con l’apertura di un siffatto “secondo canale di rappresentanza”, si è reso onore a quel movimento “dal basso” , che sin dall’800 aveva dato vita ad una spontanea reazione collettiva nei confronti del predominio economico e sociale della borghesia industriale, per migliorare le condizioni spesso indecenti in cui versavano le classi lavoratrici dell’epoca; un’autodifesa questa , che è stata rovesciata in positivo, dal “costituzionalismo sociale” del secondo dopo guerra, con il quale lo Stato democratico ha deciso di scommettere sul consenso delle classi lavoratrici, consegnando ad esse l’arma dello sciopero, sul presupposto che ne avrebbero fatto un uso responsabile, e “non concedendo” al ceto imprenditoriale un simmetrico diritto di serrata. D’altra parte, una volta riconosciuto il diritto al conflitto sociale, esso rimaneva non facile da “istituzionalizzare”, cioè da inserire nei meccanismi fisiologici di in una società civile tendente ad una relativa pacificazione. È tuttora illuminante, al riguardo, la derivazione marxiana del concetto. Già altri pensatori politici, come Hobbes, avevano sollevato il tema del conflitto sociale, ma la novità di Marx è stata quella di ravvisare in esso, sotto forma di lotta di classe, un carattere endemico delle società fondate sui rapporti di produzione antagonistici, come la società feudale e quella borghese. Ebbene, lo sciopero, nella sua primigenia essenza di lotta qualificata dall’appartenenza ad una classe, si è inserito perfettamente nel paradigma marxiano, come inizio di ribellione della classe “sfruttata”, e quasi, dunque, come una prova tecnica dell’inevitabile sbocco rivoluzionario. L’appartenenza originaria ad una concezione sociale irriducibilmente conflittuale, come quella marxista e più in generale socialista, si è fatta sempre sentire nella successiva evoluzione del discorso sullo sciopero, anche quando si è trovata priva dello sbocco rivoluzionario prospettato da Marx. Lo sciopero, infatti, è stato in seguito accettato anche all’interno di teorie liberali della società, cioè quelle teorie di ispirazione pluralistica, nate in ambiente anglosassone, secondo le quali il conflitto fra gruppi di interesse dev’essere considerato un dato permanente delle società capitalistiche e liberali, e come tale, perfettamente compatibile con la sopravvivenza delle medesime. Tuttavia, nel quadro di queste diverse visuali, lo sciopero è stato riassorbito nei meccanismi fisiologici dell’evoluzione sociale, riducendosi a “strumento pragmatico di difesa degli interessi”. A partire dagli anni 80 del 1900, lo sciopero ha subito numerose mutazioni: 1- Per un verso, con l’evoluzione del sistema delle relazioni sindacali e con la prevalenza, in seno alle parti sociali, di atteggiamenti generalmente più collaborativi, il suo peso è fortemente diminuito nell’industria 2- Per un altro verso, il peso dello sciopero si è accresciuto nel “settore dei servizi essenziali”, nel quale ad un certo punto si è resa necessaria l’emanazione di una legge, allo scopo di contemperare l’esercizio dello sciopero con la salvaguardia dei diritti degli utenti dei servizi, che sono spesso, poi, gli stessi lavoratori nella veste di cittadini utenti. È da notare infine, che la proclamazione dello sciopero come diritto, pone ancora più in risalto, il fatto che la Costituzione non riconosca all’imprenditore un contrapposto diritto di serrata, cioè un contrapposto diritto dell’imprenditore (come reazione o ritorsione all’azione collettiva dei lavoratori) di serrare/chiudere l’azienda, cioè sospendere l’attività produttiva dell’azienda e impedire l’accesso ai lavoratori, per colpirli non pagando la loro retribuzione (tale scelta unilaterale della Costituzione, non è però stata confermata dall’art. 28 della Carta di Nizza, ove il “diritto di azioni collettive” è riconosciuto sia al lavoratore che ai datori di lavoro). Il diritto di serrata non è neppure garantito dalla legge e né dalla giurisprudenza, con la conseguenza che l’imprenditore che ricorre alla serrata, rimane comunque tenuto a corrispondere la retribuzione ai lavoratori scioperanti. Tuttavia, nonostante resti confinata nel “non diritto”, la serrata per fini contrattuali, non è un reato e neppure potrebbe essere qualificata come tale, dovendosi ritenere che essa sia garantita, quantomeno come un “diritto di libertà”, nel senso larghissimo di facoltà di compiere ciò che non è vietato: ciò in base alla sentenza n. 29 del maggio 1960 della Corte Cost.). 4. LA TITOLARITA’ DEL DIRITTO DI SCIOPERO L’indeterminatezza semantica dell'art 40 Cost., comincia con il fatto di lasciare nell’ombra (attraverso l’uso dell’impersonale “si esercita”) il profilo della titolarità del diritto di sciopero. L’indeterminazione, però non equivale a lacuna, per cui l’art. 40 rimette all’interprete, l'onere di stabilire il titolare del diritto di sciopero. Occorre premettere che, la direttrice sulla quale il dibattito si è sviluppato ha assunto come “scontata” l’inerenza dello sciopero alla sola area del lavoro subordinato, dibattendosi poi se all’interno di tale area il diritto di sciopero spetti al soggetto individuale o a quello collettivo, cioè sindacale. Tuttavia, la certezza dell’equazione sciopero-lavoro subordinato è però venuta meno a partire dalla decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della norma (art.506cp) incriminatrice della serrata posta in essere dagli esercenti di piccole industrie e commerci privi di lavoratori alle proprie dipendenze, in quanto ritenuta in contrasto con l’art.40 Cost. visto che la sospensione dell’attività di quei soggetti, non influendo sul alcun rapporto di lavoro, doveva essere in realtà qualificata come sciopero. Ne è derivata, una tendenza espansiva che ha indotto la Cassazione a riconoscere la titolarità del diritto di sciopero anche ai lavoratori parasubordinati; ma alla quale la Corte Cost. ha successivamente posto un freno. Sulla complessa questione della titolarità del diritto di sciopero, comunque si sono disputate in campo diverse tesi, nessuna delle quali è mai riuscita a scalzare definitivamente le altre: - La teoria per cui il titolare del diritto di sciopero doveva essere ritenuto, non il singolo lavoratore subordinato, ma l’associazione sindacale (la quale ha prevalso quando fu emanata la costituzione). Il potere di proteggere gli interessi della collettività dei lavoratori attraverso il conflitto non può che essere riconosciuto al medesimo soggetto cui è affidata la tutela degli interessi. - La teoria per cui, il sindacato era ritenuto contitolare del diritto di sciopero assieme al lavoratore, con la conseguenza di reputare necessaria, ai fini della configurazione dello sciopero, una “proclamazione” (dello sciopero) da parte del sindacato - La teoria (che ha poi prevalso in dottrina, e si è affermata nella prassi e nella giurisprudenza) , in base alla quale titolare del diritto di sciopero deve ritenersi ciascun singolo lavoratore, ma tale diritto può essere esercitato dal singolo soltanto assieme ad altri lavoratori, non essendo ammissibile lo sciopero individuale. Lo sciopero dunque è stato configurato come diritto individuale, ma ad esercizio necessariamente collettivo. La principale implicazione di tale terza teoria è quella di estromettere il ruolo dell’associazione sindacale dalla fattispecie giuridica dello sciopero. Ciò non toglie, ovviamente, che, “di fatto”, la maggior parte degli scioperi sia preceduta dalla proclamazione da parte di un sindacato o di più sindacati. Il punto è che tale proclamazione non è giuridicamente indispensabile affinché possa parlarsi di uno sciopero legittimo. Pertanto, potranno sempre esservi scioperi “proclamati”, da coalizioni occasionali di lavoratori, anche nel dissenso dei sindacati. La tesi della titolarità individuale si è definitivamente imposta negli anni 70, quando se ne è apprezzata la valenza liberale e democratica. L’inconveniente di tale tesi consiste nell’impedire qualsiasi forma di “governo” del conflitto, nell’ambito del sistema delle relazioni industriali. Infatti, se il diritto di sciopero appartiene a ciascun lavoratore, l’eventuale clausola contrattuale (c.d. “di tregua/pace sindacale”), con la quale un’associazione sindacale si impegna a non ricorrere, per certi periodi, allo sciopero, è di natura “meramente obbligatoria” e non normativa; quindi: - Non incide sulla sfera giuridica dei singoli (pur se affiliati al sindacato firmatario della clausola), e non rendono illegittimo lo sciopero da essi attuato; - Vincola ed espone a sanzioni, solo il sindacato o i sindacati che l‘ha/l’hanno sottoscritta. Il TU Rappresentanza del 2014, occupandosi del possibile inserimento di clausole di tregua sindacale nei contratti collettivi aziendali, si è inserito nella tradizionale concezione circa il valore giuridico di tali clausole. Infatti ha previsto che i contratti aziendali che definiscono tali clausole di tregua sindacale hanno effetto vincolante, oltre che per il datore di lavoro, esclusivamente (cioè solo) per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali espressione delle confederazioni firmatarie dell’accordo, o per le organizzazioni che ad esso abbiano formalmente aderito, ma non per i singoli lavoratori. I risvolti negativi, determinati dalla sottrazione al sindacato di spazi giuridici “di governo” del conflitto, sono all’origine dei ricorrenti “ritorni dottrinali” sulla tesi contrapposta della titolarità “collettivo-sindacale” del diritto di sciopero. Tale tesi ha tratto nuova linfa, in particolare dall’emanazione della legge n. 146/1990, la quale, limitatamente al settore dei servizi essenziali, ha creato le condizioni di un governo sindacale del conflitto, conferendo alle organizzazioni sindacali il potere di stipulare accordi collettivi, rivolti a individuare le “prestazioni indispensabili” che devono essere garantite anche in caso di sciopero. Tuttavia, il tentativo di rilanciare, a partire da tale legge, la tesi della titolarità “sindacale” del diritto allo sciopero, si scontra col fatto che tale legge, non smentendo l’assunto tradizionale della “titolarità individuale con esercizio collettivo”, l’ha implicitamente confermato. Ciò significa che tale legge ha ritenuto possibile conferire alle parti sociali il potere di dettare norme regolatrici dello sciopero, pur tenendo fermo l’assunto tradizionale della titolarità individuale del diritto di sciopero. Tutto ciò premesso, si deve riconoscere, che il tema della titolarità, rimane ancora problematico e privo di una soluzione certa. Una pur provvisoria soluzione potrebbe muovere dal riconoscimento della sintonia esistente tra l’art.39comma 1 della Cost. e l’art. 40 Cost: nel quadro di entrambe le norme, la garanzia insiste nella sfera giuridica di ciascun singolo lavoratore, pur proiettandosi nella dimensione dell’organizzazione collettiva. Presupposto implicito della tesi della titolarità individuale, è infatti, che un ordinamento che garantisce la libertà sindacale non solo all’associazione ma anche all’entità più ampia dell’organizzazione, non può non riservare il diritto al conflitto a ciascun lavoratore, pur incalzandone l’esercizio sul terreno della “coalizione”. Quindi, ove la dottrina ha detto “individuale” ha in genere inteso dire “non sindacale”. Allora, forse, l’unica alternativa teorica praticabile, è quella di portare alle estreme conseguenze il parallelo tra art. 39.1 e 40 della Cost., riconoscendo la titolarità del diritto di sciopero (come la titolarità della libertà sindacale) direttamente “all’organizzazione sindacale”. In tal modo lo sciopero diventerebbe un diritto a titolarità collettiva (non sindacale) e ad esercizio individuale. 5. LO SCIOPERO COME FATTO Rimane il problema di stabilire il contenuto dello sciopero, cioè quali sono i comportamenti materiali capaci di integrare la fattispecie prefigurata dall’art. 40. L’area di lecita praticabilità dello sciopero finisce con l’essere delimitata due volte: • Una prima attraverso la definizione di che cosa si intende per sciopero; • Una seconda tramite la fissazione dei limiti all’esercizio del diritto di sciopero. Per quanto riguarda il primo di tali profili, si sono poste le questioni di: - Stabilire quando si versi in presenza di un’astensione collettiva dal lavoro, da tutti ritenuta necessaria per il perfezionarsi della fattispecie sciopero. L’ovvia risposta a tale questione è stata quella di ritenere che, per parlare di sciopero è sufficiente la partecipazione di un ridotto numero di lavoratori, vale a dire al minimo 2. - Stabilire se debba considerarsi sciopero soltanto un’astensione dal lavoro, vale a dire un fatto meramente omissivo e negativo, oppure anche quei comportamenti che si concretizzano in forma di non collaborazione del lavoratore (ad es rifiuto di effettuare prestazioni accessorie o straordinarie). Importante recentemente l’impiego delle tecnologie digitali che sono rivelatrici della ricerca, da parte dei sindacati e dei lavoratori, di nuove forme di conflitto volte a sfruttare il potenziale comunicativo dei social media. Si pensi al netstrike o al twitterstorm. A riguardo di tale questione è da dire che, l’impostazione tradizionale, tende a considerare sciopero solo ciò che è un’astensione dal lavoro, seppur comprendendo in tale concetto anche quei comportamenti positivi che l’esperienza ha dimostrato essere direttamente collegati con lo sciopero (es. attività di propaganda, cortei interni ecc.) a condizione però, che questi ultimi non travalichino in atti illeciti (blocchi stradali, ferroviari ecc...) Ne discende che, le forme di agitazione sindacale che non si risolvono in una astensione dal lavoro, e che si sostanziano piuttosto in una prestazione non regolare del lavoro, potrebbero essere ritenute non coperte dalla garanzia costituzionale, e tornerebbero a configurare degli inadempimenti contrattuali. Tuttavia, questo punto di vista non è facilmente armonizzabile con l’idea (oggi largamente accettata) che sia sciopero tutto ciò che la prassi sociale dimostra di considerare tale. Tende a prevalere, anche nella giurisprudenza, la diversa idea che è sciopero, o comunque conflitto non protetto dalla garanzia dell’art. 40 cost., tutto ciò che la prassi sociale dimostra di considerare tale. Vi rientrano così sia le forme di non collaborazione, che di conflitto tecnologico. Tali forme tendono inoltre a rompere il collegamento tra conflitto e astensione dal lavoro, creando l’anomalia di un danno per il datore di lavoro, cui non corrisponde un sacrificio retributivo del lavoratore. 6. LO SCIOPERO SOTTO IL PROFILO DELLE FINALITA’ Il problema dell’identità dello sciopero, si ripropone in relazione alle finalità per le quali lo sciopero viene proclamato ed attuato. In proposito, deve innanzitutto essere sottolineato un determinatore concettuale comune a tutte le teorie dello sciopero, cioè la necessaria finalizzazione dell’astensione dal lavoro, all’ autotutela di un interesse collettivo; dunque non individuale. Ciò ha permesso di trovare limiti intrinseci al diritto di sciopero, riconducendo allo sciopero-diritto il solo sciopero economico-professionale: quello indetto per supportare la trattativa per la stipula o il rinnovo di un contratto collettivo o per avanzare pretese nei confronti della controparte datoriale. Restavano quindi fuori da tale definizione le altre figure di sciopero (es. lo sciopero per solidarietà, o lo sciopero di protesta) nonché gli scioperi caratterizzati dalla proposizione di pretese, per definizione, non disponibili da parte dei datori di lavoro. All’epoca della prima elaborazione di tale teoria, queste varie figure di sciopero erano incriminate da alcune disposizioni del codice penale del 1930. In seguito, dopo l’avvento dell’ordinamento repubblicano, la Corte Costituzionale, ha iniziato a ritagliare le residue fattispecie di sciopero reato, con interventi che hanno avuto una decisiva influenza anche sul piano dell’affermazione del concetto di sciopero-diritto. La Corte, quindi, è praticamente arrivata a fare propria un’accezione molto ampia del termine “interesse collettivo”. (ad esempio quando l'imprenditore per compensare l'assenza dal lavoro e la mancata produzione, dovrebbe assumere un onere eccessivo, e allora preferisce chiudere per il tempo dello sciopero). Tale orientamento, è stato fortemente criticato da alcune branche della dottrina, le quali vedono, nel rifiuto dell’imprenditore di retribuire i lavoratori in situazioni del genere, una sanzione surrettizia dello sciopero. 9. EFFETTIVITÀ DEL DIRITTO DI SCIOPERO E REAZIONI DEL DATORE DI LAVORO L’esistenza, costituzionalmente garantita, del diritto di sciopero, vieta, oltre che allo Stato anche al datore di lavoro, di impedire od ostacolare in qualsiasi forma l’esercizio di tale diritto di sciopero (art.40 Cost.). Per rafforzare la protezione dei lavoratori, lo Statuto dei lavoratori ha delineato un insieme di protezioni, che mirano a consolidare e rafforzare l’effettività del diritto allo sciopero: • Da un lato garantendo il lavoratore contro ogni forma di discriminazione causata dalla partecipazione ad uno sciopero (artt. 15-16); • Dall’altro lato, consentendo alle associazioni sindacali di reagire in prima persona contro comportamenti del datore di lavoro “diretti ad impedire o limitare l’esercizio del diritto di sciopero” (art.28). Mentre, per ciò che riguarda le condotte miranti a disincentivare la partecipazione ad uno sciopero, o addirittura, a punirla, non vi sono incertezze circa il carattere “antisindacale”; più controversa è la questione delle possibili reazioni datoriali rivolte a contrastare gli effetti concreti dello sciopero (es. blocco di attività, disfunzioni organizzative). A tale riguardo, la giurisprudenza è solita nel ritenere: - Illecito il crumiraggio c.d. Esterno, ossia l’assunzione ad hoc di altri lavoratori per far svolgere loro mansioni affidate agli scioperanti; - Lecito il crumiraggio c.d. Interno, ossia l’affidamento di quelle mansioni a lavoratori, già in servizio, ma non aderenti allo sciopero; ciò a condizione che essi non siano utilizzati, in modo eccessivamente anomalo (ad esempio assegnando ad essi mansioni deteriori, o impiegandoli a tempo pieno se sono a tempo parziale ecc.); - Difficile da contrastare, dal punto dei vista dei lavoratori, è il crumiraggio tecnologico, che si realizza forzando gli impieghi delle tecnologie digitali in modo da neutralizzare o ridurre gli effetti delle astensioni dal lavoro (ex. Scioperi addetti caselli autostradali) 10. LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (es.: ferrovie, servizi ospedalieri) assume connotati, diversi da quelli dello sciopero industriale, non solo particolari: non solo perché i protagonisti sono i “colletti bianchi”, anziché i colletti blu, ma soprattutto perché l’arma di pressione, più che il danno arrecato alla controparte, è quello provocato all’utenza, in merito a diritti altrettanto o addirittura più importanti del diritto allo sciopero (i servizi ospedalieri per tutti i cittadini, i trasporti ferroviari per i pendolari ecc.) e ha un “costo sociale” molto alto. Negli anni 80, questo settore è divenuto sindacalmente “esplosivo” per la proliferazione di una serie di nuovi sindacati, (in genere di mestiere o di professione), i quali attuavano strategie fortemente rivendicative e conflittuali, spesso in ribellione nei confronti del sindacalismo “generale”. Si è posto quindi il problema di, contemperare l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali, con i diritti dell’utenza. In un primo momento i sindacati maggiori tentarono la via di “codici di autoregolamentazione”, che però, non essendo condivisi dai sindacati più inclini al conflitto, e non vincolando neppure i soggetti che l'avevano adottata, si risolse in un fallimento. Fu dunque elaborata la legge n.146/1990, con il sostanziale consenso politico dei sindacati confederali, congegnata in modo tale da lasciare grande spazio, nella fase d’attuazione, alla contrattazione collettiva, e dunque ai sindacati stessi. Per bilanciare il sistema, è stata creata inoltre, un Autorità indipendente (Commissione di Garanzia). Il bilancio applicativo della legge 146/1900, registra sia aspetti positivi che negativi: - È stato fatto un grande lavoro dalle parti sociali e dalla Commissione di Garanzia, che ha fatto migliorare la prassi delle relazioni sindacali, con benefici effettivi a cascata sul funzionamento dei servizi; - Non sono mancate e non mancano ricorrenti critiche alla legge, accusata da più parti di scarsa effettività, soprattutto per la timidezza dell’apparato sanzionatorio. In verità, il vero problema di fondo è quello della crescente difficoltà della società civile ad accettare che, in conseguenza di scioperi, possano verificarsi turbative ai circuiti della normale vita sociale. La via della regolazione dello sciopero nei servizi essenziali è pertanto, e rimarrà, una via di faticosi equilibrismi e compromessi. 11. I LIMITI ALL’ESERCIZIO DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI Il principio guida della legge 146/90 è quello secondo cui il diritto di sciopero, nell’ambito di amministrazioni o imprese che erogano servizi pubblici essenziali, deve esercitarsi nel rispetto del “contenuto essenziale”, di determinati diritti della persona, tutelati costituzionalmente ed elencati nell’art. 1 di tale legge (diritto alla vita, alla sicurezza, all'informazione, all'istruzione, libertà di comunicazione ecc.). Contenuto “essenziale” significa che tali diritti non devono essere rispettati integralmente, in quanto ciò equivarrebbe a negare lo sciopero, ma solo limitatamente ad un nucleo di essi, considerato come essenziale e assolutamente irrinunciabile. Tali diritti da salvaguardare costituiscono limiti esterni al diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Tuttavia, a fini concreti, più che quella dei diritti, è importante, invece, l’identificazione dei servizi rivolti a garantire il soddisfacimento di tali diritti. Quelli elencati hanno una portata esemplificativa, potendone dunque essere identificati altri. - Per la tutela dei diritti alla vita, salute, libertà, sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico, i servizi interessati sono: sanità, igiene pubblica, protezione civile, raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e speciali, tossici e nocivi, dogane, amministrazione della giustizia etc. - Per la tutela della libertà di circolazione: i trasporti, compresi quelli marittimi. - Per l’assistenza e previdenza sociale, i servizi di erogazione dei relativi importi, anche effettuati a mezzo del servizio bancario. - Per l’Istruzione: l’istruzione pubblica e quella universitaria. - Per la libertà di comunicazione: le poste, le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva pubblica. Nell’ambito di applicazione così delineato, il diritto di sciopero deve essere esercitato, nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle “prestazioni indispensabili”, a garantire l’effettiva tutela del “contenuto essenziale” di tali diritti della persona. Il diritto allo sciopero deve essere esercitato nel rispetto di misure rivolte a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili a garantire l’effettiva tutela del contenuto essenziale dei diritti in discorso. Lo sciopero può essere regolato infatti, soltanto “limitatamente” a tali prestazioni. Per quanto riguarda le procedure da seguire e le regole da rispettare, relativamente a tali prestazioni, è da dire che: o Un primo tratto di tale operazione regolativa è delineato dalla stessa legge 146/1990; o Mentre un secondo tratto (quello più importante, essendo quello che conduce alla concreta individuazione delle prestazioni da garantire) è lasciato alla contrattazione collettiva, tramite la consueta tecnica del “rinvio”. Le misure regolative introdotte dalla legge del 1990, o comunque da essa “delegate ai contratti collettivi” sono di varia natura: - Innanzitutto, tale legge 146/1990 stabilisce che le parti, prima di proclamare uno sciopero, devono attivare le c.d. procedure di raffreddamento e di conciliazione previste dai contratti collettivi e, finalizzate alla composizione pacifica del conflitto; cioè deve avere corso una fase rivolta ad una composizione della vertenza, ricorrendo effettivamente allo sciopero soltanto come ultima ratio. - Qualora, le parti, non intendano adottare le procedure di raffreddamento e conciliazione previste dai contratti collettivi, (o in mancanza di tali contratti, quelle procedure previste dalla Commissione di garanzia), le procedure di raffreddamento e conciliazione debbono comunque essere esperite innanzi al Prefetto o al Ministro del lavoro, a seconda che il conflitto abbia un rilievo locale o nazionale. - Solo dopo aver esperito negativamente tali procedure, i soggetti sindacali, o comunque collettivi, sono abilitati a proclamare lo sciopero. Dev’esserci quindi una formale proclamazione. - All’atto della proclamazione, le parti, però debbono comunicare per iscritto, rispettando un termine minimo di preavviso di 10 GIORNI rispetto alla data prevista per l’azione, la durata, le modalità di attuazione, nonché le motivazioni dell’astensione collettiva dal lavoro. (Il preavviso è finalizzato a consentire il rispetto da parte delle amministrazioni o alle imprese erogatrici del servizio, degli obblighi di predisporre le misure indispensabili, che esse sono tenute a garantire all’utenza, nonché l’obbligo di comunicare all’utenza stessa, almeno 5 giorni prima dello sciopero, l’elenco dei servizi garantiti) Un'eventuale revoca spontanea dello sciopero, dopo che v’è già stata l’informazione all’utenza (c.d. effetto- annuncio) costituisce “forma sleale di azione sindacale” e viene valutata dalla Commissione di garanzia a fini sanzionatori. Le disposizioni in tema di preavviso minimo e di indicazione della durata non si applicano nei casi di: - Astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale; - Scioperi di protesta contro gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori Scioperi di questo tipo giocano sull’immediatezza della reazione dei lavoratori, quindi sarebbe incongruo vincolarli al rispetto di un preavviso o ad una delimitazione a priori della durata dell’azione. La legge inoltre stabilisce che le parti debbano altresì indicare intervalli minimi da osservare, fra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo per evitare che sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici. Secondo la Commissione di garanzia, da tale regola degli intervalli minimi, derivano due regole distinte che debbono essere previste dai contratti collettivi che regolano gli scioperi: • Rarefazione soggettiva, in base alla quale un sindacato che proclama uno sciopero in un determinato servizio non può, in quel medesimo bacino d’utenza, proclamare un secondo sciopero, se non dopo che sia trascorso un certo lasso di tempo dalla effettuazione del precedente sciopero. → evita pacchetti di scioperi. • Rarefazione oggettiva, in base alla quale gli scioperi proclamati all’interno di un determinato servizio debbono essere distanziati tra loro da un certo lasso di tempo, indipendentemente dal soggetto proclamante. adozione dei codici oppure in caso di inidoneità dei codici, da regolamentazioni provvisorie, adottate dalla Commissione. I codici di autoregolamentazione, al pari dei contratti collettivi per i lavoratori subordinati, devono prevedere un termine di preavviso non inferiore a 10 giorni, l’indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione, ed assicurare in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con il soddisfacimento del “contenuto essenziale” dei diritti della persona messi in pericolo dall’astensione. In caso di violazione delle prescrizioni contenute nei codici o nelle sostitutive regolamentazioni provvisorie, la sanzione prevista, (per l’adesione alla protesta e l’astensione dalle prestazioni) è quella amministrativa, di natura pecuniaria; ma è inoltre è possibile, anche il ricorso alla precettazione. CAPITOLO 5: LE RELAZIONI SINDACALI IN AZIENDA 1. LE RAPPRESENTANZE DEI LAVORATORI IN AZIENDA La dinamica sindacale, non si esaurisce nelle relazioni extra aziendali, ma tende a penetrare all’interno delle aziende, in modo tale da accrescere l’effettività della tutela dei lavoratori. In passato non vi era un organismo che potesse rappresentare “a tutto tondo” i lavoratori in azienda. Solo, nelle imprese di maggiori dimensioni esisteva un organismo rappresentativo, la Commissione interna (le cui origini si collocano agli inizi del 900), che però, non consentiva collegamenti organici con i sindacati ed aveva poteri circoscritti, infatti non poteva stipulare contratti collettivi di livello aziendale. Si sentì così, l’esigenza di superare l’esperienza delle commissioni interne. Tale esigenza era ispirata all’idea, che solo consentendo al sindacato di avere una salda base in azienda, si sarebbe potuto intaccare quella condizione di soggezione che tendeva a ricrearsi nelle fabbriche. E ciò in vista dell’estensione della contrattazione collettiva a livello di azienda, ma anche di altro. In merito al problema di quale forma di rappresentanza adottare, si è sempre presentata un’alternativa di fondo: - Istituire organismi di rappresentanza, che traessero la loro legittimazione “dall’alto” cioè dai sindacati esterni, come “longa manus” di quest’ultimi; - Istituire organismi di rappresentanza, che traessero la loro legittimazione “dal basso” cioè dai lavoratori stessi, chiamati a scegliere democraticamente i loro rappresentati. A livello europeo, pur conoscendosi modelli di rappresentanza cd. a “canale unico”, ove cioè esiste un’unica figura rappresentativa (come in Gran Bretagna con lo “shop steward” che è una diretta emanazione del sindacato esterno), prevale (es. in Francia, Spagna, Germania) il modello c.d. a canale doppio, nel quale si prevedono due parallele forme di rappresentanza, una di diretta emanazione sindacale e una eletta direttamente dai lavoratori, con criteri largamente democratici, sulla base di liste elettorali in genere, presentate dagli stessi sindacati. Il modello a canale doppio, presuppone un certo livello di regolazione, e può consentire di conciliare, grazie alla separazione dei due canali, lo spirito antagonistico dell’organismo sindacale (cui compete l’eventuale stipulazione dei contratti d’azienda), e lo spirito partecipativo dell’organismo di rappresentanza elettivo. Nulla avrebbe impedito all’Italia di imboccare la strada del modello cd. a canale doppio. Ma la scelta operata con lo Statuto dei lavoratori del 1970 è stata quella di, rigettare la soluzione dell’organismo di rappresentanza elettivo (in quanto evocava quella delle commissioni interne, che al contrario si voleva invece superare) in nome di un singolare modello a “canale unico”, fondato sull’istituto della “RAPPRESENTANZA SINDACALE AZIENDALE” (RSA, art.19 st. lav.). All’origine della scelta vi furono motivazioni complesse, riconducibili al desiderio delle maggiori confederazioni sindacali (cui faceva un vistoso riferimento lo stesso art.19 dello statuto) di: Impiantare una solida base di rappresentanza in azienda, capace di fungere da terminale per l’esercizio di ampie funzioni rappresentative, lasciandosi alle spalle le restrizioni cui era soggetta l’azione delle commissioni interne. L’esperienza delle RSA ha fatto registrare, per un lungo periodo, un grande successo, riuscendo appunto a riassorbire quella dei “consigli di fabbrica”; tanto che detti consigli sono giunti ad identificarsi, nella maggior parte delle realtà aziendali, con le RSA di riferimento, dei tre maggiori sindacati (formando cosi le cd. RSA unitarie). Col tempo però, l’esperienza delle RSA, ha mostrato varie pecche, soprattutto sul versante della mancata predisposizione di meccanismi di democrazia sindacale, capaci di garantire che gli organismi in questione fossero effettivamente l’espressione della volontà dei lavoratori rappresentati. Il dilemma di sempre (istituire organismi di rappresentanza che traessero la loro legittimazione dai sindacati esterni, oppure che traessero la loro legittimazione dai lavoratori stessi) è così tornato a presentarsi, e ciò è stato all’origine di un nuovo tentativo di autoriforma del sistema; questa volta però non per via legislativa, ma contrattuale: infatti, un importante accordo interconfederale del 1993 ha portato alla creazione di un nuovo organismo, la “RAPPRESENTANZA SINDACALE UNITARIA” (RSU), frutto di una legittimazione democratica dei lavoratori, e contemporaneamente espressione dei sindacati esterni. I sindacati, in altre parole, hanno cercato di aprirsi alla necessità di democratizzare maggiormente il sistema di rappresentanza aziendale, cercando tuttavia di non perdere il controllo di tali organismi di rappresentanza. Ne è scaturita l’adozione di un modello di rappresentanza aziendale, definito come modello a canale misto, in quanto a metà strada tra modello a canale unico e a canale doppio. Nel frattempo, l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, norma relativa alla costituzione delle RSA (cioè delle rappresentanze sindacali aziendali), è rimasto in vigore, come soluzione ancora a disposizione dei lavoratori e dei soggetti sindacali, qualora i sindacati non trovino un accordo sull’istituzione della RSU, oppure qualora un sindacato scelga di non partecipare alle elezioni della RSU, con una propria lista elettorale. Tuttavia, l’art. 19 non ha mantenuto il suo originario volto, avendo subito, nel 1995, l’impatto di un referendum popolare che ha avuto esisti notevolmente manipolativi. In parte diverse, sono state le vicende della rappresentanza dei lavoratori nel “settore pubblico”, cioè nelle pubbliche amministrazioni. Non perché esse siano state meno tormentate, ma perché la legge ha assunto a riguardo, un ruolo maggiormente regolativo, non limitandosi a prevedere l’applicazione dello Statuto dei lavoratori in tema di “tutela della libertà sindacale e dell’attività sindacale”, ma in particolare, istituzionalizzando l’istituto della RSU. 2. LA RAPPRESENTANZA SINDACALE AZIENDALE L’originaria formulazione dell’art. 19 St. lav. prevedeva che: le RSA potessero essere costituite ad iniziativa dei lavoratori, in ciascuna unità produttiva (sede, stabilimento, filiale ecc.), “nell’ambito” di determinate associazioni sindacali dotate di particolari requisiti di rappresentatività”. Questa disposizione introduceva una prima nota di ambiguità, in quanto il rispetto formale del requisito di democraticità (condensato nella necessità di un’iniziativa che doveva provenire dai lavoratori) non celava il fatto che ad essere cruciale, piuttosto, era la relazione di collegamento tra i lavoratori e i sindacati esterni, visto che non era possibile costituire una RSA senza presentarsi come referente di tali sindacali esterni dotati di particolari requisiti di rappresentatività. Quanto ai requisiti di rappresentatività, l’art.19 disponeva che: 1. Doveva trattarsi di associazioni sindacali, aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; 2. Ad esse potevano aggiungersi, quelle associazioni sindacali che, pur non affiliate alle confederazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva. Da questa seconda categoria, rimanevano quindi esclusi, quei sindacati che avessero sottoscritto contratti di livello meramente aziendale. Tutto ciò significava che una RSA si poteva costituire solo collegandosi a sindacati importanti e trasversali, (in quanto agganciati a confederazioni presenti in tutti i settori produttivi) e dotati di una forte rappresentatività a livello nazionale, o al massimo provinciale (non a livello aziendale) A causa di tale esclusione, fu rivolta all’art.19, l’accusa di privilegiare i grandi sindacati, in violazione del principio di libertà sindacale. La Corte costituzionale, tuttavia, in alcune sentenze emanante tra il 1974 e 1990, ha sempre dichiarato legittimo tale sistema dell’art.19, affermando che, la scelta del legislatore di selezionare i sindacati destinatari di certe prerogative (come è quella della rappresentanza aziendale), in relazione alla rappresentatività nazionale e confederale, rientra nella discrezionalità consentita al medesimo. Anche ammessa la legittimità costituzionale del sistema, rimanevano dubbi interpretativi su come attuarlo: - Un dubbio riguardava il concetto di “maggiore rappresentatività”, del quale non esistevano e non esistono tutt’ora criteri certi di misurazione e che funzionava quindi fino a quando la situazione sindacale si manteneva coesa e non emergevano sindacati minoritari (e ribelli). - Un altro dubbio riguardava, la mancata previsione di meccanismi di democrazia sindacale; che non di rado spingeva i sindacati maggiori, quando non erano certi dell’effettivo appoggio della base, ad indire referendum, prima di prendere decisioni importanti, come la stipulazione di un contratto collettivo aziendale. La riforma di tutto il sistema ha proceduto in due direzioni: 1- La cosiddetta autoriforma tramite l’accordo del 1993, che ha portato al passaggio dalla RSA alla RSU; 2- La modifica dell’art. 19, per ampliare la facoltà di costituire RSA, con un Referendum popolare del 1995, che ha portato: - All'abrogazione del detestato requisito della “maggiore rappresentatività confederale” - All’eliminazione delle parole “nazionale o provinciale” L’odierno testo dell’art. 19 è il seguente: “Rappresentanze sindacali aziendali RSA possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva”. Il meccanismo , quindi, continua a fondarsi su una forma iniziativa dei lavoratori e sul rapporto tra essi e un sindacato esterno, con la differenza che il requisito (di rappresentatività) che tale sindacato esterno deve possedere, non fa più riferimento ad astratti parametri di rappresentatività, ma discende dal fatto che quel sindacato abbia sottoscritto un “qualunque contratto collettivo che sia applicato nell’unità produttiva in questione”, a prescindere dal livello di tale contratto (nazionale, aziendale, provinciale) . L’impatto iniziale del mutamento normativo, non è stato drammatico, visto che quasi sempre i sindacati “firmatari” sono di fatto i sindacati maggiormente rappresentativi. Tuttavia, il nuovo testo dell’art.19 ha manifestato serie disfunzioni, come nel caso di una “contrattazione collettiva separata”, la quale può comportare che un’organizzazione certamente rappresentativa (FIOM-CGIL) non partecipando alla contrattazione collettiva (nazionale, provinciale o aziendale), si ritrovi tagliata fuori dal diritto di costituire RSA. (Caso Fiat). La titolarità di tali diritti in capo alla RSA è stata poi ereditata (in base all’accordo del 1993) dalla RSU. Quindi, quanto riferito dalle disposizioni statutarie, alla RSA, deve estendersi alla RSU. Occorre comunque dire, che dalla normativa in questione (costituzione della RSA/RSU e diritti consequenziali) sono state esentate le piccole unità aziendali (che impiegano meno di 15 dipendenti nello stesso territorio comunale), che non sono reputate in grado di farvi fronte, sia sotto il profilo dei costi economici che dei costi organizzativi. Le tecnologie digitali stanno impattando molto sull’esercizio di alcuni diritti sindacali. 4.1 L’assemblea L’art. 20 dello statuto, prevede che: ciascuna RSA abbia il diritto potestativo (quindi il datore deve sottostare all’esercizio di tale diritto) di indire assemblee, nell’unità produttiva di riferimento, su “materie di interesse sindacale e del lavoro”, e quindi su qualunque materia che sia ritenuta incidente sulla condizione dei lavoratori. Tali assemblee, che possono riguardare tutti i lavoratori o gruppi di essi, possono essere indette in qualunque momento, sia fuori dell’orario di lavoro, o nei limiti di 10 ore annue durante l’orario di lavoro (in quest’ultimo caso ai lavoratori viene comunque corrisposta la normale retribuzione). Alle assemblee non ha diritto di parteciparvi il datore di lavoro, a meno che sia invitato a farlo, ma possono partecipare dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la RSA. I social media oggi hanno portato a scavalcare le assemblee (da e-mail, a dirette facebook). 4.2 Il referendum L’art.21 dello statuto prevede che tutte le RSA/RSU esistenti nell’unità produttiva, abbiano il diritto di indire referendum “su materie inerenti all’attività sindacale”, con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti all’attività produttiva e alla categoria particolarmente interessata. Possono essere utilizzate le tecnologie digitali nella modalità di svolgimento della consultazione. L’esito ha valore consultivo, quindi spetta alle rappresentanze e organizzazioni sindacali stabilire che valore dargli. Nel TU Rappresentanza il referendum è previsto in alcuni casi per l’approvazione finale del contratto collettivo. 4.3 Il Trasferimento del rappresentante sindacale L’art. 22 stabilisce un importante garanzia per i dirigenti o i componenti della RSA, stabilendo che essi possono essere trasferiti da un’unità produttiva ad un’altra “soltanto previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza”. Questo per evitare che possano esservi trasferimenti discriminatori a danno di tali dirigenti, con l’obiettivo di allontanarli dalla loro base di riferimento. 4.4 I permessi sindacali Sono riconosciute varie tipologie di permessi, sia retribuiti che non retribuiti, per consentire ai dirigenti delle RSA o ai sindacalisti “interni”, un agevole e pieno espletamento del loro mandato anche durante l’orario di lavoro. - L’art. 23 dello statuto prevede permessi retribuiti per l’espletamento del mandato sindacale, a favore dei dirigenti RSA o dei componenti della RSU, secondo un monte ore che varia in relazione alla consistenza occupazionale dell’unità produttiva interessata, ma che di solito è ricalcolato in termini più favorevoli dalla contrattazione collettiva. Lo stabilire quali attività rientrano nel mandato sindacale è lasciato via via alle associazioni cui i dirigenti afferiscono, ma ne è vietato ovviamente l’abuso. Il diritto al permesso ha natura di diritto potestativo, e va esercitato tramite una “comunicazione”, da inviarsi per iscritto al datore di lavoro tramite la RSA e di regola con un preavviso di 24 ore. Alla comunicazione scritta, deve corrispondere una “presa d’atto” da parte del datore di lavoro, che non ha, però, la valenza di una concessione. - L’art.24 dello statuto prevede che i dirigenti delle RSA hanno diritto (potestativo) a permessi non retribuiti, per “la partecipazione a trattative sindacali o a congressi di natura sindacale”, e da concedere in misura non inferiore a otto giorni l’anno. È richiesto un preavviso di 3 giorni. - L’art.30 dello statuto prevede permessi retribuiti in favore di quei lavoratori che siano (non dirigenti RSA, ma) dirigenti “esterni”, delle associazioni sindacali aventi i requisiti di cui all’art.19, per la partecipazione alle riunioni di tali associazioni. 4.5 sindacale L’art.31 dello statuto prevede che i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali o nazionali, abbiano diritto di essere collocati, a richiesta, in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato. L’aspettativa non determina quindi, costi diretti per il datore di lavoro privato, ma piuttosto, per le casse dello Stato, in quanto, per i periodi in questione, è previsto un accreditamento dei contributi pensionistici. Nel lavoro pubblico, invece l’aspettativa, comporta il mantenimento della normale retribuzione per effetto degli accordi collettivi; in particolare l’accordo quadro del 7 agosto 1998. Post Settembre 2014: gli importi complessivi dei distacchi sindacali pubblici, al pari di quelli dei permessi e delle aspettative, sono stati sottoposti a una riduzione secca del 50% del loro ammontare. 4.6 Il diritto di affissione L’art.25 dello statuto attribuisce alle RSA, il diritto di procedere all’affissione dei comunicati sindacali che essa desideri far conoscere ai lavoratori. A questo riguardo il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre appositi spazi, in luoghi accessibili a tutti all’interno dell’unità produttiva. È il diritto più invecchiato, a causa dei social media che rendono inutile l’affissione. 4.7 Proselitismo, contributi sindacali, locali per l’attività sindacale L’art.26 dello statuto stabilisce il diritto dei lavoratori di raccogliere contributi e svolgere opere di proselitismo, per le loro organizzazioni sindacali, all’interno dei luoghi di lavoro, ma senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale (es. è vietato distribuire volantini durante l’orario di lavoro). I commi 2 e 3 dell’art. 26, ora abrogati, prevedevano il diritto delle associazioni sindacali dei lavoratori, (anche se non rappresentative secondo l’art.19), di percepire i contributi sindacali che i lavoratori intendevano versare ad esse, tramite trattenuta sulla busta paga, operata dal datore di lavoro. Tali disposizioni, sono state abrogate nel 95 con un referendum popolare, ma il sistema in questione è ancora generalmente operativo, per effetto di previsioni di contratti collettivi o di prassi acquisite. Esso è stato rilanciato dal TU Rappresentanza in quanto il conteggio delle deleghe sindacali è fondamentale per la misurazione della rappresentatività dei sindacati ai fini della contrattazione collettiva. L’art.27 dello statuto, prevede che nelle unità produttive con più di 200 dipendenti, il datore di lavoro, deve mettere a disposizione delle RSA, in modo permanente, un idoneo locale, per lo svolgimento di attività sindacali. Invece nelle unità produttive con un numero di dipendenti inferiore a 200, le RSA non ha diritto ad un locale stabilmente assegnato, ma possono pretenderne l’uso in caso di necessità. 5. LA PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI ALLA GESTIONE DELL’IMPRESA Con il termine “partecipazione” ci si riferisce allo stabile coinvolgimento dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti (interni e esterni all’azienda) in determinate scelte relative alla gestione dell’impresa. Questo tipo di coinvolgimento è previsto dall'art 46 Cost., ma in realtà, non tutti i maggiori sindacati italiani, hanno condiviso questa visione delle relazioni sindacali, tendenzialmente “non conflittuale”, in quanto timorosi di un “annacquamento” dello spirito conflittuale della contrapposizione di classe; lasciando così, sempre, nell’ombra l’art.46. Tuttavia, l’urgenza di risolvere una serie di concrete problematiche gestionali, ha spinto gli stessi sindacati (compreso il sindacato storicamente più ostile cioè la CGIL) a fare di necessità virtù, anche in considerazione del fatto che, essere coinvolti in certe scelte aziendali ingenera si, scomode responsabilità e rischi, ma ingenera anche una crescita complessiva di ruolo e di potere. È così penetrata nell’ordinamento una serie disorganica di norme, di origine sia legislativa (quasi sempre di matrice Europea) che contrattuale, le quali sono rivolte ad attribuire ai rappresentanti dei lavoratori e ai sindacati esterni, diritti di partecipazione di vario segno e contenuto, ma aventi comunque, in genere, un taglio procedurale. Alla logica “partecipativa” sono riconducibili: - Diritti di informazione, cioè ad essere informati in occasione di determinate scelte o in merito all’andamento della situazione dell’impresa, che costituiscono il grado più debole della partecipazione e che sono previsti da norme di legge e/o clausole di natura obbligatoria dei contratti collettivi. - Diritti di consultazione, cioè la possibilità dell’organismo di rappresentanza e/o sindacato, di richiedere di essere consultato prima dell’adozione di una certa scelta, ad esempio in vista della stipulazione di un accordo in materia o di licenziamento. - Diritti di co-determinazione, comportanti l’attribuzione agli organismi di rappresentanza e/o sindacati, di un vero e proprio diritto di veto su certe materie. - Diritti di cogestione (tipici dell’esperienza sindacale tedesca, ma del tutto assenti in Italia a causa della storica opposizione della CGIL), in base ai quali sono presenti, negli organi di gestione delle imprese (ad esempio nel Consiglio di Amministrazione o quello di Vigilanza), alcuni rappresentanti dei lavoratori così da poter esercitare una funzione di controllo ad alto livello. La forma dominante dei diritti di partecipazione è quella dell’informazione e della consultazione, che però si traduce di fatto, in situazioni di co-determinazione, nei casi in cui il soggetto datoriale sia debole e/o l’interlocutore sindacale sia forte. Non si deve contrapporre la partecipazione alla contrattazione. La contrattazione può essere una momentanea sospensione del conflitto, ma di fatto la partecipazione consiste come fattore di promozione della contrattazione, al punto che i contratti partecipativi possono evolversi in veri e propri accordi. Le congerie di norme sulla partecipazione hanno trovato, nel nostro ordinamento, un’unificazione nel d.lgs. 25/2007, attuativo di una direttiva comunitaria, e il quale, pur facendo salve le normative di legge e di contrattazione collettiva già esistenti in materia, ha istituito un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori. Tale d.lgs. n 25/2007 vale per tutte le imprese nazionali con almeno 50 lavoratori, ma ha soprattutto la valenza di “normativa-cornice” cioè quadro, risolvendosi in sostanza in una delega ai contratti collettivi a stabilire sedi, tempi, soggetti, modalità e contenuti dei diritti di informazione e consultazione. Informazione e consultazione debbono riguardare generalmente: - L’andamento recente e quello prevedibile dell’attività dell’impresa; - La situazione economica dell’impresa; - L’andamento prevedibile dell’occupazione dell’impresa e le rilevanti decisioni dell’impresa. Quanto alle modalità, informazione e consultazione, devono avvenire secondo “modalità di tempo e contenuto, appropriate allo scopo” così da permettere ai rappresentanti dei lavoratori le adeguate valutazioni. SEZIONE TERZA – IL CONTRATTO DI LAVORO CAPITOLO 1: LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO 1. CONCORSO E CONFLITTO TRA FONTI La legge e il contratto collettivo sono le fonti centrali del diritto del lavoro. Fonti tanto consolidate, quanto in perenne movimento, in quanto ciascuna di esse tenta costantemente di ampliare, spesso a scapito dell’altra, il proprio raggio di azione. Questo, è espressione di conflitti di ruolo e di potere tra le istituzioni della democrazia parlamentare e le istituzioni della democrazia “sociale”. Le due fonti, però, sono condannate a convivere: se la legge è garantita dall’essere l’espressione della sovranità popolare incarnata nel Parlamento, la contrattazione collettiva è protetta dall’art.39 Cost. Dalla riserva in favore della contrattazione collettiva, non si deve dedurre che esistono aree precluse alla legge, in quanto quest’ultima mantiene in ogni caso la facoltà di intervenire a protezione dell’interesse generale; ma il suo intervento dev’essere proporzionato, cioè limitato a ciò che si rende necessario per proteggere tale interesse, senza tradursi in un’espropriazione permanente dell’autonomia collettiva. Le due fonti non possono fare a meno l’una dell’altra fino ad intrecciare una fitta rama di rapporti che danno luogo ad un concordo di fonti nella disciplina di un medesimo istituto. In particolare, tale concorso: - Può scaturire da una spontanea sovrapposizione delle due fonti, dal momento che la contrattazione collettiva non necessita dell’autorizzazione legale per svolgersi su qualsivoglia materia - Può essere promosso e mediato dall’esistenza di norme legali di rinvio che danno luogo alla contrattazione collettiva delegata. Il concorso tra le fonti eteronome non comporta necessariamente un conflitto. Si da concorso non conflittuale ogni volta in cui le fonti non pretendono di regolare il medesimo istituto o il medesimo elemento di un istituto, o perché ciascuna è attenta a non invadere il campo dell’altra o perché la fonte delegata attua in modo rispettoso il programma della fonte delegante. Si produce un conflitto: - (Nell’ipotesi di concorso spontaneo tra legge e contratto collettivo) quando le due fonti si sovrappongono dettando discipline diverse sul medesimo oggetto → contratto collettivo che, a fronte di una disposizione di legge che assegni al lavoratore 4 settimane di ferie annuali, ne preveda 5 o 3. - Oppure, (nell’ipotesi di rinvio legale alla contrattazione collettiva), quando la previsione del contratto collettivo esce dai binari precostituiti dalla legge, e quindi la fonte delegata non attua in modo rispettoso il programma della fonte delegante. → contratto collettivo che abolisca il periodo di comporto per la malattia o lo determini in una misura palesemente insufficiente, tale da negare il contenuto essenziale del diritto. 2. LE NORME LEGALI DI RINVIO ALLA CONTRATTAZIONE COLETTIVA Le norme legali di rinvio che cioè rimandano ai contratti collettivi sono classificabili sotto due profili: - A seconda che il rinvio sia indirizzato ad un unico livello, a più livelli o a qualsiasi livello di contrattazione; - A seconda che il rinvio sia o non sia accompagnato dall’indicazione di un criterio di selezione dell’agente negoziale dal lato dei lavoratori e/o dal tasso di rappresentatività dello stesso. La fisionomia delle singole norme di rinvio dipende quindi dal tipo di funzione regolativa che i rinvii sono chiamati a svolgere. 3. CONFLITTO TRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO: IL MODELLO RIGIDO Il conflitto tra le fonti eteronome, si crea, o quando le due fonti si sovrappongono dettando discipline diverse sul medesimo oggetto (nell’ipotesi di concorso spontaneo), oppure quando la previsione del contratto collettivo esce dai binari stabiliti dalla disposizione di legge (nell’ipotesi di clausole di rinvio). Il criterio risolutivo del conflitto, classicamente utilizzato dal diritto del lavoro che corrisponde ad un modello rigido, è quello della inderogabilità in peius, da parte del contratto collettivo, della norma di legge che attribuisce diritti al lavoratore, cioè il contratto collettivo (dal momento che è appunto un contratto e non ha quindi valenza di legge) non può derogare in peius alla norma di legge rilevanti, a pena di nullità parziale della relativa clausola contrattuale. Non è proclamata da una legge, ma solo da singole disposizioni. È stata la dottrina unanime a elevare il principio a principio fondamentale della materia. L’inderogabilità è conseguenza del carattere imperativo della norma lavoristica, che impone non solo il rispetto della stessa, ma anche la non modifica. Nel diritto del lavoro però si parla solo di modifica in peius. Vengono quindi riconosciute dosi minime di diritti che non possono essere messe in dubbio neanche dal contratto collettivo. La natura privatistica del contratto collettivo a portato a costruire il conflitto con la legge come un caso particolare del conflitto norma imperativa-contratto. In sostanza i beni protetti dalle norme imperative devono essere goduti immancabilmente dal lavoratore, non potendo neanche il contratto collettivo fare niente a riguardo. I due trattamenti, quello contrattuale e quello legale, devono essere quindi messi a confronto caso per caso. Ex. Un contratto collettivo non può, neanche in caso di allettante incremento retributivo, eliminare le ferie annuali. La clausola collettiva in contrasto con una norma imperativa di legge è NULLA. Tale nullità non si estende all’intero contratto collettivo, ma si concentra, come nullità parziale, sulla clausola contrattuale in contrasto con la legge, e comporta che, tale clausola venga sostituita di diritto dalla norma legale con la quale essa è entrata in contrasto. Dev’essere precisato però, che ad essere colpita dalla nullità parziale non è tanto la clausola del contratto collettivo, ma è quella del contratto individuale, che era stata integrata dalla clausola contra legem del contratto collettivo. Il principio dell’inderogabilità in peius della sola legge, è considerato la più classica manifestazione dell’essenza protettiva del diritto del lavoro, che si realizza attraverso l’assegnazione al lavoratore di una dote minima di diritti, che resiste anche nei confronti dell’autonomia collettiva, nel caso in cui il contratto collettivo vada ad intaccare tale Se questo descritto principio “dell’inderogabilità in peius” è tuttora il principio dominante in tema di conflitto tra legge e contrattazione collettiva, è da dire che si è anche assistito, all’emanazione di disposizioni di legge, che si sono proclamate come inderogabili anche in melius (cioè non derogabili oltre che in peggio anche in meglio), a pena di nullità, da parte del contratto collettivo. Gli esempi più conosciuti sono tratti dalla legislazione antiinflazione a cavallo tra anni 70 e 80, la quale ha posto, in varie occasioni, “tetti massimi” alla contrattazione collettiva. Ma ciò che è assoluta eccezione nel lavoro privato, è invece, come si vedrà, regola nel lavoro pubblico. 4. CONFLITTO TRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO: IL MODELLO FLESSIBILE Visto che il modello rigido, presentava l'inconveniente di un possibile eccesso di rigidità, incompatibile con le esigenze di flessibilità richieste oggi dal mercato, la legge è stata costretta ad ammettere, all’incirca alla fine degli anni 80, eccezioni al paradigma dominante, consentendo ai contratti collettivi, di prevedere norme derogatorie anche in peius, di trattamenti di matrice legale. Ciò è avvenuto riqualificando le norme legali di rinvio in modo da piegarle ad essere anche norme autorizzatorie di deroghe: accanto al classico rinvio finalizzato all’integrazione della normativa legale, ha acquisito un peso crescente il rinvio contemplante la possibilità, per la fonte delegata, di prevedere una disciplina diversa e quindi non necessariamente più favorevole da quella stabilita dalla legge. Il denominatore comune di tali situazioni consiste nel fatto che il legislatore, in vista della protezione di interessi ritenuti superiori (come l’avviamento al lavoro dei disoccupati o la difesa di posti di lavoro minacciati da esuberi o dal dissesto dell’impresa) consente la previsione di trattamenti diversificati, e talvolta propriamente derogatori, rispetto a quelli standard, ma subordinandola (tale previsione di trattamenti diversificati) al controllo dei sindaci più rappresentativi. In seguito, però questo indirizzo legislativo, è andato oltre una mera prospettiva di diritto del lavoro “dell’emergenza”, per esprimere una modificazione strutturale del classico rapporto tra fonte legale e fonte contrattuale, che, secondo i critici, comporta il rischio di una destrutturazione della normativa protettiva. Si tratta di un modello che ha perduto importanza man mano che il ricorso ai contratti non standard è stato liberalizzato. La tendenza si è ulteriormente rafforzata nel 2011: Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Così il potere derogatorio della legge è attribuito ai contratti collettivi aziendali. I d.lgs. 81/2015 ha riscritto la disciplina dei contratti di lavoro non standard prevedendo la possibilità di deroghe da parte della contrattazione collettiva: “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. Tale norma equipara il livello nazionale e quello aziendale ai fini dell’attribuzione di poteri derogatori, e l’equiparazione, agli stessi fini, tra il contratto aziendale stipulato dall’associazione sindacale e quello stipulato dalla RSA o RSU. Il rinvio alle RSA è soltanto per quelle che siano espressione di ass. sindacali comparativamente più rappresentative per evitare di stipulare contratti collettivi pirata, con RSA di comodo. In conclusione, si può dire che il sistema delle fonti del diritto del lavoro, versa, per quanto riguarda i rapporti e gli eventuali conflitti tra le stesse fonti eteronome, in una fase di ambigua transizione, caratterizzata: - Dall’ufficiale persistenza dell’inderogabilità in peius, che si può ritenere, in effetti, ancora operante come regola di base, in quanto mancano esplicite previsioni di legge, di segno inverso - Dalla collaterale diffusione, (con caratteri di prevalenza nella legislazione più recente) di un modello diverso da quello rigido, tendente all’opposto principio di derogabilità della legge, eventualmente anche in peius, da parte della contrattazione collettiva, per quanto subordinato alla rappresentatività dell’agente sindacale. 5. L’INDEROGABILITÀ DELLA LEGGE NEL LAVORO PUBBLICO Il d.lgs. 165/2001, nella versione originaria, aveva paradossalmente rovesciato la subordinazione, propria della tradizione del diritto del lavoro, della contrattazione collettiva alla legge, conferendo ai contratti collettivi, un’illimitata facoltà di deroga nei riguardi di norme di legge, salvo espresse disposizioni di legge in senso contrario. La derogabilità era limitata alle materie affidate alla contrattazione collettiva; la facoltà di deroga è riservata ai contratti collettivi di livello nazionale e non decentrato; le deroghe debbono rispettare, comunque, i principi stabiliti dal d.lgs. 165/2001. Se la deroga avviene al di fuori dei casi consentiti, essa è nulla, con applicazione del regime combinato della nullità parziale e subentro automatico delle norme di legge violate. dispositivo assunto come invalido. Il dies a quo del termine semestrale è il giorno della rinuncia o della transazione se queste sono state stipulate successivamente alla cessione del rapporto, se la stipulazione della rinuncia è avvenuta a rapporto di lavoro ancora attivo la decorrenza del termine è differita sino al giorno della cessazione del rapporto. Le disposizioni dell’art. 2113 non si applicano quando la rinuncia o la transazione, pur avente ad oggetto una disposizione di diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, è stipulata dal lavoratore: • con l'assistenza di associazioni sindacali dei lavoratori; • Davanti alla Commissione provinciale di conciliazione; • Davanti a Commissioni di certificazione dei contratti • Davanti a un giudice In tali casi si presuppone che la debolezza negoziale del lavoratore venga meno, grazie alla presenza di soggetti o organismi che assistono il predetto nella stipulazione dell’atto dispositivo. 4. TENDENZE EVOLUTIVE IN TEMA DI AUTONOMIA INDIVIDUALE Tuttora dominante tra i giuslavoristi c’è l’idea che l’inderogabilità in peius è essenziale affinché la missione del diritto del lavoro possa essere perseguita. L’autonomia individuale qualche spazio se lo è sempre comunque tenuto. Basti pensare che già la scelta di sottoscrivere un contratto di lavoro a certe condizioni è esercizio di autonomia individuale. Ma anche la stipulazione di contratti non standard lo è, per quanto solitamente siano scelte derivanti dal datore di lavoro. Anche nelle dinamiche di funzionamento del rapporto alcuni passaggi sono gestibili a livello di autonomia individuale: la stipulazione di patti accessori (come il patto di prova o di non concorrenza), il consenso allo svolgimento di lavoro straordinario, il TFR in busta paga, la stipulazione di clausole elastiche nel lavoro a tempo parziale, nel rispetto dei requisiti previsti dal contratto collettivo. Ulteriori ipotesi si sono aggiunte con il d.lgs. n.81/2015: - la possibilità di stipulare patti di modifica anche in peius delle mansioni, della categoria e del livello di inquadramento e del relativo trattamento retributivo. • La possibilità di stipulare clausole elastiche nel lavoro a tempo parziale, anche in mancanza di una disciplina contrattuale collettiva, purché con l’assistenza di una commissione di certificazione. 5. L’ARBITRATO NELLE CONTROVERSIE DI LAVORO L’arbitrato è uno strumento di risoluzione delle controversie di lavoro, con dichiarate finalità di riduzione del contenzioso giudiziario. È da sempre stato visto con sospetto dal diritto di lavoro e quindi fortemente limitato per paura che la posizione del lavoratore potesse risentirne. Attualmente la disciplina è la seguente: Le parti individuali possono deferire ad arbitri, variamente nominati, una controversia già insorta (compromesso), anche a prescindere da una previsione a monte dei contratti collettivi e altresì con la possibilità (prima non ammessa) di richiedere agli stessi di decidere la lite secondo equità, pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia non secondo diritto. Le parti individuali sono poi autorizzate a inserire nel contratto di lavoro una clausola con la quale si impegnano, prima che siano insorte controversie relative al rapporto, a sottoporle ai predetti arbitri: ciò purché la facoltà di farlo sia prevista dai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e che la clausola in questione sia certificata a pena di nullità da una commissione di certificazione. La clausola può contenere anche la richiesta agli arbitri di decidere la lite secondo equità, ma non può riguardare le controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro e segnatamente all’impugnazione del licenziamento. Le incognite sono che nella stipulazione di clausole compromissorie si ricreino condizioni di soggezione del lavoratore al dominio negoziale del datore di lavoro e in aggiunta che la possibilità di un arbitrato secondo equità, pur con il rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, apra la strada a destrutturazioni non controllate delle tutele del lavoro. SEZIONE QUARTA – IL LAVORATORE E IL DATORE DI LAVORO CAPITOLO 1: IL LAVORO SUBORIDNATO 1. LE COORDINATE STORICO-NORMATIVE DELLA SUBORDINAZIONE Il diritto del lavoro, non è il diritto di tutti i lavoratori, ma il diritto dei soli lavoratori subordinati, che dei lavoratori rappresentano la parte più consistente. La subordinazione, quindi, è la fattispecie di accesso alla normativa protettiva, nella quale il diritto del lavoro consiste. Nel nostro paese, la legge garantisce al lavoratore subordinato una serie di protezioni immancabili e inderogabili, mentre il lavoratore autonomo gode di pochi dispositivi protettivi, o comunque non paragonabili a quelli del lavoratore subordinato. Occorre tuttavia, comprendere chi sia concretamente il lavoratore subordinato o dipendente. Anzitutto, il pensiero va subito a quelle che siamo abituati a considerare come figure sociali tipiche della subordinazione (es. operaio di fabbrica o impiegato di bassa o media qualifica), cioè a quelle figure per le quali alla debolezza economico-sociale si aggiunge la debolezza giuridica. L’equazione fra lavoratore subordinato e lavoratore debole, tuttavia, trova numerose smentite. Basti pensare che: - esistono figure di lavoratori subordinati non assimilabili per debolezza, agli altri lavoratori (es. i dirigenti), - esistono figure di lavoratori non subordinati, che sono deboli quanto i lavoratori subordinati, essendo connotati da una condizione di dipendenza economica (es. agenti di commercio). Tutto ciò induce preliminarmente a domandarsi quale delle due debolezze (giuridica/economica-sociale) rilevi al fine di identificare il lavoratore subordinato. La risposta tradizionale è che, l’unico dato rilevante a tali fini, è quello della condizione giuridica del lavoratore, visto che la fattispecie legale astratta del lavoro subordinato fa riferimento soltanto a questo tipo di relazione contrattuale, ignorando la condizione economica sociale del lavoratore. Il dato economico sociale rimane implicito, nel senso che l’ordinamento presume che chi si rapporta in tal modo al datore di lavoro e lavora con certe modalità nell’interesse dello stesso sia bisognoso di tutela. Per quanto detto, pur senza dimenticare lo sfondo complesso e cangiante del fenomeno economico-sociale in considerazione, all’interprete non resta che mettere a fuoco i connotati giuridici del lavoro subordinato. A tal fine, occorre andare alla ricerca della nozione giuridica di lavoratore subordinato. Tale nozione è espressa dall'art 2094 cc che definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che “si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”. Tale nozione ha offerto un riferimento unitario e aggregante, a una disciplina (dir. del lavoro) che aveva proceduto, fino ad allora, tramite riferimenti più o meno occasionali, da parte delle varie leggi, a particolari, seppure ampie, categorie di lavoratori (operai di fabbrica, impiegati) senza pervenire ad una nozione generale di lavoro subordinato, capace di compattare la materia. Il merito di tale acquisizione deve essere principalmente ascritto alla dottrina (Barassi), che, a partire dalla nozione vecchia e ormai inadeguata di “locazione di opere” e contenuta nel codice civile del 1865, ha contribuito ad enucleare una definizione nuova, e più adeguata alla dirompente realtà del lavoro di massa nell’industria. Nella locazione di opere, infatti, pur essendo presente, come oggetto del contratto, l’elemento della deduzione di un’attività lavorativa continuativa, era assente l’elemento della sottoposizione del lavoratore al potere direttivo dell’imprenditore, che ha invece acquisito un ruolo centrale nella nozione giuridica di lavoro subordinato di cui all’art.2094 cc. Non vi è dubbio quindi, che l’invenzione della figura del lavoratore subordinato servisse ai lavoratori, dal momento che poteva favorire, (come di fatto è avvenuto), lo sviluppo della legislazione protettiva che ha poi assunto il nome di diritto del lavoro. Essa, però serviva anche agli imprenditori, i quali necessitavano di una forma giuridica solida, che consentisse loro di procurarsi stabilmente ciò di cui avevano bisogno, ossia la forza lavoro, senza dover ricorre a continue contrattazioni, ad esempio, con lavoratori autonomi fornitori di servizi.
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