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Diritto dell'informazione e dei media, Sintesi del corso di Diritto Dei Media

Riassunto completo per esame in scienze della comunicazione

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Diritto dell'informazione e dei media e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Dei Media solo su Docsity! DIRITTO DELL’INFORMAZIONE E DEI MEDIA PARTE I: LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE E I SUOI LIMITI 1. LA LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO Costituzione della Repubblica Italiana (1948), Articolo 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, sporgere denuncia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. 1.1 Introduzione Libertà di parola, di manifestazione del pensiero, di espressione, di stampa, di critica, di satira, pluralismo informativo. L’articolo 21 nonostante tuteli un unico diritto ha varie definizioni e declinazioni, spesso non sovrapponibili. La libertà di espressione è controversa e incerti sono i suoi confini. Proprio per questi motivi ci si domanda secondo quali criteri bilanciare il diritto di informare e la tutela dei diritti della persona. Allo stesso tempo ci si chiede quali problemi sollevi l’evoluzione tecnologica. Si può individuare un filo rosso che collega la natura poliedrica del diritto di manifestare il pensiero, la libertà inviolabile dell’individuo e il valore fondamentale di ogni ordinamento democratico. Da qui la consapevolezza del legame con lo stato democratico che garantisce il pluralismo ideologico ma anche il diritto di cronaca e satira nei confronti di ogni potere. Importante è anche la coscienza dello stretto legame tra libertà di espressione e innovazione tecnologica. Si cerca di capire se le differenze tra media tradizionali e nuovi media siano così profonde da pretendere l’elaborazione non solo di nuove norme ma anche di nuovi paradigmi. 1.2 Le origini della libertà di parola Il diritto di manifestare il proprio pensiero trova il suo primo compiuto riconoscimento nello stato liberale, simbolo del rapporto tra potere e cittadini. La stessa Costituzione americana del 1791 sancì attraverso il I Emendamento il divieto per il Congresso di approvare alcuna legge per limitare la libertà di parola o di stampa. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (Francia 1789), Articolo 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge. Costituzione degli Stati Uniti (1791) I Emendamento, Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti. Il costituzionalismo liberale esalta il carattere individualistico della libertà di parola, l’abolizione della censura e l’affermazione della libertà di stampa rappresentano infatti le conquiste più significative del periodo liberale e lasciti fondamentali per gli ordinamenti democratici del XX secolo. Siamo davanti ad un passaggio fondamentale del pensiero moderno le cui radici affondano nel Seicento inglese con John Milton e la sua “Areopagitica. Per la libertà di stampare senza licenza” indirizzata al Parlamento. Il costituzionalismo liberale inoltre sottolinea che non esiste una verità assoluta, rivelata dai governanti o dai ministri di Dio. Di qui, la garanzia del diritto di dissenso e di esprimere il proprio credo contestando la maggioranza. Per raggiungere tali fini, le carte liberali ottocentesche utilizzano lo strumentario classico di tutela delle libertà individuali, riserva di legge, divieto di autorizzazione, possibilità di intervento solo con strumenti di repressione. Emblematica quindi la norma costituzionale vigente in Italia dall’unità alla Costituzione Repubblicana: Statuto Albertino (1848), Articolo 28. La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia, le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo. Tale disposizione non prevedeva però l’intervento positivo del legislatore nell’estensione del diritto di stampa o la garanzia di una corretta formazione dell’opinione pubblica. Non mancò tuttavia, la consapevolezza del legame tra garanzia di libertà di parola e quella delle altre libertà e neanche la percezione di una valenza politica di tale diritto. Non a caso, il freedom speach fu, nel Seicento, prerogativa dei soli parlamentari. Il pensiero liberale infatti riconosce che la circolazione delle idee è indispensabile per la formazione di un’opinione pubblica consapevole ma il basso numero di élites intellettuali, i costi relativamente bassi della stampa fecero sì che le opinioni fluissero spontaneamente, senza l’intervento del legislatore, neanche sulla concorrenza tra i mezzi di comunicazione. 1.3 l’evoluzione dello stato democratico Con l’evoluzione della forma di stato in senso democratico si assiste ad un processo di espansione della libertà di espressione. Resta centrale la concezione della libera manifestazione come diritto della persona che non deve sentirsi inibita da forze esterne ma deve essere capace di sviluppare la sua personalità. Famosa è la frase di un grande giurista, Arturo Carlo Jemolo: “se di una libertà fondamentale può parlarsi, questa è la libertà di esprimere le proprie idee, e cercare in ogni modo di divulgarle; la libertà di tentare di persuadere gli altri”. Rimane alla base una concezione relativista, che rifiuta le verità ritenute assolute e affida al dialogo e alla diffusione delle idee la ricerca del consenso, del bene comune. Come diceva John Stuart Mill infatti, “se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli esseri umani non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate”. L’ordinamento quindi si limita a predisporre dei procedimenti e delle regole con cui, attraverso il metodo del contraddittorio, si raggiunga la soluzione ritenuta migliore dalla maggioranza dei consociati. Permane e si rafforza la concezione della libertà di manifestazione del pensiero come diritto fondamentale. Esaminando le Carte del costituzionalismo democratico e delle legislazioni che ne seguono, si possono individuare tendenze comuni: a) La libertà di espressione viene ricompresa tra i diritti inviolabili, tutelati anche a livello sovrannazionale e inseriti tra i principi supremi non rivedibili. Con essa anche la libertà di religione, insegnamento, ricerca scientifica, di riunione; b) Si delimitano in modo più preciso e incisivo le possibili interferenze dei pubblici poteri; c) Si registra un progressivo bando dei controlli preventivi per la stampa e i mezzi di comunicazione; d) Si riducono le restrizioni preordinate alla protezione della “morale comune” o della concezione etica dominante del periodo. e) Declinano anche i “reati di opinione”, aumenta la neutralità nei confronti della libertà di parola e religione da parte degli Stati. f) Un’eccezione parziale vi è nella tendenza di introdurre divieti di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale. g) In controtendenza abbiamo la proliferazione di legislazioni che reprimono la negazione della Shoah o di altri crimini contro l’umanità. Accanto alla visione individualista emerge la dimensione partecipativa e democratica della libertà di espressione e la necessità di un processo continuo di informazione e formazione dell’opinione pubblica, identificabile con l’intera cittadinanza. Da qui la concezione di democrazia come “governo del potere pubblico in pubblico” teorizzata da Norberto Bobbio e l’idea di trasparenza di Brandeis, “la luce elettrica è il miglior poliziotto, la luce del sole il migliore dei disinfettanti”. Lo stato democratico è chiamato a garantire l’interesse pubblico alla diffusione più ampia delle notizie e delle opinioni e ad intervenire anche positivamente per realizzare e conservare l’esistenza di un libero mercato di idee e notizie. Possiamo infatti dire che la libertà di espressione può essere definita come un diritto al contempo individuale e sociale. tutto si traduce nell’affermazione secondo cui senza libera informazione non vi è democrazia e nella necessità di parametri di riforma che debbano essere concetti di pluralismo e di imparzialità, diretti alla formazione di un’opinione pubblica critica e consapevole, in grado di esercitare responsabilmente i diritti penale, civile e amministrativa per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, espandendo i confini della libertà di espressione. Sul piano oggettivo, il riferimento a “la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” induce a ritenere che la garanzia costituzionale si estenda a ogni forma di libera espressione (dunque anche immagini, opere artistiche e addirittura comportamenti materiali che abbiano un valore simbolico) destinata a un numero indeterminato di persone, quale ne sia il contenuto. La protezione costituzionale comprende sia la diffusione di opinioni, sia la pura narrazione di un fatto, abbracciando cronaca, satira, critica. La garanzia dell’articolo 21 copre sia il mero pensiero, sia l’incitamento all’azione e quindi la propaganda e simili. Molto discussa è la questione sulla protezione delle manifestazioni false, che non corrispondono alle interiori persuasioni dell’autore. La menzogna, infatti, è esclusa dalla tutela dell’articolo però neppure la diffusione di notizie false può essere considerata illecita in sé e per sé. La verità del fatto è dunque un requisito perché il diritto di cronaca possa prevalere nel conflitto con altri diritti di rilievo costituzionale, quali l’onore e la reputazione. L’ampia copertura costituzionale dell’articolo prevede anche un’eccezione nell’informazione pubblicitaria. Per la Corte esiste una netta distinzione tra manifestazione del pensiero e pubblicità commerciale, considerata componente dell’attività di impresa e fonte di finanziamento degli organi di informazione ma non manifestazione del pensiero. La pubblicità non mira a diffondere idee ma a orientare i comportamenti concreti altrui, attraverso suggestioni e richiami di tipo emozionali. Tale interpretazione però è in contrasto con la giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo che comprende la comunicazione pubblicitaria nell’ambito della libertà di espressione sancita dall’articolo 10 della Convenzione. Quanto all’aspetto strumentale invece, ai mezzi attraverso i quali si può manifestare il pensiero, è opinione comune che la libertà di espressione si estenda dal contenuto al contenitore, dalla parola al mezzo di diffusione implicando che l’ordinamento debba intervenire per garantire la diffusione del maggior numero di voci. Resta la constatazione dell’elasticità dell’articolo 21, della sua capacità di ricomprendere anche le forme di comunicazione digitale e della tendenziale adeguatezza delle garanzie costituzionali rispetto ai vecchi e nuovi mezzi di diffusione del pensiero. 1.5.4 Le garanzie costituzionali per gli stampati L’articolo vieta in modo assoluto ogni intervento di tipo preventivo alla diffusione dello stampato. Non sono ammessi regimi autorizzatori, poteri discrezionali o preventivi esami e controlli dell’autorità sul contenuto dello scritto. Tali principi hanno condotto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 113 che prevedeva una licenza dell’autorità locale di pubblica sicurezza prima della distribuzione dello scritto. Secondo il comma 2, l’unica “limitazione” a questa disposizione risiede nel fatto che nessun giornale può venire pubblicato se non è segnalato e registrato alla cancelleria del Tribunale. Questa registrazione consiste nel registrare il nome del proprietario, del direttore e dell’editore, poi il titolo e tipo di pubblicazione. Non vi è alcun margine di discrezionalità da parte del Tribunale, che deve accettare qualsiasi registrazione sia conforme alle regole e presenti valida documentazione. Il successivo comma 3 disciplina invece l’istituto del sequestro degli stampati. Esso può essere disposto, con atto motivato dell’autorità giudiziaria, solo in due casi: nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi o nel caso di violazione delle norme che la legge prescrive per l’indicazione dei responsabili. Per la sola stampa periodica, il comma 4 pone un’eccezione, prevede la possibilità di un intervento d’urgenza da parte di ufficiali di polizia giudiziaria, comunicato entro ventiquattro ore e convalidato dal giudice entro le ventiquattro ore successive. 1.6 Il diritto dell’informazione come diritto giurisprudenziale Il diritto dell’informazione è un diritto giurisprudenziale quindi l’attenzione va principalmente sulla giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, italiana ed europea. Il legislatore ha avuto per decenni un comportamento lento nei confronti delle riforme sulla stampa del periodo fascista. Inoltre, si è sempre mosso nella prospettiva di conservare gli equilibri esistenti, piuttosto che innovare nella direzione di un pluralismo. Ha in più trascurato gli aggiornamenti durante la comparsa delle nuove tecnologie. Si può affermare quindi che i giudici ordinari e la Corte costituzionale abbiano svolto complessivamente un ruolo di supplenza nei confronti del legislatore. La centralità del rapporto tra informazione e democrazia si coglie maggiormente nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Gli orientamenti del giudice delle leggi sono stati per alcuni aspetti sconcertanti, la Corte ha dimostrato timidezza davanti a reati che ai più sembravano incompatibili con il concetto di libera manifestazione del pensiero come vilipendio, oltraggio a pubblico ufficiale, ha però giocato un ruolo decisivo nell’attuazione dei principi che la costituzione più trascura, la tutela del pluralismo e la disciplina dei mezzi di comunicazione di massa. È stata infatti la Corte costituzionale ad estendere und diritto non propriamente presente nella Carta, ovvero la libertà di divulgare notizie e il diritto di cronaca. Nel 1993 la Corte afferma la necessità di un “pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”, e ha riconosciuto l’interesse del cittadino, affinché possa esercitare le sue funzioni politiche, alla piena e obiettiva informazione in materia di comunicazione legata alla sfera politica. Ulteriore aspetto che caratterizza l’evoluzione del diritto dei mezzi di comunicazione è la crisi del monopolio statale e parlamentare nella produzione normativa. La riforma costituzionale 3/2001 ha riconosciuto alle Regioni la competenza legislativa nell’ordinamento della comunicazione, togliendo l’esclusività di tale prerogativa al solo Parlamento. Si sono poi venute a creare anche unità amministrative indipendenti, come il Garante per la protezione dei dati personali (o comunemente Garante della privacy) e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), dotate di poteri normativi, di vigilanza e sanzionatori. La crescente rilevanza del diritto europeo nella materia delle comunicazioni costituisce un altro dato importante. La legislazione dell’unione europea, infatti assume un ruolo centrale in ambito di comunicazioni elettroniche, tutela dei dati personali e diritto d’autore. La convenzione europea sui diritti dell’uomo ha grande rilevanza nel trattare la libertà d’espressione poiché garantisce ai cittadini europei di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (a Strasburgo) qualora i ricorsi interni non soddisfino l’esigenza di un cittadino che ritenga sia stato violato un suo diritto fondamentale. Proprio il diritto alla libertà di espressione, articolo 10, prevede un lungo elenco di motivi che possono giustificare l’introduzione di limiti da parte dei legislatori statali e prevede un’accezione che include il diritto di informare nei suoi aspetti attivi e passivi. Le influenze di tale giurisprudenza sul concreto agire dei giudici italiani sono state seriamente rilevanti. 2. L’INFORMAZIONE E I SUOI LIMITI: IL DIRITTO DI CRONACA 2.1 I “limiti impliciti” alla libertà di espressione L’unica limitazione esplicita espressa dall’Art. 21 alla libertà di espressione è legato alle manifestazioni contrarie al buon costume, l’insieme di principi etico-morali riferiti a pudore (specialmente legato alla sfera sessuale) e pubblica decenza (riferita ad uso di volgarità o turpitudini). Tuttavia, la libertà di espressione è una libertà pericolosa in quanto può portare ad offese, lesioni di riservatezza e segreto, vilipendio di religioni o istituzioni, incitamento all’odio. Le limitazioni a tale libertà, di conseguenza, servono a tutelare altri diritti individuali, interessi collettivi o dello Stato stesso. Le regole che si traggono dal testo costituzionale possono essere così sintetizzate: a) le regole alle limitazioni della libertà d’espressione devono essere previste dalla legge e non essere quindi arbitrarie; b) tali restrizioni possono sussistere solo se motivate dalla tutela di altri diritti, beni o valori oggetto di esplicita o implicita protezione costituzionale (ovvero segnalati come rilevanti, da proteggere, dalla Costituzione stessa); c) la limitazione alla libertà di espressione non può mai tradursi in totale assenza di possibilità di esercizio, che deve essere comunque garantita, non può tradursi in sacrificio totale della libertà di informazione, per tutelare qualcosa non si può impedire totalmente a qualcuno di esprimersi; d) la libertà d’espressione deve essere la regola, mentre le restrizioni solamente eccezioni. È tendenzialmente da privilegiare pertanto la libertà d’espressione se il diritto tutelato ha pari importanza alla stessa, e non importanza superiore. L’individuazione dei “limiti impliciti” alla libertà di espressione è un’operazione complessa, condizionata dalla sensibilità sociale e dalle tecnologie. I diritti tutelati dalla Costituzione che la libertà di espressione non può valicare sono quelli riferiti alla singola persona, l’onore e la reputazione, la riservatezza e l’identità personale. Vi sono poi gli interessi collettivi, pubblici, che sono ordine pubblico, tranquillità pubblica, difesa della patria, prestigio delle istituzioni, dignità dei simboli dello Stato, sicurezza, sentimento religioso, il perseguimento dei reati, la tutela dei minori, la morale. L’imponente lista di interessi collettivi rischia così di porre un serio limite alla libertà di espressione. L’individuazione di una pluralità di potenziali limiti che discendono da interessi di rilievo costituzionale, di natura individuale o pubblica, non è sufficiente a comprendere l’effettiva estensione del diritto di parola. È decisivo esaminare le regole che conducono la prevalenza dell’uno o dell’altro bene. 2.2 Diritto di cronaca vs tutela della reputazione: quale equilibrio? Né il diritto di cronaca né i diritti della personalità sono trattati esplicitamente dalla Costituzione, ma vengono ritenuti entrambi valori implicitamente contenuti in essa. Il diritto di cronaca è stato riconosciuto come tutelato dall’Art. 21 da parte della Corte costituzionale. Anche i diritti della personalità sono Stati riconosciuti tali dalla stessa. La stessa Corte ha più volte riconosciuto che l’art.21 ricomprende la libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti e che la libertà di informazione non poggia solo sull’articolo 21 ma su tutto il sistema costituzionale democratico, in quanto l’opinione pubblica si forma liberamente solo a patto che esista un’informazione ampia, libera e solida. Analogamente, l’onore, definibile come il sentimento che ciascuno ha della propria dignità, e la reputazione, la considerazione di cui si gode all’interno di una collettività, costituiscono beni costituzionalmente rilevanti. Per questo motivo, è necessario rinvenire criteri per il giudizio di bilanciamento che non comportino il sacrificio integrale di uno di essi. 2.3 Il reato di diffamazione 2.3.1 La normativa A tutela dell’onore e della reputazione dell’individuo, il legislatore aveva in origine previsto i reati di ingiuria e diffamazione. Il reato di ingiuria è stato recentemente abrogato dal legislatore che ha reso tale fattispecie un illecito civile con sanzione pecuniaria. Dunque, chi ne è colpevole è tenuto a risarcire il danno ma non è più condannabile ad una pena detentiva. La diffamazione è invece il reato di chi lede la reputazione di una persona assente comunicando con due o più soggetti ed è penalmente perseguibile con una multa fino a 1032 euro o con la reclusione fino a un anno. Inoltre, se l’offesa consiste in un fatto determinato, identificabile in maniera precisa, la pena può essere raddoppiata; se tale offesa è commessa con il mezzo di stampa o pubblicità la pena aumenta ad un minimo di sei mesi ad un massimo di tre anni o di una multa di minimo 516€. Queste pene sono aumentate di un terzo se si offende un corpo politico o giudiziario, o un’autorità. Altra frequente aggravante è legata all’insieme di offese commesse tramite stampa e consistente in fatti determinati, con una pena che arriva fino a sei anni di reclusione. L’articolo 13 inoltre, prevede anche l’applicazione cumulativa di pena detentiva e pecuniaria. Va detto comunque che la carcerazione di giornalisti per “reati di penna” è evento assai raro. Secondo il giudice di Strasburgo, la reclusione è incompatibile con la libertà di espressione, per l’effetto dissuasivo che il timore della sanzione ha sull’esercizio dell’attività giornalistica il cui compito è quello di comunicare informazioni su questioni di interesse generale. 2.3.2 La lesione alla reputazione La lesione della reputazione deve essere oggettiva, ovvero non deve dipendere dalla suscettibilità personale, bensì deve essere legata ad un vero danno alla considerazione di cui un soggetto gode nella sua comunità di riferimento. Ciò non deve far giungere però al fatto che ci siano persone con una fama così compromessa da non poter essere ulteriormente danneggiata, dal momento che la dignità è un valore fondamentale della persona, anche qualora questa abbia commesso delitti e reati. È possibile, pertanto, rivolgersi offensivamente ad una associazione mafiosa, criminale, o a una categoria criminale ma non offendere il singolo reo. Un’offesa oggettiva alla reputazione è l’attribuzione di una qualsivoglia condotta illecita ma anche di un qualsivoglia comportamento collegato ad un giudizio palesemente negativo da parte dell’opinione comune in una determinata comunità e in un determinato contesto storico. Nel contesto storico presente, ad esempio, l’attribuzione del solo termine “gay” o “omosessuale”, che corrisponda o meno a verità, non è da considerarsi lesione della reputazione perché l’opinione pubblica ha generalmente accettato che non vi sia nulla di scandaloso in una tendenza sessuale differente dall’eterosessualità. È tuttavia considerato offensivo utilizzare un termine intrinsecamente negativo (“frocio”). 2.3.3 Diffamazione e scriminante dell’esercizio di un diritto La sussistenza del fatto tipico non è sufficiente a condurre alla prevalenza della reputazione sulla cronaca, è indispensabile verificare anche che non esista nell’intero ordinamento una norma che lo facoltizzi, escludendone l’antigiuridicità. Si tratta ad esempio del consenso dell’avente diritto, dell’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, della difesa legittima, dell’uso legittimo delle armi, dello stato di necessità. Il diritto di cronaca consiste nel racconto di fatti che devono essere verificati e veri, pertinenti ad argomenti di interesse pubblico ed espressi in forma civile. Queste caratteristiche prendono il nome di scriminanti, termine che appunto indica le giustificazioni per cui un fatto perseguibile non venga considerato tale in un determinato contesto. Ad esempio, narrare che un politico sia Stato condannato per sportivo, le cui vicende private dovrebbero avere poco rilievo sul proprio ruolo sociale. La rilevanza pubblica può mutare, nel senso che una notizia legittimamente divulgata anni prima potrebbe non rispondere più ad alcun interesse tale da farla prevalere con il diritto all’onore e alla riservatezza, un uomo che ha commesso un furto 30 anni prima di adesso, e ha correttamente scontato la sua pena a tempo debito, può legittimamente ricorrere nel caso in cui un giornalista diffondesse nuovamente la notizia che il tale uomo è Stato un ladro 30 anni fa senza che tale notizia abbia ancora alcuna rilevanza pubblica al momento della nuova pubblicazione. È riconosciuto per via giurisprudenziale il diritto a non restare indeterminatamente esposti a fatti appartenenti al passato che non abbiano rinnovata importanza sociale; tale diritto viene denominato informalmente “diritto all’oblio”. 2.6 La verità dei fatti esposti Per quanto riguarda la verità dei fatti accertati, non viene richiesta una verità oggettiva ed assoluta, ma una seria diligenza nella scelta delle fonti ed un lavoro di verifica dell’oggetto della narrativa. Si parla di verità putativa, ovvero verità basata sulla ricerca, la quale può eventualmente dimostrarsi erronea. In altre parole, il giornalista può trovare tre fonti attendibili che testimoniano il coinvolgimento di una persona in un reato; questo basta per la creazione di una verità putativa e per scrivere a riguardo, se dopo diverso tempo si rinviene una prova che scagiona la tal persona, il giornalista ha comunque avuto il diritto di scrivere al tempo. Un problema serio però è il fatto che non sia sufficiente richiamare fonti informative considerate attendibili (ANSA, RAI, ecc.) senza esplicare alcun controllo personale della verità della notizia, altrimenti tali fonti finirebbero, attribuendosi reciprocamente credito, per rinvenire in sé stesse attendibilità. La notizia è considerata vera se completa, senza omissione di parti che ne muterebbero il significato e la valutazione globale del lettore. 2.7 La forma civile dell’esposizione Il requisito della “forma civile” o della continenza riguarda le modalità di esposizione della notizia. Non è ritenuta ammissibile la cronaca che, attraverso il testo scritto, ma anche immagini, titoli, presentazione, ecceda lo scopo informativo da conseguire, calpesti la dignità personale altrui (come visto trattando della lesione alla reputazione), non sia improntata a leale chiarezza, le insinuazioni, qualsiasi cosa alteri la verità sostanziale dei fatti. Tuttavia, nella sentenza decalogo pare si richieda di separare la cronaca dalla critica, poiché la critica eccederebbe lo scopo informativo e difetterebbe di obiettività. La regola di tenere separati i fatti dalle opinioni è presente nel manuale del buon giornalista, ma non è presente realmente nell’ordinamento giuridico, poiché andrebbe a limitare il diritto di cronaca e di critica proprio del cronista e in generale la sua libertà. Per questo motivo, si è tentato di creare una connessione tra il requisito della forma civile e la serenità e l’obiettività del linguaggio sono valutate in relazione allo scopo informativo, alla rilevanza sociale del fatto o dei personaggi coinvolti. 2.8 L’intervista diffamatoria Un’intervista presenta una rilevante peculiarità: la fonte immediata è l’intervistata/o, che si assume la responsabilità delle proprie affermazioni mentre l’autore del servizio giornalistico riproduce semplicemente dichiarazioni altrui. Pertanto, nel caso in cui un’intervista risulti diffamatoria, ovvero riporti affermazioni riconducibili al reato di diffamazione, si è dibattuto sul fatto che la responsabilità del reato di diffamazione sia solo del cronista, che ha acconsentito a pubblicare parole diffamanti; solo dell’intervistato, che ha espresso tali affermazioni diffamanti; condivisa dal cornista e dall’intervistato. Tali difficoltà hanno condotto a filoni giurisprudenziali tra loro contraddittori, sino a rendere opportuno, nel 2001, un intervento delle Sezioni unite volto ad individuare un indirizzo omogeneo. Tendenzialmente, l’interpretazione più risalente nel tempo (1983) riteneva il giornalista complice del reato, poiché aveva utilizzato la stampa come cassa di risonanza per la diffamazione. Tuttavia, successivamente si è fatto prevalere il diritto del pubblico di essere informato in maniera completa rispetto alla tutela della reputazione del soggetto leso. Peraltro, un divieto di pubblicare l’intervista, ancorché diffamatoria, risulterebbe come una forma di censura. Per questo, la Cassazione ha individuato un caso emblematico per affidare alle Sezioni unite penali il compito di dirimere il contrasto insorto. Qualora un’intervista assuma in sé il carattere di un evento di pubblico interesse ovvero, quando è interesse dei cittadini conoscere esattamente pensiero, comportamento, stile di un uomo pubblico, il giornalista imparziale può riportare il testo dell’intervista nella sua integrità, senza controllare la verità delle espressioni né censurando epiteti eventualmente ingiuriosi. Una sentenza del 2014 esprime esplicitamente che il giornalista che riporta informazioni espresse da terzi è esonerato da responsabilità per diffamazione, a condizione del fatto che sia chiaramente espresso che tali informazioni appartengano appunto a terzi e in alcun modo siano riconducili al giornalista stesso, nonché informazioni personali di terzi e in alcun modo verità presentate come oggettive. Ne consegue che la soluzione dipenda dal giudice del merito che dovrà tener conto dell’effettivo grado di rilevanza pubblica dell’evento dichiarazione considerandone il contesto. 2.9 Considerazioni finali Un excursus degli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte Suprema degli Stati Uniti svela come la posizione della giurisprudenza italiana non rappresenti l’unica via per bilanciare cronaca e reputazione. Ciò che risalta è la valorizzazione del ruolo dell’informazione come fondamentale mezzo per conoscere e valutare gli eventi di interesse generale e le idee e le attitudini delle classi dirigenti, assicurando il diritto del pubblico di essere informato. Nella stessa logica, la Corte di Strasburgo ha in molte occasioni ritenuto che anche notizie relative alla sfera privata delle persone pubbliche, che scelgono di sottoporsi a un controllo rigoroso da parte della collettività e della stampa possano essere ritenute socialmente rilevanti, in quanto possono contribuire alla discussione su questioni di interesse pubblico. in America invece, non solo vi è nella cronaca e nella critica su fatti di rilevanza sociale alcun dovere di oggettività o moderazione del linguaggio, ma lo stesso requisito di verità si riduce drasticamente. Il privilegio del giornalista è tale che egli risponde pienamente solo qualora abbia agito nella piena consapevolezza della falsità della notizia o in spregio. In Italia invece rimane in dubbio se porre freni e ostacoli alla libertà di critica e cronaca sia il modo corretto per risolvere i deficit dell’informazione italiana. 3. IL DIRITTO DI CRITICA E DI SATIRA 3.1 Il diritto di critica Come visto in precedenza, la sentenza decalogo pare porre limiti seri al cosiddetto diritto di critica, pertanto, gran parte della giurisprudenza successiva ha scelto di ritenere che essa debba solamente rispettare il limite dell’interesse pubblico, e che non debba essere obiettiva, dal momento che la critica, a differenza della cronaca, si basa sull’interpretazione personale, soggettiva, degli avvenimenti. È da decenni oggetto di dibattito il tema se la critica sia soggetta o meno al canone della verità come per la cronaca. La risposta è che essa è espressione di giudizi di valore, che non possono necessariamente essere “verità” poiché espressi soggettivamente. In ogni caso, quando un’opinione si basa su fatti, tali fatti devono essere accertati e verificati. La veridicità è dunque un criterio ugualmente necessario alla critica, che altrimenti sarebbe solo un potenziale pretesto per ledere l’altrui reputazione. La critica, per essere accettata e il diritto ad essa riconosciuto, deve essere così presentata: prima viene esposto il fatto, che deve essere verificato e verificabile, e poi si può procedere alla critica che viene mossa a partire dal tale fatto. Inoltre, la critica, quando rivolta ad un soggetto che rivesta una funzione pubblica, e dunque assume la caratteristica di interesse pubblico, deve essere espressa in maniera sì incisiva ma senza l’uso di epiteti ingiuriosi. L’attacco diretto a colpire la figura morale del soggetto criticato non ha alcuna utilità di pubblico interesse. Il requisito della “forma civile” è Stato affrontato anche dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo: per i giudici europei, l’uso di frasi volgari in sé può essere semplicemente una scelta stilistica non volta all’offensività, dal momento che lo stile è una forma di espressione ed è tutelato insieme al contenuto dell’espressione. Per i giudici l’aggressione è gratuita solo se non connessa a fatti dimostrati e dimostrabili: la continenza formale consente il ricorso a parole sferzanti, nella misura in cui siano correlate al livello della polemica, ai fatti narrati e rievocati. 3.2 Il diritto di satira La satira ha radici antiche, legate alla tendenza di ogni comunità di dileggiare i potenti, ma anche i costumi e i vizi della società o di una parte della stessa. Il diritto alla satira, tuttavia, è figlio del costituzionalismo liberale ed ha quindi radici molto più recenti della satira stessa. È anche figlio di una considerazione relativistica della verità, che postula l’assenza di ogni verità imposta dall’alto ed assoluta. La libertà di satira, infatti, può essere tradotta in una libertà di manifestare anche la più eterodossa delle idee rispetto ad un pensiero dominante in ambito politico, culturale, religioso, sociale. Norma costituzionale di riferimento è sempre l’Art. 21, anche se talvolta viene anche ricondotta all’Art. 33, che proclama la libertà dell’arte e della scienza; la satira viene tradotta come diritto di critica dissacrante, corrosiva, irriverente, e svolge la fondamentale funzione di controllo sociale e di protezione contro gli eccessi del potere. Affinché una critica venga riconosciuta come satira, essa deve attenersi a determinate regole: la satira muove dal basso verso l’alto, colpendo chi incarna potere politico, economico, religioso, culturale. I giornali fascisti che prendevano in giro gli ebrei per farli passare come disprezzabili facevano propaganda e istigazione all’odio, più che satira. La satira può porsi in collisione con altri diritti di rilievo costituzionale ed è dunque necessario giungere al corretto bilanciamento dei beni giuridici in conflitto: satira e libertà d’espressione da un lato, reputazione, dignità della persona, sentimento religioso, dall’altro. La legittimità della satira viene valutata in relazione alla notorietà del personaggio preso di mira, sempre alla luce di un fattore di interesse pubblico. Manca ovviamente un nesso con la verità oggettiva, dal momento che la satira è caricatura ed esasperazione, dal forte carattere iperbolico. Come per la critica, tuttavia, la satira, se collegata a dei fatti o se veicolante contenuto informativo, deve basarsi su fatti verificati e su un contenuto informativo veritiero. In altre parole, la satira è slegata dal vincolo di presentare i fatti esattamente come sono avvenuti, vincolo che ha la cronaca, ma non può alludere a fatti inesistenti né attribuire caratteristiche negative ad un soggetto che tali caratteristiche ha mai mostrato, si può prendere in giro un politico per vari motivi, ma non lo si può deridere attribuendogli le caratteristiche del ladro se questi non è mai stato coinvolto in fatti a tal reato affini. Anche il requisito della forma civile è declinato peculiarmente nel caso della satira: essa è infatti spesso incontinente (ovvero irriverente, financo volgare), per il suo essere sferzante, corrosiva, dissacrante; tuttavia, rimane il limite dell’offesa gratuita alla dignità della persona, e pertanto la satira non può essere unicamente indirizzata a suscitare disprezzo per una persona senza legami con fatti pubblicamente rilevanti ad esempio, criticare un politico utilizzando espressioni e toni osceni anziché legati al suo operato non è considerato satira. 3.3 La satira tipologica e l’offesa alle religioni Per satira tipologica si intende quel tipo di satira non rivolta verso un individuo specifico ma verso un gruppo o una categoria sociale: i politici, il clero, i calciatori, i magistrati, ecc. In questo caso è più difficile individuare i beni giuridici da tutelare nei confronti della satira, ma possono essere il sentimento religioso, il prestigio di un’istituzione, più che la dignità del singolo individuo, che non viene lesa specificatamente in caso di satira contro l’istituzione che questi si trova a rappresentare. In casi estremi, se la satira si rivolge verso soggetti “deboli” come minoranze etniche o religiose, si cade nel reato di propaganda e istigazione all’odio. In caso di satira contro la religione, essa può venire limitata quando lede l’aspetto intimo, personale, della fede, attraverso il vilipendio di una persona che professa una religione; è invece lecita quando prende di mira la confessione religiosa in generale, i suoi rappresentanti in Terra, i suoi dogmi, al fine di sottoporre a critica il ruolo pubblico, sociale della determinata religione. 5. LIBERTA’ DI ESPRESSIONE E DIRITTI DELLA PERSONALITA’ NELL’ERA DIGITALE. LA TUTELA DELLA PRIVACY NELLA DIMENSIONE EUROPEA 5.1 Premessa Il paradigma di tutela della libertà di espressione ha conosciuto negli ultimi decenni importanti sollecitazioni per effetto dell’avvento della società dell’informazione e dei nuovi media. Si è così posto il problema di comprendere se le regole pensate per il “mondo degli atomi” dovessero trovare applicazione anche nel “mondo del bit”. Internet è stato visto infatti dai legislatori come un mezzo pericoloso, uno spazio più ampio per l’esercizio della libertà di parola ma anche per gli abusi, per la diffusione delle fake news. Si pensa quindi che le norme che regolano la riproduzione di contenuti dai media cartacei e da internet debbano essere diverse e adattate a considerazioni specifiche, in modo da garantire la protezione e la promozione dei diritti e delle libertà di volta in volta rilevanti. Tuttavia, internet ha messo in comunicazione sensibilità diverse rispetto al grado di tutela, un messaggio pubblicato raggiunge molto più agevolmente utenti che si trovano in luoghi diversi e un contenuto lecito in un dato ordinamento, può non esserlo in un altro. Occorre dunque tenere in conto che in internet il parametro di tutela non è necessariamente dato dall’articolo 21 o dalle norme della Convenzione sui diritti dell’uomo (articolo 10) o dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (articolo 11) ma è in rilievo un grande standard affidato al Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Decisivo risulta essere il ruolo delle piattaforme digitali, gli internet service provider da cui dipende la circolazione dell’informazione in rete. Questi operatori nascono e si sviluppano negli Stati Uniti, dove continuano ad agire all’ombra del protettivo e liberale Primo Emendamento. Importante è perciò considerare l’effetto di esso sul livello di tutela della libertà di espressione sul web. Celebre è il caso “Yahoo!”, originato dalla pubblicazione di un individui dalla perdita del controllo dei propri dati. Si focalizzava quindi sul versante dei diritti sui quali fissava severi obblighi. Questo approccio si rivela inappagante in quanto il trattamento su larga scala di grandi quantità di dati è divenuto un uso comune. La GDPR invece è più elastica, con un approccio “basato sul rischio” con fulcro il principio di accountability, responsabilizzazione del titolare che effettua il trattamento dei dati. Invertendo il paradigma, si è preso coscienza che i trattamenti di dati avvengono ormai su larga scala in modo pressoché costante. In sintesi, la precedente normativa si basava su due aspetti, autorizzazione e consenso; il soggetto ossia il titolare doveva ottenere l’autorizzazione del garante al trattamento dei dati e necessitava del consenso dell’interessato ossia al soggetto a cui appartengono quei dati. Il passaggio alla nuova normativa è basato sul rischio: il soggetto che tratta i dati non deve più chiedere l’autorizzazione del trattamento dei dati, ma deve aver preventivamente adottato quelle misure che mirano ad evitare rischi per quanto riguarda il corretto trattamento dei dati. Il legislatore europeo ha ragionato nel senso che il trattamento dei dati è ormai attuato su scala infinta e quindi il meccanismo stretto dell’autorizzazione e del consenso è un meccanismo che non funziona più o almeno funziona solo parzialmente. 5.3 La normativa vigente. Il GDPR: definizioni, principi, diritti degli interessati La normativa si apre con una serie di nozioni. Il GDPR ha ereditato le categorie terminologiche che erano state introdotte dalla direttiva 95/46/CE. È fondamentale dunque partire da alcune definizioni fornite dall’articolo 4: • Un dato personale è qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (interessato)”. Il titolare dei dati personali viene definito l’interessato. L’interessato è il soggetto a cui quei dati appartengono. Ovviamente alcuni dati personali sono molto identificativi (Giulio Enea Vigevani è molto identificativo) altri sono poco identificativi (nome Francesca) ma aiutano comunque ad identificare. Al riguardo “si considera identificabile una persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente”. • Il GDPR individua poi alcune categorie particolari di dati personali, che comprendono i “dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale” nonché “i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” (è così invalso l’uso della denominazione di “dati comuni” per identificare i dati personali che rientrano nelle categorie particolari, in passato note anche come “dati sensibili”. Il trattamento di queste particolari categorie di dati è sottoposto a cautele aggiuntive e a requisiti maggiormente stringenti, per esempio il consenso dell’interessato al loro trattamento deve essere esplicito (in passato la normativa italiana richiedeva che fosse dato per iscritto, requisito formale che non è più in vigore in base al GDPR). • Trattamento è qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o anche senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insieme di dati personali, come la raccolta dei dati, la registrazione, l’organizzazione, la consultazione, la strutturazione, l’uso, la distruzione la diffusione, la cancellazione etc. Si tratta di una nozione onnicomprensiva che descrive pressoché la totalità delle operazioni suscettibili di inerire a dati personali. Quindi ogni attività che riguarda i dati personali viene considerato trattamento. Le nozioni di dati e di trattamento sono entrambe molto ampie. • Titolare del trattamento “è la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi di trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri” (es. l’istituzione scolastica rispetto ai dati personali degli studenti; è titolare del trattamento è il datore di lavoro rispetto ai dati personali del lavoratore). • Responsabile del trattamento è colui che tratta i dati per conto del titolare. “è la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento” (es. il rettore dell’università; un hosting provider agisce come responsabile del trattamento per i dati pubblicati dai gestori di siti che utilizzano i suoi servizi di memorizzazione permanente). Il GDPR stabilisce poi all’Art. 5 i principi ai quali deve essere informato il trattamento di dati personali. I dati possono essere trattati solo con: • consenso del soggetto titolare dei dati, consenso libero, informato, granulare e specifico, dovrà essere fornito sulla base di un’informativa adeguata ed esaustiva che l’interessato deve ricevere dal titolare in cui sono esempio espliciti le finalità e i mezzi del trattamento. • Principio di liceità, correttezza e trasparenza; • Principio di limitazione delle finalità: se io ti autorizzo al trattamento dei miei dati per un certo fine tu li può utilizzare solo per raggiungere quello scopo e non altri. I dati devono essere raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo che non sia incompatibile con tali finalità. • Principio di minimizzazione dei dati: siccome i dati sono preziosi, i dati che un terzo può utilizzare devono essere pertinenti a quello scopo. I dati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità. • Principio di esattezza: i dati devono essere esatti e il soggetto può sempre accedere alla banca dati che contiene i suoi dati personali e quindi di verificare l’esattezza e di imporre la correzione dei dati erronei. Quindi i dati devono essere esatti e se necessario aggiornati. • Limitazione della conservazione: i dati devono essere conservati in una forma che consenta l’identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati. Limiti alla conservazione dei dati: una volta terminata la finalità i dati devono essere di regola cancellati. • Principio di integrità e riservatezza dei dati: i dati devono essere trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza. L’idea di fondo è l’attenzione che i dati personali siano protetti contro un uso eccessivo, ulteriore a quello che l’interessato (titolare) ha imposto o la legge ha imposto. Questi requisiti devono però inquadrarsi nel pilastro del GDPR, il principio di accountability. Le condizioni di liceità del trattamento individuano i fondamenti di un trattamento di dati personali. Il GDPR rafforza le condizioni per l’espressione del consenso in modo da assicurare una consapevolezza effettiva da parte dell’interessato, un consenso libero, informato, granulare e specifico, fornito sulla base di un’informativa adeguata ed esaustiva. Inoltre, il titolare deve dimostrare che l’interessato ha acconsentito al trattamento che dovrà essere esplicito. Oltre al consenso esistono altre basi giuridiche di frequente impiego che possono legittimare il trattamento di dati personali. L’Art. 6 menziona tra le varie condizioni queste: • Il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto. • È necessario per adempiere un obbligo legale. • È necessario per la salvaguardia degli interessi vitali (es. monitorare l’evoluzione delle epidemie). • È necessario o connesso all’esercizio di pubblici poteri. • È necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che tali interessi non prevarichino le libertà fondamentali dell’interessato. Un esempio di legittimo interesse è il fatto che l’interessato sia cliente o dipendente del titolare, e dunque questi abbia necessità di conoscere i suoi dati personali non sensibili. Il GDPR mantiene intatto, infine, lo statuto dei diritti dell’interessato già definito dalla direttiva 95/46/CE, che anzi si arricchisce di talune novità: • Fondamentale tra tutti è il diritto di accesso: l’interessato deve poter conoscere se un determinato soggetto, pubblico o privato che sia, sta trattando i suoi dati. • Diritto di rettifica: cioè di ottenere dal titolare la rettifica dei dati inesatti senza ingiustificato ritardo, ovvero l’integrazione dei dati incompleti. • Diritto alla cancellazione dei dati, noto anche come diritto all’oblio: Il soggetto ha diritto a vedersi cancellare i dati quando questi dati non sono più necessari per le finalità del trattamento (trattamenti dei dati non per finalità informative però). • Diritto alla portabilità dei dati: consiste nel diritto dell’interessato a ricevere in formato strutturato, di uso comune e leggibile da un dispositivo automatico i dati personali da parte del titolare e a trasmetterli a un altro titolare del trattamento senza impedimenti. • Diritto dell’interessato a non essere sottoposto a una decisione basata unicamente su un trattamento automatizzato che produca effetti giuridici nei suoi confronti o incida sulla sua persona: questione dell’intelligenza artificiale. Quando una decisione possa incidere sulla sfera di un soggetto, questa decisione non può essere lasciata solo su processi automatizzati, ma serve un intervento umano. Più aumenta la possibilità attraverso i calcoli Statistici di individuare precisamente ad esempio i contenuti vietanti aumenta anche la possibilità di escludere contenuti sulla base dei procedimenti escludenti dell’intervento umano. Siccome si vuole sempre che quando c’è un effetto giuridico su un soggetto (es: chi vive in un determinato quartiere dove uomini tra 18 e 40 anni che non lavorano, hanno un tasso di insolvenza altissimo. Quindi i big data posso escludere questa categoria di persone di accedere a sistemi economici. Si può andar a prevedere quale sia la probabilità che uno sia un buon o cattivo pagatore. Questo però crea discriminazione). Questi comportamenti totalmente automatizzati, che diventeranno sempre più presenti siccome sono estremamente precisi, questi dati che vengono continuamente raccolti non sono più dati individuali ma sono sempre più dati collettivi, quindi a seconda dell’appartenenza del gruppo vi è una disciplina giuridica differente. Si ha allora l’introduzione di questo nuovo diritto, non essere sottoposto solamente ad un processo automatizzato. • Diritto di limitazione di trattamento: ossia il diritto a ottenere il congelamento del trattamento di dati senza però provocarne la cancellazione in tutti quei casi l’interessato abbia interesse a mantenerne la disponibilità. • Diritto di opposizione: per motivi connessi alla situazione particolare dell’interessato, al trattamento dei dati personali, il cui esercizio comporta l’astensione da parte del titolare dall’ulteriore trattamento, salva l’esistenza di motivi legittimi cogenti. È interessante altresì notare come il GDPR, attraverso l’Art. 3, abbia allargato l’ambito di applicazione territoriale della disciplina europea. In tale ambito rientra ora anche il trattamento di dati di interessati che si trovino nell’Unione, effettuato da un titolare o da un responsabile non stabilito nell’Unione quando le attività di trattamento riguardino l’offerta di beni o la prestazione di servizi ovvero, il monitoraggio del comportamento degli interessanti, avente luogo all’interno dell’Unione. Proprio in relazione all’apertura a nuove fattispecie nell’applicazione del GDPR viene istituita la figura del rappresentante nell’Unione. 5.4 Gli obblighi previsti dal GDPR Il GDPR stabilisce un set di obblighi applicabili indistintamente a titolari e responsabili del trattamento. L’Art. 32 stabilisce l’obbligo per il titolare e il responsabile di mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate a garantire un livello di sicurezza adeguata al rischio. Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in special modo dei rischi derivanti dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata o dall’accesso in modo accidentale o illegale, a dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati: queste tipologie di accadimenti corrispondo ai c.d. data breaches, ossia le violazioni di dati personali. In caso di data breach il titolare è tenuto a notificare la violazione all’autorità di controllo competente senza ingiustificato ritardo e, possibilmente, entro 72 ore dal momento in cui ne ha acquisita conoscenza. Il titolare è tenuto a documentare qualsiasi violazione, annotando circostanze, conseguenze e provvedimenti adottati per porvi rimedio. Si esige che il titolare metta in atto misure tecniche e organizzative adeguate ad assicurare che le attività di trattamento siano conformi al GDPR. Il GDPR esprime un vero e proprio obbligo, sintetizzato in due formule, privacy by design dove si richiede al titolare di mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate ad attuare i principi sulla protezione dei dati sia al momento di determinare i mezzi del trattamento, sia all’atto del trattamento del medesimo; privacy by default: al titolare del trattamento si richiede che per impostazione predefinita siano adottate misure tecniche e organizzative finalizzate a garantire che siano trattati solo i dati necessari a ogni specifica finalità del trattamento e che i dati non siano resi accessibili a un numero indefinito di soggetti senza l’intervento di una persona fisica. Tra gli obblighi figura anche la designazione del rappresentante del titolare o del responsabile che non siano stabiliti dall’Unione e anche la tenuta dei registri delle attività di trattamento costituisce un obbligo, vincolante sia per il titolare che per il responsabile, che mira a costruire una mappatura dei trattamenti. Al secondo livello di modulazione si accede nell’ipotesi di attività di trattamento che comportino un rischio elevato per i diritti e le libertà di persone fisiche. Si iscrivono tre particolari adempimenti, la notifica agli interessati in caso di data breach, lo svolgimento del data protection impact assessment e la designazione di un responsabile della protezione dati. La corte, soprattutto in base alla prima norma, arriva ad affermare in capo all’interessato di un diritto alla deindicizzazione, infatti, la situazione di incompatibilità con i principi sul trattamento che funge da presupposto per l’esercizio di questo diritto può derivare non soltanto dal carattere inesatto dei dati, ma anche dal fatto che essi siano inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento. La corte di giustizia specifica insieme che il trattamento effettuato da un motore di ricerca non può fondarti sull’art. 9 della direttiva 95/46/CE che concerne il trattamento per finalità giornalistiche: il trattamento sembrerebbe derivare la sua giustificazione, piuttosto, dal perseguimento di un legittimo interesse da parte del motore di ricerca. In ogni caso, poiché la richiesta di deindicizzazione si configura come l’esercizio di un diritto, in caso di diniego l’interessato potrà rivolgersi all’autorità di protezione dei dati personali o all’autorità giudiziaria, che potranno rovesciare la decisione del motore di ricerca. Così mentre la tutela del diritto all’oblio era prima affidata a una richiesta individualizzata al sito Internet affinché sottraesse dai motori di ricerca alcune pagine web, ora viene aperta la strada di un rapporto diretto con il motore di ricerca senza un necessario intervento delle autorità: tuttavia il compito di bilanciare gli interessi in gioco non pare affatto agevole se affidato a operatori privati. 5.7 Gli archivi online: tra funzione informativa e diritto alla privacy. Cenni alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Da quando l’Unione europea si è munita della Carta dei diritti fondamentali, la capacità del suo sistema giuridico ha raggiunto maggior maturazione, comportando un affievolimento dell’influenza delle pronunce della Corte europea. Questa si è pronunciata in maniera importante in tre occasioni, nel caso Wegrzynowski dove venne pubblicata una notizia ritenuta diffamatoria; qui, secondo la Corte di Strasburgo non è compito dei giudici riscrivere la storia, gli stati contraenti piuttosto devono offrire soluzioni adeguate ad un bilanciamento dei diritti tutelati dagli artt. 10 e 8 della CEDU e sufficiente sarebbe stato contestualizzare e nei casi Fuchsmann C. Germania e M.L.-W.W. venne stabilito che nella ricerca di equilibrio bisognava valutare il duplice ruolo che i media rivestono, informare la collettività e formare l’opinione pubblica e infine una funzione archivistica. In conclusione, la Corte di Strasburgo ha esaltato la funzione democratica e di interesse pubblico assolta dagli archivi online con una resistenza che si traduce come una presunzione a favore della libertà di espressione. 6. PRIVACY E ATTIVITA’ GIORNALISTICA 6.1 Privacy e libertà di informazione: diritti in conflitto o diritti contigui? La tutela della privacy assicura il riserbo della vita privata di ciascuno. Il diritto di cronaca garantisce la possibilità di commentare i fatti, fossero anche fatti privati altrui. Ne deriva che i due diritti si pongono in rapporto antitetico. Il diritto alla riservatezza nasce proprio per porre un limite alla stampa, che senza di esso non avrebbe alcun limite a trattare i fatti inerenti alla sfera personale degli individui. In realtà non c'è sovrapposizione tra i due diritti poiché uno specifico dato personale non può essere oggetto di entrambe le garanzie contemporaneamente. Riservatezza e informazione possono così essere intesi non come antagonisti ma come diritti contigui. I due diritti si spartiscono il campo di dati personali: ve ne sono alcuni che cadono sotto la tutela, altri invece possono venire divulgati. Il conflitto, quindi, sorge solo sulla linea di demarcazione tra queste due aree di dati personali, tra dati divulgabili per finalità di informazione e non. Tale linea non dipende dalla volontà del soggetto, quanto all’essenzialità del dato ai fini di comunicazione di una notizia e del relativo interesse pubblico di quest’ultima. 6.2 Il fondamento costituzionale del diritto alla riservatezza Viene stabilita per la prima volta una legge a tutela della privacy in Italia solo nel 1996. Prima, solo dottrina e giurisprudenza si erano fatte carico di tutelare il cittadino in relazione dell’attività dei media, grazie a normative come la Convezione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e famigliare (1995). In seguito, la riservatezza venne fatta rientrare tra i diritti inviolabili riconosciuti e garantiti dall’Art. 2 della Costituzione Italiana: la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Tra i diritti inviolabili menzionati, anche quello di “essere lasciato solo”, dunque non importunato nella sfera personale. È stata la Corte della Cassazione con la storica sentenza “Soraya” a riconoscere il diritto di riservatezza fondandolo sulla base di una lettura sistematica di più disposizioni costituzionali: oltre all’articolo due, vi sono diversi articoli che contribuivano a “creare” questo diritto alla riservatezza, benché esso non fosse esplicitato in Costituzione: Art. 13 - inviolabilità della libertà personale; Art. 14 - inviolabilità del domicilio; Art. 15 - libertà e segretezza delle comunicazioni; Art. 27 - inviolabilità dell’autonomia della famiglia; Art. 29 – dignità umana come limite all’iniziativa economica. A questi si aggiunge l’articolo 21 che implica anche l’aspetto negativo della manifestazione di pensiero e dunque il diritto a non divulgare informazioni. 6.3 Dal diritto alla riservatezza alla tutela dei dati personali: l’evoluzione della disciplina Per comprendere meglio il contesto in cui il legislatore italiano ha adottato l’attuale disciplina, è utile un cenno all’evoluzione della materia. La prima legislazione italiana generale sulla privacy è stata preceduta da interventi di autodisciplina in tema di trattamento giornalistico dei dati. Si trattava però di contributi limitati soltanto ad alcuni aspetti e soprattutto adottati da organi di categoria. In Europa le prime normative in tema di privacy sorgono allo scopo non tanto di limitare le indebite intrusioni della stampa sulla sfera privata quanto di impedire gli abusi derivanti dall’utilizzo di banche dati informatizzate che consentono di raccogliere e combinare i dati personali. Nel 1995 la Comunità europea adotta la direttiva 95/46/CE che consentiva il trattamento dei dati personali solo previo consenso inequivocabile dell’interessato e aveva come perno il diritto del cittadino a mantenere il controllo sui propri dati. Con la l. 31 dicembre 1996, n. 675venne istituito il Garante per la protezione dei dati personali. Il primo gennaio 2004 invece, entra in vigore il Codice in materia di protezione dei dati personali. Solo nel 2016 viene adottato il regolamento 2016/679, il GDPR, entrato in vigore il 25 maggio 2018. Le direttive sono uno strumento per armonizzare le legislazioni nazionali. Il regolamento invece è applicabile a tutti gli Stati membri. Tuttavia, si pone in sostanziale continuità con la precedente direttiva per quanto riguarda il rapporto tra privacy e libertà di espressione. 6.4 I principi generali e le definizioni nelle fonti La disciplina oggi vigente, nella parte generale è stabilita da fonti dell’UE applicabili all’ordinamento italiano mentre nella parte che riguarda il rapporto con la libertà di espressione è ancora prevista a livello nazionale. I principi di base sono fissati dall’art.8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. All’articolo 5, invece, il regolamento fissa principi generali applicabili a qualunque trattamento di dati, principi già visti nel capitolo precedente. 6.5 Il trattamento dei dati nell’attività giornalistica: l’ambito di applicazione Oggi, la disciplina nell’attività giornalistica prevede, per le norme generali, la consultazione del già descritto GDPR. Tuttavia, per quanto riguarda il trattamento dei dati nell’attività giornalistica, vi sono delle esenzioni e delle deroghe al suddetto regolamento, che vengono previste dal Codice in materia di protezione dei dati personali, titolo XII, parte II, alla voce “Giornalismo, libertà di informazione e di espressione”. Le norme coinvolte sono prima di tutte, l’Art. 136 che delimita il campo di applicazione dell’eccezione, cioè circoscrive l’ambito della normativa derogatoria, stabilendo che le disposizioni del titolo XII si applicano al trattamento di dati personali: • Dice che si applica ai trattamenti effettuati nell’esercizio della professione giornalistica e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità; • Effettuato dai soggetti iscritti nell’elenco dei pubblicistici o nel registro dei praticanti; • Finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione accademica, artistica e letteraria. La definizione dell’ambito di applicazione chiarisce che si applica al trattamento effettuato da chiunque nell’ambito di un’attività di tipo giornalistico o comunque riconducibile alle forme tipiche di esercizio della manifestazione del pensiero. Le regole speciali sono dunque finalizzate a tutelare l’attività di informare o comunque l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e non la categoria professionale dei giornalisti. 6.6 Segue: le regole del trattamento nell’attività giornalistica Poi, l’Art. 137 è diviso in due parti. I primi due commi escludono l’applicazione della disciplina generale sul trattamento di dati, così apparentemente riconoscendo uno spazio di libertà pressoché senza confini; il terzo e ultimo comma invece fissa i limiti che circoscrivono tale normativa speciale. In base al primo e al secondo comma i principali presupposti del trattamento da parte dei privati non trovano applicazione quando si tratta di libertà di informazione: 1. Il primo comma consente il trattamento dei dati di cui agli articoli 9 (dati sensibili) e 10 (dati relativi a condanne penali e reati) del GDPR anche senza il consenso dell’interessato (devono però essere rispettate le regole deontologiche). Non serve il consenso, io posso trattare legittimamente dati personali (anche sensibili) senza consenso dell’interesso né implicito né esplicito. 2. Il comma 2 precisa che non si applicano le disposizioni circa le misure di garanzia che possono essere disposte dal Garante in relazione a certi tipi di dati sensibili, né quelle relative ai provvedimenti generali che lo stesso può adottare in relazione ai trattamenti svolti per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico che possono presentare rischi elevati, né infine disposizioni che disciplinano il trasferimento dei dati all’estero. 3. Il terzo comma dell’art. 137 pone la norma cardine dell’intera disciplina in esame, stabilendo che “restano fermi i limiti del diritto di cronaca” a tutela del diritto alla protezione dei dati personali “e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico”. La norma pare sostanzialmente affermare che i giornalisti (e le persone che esercitano la libertà di manifestazione del pensiero) non devono chiedere il consenso dell’interessato per trattare i suoi dati personali; la loro diffusione, tuttavia, deve comunque rispettare i limiti del diritto di cronaca e in special modo il limite dell’essenzialità dell’informazione, e soltanto in relazione a fatti che sono di interesse pubblico. L’interesse pubblico non riguarda soltanto argomenti per così dire “alti” quali possono essere politica, cultura, arte, scienza o anche critica giudiziaria; la nozione di interesse pubblico riguarda ciò che effettivamente interessa il pubblico di lettori, ascoltatori o telespettatori e va dunque calata nel contesto concreto della società, identificandosi così negli argomenti e nei temi che effettivamente possono incidere sulla formazione delle opinioni collettive in un determinato ambiente sociale. In primo luogo, i fatti devono essere di interesse pubblico e quindi rilevanti per il contesto sociale di riferimento ma ciò non basta. In relazione a tali fatti, possono essere diffusi solo i dati indispensabili per rendere conoscibile la notizia e non altri; in altri termini, il giornalista può sì diffondere liberalmente i dati senza il consenso degli interessati, ma ciò a condizione che senza di essi la notizia sarebbe incomprensibile. Quindi in sintesi la regola che si desume dalla prima parte dell’art. 137 co.3 è la seguente: il giornalista deve individuare la notizia, verificarne il pubblico interesse e quindi individuare i dati personali, raccolti secondo correttezza e veritieri, la cui diffusione è indispensabile per renderla comprensibile. Sul punto l’art. 6 delle Regole deontologiche relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ribadisce il requisito dell’essenzialità dell’informazione, ma non fornisce elementi di particolare utilità: la disposizione stabilisce infatti che una “informazione, anche dettagliata” è possibile qualora “sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. In altre parole, quando il giornalista riferisce di una vicenda originale gli è riconosciuto un più ampio margine di libertà di divulgare dati personali; si tratta di una specificazione condivisibile ma tutto sommato scontata, perché è ovvio che se la notizia consiste in un fatto singolare la sua comprensione richiederà giocoforza un maggior numero di informazioni. Per meglio comprendere il criterio dell’essenzialità dell’informazione è utile richiamare le decisioni prese dal Garante e dalla magistratura, che sul punto sono numerose. La rassegna della casistica è utile anche per chiarire i requisiti dell’interesse pubblico e dell’essenzialità della notizia, in concreto, tendono a sovrapporsi: un dato privo di interesse pubblico non è mai essenziale, così come un dato non essenziale non è mai veramente di interesse pubblico. Vediamo dunque alcuni punti della casistica relativa all’essenzialità dell’informazione: a) Non sono pubblicabili dettagli e particolari che nulla hanno a che vedere con la descrizione dell’evento oggetto dell’articolo di cronaca; b) Non sono pubblicabili dati, a maggior ragione sensibili, come l’indicazione di una precisa patologia, relativi a congiunti di persone pur coinvolte in fatti d’interesse pubblico, in quanto non essenziali al diritto d’informazione; c) Nel dare la notizia di un presunto legame sentimentale tra un importante manager ed un’attrice, è illecito pubblicare dati personali dei famigliari del tutto estranei alla vicenda. Infatti, la notorietà del protagonista della vicenda, non affievolisce i diritti dei suoi famigliari ed in particolare dei figli; lesione della sfera personale dei protagonisti. Oggi il diritto all’oblio assume un ruolo molto più esteso in ragione del fatto che praticamente ogni testata mette a disposizione il proprio archivio su Internet e che un articolo o servizio restano accessibili per un tempo indeterminato e potenzialmente infinito. Dunque, è molto più facile che la permanenza nella rete di un “pezzo” di cronaca, anche se a suo tempo perfettamente lecito, a distanza di anni possa rilevarsi non più tale proprio in ragione del venir meno della sua attualità. È anche possibile che una notizia corretta al momento della prima pubblicazione si rilevi nel tempo inesatta, incompleta o errata; si pensi ad esempio a un articolo che riguarda l’imputazione o l’arresto per un certo reato, in relazione al quale l’interessato è stato poi assolto. In concreto il diritto all’oblio può essere esercitato in forme diverse a seconda del caso. L’interessato può chiedere l’anonimizzazione, cioè la rimozione di quei dati che identificano o rendono identificabile l’interessato. Soprattutto con riferimento alle vicende giudiziarie è inoltre possibile chiedere l’aggiornamento o la contestualizzazione, così da rendere edotto il fruitore di quali sono stati gli sviluppi successivi della vicenda o di quali sono altri fatti che comunque rendono più completa e corretta la rappresentazione dei fatti. 6.8 L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali Oggi è l’Art. 8 della Carta dei diritti dell’Unione a prevedere che in ogni Stato membro vi sia un’autorità indipendente che controlli il rispetto del diritto alla protezione dei dati di carattere personale; ed è proprio in forza degli obblighi europei che l’ordinamento italiano ha introdotto tale autorità, che prende comunemente il nome di “Garante per la privacy”. Oggi i principi generali sono previsti nel GDPR, il cui art. 52 stabilisce che “ogni autorità di controllo agisce in piena indipendenza nell’adempimento dei propri compiti e nell’esercizio dei propri poteri conformemente al presente regolamento”. In sintesi, il Garante svolge un’attività normativa regolamentare e generale, un’attività amministrativa in senso stretto (cioè la cura concreta del settore) e un’attività di tipo “giustiziale” in cui è chiamato a risolvere alcuni tipi di controversie. A norma dell’art.153 del Codice italiano, il vertice del Garante è un Collegio composto da 4 membri, di cui due eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica. L’Autorità non è dotata di autonomia finanziaria, nel senso che non ha proprie entrate e provvede alla gestione delle spese per il proprio funzionamento nei limiti di un fondo istituito ed erogato dallo Stato e iscritto in un apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’economica e delle finanze. Il Garante ha poi piena autonomia contabile e amministrativa, nel senso che gestisce le risorse che ha a disposizione in modo discrezionale, fatto salvo il rispetto delle leggi e dei regolamenti in materia. Le principali funzioni del Garante sono: • Un generico e penetrante controllo sulle modalità di trattamento dei dati, sia d’ufficio sia su sollecitazione degli interessati, nell’ambito del quale il Garante può rispondere a quesiti, irrogando anche sanzioni amministrative pecuniarie o interdittive; • Una costante attività di segnalazione al Governo e al Parlamento circa l’opportunità di nuovi provvedimenti normativi in materia di protezione dei dati personali; • La tenuta del registro dei trattamenti; • L’estensione di una relazione annuale al Parlamento; • La promozione delle regole deontologiche. Sono tre i tipi di procedimento che possono svolgersi difronte al Garante: controllo del Garante sui soggetti a lui sottoposti; applicazione di sanzioni nei confronti di tali soggetti; le controversie tra persone che lamentano la violazione di un loro diritto. Esiste anzitutto un generale potere di vigilanza sul rispetto degli obblighi derivanti dalle fonti normative europee e italiane. Tale potere si esprime in un procedimento che si apre normalmente d’ufficio e nell’ambito del quale possono essere richieste al titolare del trattamento informazioni o l’esibizione di documenti. L’Autorità può altresì disporre accessi alle banche dati o altre ispezioni, anche in luoghi di privata dimora con il consenso del titolare o del responsabile o previa autorizzazione del Presidente del tribunale competente per territorio. Il procedimento si conclude con un atto con cui il Garante indica al titolare quali misure o modifiche sono necessarie per rendere il trattamento conforme alla legge. L’Autorità può poi irrogare sanzioni in via amministrativa. Il Garante in questi casi decide l’esito di un procedimento. Questo tipo di procedura tutela fra le altre cose oltre che la correttezza dell’informativa nella raccolta dei dati, anche le prerogative dell’Autorità: viene così garantito il funzionamento degli altri due tipi di processo. Ogni interessato ha la facoltà di ottenere tutela mediante reclamo al Garante. Il reclamo è proposto dall’interessato per indicare una violazione della disciplina in tema di trattamento dei dati che lo riguardi; deve contenere un’indicazione dettagliata dei fatti e delle circostanze su cui si fonda, delle disposizioni che si presumono violate e delle misure richieste. Il reclamo è presentato al Garante senza particolari formalità; al termine di un’istruttoria sommaria il Garante può adottare uno dei provvedimenti e in particolare imporre il divieto di trattamento. L’interessato ha anche la facoltà di rivolgere al Garante una segnalazione, per portarlo a conoscenza di una trasgressione della normativa. all’esito di una procedura sostanzialmente analoga a quella appena descritta, possono essere adottati gli stessi provvedimenti. L’unica differenza fra reclamo e segnalazione è la precisione dell’atto iniziale di avvio del procedimento. 7. IL BUON COSTUME E I REATI DI OPINIONE 7.1 Premessa: i limiti ‘oggettivi’ alla libertà di espressione I limiti alla libertà di espressione non si rinvengono solo nell’esigenza di tutelare i diritti della personalità ma anche in quella di proteggere beni e valori collettivi come il buon costume, la difesa dello stato, la corretta amministrazione della giustizia, la prevenzione dei reati e il mantenimento delle condizioni di una pacifica e civile convivenza, i principi fondamentali di eguaglianza e di dignità della persona. Di questi, l’unico ad essere menzionato in Costituzione è quello del buon costume, tuttavia, un fondamento costituzionale può rinvenirsi anche per gli altri. Quello del segreto di stato, ad esempio, può trovare fondamento nell’esigenza di preservare l’esistenza della Repubblica (art.1) ma anche nel dovere di difesa (art.52) che si ricollega al diritto inviolabile di azione e di difesa (art.24) oltre che ai principi di indipendenza della magistratura (art.101). La prevenzione dei reati e il mantenimento delle condizioni di una civile convivenza, infine, costituiscono i presupposti per il godimento del complesso dei diritti garantiti in tutta la prima parte della Costituzione, mentre il valore fondamentale della dignità personale e il principio di eguaglianza trovano la loro diretta espressione negli articoli 2 e 3. Collegato ai limiti alla libertà di espressione ha avuto rilievo, specialmente in passato, la tutela del sentimento religioso. Ci si occupa quindi di quei limiti ulteriori che trovano espressione nei ‘reati di opinione’ e delle interpretazioni ‘morbide’ delle norme di legge. 7.2 La nozione di buon costume tra “morale dominante”, “pudore sessuale” e “dignità della persona” L’ultimo comma dell’art. 21 stabilisce che “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” aggiungendo che “la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le violazioni”. Si nota subito che in tale disposizione dopo i commi precedenti specificamente dedicati alla stampa, l’art. 21 torna ad occuparsi della libertà di espressione in generale, indipendentemente dal mezzo di diffusione: la disposizione si riferisce a pubblicazioni a stampa, ma anche agli spettacoli e in generali a tutte le altre manifestazioni; altra notazione importante è che la seconda parte della disposizione, nel porre una riserva di legge per la disciplina della materia, demanda alla legge di individuare forme e limiti (non solo per la repressione ma anche) per la prevenzione delle violazioni del buon costume attraverso autorizzazioni e censure. Ne consegue che per tutto ciò che può definirsi come stampa la tutela del buon costume non può legittimare l’adozione di controlli e misure preventive, ma può esplicarsi solo attraverso interventi di tipo repressivo, mentre un limitato ricorso anche a interventi di tipo preventivo potrà ammettersi per quelle forme di manifestazione che non rientrino nella nozione di stampa, come per gli spettacoli televisivi, teatrali, cinematografici, e la diffusione attraverso Internet. Il problema principale posto dalla disposizione consiste nella esatta delimitazione della nozione di “buon costume”, che è nozione elastica e in continua ridefinizione. Semplificando molto si può dire che esistono nel nostro ordinamento almeno due diverse nozioni di buon costume: da un lato quella utilizzata nell’art. 1343 c.c. (che stabilisce l’illiceità del contratto contrario appunto a norme imperativi all’ordine pubblico o al buon costume), e che la dottrina tende a individuare come tutto ciò che pur non essendo specificamente vietato da disposizioni penali, risulta in contrasto con i principi etici dominanti in un certo momento storico (così per esempio sarà nullo il contratto avente ad oggetto l’acquisto di prestazioni sessuali); dall’altro lato quella molto più ristretta che si risolve nella nozione di “osceno” di cui all’art. 529 c.p. (per cui è osceno ciò che secondo il comune sentimento offende il pudore) e che protegge lo spettatore, soprattutto se minore, dal turbamento che potrebbe derivare dalla esposizione a spettacoli, immagini, descrizioni di atti sessuali, dalla violazione, insomma, di quella sorta di naturale riserbo che normalmente circonda le manifestazioni della sessualità. Se si accedesse alla nozione più ampia che di fatto identifica il buon costume con la “morale dominante”, cioè potrebbe mettere in pericolo ogni forma di critica volta appunto a mettere in discussione gli assunti etici condivisi dalla maggior parte della popolazione. Ad esempio, posto che oggi la maggioranza della popolazione italiana sia contraria all’adozione di minori da parte di single o di coppie formate da persone dello stesso sesso, o alla pratica della maternità surrogata (utero in affitto), un’accezione così ampia e indistinta di buon costume potrebbe essere utilizzata per reprimere qualsiasi informazione di pensiero volta a suscitare un ripensamento sul punto. Non è un caso che la Corte Costituzione sin dalle prime decisioni abbia nettamente respinto ogni forma di identificazione del buon costume con la morale dominante, pur senza abbracciare la nozione più ristretta invece lo identifica con il solo pudore sessuale. La Sent. 9/1965 è un classico esempio di sentenza interpretativa di rigetto, in cui la corte, pur salvando la disposizione sottoposta a suo giudizio (la questione di costituzionalità è ritenuta infondata) ne promuove una interpretazione che ritiene maggiormente rispettosa del dettato costituzionale: in pratica, la corte punta a circoscrivere l’ambito di applicazione della norma a quelle sole forme di divulgazione che, per le modalità con cui avvengono, presentino una specifica idoneità ad offendere la sensibilità dello spettatore, del lettore, insomma del pubblico. La soluzione interpretativa prospettata dalla corte non fu però seguita dai giudici tanto che appena 6 anni dopo la corte fu costretta a ritornare sulla questione e questa volta concluse per l’incostituzionalità della disposizione che vietava la propaganda e la diffusione delle pratiche contraccettive, per violazione dell’art. 21 cost. Se è netto il rifiuto della concezione del buon costume come morale dominante la corte non perviene però neppure a identificare il buon costume con il solo pudore sessuale; e in effetti nelle decisioni rimangono profili di ambiguità nella definizione dei comportamenti contrari al buon costume, ad esempio nel frequente riferimento al sentimento morale dei giovani o alla morale giovanile, concetti per la verità di non facile definizione. Inizia ad affacciarsi all’interno della definizione di buon costume il riferimento al concetto di dignità personale, che acquisterà a poco a poco una importanza centrale nel circoscrivere la nozione di buon costume: in particolare nella Sent. Corte cost. 293/2000 relativa alla disposizione della legge sulla stampa che punisce le c.d. pubblicazioni raccapriccianti. Lesive del buon costume possono essere diverse condotte materiali (non espressioni di pensieri: ci si riferisce all’uso di determinati termini o particolari immagini, mai al contenuto del pensiero espresso) che possono turbare la sensibilità dello spettatore, non solo in quanto riferite a manifestazioni della sessualità, ma più in generale in quanto offensive del valore fondamentale della dignità umana desumibile dall’art. 2 Cost, che assume quindi il valore di un vero e proprio “super principio” costituzionale da cui trae fondamento la stessa previsione dell’art. 21, co. 6 Cost. Il riferimento alla nozione di dignità umana non è di per sé risolutivo nel contesto di una società “multiculturale” in cui ogni cultura è di per sé portatrice di una propria visione dell’uomo e della donna e della sua dignità. Vi è così un minimo comune denominatore condiviso e comune idoneo a individuare ciò che potrebbe turbare la collettività nel suo insieme, indipendentemente dalle differenti concezioni etiche e culturali di ciascuno. 8. INFORMAZIONE E MERCATO 8.1 Introduzione Sebbene l’art. 21 ricomprenda tutte le forme espressive, indipendentemente dal mezzo utilizzato, è tuttavia ben evidente che vi sono particolati tipologie di informazione che non soddisfano la finalità di promuovere un dibattito su tematiche di interesse generale ma mirano a obiettivi diversi, di matrice anche economica. Tracciare una netta demarcazione tra queste e il nucleo della libertà di manifestazione del pensiero è un’operazione delicata che implica il confronto tra le accezioni individualiste e funzionaliste. Si parla quindi di pubblicità commerciale e diritto d’autore basandosi sulla finalità economica e la qualifica professionale. 8.2 La pubblicità commerciale: nozione e inquadramento costituzionale Le domande che ci si pone sono se la pubblicità commerciale sia una mera parte dell’attività di impresa, una forma espressione ossia una delle tante modalità attraverso le quali le persone esprimono il loro pensiero o in parte l’una e in parte l’altra, se sia una forma di manifestazione artistica. Probabilmente è tutto ciò insieme: la pubblicità è sempre parte fondamentale dell’attività imprenditoriale ma anche ha una forza propagativi, molte pubblicità poi sono forme di arte. Questa pluralità di aspetti della pubblicità si riverbera anche sulla tutela costituzionale della pubblicità e di apporre limite all’attività pubblicitaria stessa. È stata assai dibattuta la riconducibilità della comunicazione commerciale al parametro dell’art. 21, relativo divieto di diffusione o la cessazione. In base poi all’errore commesso varia la sanzione. Le decisioni dell’AGCM possono essere impugnate dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. 8.4 La tutela del diritto d’autore Il diritto d’autore: tra tutela dell’esclusiva e libertà di espressione Per un verso i presupposti di creatività e originalità per la tutela dell’opera in base al diritto d’autore collegano indubbiamente questo diritto all’ambito della manifestazione del pensiero; per altro verso i meccanismi di protezione del medesimo diritto, fondati sul riconoscimento di una esclusiva che è funzionale ad assicurare la remunerazione dello sforzo creativo, finiscono per ascriverlo all’ambito dei rapporti economici. Dell’ambiguità del rapporto tra diritto d’autore e libertà di parola è ancora più indicativa la celebre pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Harper and Row ove il copyright venne descritto come il “motore” della libertà di espressione costituendo, essendo fonte di remunerazione, il principale incentivo allo sviluppo dell’industria culturale. Sebbene la tutela del diritto d’autore si sostanzi nella creazione di esclusive nella forma di limiti al diritto di utilizzazione di un’opera e quindi nella Costituzione di barriere che si frappongono all’accesso e alla conoscenza, queste tutele rivestono un ruolo fondamentale in quanto permettono di remunerare economicamente gli sforzi degli autori, così rendendo conveniente la loro creatività. L’intensa elaborazione giurisprudenziale sul punto, conferma che il diritto d’autore, anche a causa del suo statuto costituzionale tutt’altro che cristallino quanto alla sua collocazione, è stato spesso vittima di un approccio sospettoso, venendo talvolta interpretato come un beneficio riconosciuto agli autori tramite forme di privatizzazione dei contenuti destinate a tradursi nella limitazione della loro accessibilità al pubblico. Nel sistema europeo, e quindi anche nel sistema italiano, nascono diritti morali, sostanzialmente in primo luogo il diritto al riconoscimento della paternità (io comunque ho diritto ad essere riconosciuto autore dell’opera) e il diritto all’integrità dell’opera (io autore posso senza che vi sia il mio consenso impedire che dall’opera sia ricavato opera in parte diversa che non rispecchi quello che l’autore voleva che quell’opera fosse). Essendo diritti morali non sono cedibili e non sono prescrittibili (io posso far valere il mio diritto morale sempre); diritti patrimoniali cioè dal riconoscimento della paternità dell’opera discende il diritto allo sfruttamento dell’opera in ogni sua forma. Quindi l’autore potrà tenersi ogni uso dell’opera per sé, potrà darla in licenza, può cedere una sola parte dei diritti dell’opera, può vendere ad esempio i diritti di traduzione cinematografica dell’opera (libro che diventa film) e quindi l’autore può sfruttare in modo diverso tutti i diritti che discendono dall’opera. Il nostro ordinamento a differenza di altri ordinamenti (quello USA prevede un cenno alla tutela d’autore) non ha un esplicito riferimento ai diritti d’autore. Tuttavia, ci sono norme costituzionali da cui si può ricavare implicitamente una tutela al diritto d’autore (es: art.4, art. 9 che prevede la tutela alla cultura e la garanzia della retribuzione ai creatori di opere dell’ingegno è una delle forme che incentiva questo lavoro, art. 21 che vuol dire anche libertà di creatività e chiaramente anche dalla libertà della espressione anche espressione artistica e culturale, è garantita anche dal fatto che chi vive di questo sia costretto di morire di fame, art. 33 la libertà dell’arte e della scienza, art. 35 richiama il diritto del lavoro, art. 41 e 42 che riguarda l’iniziativa privata etc.). Qualche forma di diritto d’autore, quindi, è imposta dalla nostra Costituzione. La normativa sul diritto d’autore poi si ritrova in concreto in una legge molto datata che è la L. 633\1941, che garantisce un bilanciamento tra diversi diritti. Un’opera è protetta dal diritto d’autore quando ha questi requisiti: • Carattere creativo dell’opera l’opera deve essere innovativa, differenziarsi dal patrimonio dello stato dell’arte. Deve essere un’opera nuova. Carattere creativo non significa che la nuova opera deve consentire un balzo culturale rispetto allo stato dell’arte, ma è sufficiente che ci sia qualcosa di nuovo, una innovazione; • Concretezza - il diritto d’autore non protegge l’idea in sé, non protegge la creazione pura, ma protegge la creazione quando questa viene in qualche modo sviluppata attraverso un linguaggio. Questo problema vale per alcuni tipi di opere su cui si discute quando sono o non sono protette dal diritto d’autore; • L’opera deve essere appartenente ad un determinato settore previsto espressamente dalla legge non tutte le invenzioni sono tutelate, ma solo quelle che appartengono a questi settori. Settori vasti, che includono opere letterarie, opere musicali, opere coreografiche (la cui traccia sia fissata per iscritto), opere artistiche (pittura, scultura, ecc.), opere architettoniche, opere cinematografiche, opere fotografiche, software e programmi per computer, le opere di disegno industriale. Se un’opera ha questi requisiti, sorgono diritti morali ed economici. I diritti patrimoniali sono qualsiasi diritto relativo all’opera di cui è titolare l’autore dell’opera. I diritti patrimoniali oltre ad essere cedibili, hanno un termine lungo (70 anni dopo la morte dell’autore o dopo la morte dell’ultimo autore), quindi diritto che va al di là della vita dell’autore. Si pone il problema che ci sono dei casi in cui è semplice identificare l’autore dell’opera, ci sono dei casi in cui l’opera è creata da più soggetti o comunque con diversi ruoli (es. film: più soggetti usano la creatività per dare vita ad un prodotto. In taluni casi la legge stessa prevede chi sia l’autore. Esempio: per i film l’autore dell’opera è il regista. L’ordinamento prevede infatti non solo la tutela all’autore, ma anche chi è titolare di diritti interconnessi (coloro che avendo contribuito alla realizzazione dell’opera non hanno un pieno diritto d’autore, ma diritto ad avere un compenso per la loro partecipazione). 8.4.1 Le origini del diritto d’autore e l’attuale statuto a livello sovranazionale e domestico La logica del diritto d’autore è da un lato una logica proprietaria ossia quella di proteggere l’autore di una determinata opera da l’uso abusivo da parte di terzi (prima logica: del diritto di proprietà su beni immateriale come ad esempio la canzone, musica) e logica che è il titolare dell’opera a decidere chi può utilizzarla e come. Nella storia della tutela del diritto d’autore ci sono due grandi modelli: 1. Il primo è il modello anglosassone, che si sostanzia nel Copyright Act approvato dalla Gran Bretagna nel 1709. La prima parte dello Statuto indicava esplicitamente come obiettivo l’incoraggiamento degli uomini istruiti a comporre e scrivere libri. 2. La circolazione dei modelli non si arrestò al contesto anglo-americano e raggiunse l’Europa continentale, dove a inaugurare un paradigma di tutela leggermente diverso da quello del copyright fu la Francia, primo paese a regolare il droit d’auteur. In più la Germania o meno l’Italia rapida successione anche gli altri stati europei iniziarono a dotarsi di una legislazione in materia. La tutela degli autori venne così affermandosi secondo due paradigmi: • Da un lato il modello del copyright che presuppone l’esperimento di una serie di formalità (in primis il deposito) affinché l’opera possa ritenersi tutelata; concepisce con maggior flessibilità le eccezioni fondate sulle libere utilizzazioni e tutela soltanto il diritto patrimoniale e non anche il diritto morale dell’autore. • Dall’altro, il modello del diritto d’autore, d’ispirazione francese e tedesca, all’opposto tutela l’opera a prescindere dall’adempimento di una serie di formalità per il solo fatto della sua creazione da parte dell’autore; concepisce le limitazioni diritto dell’autore in modo tassativo e non aperto e tutela sia il diritto patrimoniale sia quello morale dell’autore. Questo è un modello che si fonda su un sistema di licenze obbligatorie: l’autore di un’opera deposita questa opera presso un soggetto, il pubblico ad esempio, e nel momento in cui avviene questo deposito sorge il diritto ad una retribuzione per l’uso che terzi fanno di quell’opera. È un sistema di licenza obbligatoria. I terzi devono corrispondere al titolare del copyright una determinata somma. Sistema che permette la circolazione delle opere e consente all’autore di sfruttare economicamente la sua opera. Le differenze rispetto al sistema del copyright sono varie: • l’atto di nascita sull’opera: mentre il sistema del copyright il diritto nasce con il deposito, con questo sistema il diritto nasce dal momento in cui nasce l’opera. Non serve nessuna modalità di pubblicità dell’opera, nasce dalla creazione. • è un diritto di cui l’autore può disporre e che quindi non necessariamente deve consentire l’utilizzo a terzi tramite il consenso. Quindi, l’autore può disporre liberamente di questa opera. Questi due modelli sono diversi tra loro e per questo vi è necessità di una omogeneizzazione su alcuni aspetti. Già nel XIX Secolo vi furono infatti dei trattati internazionali che andassero a regolamentare il diritto d’autore, perché lo sfruttamento dei diritti d’autore va spesso oltre gli stati nazionali, come ad esempio nel caso della musica. Tra i più noti ricordiamo: • Convenzione di Berna, 1886 (tutela le opere letterarie e artistiche e fissa il principio di parità di trattamento tra opere nazionali e opere straniere); • Convenzione universale sul diritto d’autore, stipulata a Ginevra nel 1952: ripropone la convenzione di Berna ma facendo aderire anche paesi come USA e URSS, che non avevano siglato la precedente. • Convenzione di Stoccolma, del 1967, che istituisce l’OMPI (o in inglese WIPO), ovvero l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale. Questa organizzazione è responsabile della firma di due trattati, il WCT (WIPO Copyright Treaty) e il WPPT (WIPO Performances and Program Treaty), atti che hanno avuto il ruolo di spingere sia gli USA sia l’UE a normare il diritto d’autore anche a livello digitale e nel mondo del Web. Si deve inoltre evidenziare la carta dei diritti dell’Unione Europea che eleva la proprietà intellettuale a diritto fondamentale in base al paragrafo due dell’art.17 che tutela il diritto di proprietà. (Art. 17 - la proprietà intellettuale è protetta). Il giudice delle leggi ha inoltre evidenziato il poliedrico fondamento costituzionale del diritto d’autore e la pluralità degli interessi, il pieno sviluppo della persona, la promozione dello sviluppo della cultura, la libertà dell’arte e della scienza, la tutela del lavoro e della proprietà privata, la libertà di iniziativa economica. L’Autorità per le garanzie delle comunicazioni ha ritenuto necessario deliberare un regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica e procedure attuative ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2013, n.70 per la rimozione selettiva di contenuti o la disabilitazione all’accesso di siti internet in violazione del diritto d’autore. 8.5 Le piattaforme digitali e il diritto d’autore nella giurisprudenza della Corte di giustizia Il ruolo delle piattaforme digitali costituisce l’oggetto del dibattito sulla circolazione dei contenuti. Operatori come piattaforme di condivisione o social network offrono un servizio consistente nella memorizzazione permanente di contenuti ma hanno un carattere meramente tecnico, neutrale e passivo. Questi hosting provider si differenziano dagli editori ma una parte rilevante è soggetta a diritto d’autore. La Corte della giustizia si è soffermata sulla rilevanza del ruolo delle piattaforme ritenendoli responsabili in quanto esercenti di un’attività editoriale. L’attualità di questo dibattito si comprende data la profonda evoluzione che ha interessato le piattaforme digitali che tendono sempre più a instaurare un rapporto interattivo con gli utenti. Anch’essi possono quindi essere considerati responsabili per violazioni commesse dagli utenti. Un secondo tema emerso è stato l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza. Ma il filone rilevante è quello del vedere le loro attività come comunicazione al pubblico. Nel caso Svensson, la Corte di Giustizia ha dichiarato che la fornitura su un sito internet di collegamenti cliccabili verso opere protette disponibili lecitamente su un altro sito internet, dove sono liberamente accessibili, non costituisce un atto di comunicazione al pubblico. La Corte di giustizia ha scisso ed esaminato separatamente i due elementi di questa nozione, l’atto di comunicazione e la sua destinazione al pubblico. La Corte ha affermato che affinché il primo elemento sia integrato è sufficiente che l’opera sia messa a disposizione del pubblico in modo che gli utenti che lo compongono possano avervi accesso. La fornitura del link verso opere protette costituisce quindi senza dubbi una messa a disposizione e quindi un atto di comunicazione. Riguardo al secondo requisito, la destinazione al pubblico implica la diffusione a un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende un numero di persone considerevole. La Corte, tuttavia afferma che per trattarsi di un atto di comunicazione al pubblico è necessario che il pubblico sia nuovo, un pubblico che i titolari del diritto d’autore non avevano considerato al momento dell’autorizzazione. Tale elemento non ricorre nella fattispecie del linking poiché qui le persone non sono diverse o ulteriori da quelle che avrebbero potuto accedervi liberamente. Più recentemente, con il caso GS Media si è dichiarato che si parla di atto di comunicazione al pubblico quando la comunicazione non vene autorizzata dal titolare dei diritti. Si richiama la necessità di una valutazione individualizzata di ciascuna fattispecie che deve tener conto del ruolo dell’utente, il carattere intenzionale del suo intervento, la nozione di ‘pubblico’ comprensiva di un numero indeterminato e considerevole di potenziali destinatari, le modalità tecniche specifiche con cui la comunicazione al pubblico avviene e il carattere lucrativo della comunicazione. Questa sentenza si concentra maggiormente sul fatto che se il collegamento a un’opera liberamente accessibile sia effettuato senza scopi di lucro, l’autore del link potrebbe non essere a conoscenza del fatto che l’opera sia stata pubblicata senza l’autorizzazione del titolare dei diritti. La conoscenza invece si presume quando per effettuare il collegamento è necessario eludere le misure restrittive predisposte dal sito sorgente. È proprio in questo contesto che si raggiunge un pubblico ‘nuovo’. 8.6 L’enforcement del diritto d’autore in rete nel regolamento AGCOM L’avvento dei nuovi modelli di circolazione delle opere ha comportato una maggiore esposizione dei contenuti al rischio di utilizzazioni non autorizzate dai titolari dei diritti. In questo modo il fenomeno della pirateria è aumentato a dismisura, soprattutto con i nuovi metodi di veicolazione. Esempi sono i sistemi di condivisione peer to peer e le piattaforme user generated content. L’affermazione di queste modalità ha reso evidente la scarsa deterrenza ed efficacia dei tradizionali meccanismi di enforcement previsti. Alcuni passi sono stati già compiuti dalla Direttiva Enforcement del 2004 a fronte dell’arrivo delle tecnologie sinonimo di tutela della concorrenza. Il. Pluralismo sin attiene solo alla diversità dei contenuti messi a disposizione degli utenti. Infatti, se un mercato in aperta concorrenza può rappresentare un contesto favorevole ad un’offerta diversificata, le sue regole non bastano a evitare le concentrazioni. Il pluralismo deve invece impedire la costituzione stessa di posizioni dominanti nel settore dei media. In questa prospettiva, si è cercato di stabilire delle soglie di mercato, percentuali che individuino la quota di potere di mercato vietata. Questo sistema delle soglie è il principale strumento attraverso il quale si cerca di conseguire l’obiettivo del pluralismo esterno cioè quello di soddisfare attraverso la pluralità di voci concorrenti, il diritto del cittadino all’informazione. Il pluralismo esterno è dunque quello che si realizza attraverso la coesistenza di diverse iniziative editoriali, ciascuna delle quali è libera di perseguire il proprio rapporto di indirizzo politico e culturale e i propri obiettivi commerciali modulando e selezionando i contenuti della propria offerta informativa. Si ha quindi una concorrenza rinforzata o protetta volta ad evitare che una singola impresa sbaragli le concorrenti. In caso però di crisi da parte di un’impresa, il pluralismo esterno ricorre a strumenti ulteriori come forme di sostegno economico diretto (contributi pubblici erogati direttamente alle imprese) o indiretto (facilitazioni o estensioni) alle iniziative editoriali meritevoli. Può accadere infine che il pluralismo esterno non garantisce una rappresentazione di tutte le voci della società. Questo vale per il settore radiotelevisivo dove, gli elevati costi richiedono l’attivazione di misure ulteriori. Si persegue dunque con il pluralismo interno imponendo agli operatori di dare spazio all’interno della loro programmazione, alle voci che sono poco rappresentate in quanto considerate poco interessanti sul piano commerciale. La strada che comunemente si segue è quella di imporre obblighi ad un soggetto apposito, gestito dallo stato, dando vita ad un vero e proprio servizio pubblico radiotelevisivo. 9.3 Il diritto di accedere all’informazione e la sua effettività: il risvolto ‘sociale’ della libertà di espressione e il ‘diritto di accesso’. Il diritto di informarsi o essere informati comprende il diritto ad accedere alle informazioni senza che questo possa essere impedito da ingiustificate restrizioni. Occorre capire però se tale diritto di accesso si concretizzi solo nel divieto di apporre ingiustificati ostacoli legali o se non possa spingersi fino a imporre anche la rimozione degli ostacoli economici e sociali che impediscono un pieno ed effettivo accesso di ogni individuo all’informazione. Il compito di rimuovere ostacoli è attribuito alla Repubblica dall’art.3, comma 2, Cost. contenente il principio di eguaglianza sostanziale. Questo impone ai pubblici poteri di assicurare che l’accesso di tutti alle fonti di informazione avvenga a costi ragionevoli e senza essere impedito da ostacoli di ordine economico o sociale, gli strumenti giuridici attraverso cui tale obbligo può essere adempiuto sono i più vari e possono andare da forme di sostegno diretto o indiretto, sino all’imposizione di “obblighi di servizio” e, al limite, a forme di gestione diretta di determinati servizi o attività. Possiamo quindi dire che gli strumenti attraverso i quali la “Repubblica” può intervenire al fine di assicurare il diritto di tutti di accedere all’informazione sono molteplici e possono essere più o meno invasivi, rispetto all’autonomia privata, in relazione ad una molteplicità di circostanze relative alla situazione economica e alla evoluzione tecnologica. Ciò sconsiglia di ricorrere a concetti accattivanti ed innovativi a poveri di significato come accade quando si teorizza il diritto di accesso ad internet e se ne auspica l’inserimento nel testo costituzionale. 9.4 Infrastrutture (reti) e contenuti (e servizi): il fenomeno della convergenza dei media e le sue implicazioni; l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) Per molto tempo, nel parlare di “mezzi” per la manifestazione del pensiero ci si è riferiti a determinati apparati industriali e tecnologici come redazioni, case editrici, studi televisivi e radiofonici che producevano e successivamente diffondevano attraverso reti di trasporto fisiche o elettroniche, determinate tipologie di contenuti come giornali, libri o programmi. Analogamente, oltre che alla corrispondenza, ad ogni atra forma di comunicazione è stato a lungo inteso la corrispondenza cartacea da un lato e le comunicazioni telefoniche dall’altro. Prima dell’avvento della rivoluzione digitale, i mezzi di comunicazione e di manifestazione del pensiero sono stati caratterizzati da una corrispondenza rigida tra il tipo di infrastruttura tecnologica utilizzata e il tipo di messaggio o servizio veicolato. In altri termini, ad una infrastruttura di distribuzione corrispondeva un certo tipo di contenuto o servizio (nel caso della stampa, il libro o giornale veniva realizzato da apposite strutture, le redazioni o tipografie e distribuito attraverso una specifica rete di diffusione, punti vendita o centri postali). Come conseguenza, anche la regolamentazione giuridica era distinta in relazione alla tipologia del mezzo utilizzato. Con l’arrivo delle tecnologie invece, le barriere si sono infrante e un determinato prodotto o servizio ora può essere veicolato da una pluralità di infrastrutture e fruito attraverso molteplici e differenti terminali e viceversa, prodotti e servizi diversi possono essere veicolati tramite la stessa infrastruttura di rete o dispositivo. Questa interscambiabilità porta a delle nuove implicazioni regolamentari. In primis, la distinzione tra libertà di manifestazione del pensiero (art.21) e la libertà di comunicare riservatamente (art.15) tende ad entrare in crisi nel momento in cui, attraverso lo stesso dispositivo si possono esercitare entrambe. Sorgono problemi in riferimento all’inquadramento costituzionale di una determinata forma di comunicazione e alle relative garanzie. In secondo luogo, la possibilità di veicolare attraverso le medesime “reti di comunicazione elettronica” una pluralità indistinta di servizi e contenuti rende sempre necessario rivedere anche il relativo quadro normativo, regolando distintamente l’attività di gestione delle reti e quella di fornitura di contenuti e servizi al fine di assicurare una gestione trasparente e di evitare ingiustificate restrizioni. La possibilità di differenziare tra operatori di rete e fornitori di contenuti o servizi aumenta le possibilità di ingresso di nuovi operatori nel sistema presupponendo però, una gestione corretta e trasparente al fine di evitare che gli operatori approfittino della loro posizione per ostacolare l’accesso al mercato dei contenuti e dei servizi di soggetti a loro non collegati. La convergenza nella regolamentazione delle comunicazioni elettroniche, nella direzione della creazione di un mercato aperto e concorrenziale costituisce un obbligo derivante dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, obbligo che si compie in un pacchetto di direttive europee, un quadro normativo comune in materia di comunicazioni elettroniche. La necessità di regolamentare e “governare” un mercato di crescente complessità ha reso necessario costituire appositi organismi dotati di poteri regolamentari e di controllo al fine di assicurare una gestione corretta e trasparente del mercato e di evitare abusi e condotte anticoncorrenziali. In Italia, sin dalla l.249/1997, tale compito è attribuito all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che include una pluralità di compiti che tutelano l’assetto concorrenziale del mercato e l’utente a fronte di pratiche scorrette da parte degli operatori sia nel settore delle telecomunicazioni sia per la diffusione di contenuti scritti o audiovisivi. Un esempio può essere la tutela dei minori o quella degli utenti davanti alla comunicazione politica e alle regole della par condicio. Per quanto questa scelta di affidare delicate funzioni all’AGCOM sia condivisibile, ci sono perplessità derivanti dall’enorme ampiezza e varietà dei compiti che vanno sempre crescendo e riguardo alla significativa riduzione del numero di componenti dell’organo, nonostante l’elevata qualificazione e competenza dei funzionari presenti. Ad oggi, il settore delle comunicazioni elettroniche, pur affidato ad un’unica autorità, continua a non avere una disciplina unitaria: il settore delle telecomunicazioni trova disciplina nel codice delle comunicazioni elettroniche, i servizi audiovisivi e radiofonici continuano a far parte di una disciplina speciale contenuta nel testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici; la stampa, l’editoria, la comunicazione politica e il commercio elettronico invece contribuiscono a rendere il settore dei media maggiormente frammentato. 10. LA PROFESSIONE DEL GIORNALISTA 10.1 L’informazione come professione L’attività professionale dell’informazione rappresenta il watchdog, svolge una funzione di sorveglianza contro l'illegalità, secondo una definizione anglosassone («giornalismo cane da guardia») gode di uno statuto privilegiato per alcuni aspetti (le garanzie della stampa riguardo il sequestro), di obblighi più stringenti finalizzati a un’informazione corretta per il cittadino. L’operatore professionale si trova quindi davanti a due ordini di condizionamenti: verso l’utente e verso il datore di lavoro in quanto opera in una struttura economica finalizzata al profitto. È necessario quindi trovare un punto di equilibrio tra gli obblighi verso utenti e datore e la conservazione della sua libertà. I condizionamenti limitano ma non annullano mai la totale libertà del giornalista. 10.2 L’ordine dei giornalisti, origine, struttura, funzioni Nella maggioranza dei paesi europei ed anglosassoni, la disciplina giornalistica è posta in un codice di comportamento e nella libera associazione dei professionisti; l’intervento statale, quando non del tutto assente, si limita a regole minime. L’esperienza italiana è un caso unico dato dalla presenza di un soggetto pubblico che prende atto nell’ordine dei giornalisti cui è obbligatorio iscriversi se si vuole fare professionalmente l’attività giornalistica. Le funzioni dell’ordine sono la tenuta dell’albo, comprendenti la verifica dei requisiti per l’iscrizione, la gestione dell’esame di stato, la cancellazione dall’albo; il controllo del rispetto della deontologia professionale; la cura della formazione e aggiornamento professionale dei giornalisti. I primi progetti di riconoscimento della professione risalgono agli inizi del ‘900 con l’unificazione delle diverse associazioni di giornalisti (nate nella seconda metà dell’800) nella federazione nazionale della stampa italiana, sciolta poi dal regime fascista. Per il fascismo, la disciplina del giornalismo rappresentava lo strumento per il controllo della stampa: la legge 2307/1925 che prevedeva la creazione dell’albo e dell’ordine, stabiliva come requisito per la non ammissione l’aver svolto una pubblica attività contraria agli interessi della nazione, come requisito positivo la presentazione di un’attestazione di buona condotta politica (la revoca di tale attestazione prevedeva la cancellazione dall’albo e l’impossibilità di continuare a svolgere la professione). L’ordine non fu costituito e la tenuta dell’albo fu affidata al sindacato fascista dei giornalisti che aveva preso il posto della federazione. Questa si ricreò dopo la caduta del fascismo e si affidò la tenuta degli albi a una commissione unica con sede a Roma; poi con la legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista, si affidò l’albo a un ente pubblico associativo i cui organi direttivi sono designati con democratiche elezioni tra gli appartenenti alla categoria. L’ordine è articolato in consigli regionali ciascuno composto da 6 giornalisti professionisti e 3 pubblicisti eletti a scrutinio segreto dagli appartenenti alle categorie stesse, un consiglio nazionale composto da max 60 membri di cui 2/3 professionisti e 1/3 pubblicisti. L’albo è articolato in: elenco dei professionisti, elenco dei pubblicisti a cui si aggiungono: registro dei praticanti per il tirocinio obbligatorio di 18 mesi per diventare professionista elenco speciale per i giornalisti stranieri in Italia elenco speciale per i direttori responsabili di periodici o riviste a carattere tecnico – professionale – scientifico. Il professionista è colui che svolge l’attività in modo continuativo ed esclusivo (ciò non esclude che possa assumere altri incarichi occasionalmente) mentre i pubblicisti esercitano altre professioni; la semplice collaborazione occasionale non richiede l’iscrizione all’albo. Per l’iscrizione, ai professionisti si richiede l’età di 21 anni – il praticantato di 18 mesi presso una redazione, il superamento di una prova di idoneità professionale davanti ad una commissione (5 giornalisti professionisti e 2 magistrati) che consiste in una prova scritta e orale di tecnica e pratica del giornalismo integrata dalla conoscenza delle norme giuridiche. Per l’iscrizione dei pubblicisti si richiede la documentazione dello svolgimento di un’attività pubblicistica continuativa e retribuita per almeno due anni (alcuni ordini regionali prevedono anche un colloquio). Oggi il numero dei pubblicisti è oltre il doppio dei professionisti ma la maggioranza è nella pratica un giornalista professionista che però, a causa della difficoltà nel reperire una testata dove fare praticantato, ha scelto comunque di farsi riconoscere l’attività di pubblicista anche se svolgono l’attività in modo esclusivo. Per ovviare a tale situazione, l’ordine si è mosso adottando un’interpretazione più larga delle norme del praticantato (ricomprendendovi situazioni non per forza corrispondenti ai requisiti fissati) e promuovendo la creazione di scuole di giornalismo la cui frequenza è pari al praticantato e porta all’esame di stato (per i professionisti serve laurea + praticantato). Nessuna delle due è una soluzione risolutiva in quanto entrambi i punti presentano limiti (per il secondo sono le barriere all’ingresso per i numeri chiusi e per le tasse): per superare la distinzione si è varata la legge 198/2016 che ha ammesso che la professione giornalistica può essere esercitata anche da coloro iscritti tra i pubblicisti ma rimane ancora vago il modo in cui questo si possa conciliare con la definizione di pubblicista rimasta invariata. 10.3 Le funzioni disciplinari e la deontologia del giornalista: le carte e i codici di autodisciplina La legge istitutiva dell’ordine 69/1963 “ordinamento della professione giornalistica” prescrive all’art 2: - l’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui - rispetto della verità - lealtà e buona fede - rispetto del segreto professionale sulla fonte quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse - promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti ed editori, la fiducia tra stampa ed lettori. La rettifica è un obbligo è ripreso e disciplinato anche da altre fonti: la legge sulla stampa 47/1948 all’art 8 stabilisce che il direttore è tenuto a far inserire gratuitamente le rettifiche purché tali non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale. Specifica poi le tempistiche (non oltre i due giorni per i quotidiani), la collocazione (nella stessa pagina), la visibilità (con le stesse caratteristiche tipografiche), la lunghezza (max 30 righe); infine individua nel giudice ordinario la figura a cui far ricorso in caso di negazione della rettifica. A partire dal 1975 l’obbligo di rettifica (Intervento inteso a correggere o modificare una notizia o una dichiarazione) viene esteso anche alle testate radio televisive, con l’obbligo di non superare le 48h dalla data della richiesta, di inserirla in una fascia oraria di tale importanza rispetto alla notizia da rettificare; l’autorità competente ad accertare e sanzionare la violazione è l’AGCOM. I tentativi di estendere tale normativa anche al web non ha per ora avuto successo ma le testate giornalistiche registrate devono far riferimento ai criteri validi per la carta stampata. Comunque chiunque tratti dati personali ha l’obbligo di rettifica/modificare dei dati inesatti(sbagliati) che in caso di delle contravvenzioni commesse con le pubblicazioni nel suo giornale. La sostituzione ci fu con la legge 2307/1925 che volle fa coincidere la responsabilità di tale figura con l’effettivo potere di direzione del giornale. Il direttore oggi si occupa delle assunzioni, dei licenziamenti, dell’assegnazione delle mansioni ai redattori, dell’organizzazione e orario di lavoro, delle eventuali modifiche di forma in un articolo, decide se pubblicare o meno un articolo; è soggetto ad una speciale responsabilità penale per gli illeciti commessi attraverso la pubblicazione da lui diretta. L’attuale formulazione dell’art 57 c.p. è diversa da quella originaria: nell’originale, il direttore rispondeva (o in assenza vice) con l’autore per il solo fatto di essere direttore, senza quindi provare l’elemento soggettivo; ma questa versione andava contro il principio di personalità della responsabilità penale dell’art 27 cost. Con la sentenza 3/1956 si evidenzia che la responsabilità del direttore responsabile discende dalla violazione dei doveri di controllo e vigilanza impliciti nel suo potere di direzione (venne introdotta poi la legge 127/1958). Nel caso della stampa non periodica (es. libri), che quindi non prevede un diretto o un vicedirettore, le disposizioni si applicano all’editore se l’autore è ignoto o non imputabile o allo stampatore se l’editore non è indicabile o non imputabile. La corte costituzionale nella sentenza 44/1960 ha ritenuto infondata l’idea che l’obbligo di controllo imposto al direttore rappresenti una censura, appellandosi al fatto che le censure dell’art 21 è solo quella delle pubbliche autorità. Si è nel tempo analizzata sia la difficoltà del controllo nelle grandi testate ritenendo che sia ingiusto equiparare il controllo delle grandi con quello delle piccole testate, sia la disparità di trattamento rispetto ad altre imprese lavorative nelle quali si possono delegare funzioni di controllo. La sentenza 198/1982 poi evidenzia che l’impresa giornalistica non può essere considerata come le altre aziende in virtù dell’imperativo che sia sempre individuabile un responsabile; la corte riconosce anche la difficoltà di controllo in testate di grande dimensione e non esclude quindi soluzioni alternative: in realtà il direttore può indicare collaboratori per il controllo di singole parti, ma la responsabilità penale per omesso controllo è sempre sua. La sentenza delle sezioni unite penali della cassazione del gennaio 2015 n. 31022 ha adottato una nozione ampia di stampa comprendendovi qualsiasi strumento che abbia le caratteristiche strutturali e funzionali proprie della stampa (ovvero una struttura organizzativa professionalmente finalizzata alla diffusione di informazioni) e quindi le testate giornalistiche radiotelevisive e le testate telematiche registrate vi rientrino: ciò è stato ammesso dalla stessa corte di cassazione con la sentenza V pen. 11 dicembre 2017 n. 13398 con una precisazione ovvero che il controllo del direttore non si estende ai contenuti ulteriori non redazionali tipici delle testate telematiche che non possono essere controllate dalla testata stessa (tipo i commenti dei lettori). 10.7 La protezione delle fonti giornalistiche L’art 2 della legge 69/1963 sancisce il diritto – dovere di protezione delle fonti confidenziali sia per i giornalisti che gli editori. Fino al 1988, in presenza di fatti penalmente rilevanti, se fosse stato giudicato utile risalire alla fonte di notizie pubblicate da un giornalista, questo, poteva essere chiamato a testimoniare e, qualora si fosse rifiutato, poteva essere condannato per falsa testimonianza. La questione giunse alla Corte costituzionale di fronte alla quale venne sollevata la questione della mancata presenza dei giornalisti tra i soggetti che si possono astenere dal testimoniare riguardo informazioni rinvenute proprio grazie alla loro professione (troviamo medico – avvocato ecc.). Con la sentenza 1/1981 la corte diceva che la figura del giornalista non è equiparabile a queste altre figure: il segreto del giornalista protegge la fonte ma non la notizia (materia prima del giornalista) che anzi viene comunicata per essere divulgata; il segreto del medico invece è protetto perché in caso contrario il paziente potrebbe decidere di non farsi curare sacrificando così il diritto alla salute che è un diritto fondamentale sancito dall’art 32 cost. la protezione della fonte non è funzionale alla tutela di un diritto fondamentale. L’art 200 del nuovo codice penale del 1988 al comma 3 inserisce i giornalisti professionisti iscritti all’albo tra le figure che possono astenersi dal testimoniare a meno che il nominativo della fonte non fosse indispensabile ai fini della prova del reato: questa tutela è però affievolita rispetto ai medici o avvocati che invece non viene meno neppure dove l’acquisizione dell’informazione fosse indispensabile per concludere il processo. La giustificazione a ciò è che la fonte del giornalista non rischia alcun pregiudizio ai propri diritti fondamentali se esposto. Altra sentenza importante sul tema è quella della corte europea dei diritti dell’uomo, sent. Goodwin 27 marzo 1996: Goodwin era un tirocinante che era venuto in possesso di un dossier contenente informazioni sui problemi finanziari di una società e i documenti gli erano stati forniti illecitamente da un collaboratore di tale società. Essendo le informazioni di interesse pubblico, il giornalista volle pubblicarle non senza aver contattato i vertici della società per avere la loro versione. La società si rivolgeva al tribunale che emise un divieto preventivo di pubblicazione (contempt of court che in Italia però non è consentito per via delle restrizioni preventive) e volle sapere chi fosse stata la fonte. Il giornalista, essendosi rifiutato, fu condannato a pena pecuniaria e quindi si rivolse alla corte europea dei diritti dell’uomo. La corte affermò che la protezione delle fonti giornalistiche è essenziali perché senza protezione non ci sarebbero fonti e senza fonti non ci sarebbero alcune informazioni da garantire al pubblico. Tutto ciò esclude chi non sia iscritto all’albo ma anche pubblicisti e praticanti: quest’ultima scelta sarebbe giustificata sulla base del modo in cui la legge interpreta i due ruoli in quanto il praticante dovrebbe avere sempre un supervisore pubblicista non è quel tipo di giornalista alla ricerca di articoli di inchiesta, che lavora sul campo e cerca fonti. Solo che la realtà è diversa per la difficoltà di ricerca di testate per il praticantato. Per quanto riguarda il giornalismo occasionale, sui blog – forum – social, è meno scontato applicare la tutela delle fonti in quanto una indiscriminata estensione potrebbe portare ad abusi, da una parte rendendo più difficile l’accertamento dei reati quando necessario, dall’altra potendo essere utilizzata per diffondere fake news nascondendosi dietro l’anonimato delle fonti. La soluzione più corretta per quanto poco agevole è quella di riconoscere il diritto di anonimato delle fonti a chiunque eserciti l’attività di informazione in modo professionale, indipendentemente dalla qualifica di “professionista”: questa estensione si dovrebbe basare sul presupposto che costui sia capace di valutare l’interesse sociale dell’informazione così da giustificare eventualmente e giustamente l’anonimato della fonte, e l’attendibilità della stessa. Essendo nella realtà coloro che non sono giornalisti professionisti non protetti, non lo sono nemmeno coloro che, attraverso le diverse mansioni lavorative, entrano in contatto con i giornalisti e la fonte o comunque vengono a conoscenza della sua identità. Strumenti attraverso cui le autorità possono conoscere la fonte senza interpellare il giornalista sono perquisizioni e sequestri, intercettazioni telefoniche o telematiche, modalità di rilevazione dei movimenti e contatti del giornalista (es. geolocalizzazione): la giurisprudenza europea ha quindi affermato con la sentenza Roemen e Schmit Lussemburgo 25 febbraio 2003 che la relativa garanzia si estende anche su tali strumenti. Nel nostro ordinamento la giurisprudenza ha esteso la tutela delle fonti a perquisizioni e sequestro affermando che il provvedimento del sequestro deve essere specificamente motivato. Per le intercettazioni e gli strumenti per rilevare gli spostamenti e i contatti, l’art 271 del codice di procedura penale dispone il divieto di utilizzo delle intercettazioni per medici, avvocati ecc. escludendo i giornalisti. Nella sentenza Sanoma Uitgevers Olanda la corte europea afferma che il controllo sulla necessità e proporzionalità del superamento del segreto deve essere valutato da un giudice (organo indipendente e imparziali) e deve precedere l’acquisizione delle informazioni o del materiale. L’anonimato e protezione della fonte è fondamentale per i whistleblowers ovvero quei dipendenti di un’organizzazione che decidono di segnalare attività illecite all’interno dell’organizzazione stessa. I dipendenti pubblici e privati godono del diritto di espressione ma hanno anche un dovere di lealtà e riservatezza nei confronti dell’azienda, e quindi bisogna trovare il giusto bilanciamento affinché il whistleblowing sia giustificato: a) Occorre verificare che il dipendente non disponesse di un canale interno per la denuncia in quanto la divulgazione al pubblico è da considerarsi come ultimo rimedio b) Occorre valutare l’interesse pubblico dell’informazione c) Valutare l’autenticità dell’informazione d) Valutare che non ci sia un personale vantaggio per il whistleblower denunciando il fatto, perché altrimenti non ci sarebbe protezione In generale il tema del whistleblowing letteralmente significa, in inglese, “soffiatore di fischietto”. Ovviamente però, il termine ha assunto un significato differente, che va a indicare il dipendente pubblico che segnala un illecito di cui viene a conoscenza nel suo stesso ambiente lavorativo va oltre l’ambito del segreto giornalistico riguardando più in generale la protezione di chi decide di denunciare attività illecite: la tutela va quindi contro i licenziamenti o altre misure ritorsive; in altri ordinamenti poi (come negli USA) esistono legislazioni che premiano chi decide di denunciare. 11. LA DISCIPLINA DELLA STAMPA E LA SUA ESTENSIONE ALL’INFORMAZIONE IN RETE 11.1 La l.47/1948e la definizione di “stampa” La legge fondamentale in materia di stampa è la l.47/1948. Si tratta di uno dei due atti normativi approvati dall’Assemblea costituente in veste però di legislatore ordinario. Essa doveva essere una legge transitoria chiamata a risolvere le più urgenti questioni, tuttavia, diviene definitiva e sopravvive perfino ai ritocchi. Tale atto normativo offre la nozione di “stampa o stampato” (art.1), prescrive le indicazioni obbligatorie che gli stampati devono contenere (art.2), conferma la centralità della figura del direttore responsabile (art.3), impone l’obbligo di registrazione presso la cancelleria del Tribunale (art.5), disciplina l’istituto della rettifica (art.8), prevede in caso di diffamazione una riparazione pecuniaria e un’aggravante applicabile nell’ipotesi in cui venga attribuito un fatto determinato (art.12 e 13) nonché introduce il reato di stampa clandestina (art.16). Le disposizioni più rilevanti sono quelle dell’articolo 1 che recita: “sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”. Tale disposizione pone due condizioni perché una pubblicazione possa essere ricondotta entro la nozione di stampa: deve essere effettuata una riproduzione in numerosi esemplari e tale riproduzione deve essere destinata alla diffusione a un pubblico tendenzialmente distinto. Il concetto di “destinato alla pubblicazione” invece è meno netto. Il requisito prevede un numero non determinabile a priori di esclusivi destinatari e alto. L’articolo 2 invece comprende le indicazioni obbligatorie sugli stampati, impone che ogni stampato debba indicare il luogo e l’anno della pubblicazione, nonché il nome e il domicilio dello stampatore e, se esiste, dell’editore. Circostanza in linea con l’esercizio della libertà purché esso avvenga a viso scoperto. L’articolo prosegue con le indicazioni obbligatorie per i periodici, i giornali, le pubblicazioni delle agenzie d’informazioni e i periodici di qualsiasi altro genere. Essi devono recare l’indicazione del luogo e data pubblicazione, nome del domicilio dello stampatore e nome del proprietario e del direttore o vicedirettore responsabile. All’identità delle indicazioni, obbligatorie e non obbligatorie che contrassegnano gli stampati, deve corrispondere identità di contenuto in tutti gli esemplari. L’ordinamento prevede una disciplina particolare per i periodici. Essi sono sottoposti a un certo controllo da parte delle autorità. L’art. 2 menziona alcuni protagonisti dell’attività editoriale. Lo stampatore può essere anche solo il tipografo, ovvero il soggetto titolare dell’impresa che realizza materialmente lo stampato. Chi invece si occupa della creazione e vendita del prodotto e si assume il rischio dell’impresa editoriale è l’editore. Egli organizza l’attività, retribuisce i dipendenti, stipula contratti, propone abbonamenti e si accorda con i distributori. Allo stesso modo trae utili o subisce le perdite dall’attività editoriale stessa. Se possiede una propria stamperia può assommare su di sé anche la qualifica di stampatore. L’art.3 della legge stampa riguarda la figura del direttore responsabile. Una delle caratteristiche richieste dalla legge per ricoprire tale ruolo erano la cittadinanza italiana, sostituita poi da quella in un Paese dell’Unione europea e, secondo l’orientamento prevalente, anche extra europea. A seguire, la maggiore età, l’assenza di condanne particolarmente infamanti e non essere interdetto o inabilitato. Le funzioni invece sono quelle di essere penalmente responsabile, a titolo di colpa, per omesso controllo rispetto a qualunque illecito contenuto. L’art. 4 invece introduce la figura del proprietario della testata che deve avere i medesimi requisiti del direttore responsabile. Esso spesso coincide con l’editore. L’editore non proprietario invece paga un canone per utilizzare una testata e si impegna a restituirla alla scadenza. Una simile eventualità si può avere quando il nome di un periodico ha una forte attrattiva sul pubblico. I rapporti tra editore e direttore sono propri dell’attività giornalistica che possiede anche una parte esclusivamente intellettuale o creativa, la redazione. Riassumendo, al vertice c’è l’editore che può anche rimuovere il direttore se non concorda con la linea editoriale. Questo grazie ad un principio antico e solido, là dove c’è la responsabilità ci deve essere anche il potere. L’art.5 prescrive invece per ogni giornale o periodico l’obbligo di registrazione. Il periodico deve essere registrato presso la cancelleria del tribunale e nel deposito deve essere compresa una dichiarazione con firme autenticate di direttore e proprietario con nome, domicilio, titolo e natura della pubblicazione; i documenti attestanti i requisiti degli artt. 3 e 4; dichiarazione di iscrizione all’albo dei giornalisti se richiesto e copia dell’atto di costituzione dello statuto se l’editore è una persona giuridica. La registrazione non è un’autorizzazione ma una semplice verifica. L’istituto della rettifica è disciplinato all’art.8 che impone al direttore di fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o attribuiti atti o pensieri o affermazioni ritenuti lesivi alla la regola è che qualsiasi cosa è sequestrabile in presenza di presupposti, al contrario nessuno stampato è sequestrabile a meno che non sia espressamente previsto. Nel 2014 la Cassazione però afferma che le guarentigie previste per la stampa non sono applicabili alla rete. Poiché stampa e internet sono due fenomeni diversi, deve essere esclusa l’applicazione delle regole previste per la stampa alla rete, che si tratti di disposizioni incriminatrici o di favore, come le garanzie in maniera di sequestro. Poco più di un anno dopo, questo orientamento viene sconfessato e con sent.31022 si afferma l’estendibilità. Le Sezioni unite pronunciano due principi di diritto, il primo riguardava la possibilità di eseguire la misura ordinando ai provider di inibire l’accesso ai contenuti oggetto del provvedimento cautelare, determinando un oscuramento dei medesimi. Si affermava che il sequestro preventivo da applicare nel mondo digitale potesse investire la disponibilità delle risorse informatiche o telematiche ritenute non diverse dalle “cose” oggetto di sequestro nel mondo fisico, e altrettanto possa riflettersi in una inibizione di attività al fine di assicurare l’efficacia della misura. Il secondo invece affermava che la testata giornalistica telematica, in quanto assimilabile a quella tradizionale, rientri nel concetto più ampio di stampa e di conseguenza, il giornale online, al pari di quello cartaceo, non possa essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa. A scopo di evitare un contrasto con il principio di uguaglianza, la Corte mette in discussione un postulato, la diversità tra stampa e internet, sottolineando la necessità di rinnovare la nozione di stampa contenuta nell’art.1, l.47/1948. Da qui, le Sezioni unite introducono una inedita definizione di stampa, nozione da intendere in senso figurato, corrispondente all’informazione giornalistica professionale. Sono “stampa” tutti i giornali, tutti i media che diffondono informazione in modo professionale, siano essi su supporto cartaceo o su qualunque altro mezzo, compreso quello telematico. La conseguenza di tale adozione è che le guarentigie costituzionali possono essere applicate alle manifestazioni del pensiero online, purché diffuse da una testata che abbia un direttore responsabile e veicoli una informazione di tipo professionale. Si precisa poi che l’interpretazione evolutiva del concetto di stampa riguarda solo i giornali on line registrati e non anche gli altri strumenti di comunicazione presenti in rete, quali blog, forum e social network. In conclusione, la posizione espressa dalle Sezioni unite è la seguente: la stampa telematica, in ragione della coincidenza sotto profilo funzionale a quella tradizionale, non può essere sottoposta a sequestro preventivo, se non in casi eccezionali espressamente previsti dalla legge, e soggiace alle norme che disciplinano la responsabilità per gli illeciti commessi. Anche le Sezioni unite civili pronunciano il seguente principio: “La tutela costituzionale assicurata dal terzo comma dell’art.21 Cost. alla stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo e quindi sia caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una struttura con un direttore responsabile, una redazione ed un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione, finalizzata all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione qualificati. Pertanto, nel caso in cui sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie ivi pubblicate, il giornale pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto, in tutto o in parte, di provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione, ferma restando la tutela eventualmente concorrente prevista in tema di protezione dei dati personali”. Viene ribadito quindi quanto già affermato in sede penale in punto di estensione della garanzia all’informazione professionale online. Attraverso una mera interpretazione letterale della definizione di stampa, è possibile ricondurre entro il suo perimetro l’informazione professionale online. Il rischio è che la nuova giurisprudenza non ritenga che la nuova nozione di stampa sia limitata alle disposizioni di favore ma abbia portata generale. Una breccia nel sistema è stata aperta dalla sent.13398/2018 con la quale la V sezione della Corte di cassazione ha stabilito che il direttore di un giornale telematico registrato può essere chiamato a rispondere del reato di omesso controllo di cui all’art.57 c.p. ed è dunque responsabile come il direttore di un periodico cartaceo. In breve, sembra che la Corte abbia deviato in parte il suo orientamento che escludeva l’applicabilità delle disposizioni incriminatrici previste per la stampa alla rete. 12. RUOLI E RESPONSABILITA’ IN RETE 12.1 La società dell’informazione: la rete tra attori pubblici e privati Lo sviluppo di internet e delle successive tecnologie ha comportato il consolidamento della società dell’informazione. Tale espressione trova la sua matrice storica in quella di società “post-industriale” e indica una società di progresso e natura digitale. I dati sono il punto cardine di questa nuova economia ma una trasformazione del genere non sarebbe stata possibile senza internet, il canale di comunicazione globale. Esso si diffuse negli anni ’90 grazie alla creazione del World Wide Web. Il funzionamento della rete è reso possibile grazie all’uso di protocolli che identificano i vari dispositivi connessi in maniera univoca utilizzando un numero IP (Internet Protocol). Le risorse sulla rete invece sono individuate da una stringa di caratteri, il nome a dominio. Questa dimensione ha condotto ad interrogarsi sul ruolo di soggetti pubblici e privati nella governance di Internet. Se gli Stati hanno cercato di mantenere il loro potere, non sempre riuscendoci, i soggetti privati hanno invece esteso la loro area di influenza oltre i confini della loro sede. Il cyberspace viene considerato come un’entità autonoma e indipendente capace di imporre autonomamente i propri limiti al pari di uno stato sovrano. In altre parole, lo spazio digitale costituisce un altro territorio dove il potere è esercitato dagli utenti. Tuttavia, internet non risulta una realtà a sé stante e slegata dal mondo fisico in quanto necessita di un’infrastruttura per funzionare e impianti localizzati nel territorio degli Stati che sulla base di questo sono legittimati ad esercitare il loro potere. L’architettura della rete inoltre è gestita da codici e internet viene sfruttato anche a fini imprenditoriali. La transizione, il passaggio al mondo digitale ha permesso ad alcuni operatori definiti “over the top” di sfruttare le nuove tecnologie digitali e le infrastrutture già esistenti, questi OTT forniscono servizi in modo disgiunto dal trasporto dei dati e dalla gestione delle infrastrutture di rete senza costi a carico per la trasmissione. 12.2 Nozione e responsabilità dell’ISP: il quadro europeo e italiano Gli intermediari online invece, detti anche internet service provider (ISP), svolgono un ruolo di fondamentale importanza nel garantire l’accesso e l’utilizzo dei servizi online. Essi danno accesso, ospitano, trasmettono e indicizzano contenuti originati da terze parti o forniscono servizi basati su internet a terze parti. A differenza dei service provider, i fornitori rendono disponibili i contenuti attraverso i servizi dei service provider. Il punto di partenza per inquadrare i prestatori dei servizi della società d’informazione è costituito dalla direttiva 2000/31/CE, nota anche come direttiva e-commerce, strumento normativo volto a sottrarre ai prestatori di servizi forme di responsabilità che ne avrebbero segnato la loro stesa fine. Vengono così introdotte regole che condizionano la responsabilità del provider in modo coerente con la sua natura di mero intermediario. È possibile richiamare il considerando 42 della direttiva e-commerce secondo cui le deroghe riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Il che implica che il prestatore di servizi non conosce o controlla le informazioni trasmesse o memorizzate. In questo modo si distinguono tre tipi di prestatori di servizi. L’art.12 della direttiva e- commerce si occupa di disciplinare i prestatori dei servizi di semplice trasporto come anche la memorizzazione automatica, intermedia o transitoria delle informazioni trasmesse. Tale provider non è ritenuto responsabile quando non dà origine alla trasmissione, non seleziona il destinatario o non modifica le informazioni. L’art.13 invece disciplina i prestatori di servizi di memorizzazione temporanea. Esso non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea a condizione che non modifichi le informazioni, si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni, si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni, agisca prontamente per rimuovere le informazioni memorizzate o disabilitare l’accesso. L’art.14 definisce il regime di responsabilità dei prestatori di servizi di hosting. In quest’ultimo caso non è responsabile se il prestatore non è effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e non appena al corrente di tali fatti agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o disabilitarne l’accesso. La clausola finale è dettata dall’art.15 che vieta agli Stati membri di imporre ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni trasmesse. Tale approccio che riconferma la natura passiva degli intermediari non pregiudica la possibilità da parte degli Stati membri di introdurre nei confronti del provider obblighi di informazione alla pubblica autorità riguardo presunte attività illecite e obblighi di comunicazione di informazioni di identificazione. La direttiva e-commerce è stata recepita nell’ordinamento italiano dal d.lgs 70/2003. Il decreto negli artt. 16 e 17 stabilisce che gli hosting provider debbano informare prontamente l’autorità della presenza di informazioni o contenuti illeciti e rimuovere le informazioni o il contenuto illegali rilevanti dopo che l’autorità pubblica competente ha emesso un ordine specifico. Per questo il fornitore di servizi di hosting è responsabile quando non segnala prontamente, non rimuove tempestivamente il contenuto. Il decreto è più protettivo in questo caso in quanto stabilisce l’obbligo solo dopo l’ordine di un’authority. Tuttavia, l’autorità tutela i diritti di libertà, di iniziativa economica nel rispetto delle garanzie della Convenzione Europea come la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. 12.3 L’evoluzione della giurisprudenza a livello europeo e nazionale in materia di ISP Il mutamento della figura del provider, sempre meno passivo e neutrale, ha rimesso in discussione l’applicabilità delle regole che definiscono le loro responsabilità. L’evoluzione della struttura della rete ha stimolato riflessioni e ripensamenti circa l’adeguatezza della disciplina vigente. Un punto di svolta è stato tracciato nel 2010 dalla Corte di Giustizia dell’UE che ha fornito diversi spunti. Un esempio è il caso Google France dove ci si lamentava del fatto che selezionando parole chiave venissero visualizzati anche dei messaggi pubblicitari relativi a prodotti contraffatti o imitazioni. La Corte di Lussemburgo però afferma che l’attività del prestatore è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo e che non conosce e non controlla le informazioni memorizzate o trasmesse. Il presupposto necessario affinché il provider possa beneficiare dell’esenzione prevista da e-commerce è che esso agisca come un prestatore neutro. Infatti, il confine del regime di irresponsabilità coincide con la conoscenza dell’illiceità dei contenuti. Il provider esercita un controllo sui contenuti online quando conduce di sua iniziativa una ricerca atta a rilevare la presenza di contenuti illeciti o dopo la ricezione di una notifica da parte del titolare dei diritti pertinenti. Risulta essenziale che la notifica sia precisa e adeguatamente motivata come nel caso l’Oreal. Con riferimento alla distinzione tra service e content provider, nel caso Papasavvas, si lamentava della pubblicazione di alcuni articoli ritenuti diffamatori sul sito internet di un quotidiano nazionale. Una delle domande del giudice era rivolta a comprendere se i limiti alla responsabilità previsti dagli artt.12-14 fossero applicabili ad una casa editrice che disponeva di un sito internet. Viene stabilito che la casa editrice essendo un content provider soggetto a responsabilità editoriale e essendo a conoscenza delle informazioni pubblicate sul proprio sito, esercita un controllo su di esse e per questo non trova applicazione negli articoli precedenti. Nei casi Scarlet e Netlog si ha l’adozione da parte dei provider di un sistema preventivo di filtraggio. Tuttavia, ciò si poneva in contrasto con il divieto generale di sorveglianza sui contenuti memorizzati che avrebbe trasformato i due ISP in content provider. Di conseguenza il problema ruotava attorno alla proporzionalità di tali sistemi di filtering. La Corte, su questo punto, ha ritenuto l’ordine del giudice belga finanziato a imporre il filtraggio a tutti gli utenti, a titolo preventivo a spese esclusive del prestatore, e senza limiti nel tempo, in contrasto con il divieto di monitoraggio generale previsto dall’art.15. La Corte ribadisce anche che bisogna esprimere un corretto equilibrio tra la tutela del diritto d’autore e degli altri diritti fondamentali, giudicando incompatibile l’ordine imposto dai giudici nazionali nei confronti dei fornitori di servizi. Un simile sistema avrebbe condotto in primis ad una lesione della libertà di impresa dei provider, inoltre, la corte ha dato rilievo alla libertà di ricevere e comunicare informazioni e al diritto e alla tutela dei dati personali. Dopo il caso Telekabel, la Corte ha ritenuto, sulla base dei diritti fondamentali riconosciuti dalla legislazione dell’UE, che i giudici nazionali possono ordinare agli access provider di bloccare l’accesso ad un sito internet che metta in rete materiali protetti senza il consenso dei titolari dei diritti qualora il fornitore d’accesso dimostri di aver adottato tutte le misure ragionevoli. Vengono inoltre aggiunte due condizioni: le misure non devono privare inutilmente gli utenti della possibilità di accedere in modo lecito alle informazioni disponibili e devono impedire le consultazioni non autorizzate e scoraggiare seriamente gli utenti che ne ricorrono. Il caso Mc Fadden prevedeva un servizio wifi gratuito e non protetto per attirare i clienti nel negozio. Secondo la Corte egli svolge il ruolo di access provider e riconosce la possibilità per il titolare dei diritti di chiedere all’autorità nazionale competente di ordinare al fornitore di servizi di cessare la condotta illecita. Tuttavia, tale ingiunzione è compatibile con il diritto dell’Unione solo qualora il fornitore abbia la possibilità di scegliere le misure tecniche da adottare per conformarsi a tale ingiunzione. Il ruolo dei diritti fondamentali in relazione alle attività degli ISP risulta predominante anche nella giurisprudenza della Corte EDU che ha più volte affrontato il tema della pubblicazione dei commenti diffamatori su piattaforme online. Quindi, se da un lato le corti europee hanno svolto un ruolo 13. I SERVIZI DI MEDIA AUDIOVISIVI 13.1 Nascita ed evoluzione del sistema radiotelevisivo italiano: dalle origini alla fine del monopolio pubblico Il processo di convergenza dei media indotto dall’avvento delle tecnologie tende a ridurre le differenze tra i diversi strumenti tecnologici di diffusione del pensiero e sembra spingere della dimensione di una disciplina comune. Tuttavia, nel nostro ordinamento sono in vigore apparati riferiti a singoli media. Il più noto è quello delle disposizioni sulla stampa ma il più complesso è quello riferito alla radiotelevisione, oggi sotto il nome di servizi di media audiovisivi. In Europa, fin dalla sua nascita, la trasmissione di programmi radiofonici di informazione e intrattenimento attraverso le onde radioelettriche viene considerata un servizio pubblico, riservato allo stato che può svolgerlo direttamente o affidarlo a privati attraverso la concessione. In Italia però le radioaudizioni circolari sono attribuite in esclusiva allo stato. Inizialmente l’attività viene affidata in concessione ad una società privata appositamente costituita, l’unione radiofonica italiana, ma già pochi anni dopo la concessionaria viene posta sotto il diretto controllo dello Stato. La riserva sopravvisse alla caduta del regime fascista sicché quando si avviarono le prime trasmissioni televisive, anche esse ricaddero nell’ambito del monopolio pubblico e la E.I.A.R. (ente italiano audizioni radio) venne sostituita dalla R.A.I. (radio audizioni italiane), una società per azioni a totale partecipazione pubblica. Il monopolio pubblico viene messo in discussione per la prima volta quando una società privata impugna davanti al Consiglio di stato il provvedimento con la quale le era stato negato l’assenso alla realizzazione di una rete televisiva. Il Consiglio solleva la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt.21, 33 della Costituzione ma la Corte costituzionale, con la sent.59/1960 dichiara infondata la questione, giustificandosi con l’esigenza di scongiurare il formarsi di situazioni di monopolio o oligopolio privato. Il ragionamento si basa su due premesse: la prima costituita dalla scarsità delle risorse tecniche necessarie alla trasmissione e la seconda una considerazione di ordine economico ossia gli elevatissimi costi di costruzione e gestione di una rete televisiva, di gran lunga superiori a quelli di produzione e distribuzione di un periodico, il che riduce drasticamente il numero dei soggetti privati potenzialmente in grado di concorrere nell’offerta di programmi radiotelevisivi. Una situazione ritenuta incompatibile con la garanzia costituzionale dell’art.21, co.1, Cost., che garantisce a tutti l’accesso al mezzo e legittima, alla luce dell’art.43 Cost., la riserva dello stato dell’attività televisiva, in presenza di un’attività considerata “servizio pubblico essenziale” e dell’esigenza di evitare “situazioni di monopolio”. La Corte però effettua due importanti precisazioni. La prima è un chiaro monito al legislatore al fine di una sollecita riforma delle regole del servizio pubblico. La seconda precisazione riguarda la ripetizione in Italia di programmi stranieri: secondo la Corte, tale attività non dovrebbe considerarsi vietata in quanto significherebbe impedire la libera circolazione delle idee. Tuttavia, questa attività potrebbe essere sottoposta ad un regime di autorizzazione ma non si giustifica una riserva alla Stato che implica una definitiva e radicale esclusione del diritto del singolo. Perciò l’esclusiva statale viene definita incostituzionale. In base alla stessa logica, la sent.226/1974 dichiara incostituzionale anche la riserva allo Stato concerne la trasmissione di programmi radiotelevisivi effettuata via cavo in ambito locale: la realizzazione di impianti via cavo di dimensioni contenute non incontra limitazioni di ordine tecnico ma non presenta neanche costi proibitivi. La dichiarazione di incostituzionalità delle norme che vietano la ripetizione di programmi stranieri e quelle relative alle trasmissioni via cavo locale rappresentano le prime significative crepe del monopolio, crepa che si ingrandisce con la dichiarazione di incostituzionalità della riserva allo stato dell’attività radiofonica attraverso frequenze radioelettriche a livello locale. Il ragionamento è lo stesso che aveva ispirato la decisione relativa alla televisione locale via cavo, laddove le frequenze disponibili siano in numero sufficiente a permettere la coesistenza di un adeguato numero di emittenti, e i costi non siano insostenibili per un privato, la giustificazione del monopolio viene meno. La Corte mantiene pertanto il monopolio pubblico limitatamente al livello nazionale mentre dichiara incostituzionale la riserva allo stato in ambito locale. La decisione però porterà alla proliferazione di iniziative private tra le quali emergeranno soggetti che attraverso l’interconnessione daranno vita alle prime reti radiotelevisive private operanti a livello nazionale. Alla metà degli anni ’80, a causa dell’inerzia del legislatore, il mercato della radiotelevisione si configura come un anomalo duopolio in cui all’emittente di servizio pubblico si contrappone un unico potente soggetto privato che controlla al pari della R.A.I., tre canali. Gli altri soggetti invece avranno sempre una posizione marginale sia dal punto di vista degli ascolti che da quello di forza economica. Tutto questo si consolida in una situazione di vuoto legislativo e di sostanziale illegalità, dunque, le emittenti private nascono, crescono e si fondono tra loro appropriandosi delle frequenze disponibili senza alcuna razionale pianificazione. Nel frattempo, però, da parte della Corte costituzionale si registra un mutamento di posizione, fino ad allora si dava per scontato il problema di monopolio privato ma tale esito, con la sent.148/1981, viene presentato non più come certezza ma come un rischio che potrebbe essere scongiurato con un idoneo quadro normativo finalizzato a impedire fenomeni di concentrazione. La riserva resterà in vigore solo sulla carta. È alla fine degli anni ‘80 con la sent.826/1988 che la Corte, pur senza porre fine al regime transitorio, rivolge un pesante monito al legislatore affinché detti nuove regole a partire da quelle per impedire la formazione delle posizioni dominanti. Viene anche precisata la dottrina del pluralismo distinguendo tra interno ed esterno e precisando i contorni del sistema radiotelevisivo misto caratterizzato dalla compresenza di un polo pubblico e di una pluralità di operatori privati in concorrenza tra loro. 13.2 Dalla legge “Mammì” al Testo unico Dopo non poche vicissitudini che portarono anche sull’orlo di una crisi di governo, si giunge all’approvazione della prima legge sul sistema radiotelevisivo misto, la l.223/1990 detta legge Mammì. Essa, oltre a recepire la direttiva comunitaria 89/552/CEE, direttiva Tv senza frontiere, tenta di dare attuazione alle indicazioni della Corte costituzionale predisponendo un sistema di pianificazione e assegnazione delle frequenze accompagnato dalla previsione di una serie di “soglie” volte a scongiurare la nascita di posizioni dominanti, il problema è che queste si erano ormai consolidate perciò il meccanismo di soglie fissato dalla l.223/1990 si rivelò inefficace e fu presto travolto dalla Corte costituzionale con la sent.420/1994. Le indicazioni furono accolte con la successiva l.249/1997 detta “Maccanico” ma sia le nuove soglie che la nuova pianificazione delle frequenze rimasero sostanzialmente improduttive di effetti. Si giunge così al nuovo millennio caratterizzato da due eventi decisivi. Da un lato si ha la nascita di una importante piattaforma satellitare per la trasmissione di programmi a pagamento, dall’altra l’avvento della tecnologia digitale destinata a rivoluzionare le modalità di trasmissione di programmi radiotelevisivi attraverso le frequenze radioelettriche terrestri. Gli aspetti di novità sono molteplici, ogni frequenza consentiva la trasmissione di un solo programma televisivo e una rete poteva ospitare un solo palinsesto mentre con la tecnologia digitale, un’unica frequenza può convogliare più programmi differenti ordinabili in distinti palinsesti e riducendo le interferenze. A parità di frequenze disponibili, si realizza un numero maggiore di reti con un incremento di capacità trasmissiva da poter utilizzare sia per la diffusione di nuovi programmi che per servizi diversi. In altre parole, la capacità trasmissiva viene più che decuplicata. Questa trasformazione ha implicazioni decisive anche per i diversi soggetti. Mentre prima il proprietario e gestore della rete coincideva con l’editore del palinsesto, ora le due figure si separano potendosi avere sia gli operatori di rete che non editano programmi, sia editori di programmi che non dispongono di una rete propria, sia soggetti che rivestono entrambi i ruoli. La l.112/2004 “Gasparri” interviene a disciplinare il passaggio alla nuova tecnologia, sia l’assetto, a regime del nuovo sistema, che vede la televisione digitale “terrestre” concorrere con le ulteriori piattaforme rappresentate dal satellite e dal cavo. Opera tramite un testo non nuovo ma modifiche alla legislazione preesistente e in essa è contenuta una delega al Governo per l’adozione di un successivo testo unico che sarà emanato nel 2005 con la denominazione di “Testo unico della radiotelevisione” e che sarà ulteriormente modificato con il “decreto Romani” che ne modificherà il nome in “Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, TUSMAR”. Le ripetute modifiche legislative hanno lo scopo di adeguarsi alla incessante evoluzione del quadro normativo UE, evoluzione che ha visto la direttiva “Televisione senza frontiere” oggetto di una prima revisione con la direttiva 2007/65/CE che ne modifica il nome in “direttiva sui servizi di media audiovisivi”. 13.3 Dalla radiotelevisione ai “servizi di media audiovisivi” Il mutamento di terminologia implica la consapevolezza che la circolazione avviene attraverso una pluralità di piattaforme e tecnologie. Vengono ricompresi i servizi lineari volti alla visione simultanea e non lineari o a richiesta che consentono la visione di programmi al momento scelto dall’utente e su sua richiesta in base ad un catalogo. Ulteriore aspetto importante è che i servizi possono essere erogati attraverso qualsiasi rete di comunicazione elettronica attraverso una pluralità di terminali. Questo però implica una problematica, delimitare l’area di applicazione della disciplina dei servizi. Si può dire dunque che gli elementi essenziali sono rappresentati dall’utilizzo di reti di comunicazione elettronica per fornire contenuti o servizi di informazione, intrattenimento o istruzione con l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi, sia sull’organizzazione evidenziando il carattere commerciale, imprenditoriale e professionale dell’attività. Dovrebbero quindi essere escluse tutte quelle attività il cui gestore non ha un controllo sui contenuti e tutte le attività svolte in forma amatoriale o occasionale o accessorie. Un altro aspetto che differenzia la disciplina dei servizi di media audiovisivi è la nozione di emittente a favore della differenziazione tra i due livelli, la gestione delle reti e la fornitura di servizi. Il TUSMAR distingue la figura di operatore di rete inteso come titolare del diritto di installazione, esercizio e fornitura di rete e quella di fornitore di servizi di media cioè persona fisica a cui ricondurre la responsabilità editoriale del contenuto. Quanto alle modalità di assegnazione delle frequenze, viene detto che deve avvenire secondo criteri pubblici, obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati. È poi l’AGCOM ad aggiornare i piani nazionali di assegnazione delle frequenze radiofoniche e televisive in tecnica digitale garantendo un uso efficiente e pluralistico della risorsa elettronica, una uniforme copertura, una razionale distribuzione delle risorse fra soggetti operanti in ambito nazionale e locale e una riserva in favore delle minoranze linguistiche. 13.4 Le misure a tutela della concorrenza e del pluralismo Anche le regole a tutela della concorrenza e del pluralismo subiscono un sostanziale cambiamento. Riguardo il possesso di reti e emittenti, lo TUSMAR differenzia nettamente il piano della gestione delle reti e quello di fornitura di servizi, affidando il primo alle regole generali della concorrenza, limitando al settore della fornitura di servizi la previsione di specifiche soglie. Le risorse economiche invece vengono estese. Le norme a tutela del pluralismo e della concorrenza rinvengono nell’art.5 che enuncia i principi generali. A nessuna emittente possono essere rilasciate autorizzazioni che consentono di diffondere più del 20% del totale dei programmi irradiabili. Il sistema ha una sua logica, conta che la posizione dominante non si rifletta anche sul mercato dei servizi. Tale sistema però funziona solo a condizione che gli operatori di rete non abusino della loro posizione. Per questo è necessario assicurare trasparenza sulle condizioni contrattuali affinché l’autorità di vigilanza, l’AGCOM possa individuare e sanzionare eventuali condotte scorrette. Proprio per questo, il TUSMAR pone obblighi di separazione contabile e societaria, cioè esercitare l’attività di operatore di rete e fornitore di servizi con due differenti soggetti giuridici. Quanto alle soglie delle risorse economiche, l’art.43 del TUSMAR applica anche qui la soglia del 20% definendo posizioni dominanti ricavi superiori al 20% dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni, sistema che comprende stampa quotidiana e periodica, editoria annuarisica ed elettronica, radio e servizi di media audiovisivi, cinema, pubblicità esterna, iniziative di comunicazione di prodotti e servizi, sponsorizzazioni. Nel complesso, il TUSMAR tiene fede all’impostazione per cui nel settore delle comunicazioni la comune disciplina della concorrenza e del mercato non è sufficiente e ad essa si deve affiancare un più articolato sistema di limiti a garanzia del pluralismo. Tuttavia, lo stesso sistema di soglie suscita perplessità, la percentuale dei programmi irradiabili non pare idonea a scalfire la posizione di dominanza detenuta dai protagonisti del duopolio nel settore della televisione su frequenze terrestri. Sia perché la posizione dominante rimane preponderante, sia perché in una situazione di risorse economiche limitate, gli spazi rischiano di restare inutilizzati. Un esempio è la vicenda di Centro Europa 7 che evidenzia le clamorose violazioni dei principi del diritto UE e come una semplice ridistribuzione delle frequenze non sarebbe probabilmente sufficiente per incrementare il pluralismo esterno. La crisi economica inoltre affligge anche il settore della televisione in chiaro cioè finanziata dalla pubblicità. Le risorse pubblicitarie tendono a spostarsi verso la rete che assicura maggiori risultati con minor investimenti. Si ritiene dunque che le chances di evoluzione in senso pluralistico e di incremento della concorrenza siano legate allo sviluppo di nuove piattaforme e alla crescita della fruizione di contenuti on demand. 13.5 La disciplina dei contenuti: regole a tutela degli utenti, in particolare in materia di informazione e di comunicazione pubblicitaria, e regole a tutela dei minori Il TUSMAR detta poi u ulteriore serie di regole e principi relativi ai contenuti veicolati. Tali regole si applicano a tutte le tipologie di servizi di media audiovisivi e radiofonici mentre altre solo ai servizi lineari con frequenze terrestri. Con riferimento all’attività di informazione , l’art.7 la definisce servizio di interesse generale e prescrive debba garantire la presentazione veritiera dei fatti, la trasmissione quotidiana di telegiornali o giornali radio, l’accesso di tutti i soggetti politici in condizioni di parità di trattamento e imparzialità, la trasmissione di comunicati e dichiarazioni ufficiali degli organi costituzionali, il rispetto del divieto di utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile allo spettatore il contenuto delle informazioni. A tali obblighi, gli artt.32 e ss. Ne seguono altri come facilitare la • La diffusione di tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche di pubblico servizio della società concessionaria con copertura integrale del territorio nazionale; • La trasmissione di un numero adeguato di ore di trasmissioni televisive e radiofoniche dedicate all’educazione, informazione, formazione, promozione culturale, valorizzazione delle opere teatrali, cinematografiche, televisive, musicali; • La diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive per le minoranze linguistiche; • La trasmissione gratuita di messaggi di utilità sociale ovvero di interesse pubblico; • La trasmissione in orari appropriati di programmi per minori; • La presenza in ogni regione e provincia autonoma di redazioni e strutture adeguate. L’art.45 non esaurisce i compiti della Rai ma ne delimita il contenuto minimo inderogabile. Altri atti individuano ulteriori diritti e obblighi come la convenzione annessa alla concessione e i contratti di servizio. 14.5.2 La natura giuridica della Rai Il carattere ibrido della Rai in quanto società commerciale con capitale in mano pubblica e concessionaria esclusiva, si riflette nell’incertezza della qualificazione giuridica quale soggetto privato o ente pubblico. Resta che la Rai sia preferibilmente da qualificarsi come ente privato sui generis con statuto normativo peculiare, con capitale azionario in mano pubblica ma che potrebbe essere ceduto a soggetti privati. 14.5.3 Le fonti del finanziamento della Rai La Rai è la più importante azienda culturale italiana, con 13 canali televisivi e otto testate giornalistiche. Inoltre, svolge altre molteplici attività, tutte finanziate sulla base di un sistema misto, privatistico derivante dalla pubblicità e dal canone di abbonamento. La Rai non può utilizzare direttamente o indirettamente i ricavi derivanti dall’abbonamento per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo. Perciò il finanziamento pubblico è una condizione necessaria per assicurare l’autonomia del servizio pubblico. Con la l.28 dicembre 2015, n.208 viene introdotta una nuova modalità di riscossione che ha ridotto il tasso di evasione, presumendo la detenzione di un apparecchio atto alla ricezione del segnale radiotelevisivo nel caso di esistenza di un’utenza per la fornitura di energia elettrica. 14.6 Le regole del sistema di governo 14.6.1 La l.220/2015 e la “nuova” governance della rai Tra le norme più rilevanti vi sono quelle sulla governance, sulla designazione degli organi che devono guidare la concessionaria e la distribuzione dei poteri tra gli stessi. La l.112/2004 Gasparri aveva restituito al governo e alla commissione parlamentare di vigilanza la funzione di designare i componenti del Consiglio di amministrazione, il cosiddetto metodo della lottizzazione. Veniva assegnato al governo un ruolo determinante nelle nomine e il Consiglio di amministrazione d’intesa con l’assemblea nominava anche il direttore generale. La l.220/2015 introduce alcune novità circa i criteri di composizione del consiglio di amministrazione della Rai e istituisce l’inedita figura dell’amministratore delegato. Essa modifica il numero dei membri del C.d.A passando da 9 a 7. Per essere eleggibili, i consiglieri devono avere i requisiti per nomina a giudice o essere comunque persone onorabili o prestigiose. Vengono introdotte cause di ineleggibilità prevedendo che non possono essere eletti ex ministri, sottosegretari e così via. Si prevede anche che non debbano esserci conflitti di interesse. Ci deve inoltre essere equilibrio tra i sessi. 14.6.2 Il sistema di nomina del consiglio di amministrazione Il cambiamento più rilevante concerne la definizione del sistema di nomina dei componenti e del presidente del consiglio di amministrazione. La l.220/2015 prevede che il consiglio di amministrazione sia composto da sette componenti, nominati due dalla Camera dei deputati e due dal Senato, due dal Consiglio dei Ministri e uno dall’assemblea dei dipendenti della Rai. Per quanto riguarda i soggetti titolari del potere di nomina, si ha uno spostamento nella direzione del Governo. La prevalenza netta è quella di consiglieri di nomina direttamente politica. Ulteriore novità riguarda gli organi titolari del potere di nomina. Essi non sono più eletti dalla Commissione parlamentare ma dall’intera Assemblea, due dalla camera e due dal senato. Il consiglio di amministrazione designa poi il presidente. La nomina diviene efficace dopo l’acquisizione del parere favorevole espresso a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, della Commissione parlamentare di vigilanza. Il presidente ha un ruolo depotenziato. La revoca dei consiglieri di amministrazione è deliberata dall’Assemblea e acquista efficacia a seguito del giudizio della commissione parlamentare. 14.6.3 La nuova figura dell’amministratore delegato L’aspetto più rilevante è l’istituzione della nuova figura dell’amministratore delegato che sostituisce il direttore generale. Esso viene nominato su proposta dell’assemblea dei soci, dal consiglio di amministrazione tra i propri componenti. Resta in carica per tre anni salvo revoche. Non è prevista alcuna maggioranza qualificata per la nomina dell’amministratore delegato, si ha un evidente vicinanza dell’A.D. rispetto all’esecutivo. Egli deve rispondere al consiglio di amministrazione in merito alla gestione aziendale e può essere revocato dal consiglio stesso sentito il parere dell’assemblea. 14.6.4 La distribuzione dei poteri tra gli organi della Rai Il legislatore non si è limitato ad attribuire all’amministratore delegato maggiori poteri e autonomia rispetto al direttore generale. Egli è incaricato della gestione ordinaria e responsabile di fronte agli azionisti del rispetto degli obiettivi economici e di corretta amministrazione. Con la trasformazione della Rai in una media company con più piattaforme diventa una figura vertice.
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