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Diritto dell'Unione Europea, Daniele Edizione 2020, Sbobinature di Diritto dell'Unione Europea

Il documento riporta un riassunto dettagliato di 70 pagine del libro di Luigi Daniele, ultima edizione quindi riportante le ultime riforme e accenni alla pandemia del COVID-19

Tipologia: Sbobinature

2020/2021

In vendita dal 26/01/2021

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Scarica Diritto dell'Unione Europea, Daniele Edizione 2020 e più Sbobinature in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Luigi Daniele- Settima Edizione (2020) INTRODUZIONE 1. Le esperienze di integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa Fino a qualche anno fa il processo di integrazione europea veniva visto come un qualcosa di positivo. Italia vista come Stato fondatore che ci inorgogliva perché eravamo protagonisti di una storia che ci lanciava verso un’emancipazione e progresso elevati. Oggi l’atmosfera è cambiata. Il flagello della guerra aveva colpito per due volte le stesse generazioni. Ciò stimola voglia di cooperazione tra stati. Il centro propulsivo delle relazioni internazionali si sta spostando dall’Europa verso altre zone del mondo. L'origine concreta dell'inizio dell'integrazione europea è da individuarsi alla fine della seconda guerra mondiale. Inizialmente coinvolge solo l'Europa occidentale (gli Stati dell'Europa orientale fanno riferimento infatti all'Unione Sovietica). Dopo il 1989 (caduta muro di Berlino) e 1991 (scioglimento Unione Sovietica) si estende all'intero continente. L'integrazione dell'Europa occidentale segue due metodi: Cooperazione intergovernativa (metodo tradizionale): gli Stati partecipanti cooperano tra loro come soggetti sovrani, creando apposite strutture per organizzare tale cooperazione. Caratteristiche: - prevalenza di organi di Stati: seguono le direttive degli Stati cui appartengono. - prevalenza del principio di unanimità: ciascuno stato ha il potere di opporsi (diritto di veto) - assenza/rarità del potere di adottare atti vincolanti: le deliberazioni hanno per lo più natura di raccomandazioni. Il primo settore in cui il metodo della cooperazione intergovernativa trova applicazione è la cooperazione militare:  Unione dell'Europa Occidentale (UEO): fondata con il trattato di Bruxelles (17 marzo 1948) composta da un totale di 28 Stati (di cui 10 membri a pieno titolo, altri partecipano come osservatori, altri godono dello status di membri associati). Organo principale è il Consiglio composto dai rappresentanti permanenti degli Stati o dai ministri degli Esteri e della Difesa. Rivitalizzata nel 1984 è divenuta lo strumento attraverso cui attuare la componente relativa alla sicurezza e alla difesa comune della PESC (prospettiva abbandonata nel 1991). L’organizzazione è stata effettivamente sciolta il 30 giugno 2011.  Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO): fondata con il trattato di Washington (4 aprile 1949) non è un'organizzazione europea in senso geografico (dato che vi aderiscono anche Stati Uniti e Canada) ma il teatro d'operazione più importante è costituito dal territorio degli Stati dell'Europa occidentale. L'organo principale è il Consiglio del Nord Atlantico, composto dai rappresentanti permanenti o dai ministri degli Esteri e Difesa, o dai capi di Stato e di Governo. Il secondo settore riguarda l’integrazione economica:  Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE): nasce dall'esigenza di coordinare gli aiuti destinati all'Europa dal Piano Marshall da parte degli Stati Uniti, fra tutti gli Stati beneficiari. L'organo principale è il Consiglio, composto da un rappresentante per ogni Stato membro. Può emanare anche decisioni vincolanti per gli Stati membri. Esauritasi la funzione originaria, l'OECE avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio: alcuni Stati optano per forme di integrazione ancora più spinte, nascono quindi le tre Comunità europee, mentre altri restano nell'ottica di una semplice zona di libero scambio, istituendo l'EFTA (con la conferenza di Stoccolma del 4 gennaio 1960). L'OECE si trasformerà in OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): con obiettivi di cooperazione economica globale e non più regionale. E infine il terzo settore riguarda la cooperazione politica, culturale e sociale:  Consiglio d’Europa: è un’organizzazione che ha il compito di conseguire un’unione stretta tra i suoi membri, di salvaguardare e attuare gli ideali e i principi che costituiscono il loro patrimonio comune e di facilitare il progresso economico e sociale. L’ organo principale è il Comitato dei ministri, composto dai ministri degli Esteri degli Stati membri o dai loro rappresentanti permanenti. Strumento di azione principale consiste nel predisporre e favorire la conclusione di convenzioni internazionali tra gli Stati membri, spesso aperte anche all’adesione di Stati terzi (atti che necessitano di ratifica per essere attuati). Le convenzioni concluse in seno a questa organizzazione sono numerose, la più rilevante è la CEDU: Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 4 novembre 1950) che comprende un catalogo dei diritti dell’uomo comune a tutti gli stati contraenti e un meccanismo di controllo internazionale del rispetto di tali diritti imperniato sulla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo con giudici che provengono dagli stati membri a cui può rivolgersi chiunque se si vede violati da parte di qualcuno i diritti fondamentali. 2. L’integrazione secondo il metodo comunitario: le origini Il metodo della cooperazione intergovernativa permette agli Stati dell’EU Occidentale di conseguire importanti risultati ma tuttavia gli strumenti di cooperazione presentano punti di debolezza, così si pensa ad un metodo innovativo per superare l’unanimità attribuendo maggiore autonomia alle organizzazioni. Metodo comunitario (metodo innovativo) Caratteristiche: - prevalenza degli organi di individui: le persone che siedono nella maggior parte delle istituzioni comunitarie rappresentano se stessi e compiono scelte in modo indipendente (indipendenza sancita nei Trattati istitutivi) - prevalenza del principio maggioritario: viene ridimensionato il principio dell’unanimità, deliberazioni a maggioranza (di solito qualificata). Il consenso di tutti non è più condizione indispensabile ma le azioni dell’organizzazione vincolano anche gli Stati che hanno votato contro l'approvazione (la minoranza) - ampiezza del potere di adottare atti vincolanti: non solamente atti di natura raccomandatoria ma atti vincolanti che creano obblighi a carico degli Stati membri. - sistema di controllo giurisdizionale di legittimità: nei confronti degli atti delle istituzioni a carico di un organo inserito nell’organizzazione. -partecipazione democratica dei cittadini: condizione indispensabile dell’attribuzione all’organizzazione di poteri vincolanti. La nascita del metodo comunitario è tradizionalmente fatta risalire al 9 maggio 1950 (Giornata dell'Europa). A quel giorno risale la Dichiarazione Schuman (Rober Schuman ministro degli esteri francese): propone una dichiarazione che è ricordata come atto fondativo dell’unione europea e parla di un'Europa organizzata e vitale che sorgerà attraverso realizzazioni concrete che creino una solidarietà di fatto (c.d. Europa dei piccoli passi). Ci si rende conto che gli stati si son fatti la guerra fino a poco tempo prima e bisogna fare nuovi rapporti su basi diverse. Il Governo francese propone l’istituzione di un’alta autorità a cui vanno ricondotte le produzioni franco-tedesche di carbone e acciaio e la scelta del settore carbo-siderurgico viene giustificata n primis in relazione alla circostanza che i siti di produzione di tali materie si concentrano nella fascia di confine tra i due Paesi e in secudins dal fatto che carbone e acciaio sono i principali elementi per la produzione di armamenti quindi la gestione comune impedirebbe un riarmo segreto di uno dei due paesi.  Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nasce il 18 aprile 1951 con il trattato di Parigi e da qui nasce l’Europa comunitaria. Ne fanno parte 6 stati: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi bassi. Essa istituisce un mercato comune del carbone e dell'acciaio (libero scambio, divieto di discriminazioni, divieto di sovvenzioni e aiuti statali alle imprese e divieto di pratiche restrittive della concorrenza). Dal punto di vista istituzionale la CECA si basa su quattro istituzioni: l'Alta Autorità (penetranti poteri La riduzione del deficit demografico può essere vista come l’espressione di una tendenza volta a riavvicinare sempre di più la realtà istituzionale dell’Unione a quella di uno Stato moderno che appare in contrapposizione con una tendenza degli ultimi anni: la riemersione della dimensione intergovernativa. In effetti l’ampliamento del campo d’applicazione dell’integrazione europea e l’aumento dei poteri trasferiti dagli Stati al livello europeo non sono sempre avvenuti secondo il metodo comunitario. Un esempio è l’istituzione del Consiglio europeo quale ulteriore organo rappresentativo degli Stati membri e al di sopra del Consiglio. Dopo il Trattato di Lisbona Consiglio europeo figura addirittura tra le istituzioni dell’Unione. La composizione resta in gran parte quella decisa dal vertice di Parigi del 1974: i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri. Le deliberazioni vengono assunte per consenso salvo i casi in cui i trattati prevedano la maggioranza qualificata. Esse sono estrinsecate soprattutto in atti non formali: le conclusioni. 6. Dalle Comunità europee all’Unione europea A partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si assiste all’affermarsi e allo svilupparsi di forme di cooperazione tra Stati membri, in qualche modo collegate con l’attività delle Comunità ma svolte secondo il metodo tradizionale della cooperazione intergovernativa. Il settore più importante in cui ciò si verifica è quello della politica estera generale. Il TCE attribuisce alla competenza della Comunità soltanto alcuni aspetti della politica estera: in particolare quello attinenti agli scambi commerciali internazionali. Seguendo percorsi simili si da avvio a forme di cooperazione nei settori della giustizia e affari interni. Nel settore degli affari esteri, il TUE istituisce la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) disciplinata dal Titolo V e viene affiancata la cooperazione in materia di Giustizia e Affari interni (GAI) disciplinata dal Titolo IV. La PESC e la GAI , insieme alle (allora) tre Comunità sono ricondotte ad una realtà comune: l’Unione europea. Figurativamente l’Unione è infatti paragonata ad un tempio greco composto da tre pilastri che si ergono da un basamento e sorreggono un frontone. Il primo pilastro costituito dalla cooperazione comunitaria, il secondo dalla PESC e il terzo dalla GAI. La struttura a pilastri avrebbe dovuto essere soppressa con la riforma dei trattati prevista dal Trattato di Lisbona ma in realtà viene meno solo la distinzione tra primo e terzo pilastro infatti ciò che resta di quest’ultimo è ricondotto al Titolo V dedicato allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Tale titolo comprende così oltre ai settori relativi ai controlli alle frontiere, al diritto d’asilo, all’immigrazione e alla cooperazione giudiziaria in materia civile che erano stati già comunitarizzati dal Trattato di Amsterdam, anche la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia. -eliminazione di ogni distinzione tra i tipi di atti che le istituzioni possono adottare, -applicazione della procedura legislativa ordinaria -estensione alle materie già di terzo pilastro della ordinaria competenza della Corte di giustizia. 7. L’Europa a più velocità La progressiva riconduzione al metodo comunitario delle forme di cooperazione che in passato avevano carattere prevalentemente intergovernativo porta ad una contaminazione dello stesso metodo comunitario. Nei trattati infatti cominciano ad infiltrarsi soluzioni dal sapore chiaramente intergovernativo che si conciliano male con le caratteristiche originarie. Sempre più frequente è il ricorso a forme di cooperazione differenziata, fenomeno noto come Europa a più velocità. Un esempio è l’Accordo di Schengen relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere firmato il 14 giugno 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi (altri paesi hanno aderito più tardi). È finalizzato a ridurre drasticamente i controlli fisici sulle persone alle frontiere, con misure di accompagnamento per coordinare la politica di immigrazione da paesi terzi e la polizia degli stranieri. Un secondo esempio è l’Unione Economica e Monetaria (UEM). Alla terza fase, quella che riguarda l’adozione dell’euro quale unica moneta, non partecipano tutti gli Stati membri. 8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa Il Trattato di Lisbona si ricollega al Trattato di Nizza al quale è allegata una Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa in cui si delinea un percorso per avviare un dibattito più approfondito e più ampio sul futuro dell’Unione Europea. Il Consiglio europeo di Laeken, tenutosi il 14 e il 15 dicembre 2001 approva la Dichiarazione di Laeken che definisce con maggiore precisione le questioni da risolvere, articolandole in una serie di domande puntali e soprattutto decide di convocare una Convenzione “composta dai principali partecipanti al dibattito sul futuro dell’Unione” e con il compito “di esaminare le questioni essenziali che il futuro dell’Unione comporta e di ricercare le diverse soluzioni possibili”. La Convenzione redigerà un documento finale che “costituirà il punto di partenza della Conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali”. Il Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 17 e il 18 giugno 2004 approva il testo del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa che viene poi firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Nonostante il ricorso al termine Costituzione, il testo firmato si presenta come un nuovo trattato, di natura del tutto simile a quella dei trattati precedenti. Solo 18 Stati membri provvedono alla ratifica o ottengono l’autorizzazione parlamentare a procedere in questo senso, mentre altri ricevono esiti negativi dai referendum popolare quindi si decide una pausa di riflessione. 9. Il Trattato di riforma di Lisbona e l’Unione come ente unico Il Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007, a cui era stata rimandata la decisione, decide di convocare una nuova CIG per definire il testo della riforma, incorporando nel testo degli attuali TUE e TCE le innovazioni contenute nel Trattato costituzionale, con le modifiche specificatamente indicate nel mandato. Si è così giunti in tempi molto rapidi all’approvazione del nuovo Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, noto come Trattato di Lisbona. Per quanto riguarda gli elementi di continuità occorre ammettere che la maggior parte delle innovazioni contenute nel Trattato costituzionale sono sopravvissute al passaggio nel Trattato di Lisbona, talvolta con qualche modifica marginale. Numerosi ed importanti sono tuttavia anche gli elementi di discontinuità. Innanzitutto conviene partire dalla scelta di procedere ad una de- costituzionalizzazione della riforma e di privarla di quelle caratteristiche di eccezionalità e di originalità che avrebbero dovuto distinguerla dalle riforme precedenti. Questa scelta ha avuto numerose manifestazioni. -La prima manifestazione ha carattere formale ma nondimeno centrale. Il Consiglio europeo infatti dichiara che il progetto costituzionale che consisteva nell’abrogazione di tutti i trattati esistenti e la loro sostituzione con un unico testo (Costituzione) era abbandonato. Pertanto non si procede più all’abrogazione del TUE e del TCE ma ci si limita ad emendarli infatti il primo viene completamente riscritto e il secondo oltre a cambiare nome in Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) diventa il contenitore di tutte quelle disposizioni che sono giudicate di livello meno importante rispetto a quelle del TUE. -La seconda manifestazione ha carattere terminologico. Sono banditi i vocaboli costituzione e costituzionale e viene soppresso l’art. I-8 sui simboli dell’Unione (bandiera, inno, ecc.). -La terza manifestazione è di contenuto e consiste nell’eliminare o attenuare alcune novità che avvicinavano il nuovo trattato a una vera e propria costituzione. Il riferimento è all’inserimento di una serie interminabile di meccanismi di garanzia a favore degli Stati membri. Alcuni consentono ad uno o più Stati membri di bloccare o almeno di ritardare l’assunzione di decisioni alle quali siano contrari. Altri permettono ad uno o più Stati membri di sottrarsi alla obbligatorietà di certe parti dei trattati o di certi atti delle istituzioni o ancora di accettare di esserne vincolati ma in maniera diversa. Sotto il profilo del rafforzamento degli strumenti per impedire l’espansione della competenza dell’Unione, ci si può limitare a citare le novità inserite nel Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità rispetto al testo dell’analogo Protocollo allegato al Trattato costituzionale: si rafforza il potere di controllo e di opposizione dei parlamenti nazionali rispetto ad arri che si ritiene non siano conformi al principio di sussidiarietà. 10. La ritardata entrata in vigore del Trattato di Lisbona Anche il Trattato di Lisbona per entrare in vigore necessita della ratifica di tutti gli Stati membri, ratifica che avviene conformemente alle rispettive norme costituzionali. In Irlanda il 12 giugno 2008 gli elettori votano contro la ratifica in un primo referendum popolare. Successivamente il Consiglio europeo riunito a Bruxelles l’11 e 12 dicembre 2008 e poi, sempre a Bruxelles, il 18 e 19 giugno 2009, adotta alcune misure che permettono al Governo irlandese di indire un secondo referendum questa volta con esito favorevole. Analogamente il Consiglio europeo ha operato di fronte al mancato perfezionamento dell’atto di ratifica da parte della Repubblica ceca. Anche in Germania la ratifica è stata ritardata da un intervento della Corte costituzionale federale. Superate tutte queste difficoltà, il Trattato di Lisbona entra in vigore il 1° dicembre 2009. 11. La riforma della governance economica Nel 2008, con il fallimento della banca Lehman Brothers, negli Stati Uniti d’America scoppia una grave crisi bancaria dovuta all’insolvibilità dei mutui subprime. La crisi si diffonde in tutto il mondo e in particolare in Europa costringendo le autorità nazionali e dell’Unione ad assumere provvedimenti inediti. L’obiettivo era di creare una vera e propria unione bancaria incentrata sul conferimento alla BCE del controllo prudenziale degli istituti di credito. Gli Stati membri hanno dovuto impegnarsi a rifinanziare le proprie banche, ma ciò ha prodotto un notevole peggioramento delle finanze pubbliche. A partire dal 2009 di manifesta la crisi del debito sovrano. Dapprima in Grecia e poi via via in Irlanda, in Portogallo, in Spagna e in Italia. Gli investitori, temendo che tali Stati non siano in grado in futuro di onorare i propri debiti, richiedono tassi di interesse altissimi per le nuove emissioni di debito. Si verifica pertanto l’aumento del differenziale tra i tassi richiesti sul debito degli Stati più deboli della zona euro e quelli praticati sul debito degli Stati più sani (spread). Il rischio di un default di uno o più Stati della zona euro, la loro possibile uscita dalla zona inducono l’Unione e i suoi Stati membri a promuovere una profonda riforma del coordinamento delle politiche economiche quale originariamente disciplinato dai trattati. La riforma è consistita in due diverse componenti: -istituzione di un sistema per venire in soccorso agli Stati membri che si trovino in gravi difficoltà finanziarie per evitare che tali difficoltà possano riverberarsi sull’intera zone euro e sul funzionamento dell’UEM; -rafforzamento del coordinamento e della vigilanza delle politiche economiche nazionali per evitare che si ripetano situazioni come quelle verificatesi nel 2009. Gli Stati membri della zona euro hanno dato vita a quello che viene comunemente definito un Fondo salva-Stati creato attraverso il Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità (Trattato MES). L’istituzione del MES rende necessaria una modifica del TFUE. Viene infatti messo in dubbio che un fondo del genere che sia istituito dall’Unione ovvero dagli Stati membri sia compatibile con l’art. 125 TFUE (cioè la clausola no bail-out cioè il divieto per l’unione e gli Stati membri di farsi carico di debiti di altri Stati membri). Così attraverso un processo di revisione viene aggiunto un paragrafo 3 all’art. 136 TFUE che consiste in una mera clausola che abilita gli Stati membri della zona euro a fare un meccanismo di stabilità tra di loro. Il MES è un’organizzazione finanziaria internazionale simile al Fondo Monetario Internazionale, ha sede a Lussemburgo e l’oggetto è di reperire fondi per fornire, sotto stretta condizionalità, assistenza finanziaria agli Stati parte che conoscano o siano minacciati da gravi difficoltà finanziarie. Sul versante della riforma della governance economica: -misure approvate a trattati immutati, cioè in conformità all’attuale disciplina dettata dal Titolo VIII della Parte III del TFUE, senza necessità di ricorrere alle procedure di revisione di cui all’art. 48 TUE; -misure che sono state adottate al di fuori del contesto dell’Unione; istituzioni. La violazione di tale principio trova sanzione nel vizio di incompetenza (art. 263.2 TFUE) e comporta l’illegittimità dell’atto. La garanzia del principio dell’equilibrio istituzionale è assicurata dall’osservanza rigorosa delle procedure decisionali previste dal Trattato per le singole materie. La seconda frase dell’art. 13.2 par.2 è dedicata al principio della leale collaborazione nei rapporti tra le varie istituzioni, per quanto riguarda invece i rapporti tra Unione e Stati membri il principio è sancito dall’art. 4 par.3 TUE . Prima del trattato di Lisbona si riteneva che per le istituzioni valesse anche il principio del rispetto dell’acquis nel senso che non sarebbe stato consentito approvare atti che costituissero un regresso rispetto all’obiettivo di una sempre maggiore integrazione. È dubbio che il principio del rispetto dell’acquis sia stato confermato dal Trattato di Lisbona. 2. Il Parlamento europeo Originariamente denominata Assemblea l’istituzione ha assunto la denominazione di Parlamento Europeo. L’art. 14 par.2 TUE prevede che “il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell’Unione”, i membri sono eletti a suffragio universale diretto (libero e segreto). La durata del mandato è di 5 anni, quanto al numero dei membri l’art. 14 si limita a stabilire un numero massimo che non può essere superiore a 750 più il presidente (soglia minima di 6 membri per Stato e 96 seggi). Per la successiva legislature 2019-2024 il Consiglio europeo ha nuovamente modificato in vista dell’uscita dall’UE del Regno Unito (Brexit) la composizione del Parlamento fissando il numero a 705. Il Parlamento dispone di alcuni organi, particolarmente importante è il Presidente, il quale dirige i lavori del Parlamento e lo rappresenta nelle relazioni internazionali, nelle cerimonie e negli atti amministrativi e giudiziari. È assistito da 14 vice-presidenti insieme ai quali costituisce l’Ufficio di Presidenza con funzioni consultive. Il Parlamento europeo lavora in aula o in commissioni. Le commissioni permanenti sono previste in un allegato al regolamento interno e si ripartiscono gli affari di cui l’istituzione è investita a seconda della materia, le commissioni speciali e temporanee d’inchiesta secondo quanto previsto dall’ art. 226 TFUE. L’art. 14 par.1 TUE descrive le funzioni del Parlamento Europeo: “[…]esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di Bilancio. Esercita funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai trattati. Elegge il presidente della Commissione”. Le funzioni più importanti possono essere raggruppate in funzioni di controllo politico e funzione di partecipazione all’adozione degli atti dell’Unione. Per quanto riguarda le prime il Parlamento dispone di numerosi canali attraverso i quali riceve tante informazioni sull’operato delle altre istituzioni. L’informazione regolare e periodica del Parlamento è assicurata dalla presentazioni allo stesso di relazioni o rapporti da parte di istituzioni o organi, soprattutto della Commissione. La più importante è la relazione generale annuale (art. 233 TFUE). Il Parlamento deve essere consultato regolarmente dall’Alto rappresentante “sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica estera e di sicurezza comune e della politica di difesa e di sicurezza comune” e informato “dell’evoluzione di tali politiche” (art. 36.1 TUE). Inoltre dispone del potere di procurarsi autonomamente informazioni attraverso lo strumento delle interrogazioni e quello delle audizioni della Commissione, del Consiglio e del Consiglio europeo (art. 230 TFUE). Oltre questi canali di informazione che potremmo definire istituzionali, il Parlamento europeo può trarre informazioni e stimoli dall’iniziativa degli individui che presentano petizioni su una materia che rientra nel campo d’attività dell’Unione o denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione (il Parlamento può decidere di instituire una commissione temporanea d’inchiesta). Un altro strumento è il Mediatore europeo che è una persona indipendente e autorevole, nominata dal Parlamento a cui qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro può rivolgersi per lamentare “casi di cattiva amministrazione”; una volta ricevuto il ricorso il mediatore effettua le proprie indagini e se ritiene che il caso sussista si rivolge all’istituzione interessata che dispone di tre mesi per comunicare il proprio parere. Il mediatore elabora una relazione che trasmette al Parlamento perché è privo di un potere coercitivo autonomo. Il Parlamento dispone di poteri sanzionatori soltanto nei confronti della Commissione, può esprimere una mozione di censura che in caso di approvazione obbliga i membri della Commissione a dimettersi collettivamente dalle loro funzioni (art. 234 TFUE). Il controllo del Parlamento sul Consiglio invece non si traduce in poteri sanzionatori e riveste perciò carattere meramente morale; questa situazione risulta paradossale dato che l’organo parlamentare eletto direttamente dai cittadini non è in grado di imporre il proprio volere all’organo che adotta le decisioni più importanti per l’Unione. Parlamento e Consiglio sono due istituzioni perfettamente pari-ordinate e perciò destinate a condividere poteri piuttosto che dipendere una dall’altra. L’unico strumento che può utilizzare il Parlamento è il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai trattati presentando ricorso alla Corte di giustizia contro atti o comportamenti del Consiglio compiuti senza rispettare i poteri parlamentari. 3. Il Consiglio Il Consiglio è un organo di Stati in quanto è composto da soggetti che rappresentano direttamente i singoli Stati membri di appartenenza. Secondo l’art. 16 par.2 TUE: “Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto”. Per quanto riguarda il funzionamento occorre osservare che a differenza del Parlamento e della Commissione non è un organo permanente, esso si riunisce in formazioni che agiscono secondo calendari differenziati e differiscono sia per la composizione sia per le funzioni esercitate. L’art. 16 prevede direttamente soltanto il Consiglio “Affari generali” che “assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio; […] prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio europeo e la Commissione” e il Consiglio “Affari esteri” che ha il compito di elaborare “l’azione esterna dell’Unione, secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo” e di assicurare “la coerenza dell’azione dell’Unione”. Dopo il Trattato di Lisbona la disciplina della presidenza per quanto riguarda il Consiglio Affari esteri è attribuita in via permanente all’Alto rappresentante nell’intento di assicurare maggiore stabilità e continuità alla gestione dell’azione UE (art. 18 par.3 TUE). Per le altre formazioni, compreso il Consiglio Affari generali la presidenza passa da uno Stato membro all’altro secondo un sistema di rotazione paritaria alle condizioni stabilite con decisione adottata dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata. La Presidenza ha innanzitutto il compito di convocare le riunioni del Consiglio (art. 237 TFUE) e di stabilire l’ordine del giorno. I modi di deliberazione del Consiglio sono. -la maggioranza semplice (o assoluta) -la maggioranza qualificata -l’unanimità Tra di esse il modo più comune di deliberazione è la maggioranza qualificata sancito dall’art. 16 par.3 che afferma anche che il primo e il terzo modo si applicano solo se lo prescrive la norma dei trattati su cui il Consiglio si basa per agire. La definizione di cosa debba intendersi come maggioranza qualificata ha sempre costituito un tema delicato. Secondo l’art. 16 par.4 TUE “a decorrere dal 1° novembre 2014, per maggioranza qualificata si intende almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici, rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell'Unione.” Quindi per il raggiungimento della maggioranza è necessario un quorum numerico minimo, secondo cui i voti favorevoli non devono essere minori di 15 e non meno del 55% del totale dei membri del Consiglio, e un quorum demografico minimo secondo cui i voti a favore devono essere espressi in nome di Stati membri la cui popolazione complessiva non sia inferiore al 65% della popolazione totale dell’Unione. L’importanza di quest’ultimo quorum è limitata da quanto prevede il secondo comma del medesimo articolo secondo cui “La minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro membri del Consiglio; in caso contrario la maggioranza qualificata si considera raggiunta”. Quindi il mancato raggiungimento del quorum minimo non impedirà l’approvazione dell’atto. Lo scopo della norma è di evitare lo strapotere degli Stati demograficamente più importanti (soprattutto la Germania) che potrebbero facilmente bloccare le deliberazioni del Consiglio. Per quanto riguarda l’unanimità invece il voto contrario di un solo Stato membro è sufficiente ad impedire l’approvazione ma l’astensione non ha questo effetto come precisato dall’art. 238 par.4 TFUE. È importante distinguere il Consiglio da altri organi che hanno la stessa o una simile struttura. Il TFUE si riferisce talvolta a decisioni che devono essere prese collegialmente dai rappresentanti degli Stati membri a cui sono riservate determinate funzioni di notevole importanza nel funzionamento dell’Unione. Anche il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (COREPER) previsto dall’art. 16 par.7 TUE e dall’art. 240 par.1 TFUE rispecchia la composizione del Consiglio, esso riunisce i rappresentanti diplomatici ( al contrario di persone di livello ministeriali) che ciascuno Stato membro accredita presso l’UE. La presidenza spetta al rappresentante permanente dello Stato membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio. Ai sensi dell’art. 240 il COREPER “è responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che quest’ultimo gli assegna”, può anche adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio ma è escluso che possa esercitare il potere decisionale che i Trattati attribuiscono a quest’ultimo. Il Trattato di Lisbona ha istituito la carica dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art.18 TUE) che ha il compito di guidare la PESC formulando proposte per l’elaborazione di tale politica e di attuarla in qualità di mandatario del Consiglio e di presiedere il Consiglio “Affari esteri”. Inoltre è anche il vicepresidente della Commissione incaricato delle responsabilità delle relazioni esterne. In ragione della sua duplice qualità la sua nomina spetta al Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione. La durata del mandato, non espressamente indicata coincide con quella degli altri membri della Commissione. L’art. 16 par.1 TUE afferma che “Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati.”, decisamente una descrizione molto sommaria che non da conto dell’estrema varietà e importanza del ruolo di questa istituzione. 4. Il Consiglio europeo Anche il Consiglio europeo è un organo di Stati in quanto è composto da soggetti che rappresentano direttamente i singoli Stati membri di appartenenza. La composizione è definita dall’art. 15 par.2 TUE “Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione. L'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori”. Quindi è composto da Capi di Stato e di governo degli Stati membri, dal Presidente, dal Presidente della Commissione ed è prevista la partecipazione dell’Alto rappresentante. Prima del Trattato di Lisbona, il Presidente del Consiglio europeo era il Capo di Stato o di governo dello Stato membro che deteneva la presidenza del Consiglio secondo il sistema di rotazione semestrale in vigore in passato. Per dare continuità ai lavori è stata istituita un’apposita carica la cui nomina è affidata al Consiglio europeo con deliberazione a maggioranza qualificata. La durata del mandato è di due anni e mezzo rinnovabili una sola volta. Il par.6 dell’art citato ne definisce le funzioni tra cui assicurare “la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo, in cooperazione con il presidente della Commissione e in base ai lavori del Consiglio Affari generali” o la funzione di “rappresentanza esterna dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.” Il modo di deliberazione tipico del Consiglio europeo è il consenso, si forma senza bisogno di votare, quando nessuno dei membri si oppone al testo presentato dal Presidente. Il Trattato di vincolanti quindi la Corte può pronunciare una sentenza difforme senza essere nemmeno tenuta a spiegare le ragioni per le quali ritiene di non seguire l’avvocato generale. Per quanto riguarda la nazionalità degli avvocati generali, il cui numero è inferiore a quello degli Stati membri, la prassi vuole attualmente che vi siano cinque avvocati generali permanenti di Francia, Germania, Italia, Spagna e Polonia (Dichiarazione °39 allegata all’atto finale del Trattato di Lisbona) mentre gli altri posti rimanenti sono ricoperti a rotazione da persone degli altri Stati membri (compreso anche il posto permanente un tempo riservato al Regno Unito). La nomina dei giudici e degli avvocati generali è effettuata di comune accordo dai governi degli Stati membri ma è prescritto che avvenga previa consultazione di un apposito comitato disciplinato dall’art.255 TFUE composto di “sette personalità scelte tra ex membri della Corte di giustizia e del Tribunale”, che delibera su iniziativa del presidente della Corte di giustizia e ha il compito di “fornire un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice e avvocato generale”. La durata del mandato è di sei anni ed è rinnovabile, inoltre è previsto un rinnovo parziale che avviene ogni tre anni e riguarda metà dei componenti della Corte. La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio (artt. 221 TFUE e 16 Statuto): -sezioni: composte da tre o cinque giudici, è la formazione ordinaria (la distribuzione dipende dall’importanza di ciascuna causa). -grande sezione: formata da quindici giudici, tra cui il Presidente, vicepresidenti e tre presidenti delle sezioni a 5. Convocata quando lo richiede uno Stato membro o un'istituzione dell’Unione che è parte in causa o per prassi quando la causa è di notevole importanza. -seduta plenaria: ad essa partecipano tutti i giudici. Convocata in ipotesi particolari (rimozione Mediatore, membro della Commissione o della Corte dei conti) e ove la Corte reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa abbia un'importanza eccezionale (art.16, secondo comma dello Statuto). Le principali funzioni della Corte di giustizia hanno natura giurisdizionale (art.19 par.1 primo comma TUE) il quale dispone con riferimento all’intera Corte-istituzione che essa “assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati”. La corte di giustizia esercita anche funzioni di natura consultiva: esprime pareri, che hanno un valore parzialmente vincolante dal momento che il loro contenuto condiziona il comportamento di istituzioni e Stati membri. L’ipotesi più importante è prevista dall'art. 218 par.11 TFUE in materia di accordi internazionali, dispone che “uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo, l’accordo previsto non può entrare in vigore salvo modifica dello stesso o revisione dei trattati.” Quindi il parere non ha carattere propriamente ostativo ma rende necessaria la revisione. 7. Il Tribunale dell’Unione europea e i tribunali specializzati Anche l’organizzazione e il funzionamento del Tribunale sono disciplinati da alcune fonti normative. Oltre alle disposizioni contenute nello stesso TFUE (in particolare artt. 254 e 256) vanno ricordati il Titolo IV sul funzionamento del Tribunale e sui giudici di impugnazione delle decisioni del Tribunale dinanzi alla Corte di giustizia. Anche in Tribunale approva il proprio regolamento di procedura ma deve farlo di concerto con la Corte di giustizia ed è poi sottoposto al Consiglio che deve approvarlo deliberano a maggioranza qualificata. La composizione del Tribunale è simile ma non identica a quella della Corte, l’art. 19 par.2 secondo comma TUE prevede che “il Tribunale di primo grado è composto di almeno un giudice per Stato membro” e il TFUE art. 254 precisa che “il numero dei giudici è stabilito dallo Statuto della Corte di giustizia” L’art. 48 dello Statuto della Corte ha elevato il numero dei giudici a due per ogni Stato membro quindi attualmente sono 54. L’art. 254 cit. consente anche la presenza di avvocati generali però questa possibilità non è ancora stata utilizzata. La nomina avviene di comune accordo dai Governi degli Stati membri, i giudici hanno un mandato di sei anni rinnovabile ed eleggono tra di loro un Presidente, in carica tre anni. I requisiti di indipendenza sono gli stessi di quelli richiesti per i membri della Corte invece i requisiti di professionalità sono analoghi ma il livello richiesto è meno elevato. Per quanto riguarda le formazioni di giudizio, il Tribunale funziona normalmente in sezioni composte da tre o cinque giudici (funzionamento ordinario) e il regolamento di procedura disciplina i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in grande sezione o giudice unico. Come giurisdizione il Tribunale è giudice di primo grado essendo il primo giudice a pronunciarsi sulle cause che rientrano nella sua competenza. Le pronunce sono soggette ad impugnazione davanti alla Corte di giustizia, il termine è di due mesi a decorrere dalla notifica della decisione di impugnare. Non è possibile parlare di un vero e proprio doppio grado di giudizio infatti l’impugnazione non costituisce un giudizio d’appello essendo limitata ai motivi di diritto ovvero soltanto a mezzi relativi all’incompetenza del tribunale, ai vizi della procedura dinanzi al Tribunale recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dell’Unione da parte del Tribunale (art. 256 par.1 TFUE e 58 dello Statuto). Particolarmente complessa è la definizione della competenza del Tribunale avendo la relativa disciplina subito importanti e ripetute modifiche. Attualmente il Tribunale è competente in primo grado ma solo per le azioni e cause che non siano riservate alla competenza esclusiva e in grado unico della Corte di giustizia. È quindi opportuno soffermarsi sulla ripartizione di competenza tra Tribunale e Corte di giustizia. Per quanto riguarda le competenze dirette l’art.256 par.1 TFUE attribuisce al Tribunale la competenza “a conoscere in primo grado dei ricorsi di cui agli articoli 263, 265, 268, 270 e 272, ad eccezione di quelli attribuiti a un tribunale specializzato istituito in applicazione dell'articolo 257 e di quelli che lo statuto riserva alla Corte di giustizia”. Occorre quindi esaminare lo Statuto e in particolare gli art. 50-bis e 51. La prima attribuisce al Tribunale la competenza a decidere sulle controversie tra l’Unione e i suoi agenti (contenzioso del personale). Dall’art. 51 risulta che attualmente il Tribunale è inoltre competente in primo grado: -per i ricorsi proposti dalle persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni e gli altri organi -per i ricorsi d’annullamento e in carenza proposti da uno Stato membro contro la Commissione -per i ricorsi d’annullamento proposti da uno Stato membro contro il Consiglio aventi ad oggetto decisioni adottate riguardanti aiuti di Stato alle imprese, atti adottati in forza di un regolamento relativo a misure di difesa commerciale (es. antidumping), atti di esercizio da parte del Consiglio di competenze d’esecuzione. (rispettivamente art. 108, 207 e 291 TFUE). Il par.3 dell’art. 256 TFUE contempla inoltre la possibilità di attribuire al Tribunale anche una competenza pregiudiziale a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte ai sensi dell’art. 267 in materie specifiche determinate dello Statuto. Al momento non dispone di alcuna competenza. A partire dal Trattato di Nizza è stata prevista la possibilità di creare un’ulteriore articolazione giurisdizionale (art.257 TFUE). Accanto alla Corte di giustizia e al Tribunale, il Parlamento europeo e il Consiglio, secondo la procedura legislativa ordinaria su proposta della Commissione o su richiesta della Corte e previa consultazione, a seconda dei casi, o della Corte o della Commissione, posso istituire tribunali specializzati affiancati al Tribunale e incaricati di conoscere il primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche. L’istituzione avviene anche attraverso un regolamento che stabilisce la composizione e la portata delle competenze. La nomina dei membri è compito del Consiglio che delibera al’unanimità. Le sentenze dei tribunali specializzati sono impugnabili davanti al Tribunale per i soli motivi di diritto, ma anche di fatto se il regolamento istitutivo lo prevede. Il riesame della decisione del Tribunale davanti alla Corte di giustizia è invece previsto solo eccezionalmente e alle condizioni e entro i limiti previsti dallo Statuto “ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione siano compromesse”. 8. La Corte dei conti, la Banca centrale europea e gli altri organi La Corte dei conti è un organo di individui, composto da un cittadino di ciascuno Stato membro (art.285 secondo comma TFUE). I membri sono nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata previa consultazione del Parlamento europeo. Il loro mandato dura sei anni. I requisiti sono analoghi a quelli dei giudici della Corte, in particolare devono offrire tutte le garanzie di indipendenza. Le funzioni sono disciplinate dagli artt. 285 e 287 TFUE e sono: controllare la legittimità e la regolarità di entrate e spese ed accertare la sana gestione finanziaria. L’atto più rilevante è la relazione annuale redatta alla chiusura dell'esercizio finanziario e trasmessa alle istituzioni e pubblicata sulla GU. Ci sono altri organi che si inseriscono nel quadro istituzionale dell'Unione, con funzioni consultive o preparatorie ad esempio il Comitato economico e sociale che è composto da “rappresentanze delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, civico, professionale e culturale” (art. 300 par.2 TFUE). Il numero dei membri non può essere superiore a 350 ed è stabilito dal Consiglio che delibera all’unanimità su proposta della Commissione, sono nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata “conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro” previa consultazione della Commissione. Il secondo organo è il Comitato delle regioni composto da membri rappresentativi delle collettività regionali i quali devono essere titolari di un mandato elettorale nell'ambito di una comunità regionale o locale, oppure politicamente responsabili dinanzi ad un'assemblea eletta (art. 300 par.3 TFUE). Nomina e composizione sono analoghi al Comitato economico e sociale, entrambi inoltre devono essere consultati dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione quando ciò sia previsto dai trattati o posso esserlo quando tali istituzioni lo ritengano opportuno (art. 304, 307 TFUE). Nel primo caso il parere è obbligatorio ma non vincolante, nel secondo caso il parere è puramente facoltativo. Gli organi creati dal TUE nell'ambito dell'UEM sono: -Banca centrale europea (BCE) che l’art. 13 TUE ha eretto al rango d’istituzione, gode di personalità giuridica, ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro ed è “indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze” Si articola al suo interno in un Comitato esecutivo composto da un presidente, vicepresidente e 4 membri nominati dal Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio e un Consiglio direttivo composto dai membri del Comitato esecutivo più i Governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri (BCN) la cui moneta è l’euro. Il Comitato esecutivo è organo di individui i cui membri con mandato di otto anni sono scelti in funzione delle loro competenze in campo monetario. La BCE è assistita dal Comitato monetario a carattere consultivo. L’art. 130 TFUE impone peraltro alla BCE,al le Banche centrali nazionali e ai membri dei rispettivi organi decisionali di garantire l’indipendenza della loro azione e di non sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli stati membri, ne de qualsiasi altro organismo. Gli stessi organi ne sono vincolati. -Sistema Europeo Banche Centrali (SEBC) Entrambi (BCE e SEBC) sono oggetto del Protocollo sullo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Europea. Le funzioni della BCE e del SEBC sono disciplinate dagli art.127,128 e 132 TFUE. Proprio questo indica come obiettivo principale del SEBC “il mantenimento della stabilità dei prezzi” e prevede che esso “agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (art.127. par.1). Il par.2 stabilisce i compiti della BCE da assolvere tramite il SEBC che riguardano la definizione e l’attuazione della politica monetaria dell’Unione, lo svolgimento di operazioni sui cambi, sulla detenzione e gestione delle riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri e sulla promozione del regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. Il par. 4 aggiunge il potere consultivo della BCE in merito a qualsiasi proposta di atto dell’Unione che rientri nelle sue competenze ma entro i limiti e condizioni stabiliti dal Consiglio. L’art. 128 TFUE attribuisce alla BCE il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro. Il conio può essere effettuato dagli Stati con approvazione della BCE per quanto riguarda il volume (par.2). L’art. 132 TFUE conferisce alla BCE un potere normativo ed in particolare quello di adottare regolamenti, decisioni e formulare raccomandazioni o pareri. Si tratta di atti assimilabili alle conosciute tipologie previste dall’art. 288 TFUE. In relazione a tali atti la BCE gode anche di un potere sanzionatorio potendo infliggere disciplina della procedura si trova nell’art. 294 TFUE, si fonda su un sistema di ripetute letture della proposta di atto legislativo da parte delle due istituzioni. L’attuale disciplina contempla fino a tre letture, non è però detto che vi si giunga. È infatti possibile che la procedura si arresti non appena le due istituzioni siano pervenute ad un accordo su un medesimo testo. In generale la procedura legislativa ordinaria si apre con la proposta della Commissione. Il Parlamento europeo e il Consiglio godono però del potere di sollecitare la Commissione a presentare una proposta approvando una richiesta in tal senso, ma non è prevista nessuna sanzione nel caso in cui la Commissione non si attivi. Va poi considerato che proposte possono essere sollecitate anche da parte di altre istituzioni in particolare dal Consiglio europeo. Costituiscono parte integrante delle proposte della Commissione le valutazioni di impatto che costituiscono studi diretti a verificare il possibile impatto economico, ambientale o sociale di un determinato atto legislativo ove esso venisse effettivamente adottato. Il Trattato di Lisbona introduce inoltre un istituto di democrazia partecipativa, l’iniziativa dei cittadini consistente nel diritto dei cittadini dell’Unione (almeno un milione, appartenenti a un numero significativo di Stati membri) di invitare la Commissione “a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’Unione, ai fini dell’attuazione dei trattati” (art. 17 par.4 TUE). La Commissione non è obbligata ad agire. Partendo dal presupposto che la Commissione è portatrice dell’interesse generale dell’Unione mentre il Consiglio rappresenta gli interessi individuali di ciascuno Stato membro, l’art. 293 par.2 TFUE limita il potere del Consiglio di modifica della proposta della Commissione. Si prevede infatti che “il Consiglio può emendare la proposta solo deliberando all’unanimità”. Per quanto riguarda la procedura legislativa ordinaria, il requisito dell’unanimità perché il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione non si applica durante la fase del compito di conciliazione e la terza lettura mentre vale nella prima e nella seconda. Il fatto che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione soltanto all’unanimità da un lato garantisce che gli atti di questo perseguano l’interesse generale dell’Unione, ma dall’altro può causare una situazione di stallo. Potrebbe verificarsi che il Consiglio non sia disposto ad approvare la proposta della Commissione oppure che non sia in grado di deliberare all’unanimità gli opportuni emendamenti. Al fine di evitare il rischio di una situazione di stallo l’art. cit. prevede che “finchè il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all’adozione di un atto dell’Unione”. La Commissione può infatti preferire modificare la propria proposta in maniera da favorirne l’approvazione da parte del Consiglio a maggioranza qualificata piuttosto che insistere sul testo originale. Tra i poteri riconosciuti alla Commissione dall’art 293 rientra anche il potere di ritirare la proposta, in particolare quando un emendamento prospettato dal Parlamento o dal Consiglio snatura la proposta di atto legislativo in modo da ostacolare la realizzazione degli obiettivi da essa perseguiti. Tale potere non equivale a un diritto di veto della Commissione sull’adozione degli atti legislativi. La procedura si apre con la procedura della Commissione la quale viene indirizzata simultaneamente al Consiglio e al Parlamento europeo. (art. 294 TFUE). La prima lettura consiste nell’adozione da parte del Parlamento europeo della propria posizione che viene trasmessa al Consiglio, che può approvare la posizione e in questo caso l’atto è approvato in tale formulazione o può adottare a maggioranza qualificata una maggioranza in prima lettura. Inizia allora la seconda lettura, il Parlamento europeo ha tre mesi di tempo per decidere in uno dei seguenti modi:  approvare la posizione in prima lettura del Consiglio o omettere di deliberare entro il termine, l’atto si considera adottato “nella formulazione corrispondente alla posizione del Consiglio”  respingere la posizione a maggioranza assoluta dei membri che lo compongono, la procedura si arresta perché l’atto si considera non adottato  proporre emendamenti sempre a maggioranza assoluta Il Consiglio interviene solo in quest’ultimo caso. La Commissione emette un parere sulle modifiche e il Consiglio a maggioranza qualificata può approvare tutti gli emendamenti del Parlamento (l’atto è definitivamente approvato) o non approvarli. Nel caso di non approvazione si apre una fase intermedia e viene convocato un comitato di conciliazione che è composto dai membri del Consiglio o loro rappresentanti e da altrettanti membri del Parlamento europeo ed ha il compito di approvare entro sei settimane un progetto comune con la collaborazione della Commissione. Se il comitato non riesce ad approvare un progetto comune entro il termine di cui sopra l’atto si considera non adottato. Se invece il comitato lo approva, l’atto dovrà poi essere approvato in terza lettura a maggioranza qualificata dal Parlamento e dal Consiglio entro ulteriori sei settimane. In mancanza dell’approvazione dell’una o dell’altra istituzione, l’atto si considera non adottato. 4. Le procedure legislative speciali: la procedura di consultazione e di approvazione Anche se la procedura legislativa ordinaria è la procedura più applicata, diverse disposizioni del TFUE prevedono procedure legislative speciali. Nella maggior parte dei casi esse consistono nell’adozione dell’atto da parte del Consiglio a maggioranza qualificata o all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo (procedura di consultazione). In un numero limitato di casi l’atto deliberato dal Consiglio è sottoposto all’approvazione del Parlamento europeo (procedura di approvazione). Nelle procedure legislative speciali, il potere d’iniziativa è disciplinato come nella procedura legislativa ordinaria, l’istituzione competente (Consiglio o Parlamento europeo) non può deliberare in mancanza di una proposta della Commissione (art. 17 par.2 TUE). Quando il TFUE prevede che il potere di adottare atti legislativi in un certo settore spetti al solo Consiglio, il potere di questa istituzione è controbilanciato dall’obbligo di consultare il Parlamento europeo (art. 153 par.2 in materia di politica sociale, art. 192 par.2 in materia di ambiente). Si parla in questi casi di procedura di consultazione. Il Parlamento è chiamato ad emettere un parere consultivo che è obbligatorio, ma non vincolante infatti il Consiglio è libero di non seguire il parere. Prima dell’introduzione delle procedure di cooperazione e di codecisione, la consultazione era l’unica forma che consentiva al Parlamento di intervenire nella definizione degli atti del Consiglio. La consultazione del Parlamento europeo, quando richiesta, deve quindi essere una consultazione effettiva e regolare. Ciò implica che la consultazione sia effettivamente avvenuta e cioè che il parere sia stato, non soltanto richiesto ma anche emanato prima dell’adozione dell’atto da parte del Consiglio. Per quanto riguarda le procedure legislative speciali Il TFUE non stabilisce alcun termine per l’emanazione del parere del Parlamento, si deve invece ritenere che pur in mancanza di un termine previsto dal TFUE, il Parlamento sia tenuto in osservanza al principio di leale collaborazione ad emanare il parere entro un termine ragionevole e a tenere conto delle eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere una delibera urgente. In mancanza, al Parlamento è precluso il diritto di invocare il difetto di consultazione essendosi reso responsabile di un comportamento sleale verso il Consiglio. L’esigenza di una consultazione effettiva e regolare si avverte anche qualora il consiglio intenda deliberare un atto diverso da quello sul quale il Parlamento è stato chiamato ad esprimere il proprio parere. Secondo il principio ricavabile dalla sentenza del 15 luglio 1970, Causa 41/69 Chemiefarma il parere del Parlamento deve essere dato sull’atto che poi sarà effettivamente adottato dal Consiglio. Se dopo la consultazione del Parlamento il Consiglio decide di modificare l’atto nella sostanza o la Commissione ritira la proposta e ne presenta un’altra diversa da quella su cui Parlamento si espresso è necessaria una seconda consultazione. In alcuni casi di particolare importanza il TFUE prevede che l’atto legislativo deliberato dal Consiglio debba essere approvato dal Parlamento europeo (procedura di approvazione). Nelle ipotesi in cui la procedura legislativa speciale richiede l’approvazione del Parlamento europeo, in realtà il potere deliberativo non appartiene più al Consiglio, ma è condiviso con il Parlamento come avviene nella procedura legislativa ordinaria. Mentre in quest’ultima il Parlamento ha ampio spazio di manovra per contribuire a determinare il contenuto dell’atto, nella procedura di approvazione il Parlamento si limita ad approvare o a respingere l’atto. Occorre infine segnalare che per alcuni atti legislativi il cui contenuto è destinato a sostituirsi o a integrare la disciplina prevista dal TFUE, è prescritto che l’atto adottato con la procedura di approvazione o più raramente di consultazione per entrare in vigore debba essere approvato anche “dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali”. 5. Le procedure legislative nel settore dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia Il Trattato di Lisbona ha eliminato ogni distinzione formale tra materie già da tempo comunitarizzate e materie che inizialmente rientravano nel III pilastro dell’Unione, in particolare la Cooperazione giudiziaria in materia penale e la Cooperazione di polizia. Permangono non di meno alcune differenze dal punto di vista delle procedure legislative applicabili. Nei settori in questione infatti la procedura legislativa ordinaria è ormai molto presente ma è spesso affiancata da procedure legislative speciali, a seconda dei casi, di consultazione o di approvazione. La procedura legislativa ordinaria è prevista dall’art. 75 primo comma, circa le misure amministrative concernenti i movimenti di capitali e pagamenti, i controlli alle frontiere, asilo e immigrazione, la cooperazione giudiziaria in materia civile e penale e sulla cooperazione di polizia. L’art. 81 par.3 primo comma richiede che per le misure riguardanti il diritto di famiglia si segua la procedura di consultazione: è prescritta una delibera all’unanimità del Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo. La procedura di approvazione è invece prevista dall’art. 86 par.1 primo comma circa l’istituzione di una Procura europea. Si ricordi che per le materie oggetto dell’art. 81 il secondo comma consentirebbe al Consiglio deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo di determinare quali aspetti del diritto di famiglia possono formare oggetto di atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria. I parlamenti nazionali sono informati della proposta e ciascuno di loro entro sei mesi può notificare la propria opposizione e impedire l’adozione dell’atto. Qualunque sia la procedura legislativa applicabile nel settore della Cooperazione giudiziaria in materia penale, in quello della Cooperazione di polizia e in quello della Cooperazione amministrativa il potere di proposta non spetta soltanto alla Commissione ma anche all’iniziativa di un quarto degli Stati membri. (art.76 TFUE). In numerosi casi sono previsti taluni strumenti procedurali che consentono agli Stati membri contrari a determinati atti di impedirne o ritardarne l’adozione. In due casi tali strumenti son associati alla procedura legislativa ordinaria e si presentano pertanto come delle varianti rispetto al suo normale svolgimento, finalizzate a ridurne le caratteristiche di sovranazionalità. Nella versione prevista dagli art. cit. lo Stato membro contrario interviene perché ritiene che il progetto di atto “incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale”. L’intervento avviene prima della deliberazione e comporta la sospensione della procedura legislativa ordinaria. L’esame dell’atto passa al Consiglio europeo che ha quattro mesi per approvare l’atto per consenso. Se ciò avviene, l’atto è rinviato al Consiglio e la procedura riprende altrimenti se almeno nove membri degli Stati membri desiderano instaurare una cooperazione rafforzata sulla base del progetto di atto, essi ne informano il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione” e l’autorizzazione a procedere alla cooperazione rafforzata di cui all’art. 20 par.2 TUE e 329 par.2 TFUE “si considera concessa”.Lo Stato membro che provoca il rinvio al Consiglio europeo può ritardare l’adozione del progetto di atto ma corre il rischio che l’atto sia comunque adottato sotto forma di cooperazione rafforzata. In altre ipotesi invece lo strumento procedurale è associato a procedure legislative speciali che richiedono una delibera unanime da parte del Consiglio. Lo strumento si presenta come una variante rispetto al normale svolgimento che consente di superare sia pure parzialmente la mancanza di unanimità (art. 86 par.1 istituzione procura europea e art. 87 par.3 cooperazione operativa tra le autorità di polizia). Nella versione prevista dagli art. cit. in mancanza di unanimità un gruppo di almeno nove Stati membri può chiedere che del progetto di atto sia investito il Consiglio europeo. Entro quattro mesi, il Consiglio europeo, decidendo per consenso rinvia il progetto al Consiglio perché lo adotti. Altrimenti sempre nove Stati possono notificare di voler instaurare una cooperazione rafforzata sulla base del progtto di atto e la necessaria autorizzazione di considera concessa. 6. Le procedure non legislative, in particolare nel settore della UEM accordi che riguardano un settore per il quale è richiesta l’unanimità per l’adozione di un atto interno all’Unione, in caso di accordi di associazione ai sensi dell’art. 217 TFUE, in caso di accordi di cui l’art. 212 TFUE con gli stati candidati all’adesione e in caso di accordo sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà individuali. La fase della conclusione segue in generale il modella della procedura di consultazione. Il Parlamento europeo deve infatti essere sempre previamente consultato, tranne negli accordi che riguardano esclusivamente la PESC. Per quanto riguarda il modello della procedura di approvazione, il Consiglio non può decidere la conclusione dell’accordo senza la preventiva approvazione del Parlamento europeo e questa procedura è richiesta per accordi di associazione, per l’accordo sull’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà individuali, per accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione, per accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione e accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa speciale qualora sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo. Una particolare della procedura in esame è che essa può comprendere la consultazione della Corte di giustizia. Uno Stato membro, il Parlamento, il Consiglio o la Commissione possono infatti domandare il parere della Corte sulla compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni del presente trattato. Lo scopo di tale procedura è prevenire il rischio che la incompatibilità di un accordo con le disposizioni dei Trattati sia constatata solo dopo che l’accordo sia già divenuto vincolante per l’Unione nei confronti degli Stati terzi contraenti, dando così luogo all’annullamento dell’atto di conclusione e alla responsabilità internazionale dell’Unione. 9. Le procedure per l’adozione degli atti d’attuazione e d’esecuzione Gli atti del Consiglio o quelli adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio affidano alla Commissione il compito di adottare atti di attuazione/esecuzione o di secondo grado. In alcuni casi l’atto di base si limita a definire gli elementi essenziali della disciplina ovvero detta una disciplina sulla base dei dati tecnici e scientifici disponibili al momento ma che si prevede muteranno nel tempo. In questi casi l’atto base delega la Commissione a integrare la disciplina stessa con regole di dettaglio o addirittura autorizza la Commissione a modificare la disciplina di base su aspetti non centrali (atti di attuazione). In altri casi invece l’atto di base conferisce alla Commissione soltanto il compito di applicare la normativa contenuta nell’atto di base, adottando provvedimenti di carattere generale o individuale a questo fine (atti di esecuzione). La distinzione tra atti di attuazione e di esecuzione è diventata invece molto importante dopo il Trattato di Lisbona, gli art 290 e 291 TFUE stabiliscono infatti procedure e condizioni diverse a seconda che l’atto di base conferisca alla Commissione poteri dell’uno o dell’altro tipo. L’art. 290 par.1 primo comma TFUE introduce nel sistema dell’Unione l’istituto della delega di attuazione che prevede che “Un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo”. Gli atti legislativi di delega avranno il seguente contenuto: -delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere -fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega, quindi devono intendersi le modalità di controllo che le istituzioni autrici dell’atto legislativo di delega (Consiglio e/o Parlamento europeo) possono esercitare sulla maniera in cui la Commissione dà attuazione alla delega ricevuta. Tali modalità possono consistere nel potere di revocare la delega, nel potere di impedire l’entrata in vigore dell’atto delegato dalla Commissione sollevando obiezioni entro un termine fissato dall’atto legislativo di delega. L’aspetto maggiormente problematico dell’istituto consiste nella possibilità che l’atto legislativo di delega autorizzi la Commissione non soltanto ad integrare l’atto attraverso norme di dettaglio che non si sarà ritenuto necessario prevedere direttamente nell’atto legislativo ma anche modificare alcuni elementi non essenziali dell’atto legislativo. Da un lato infatti non è agevole distinguere tra elementi essenziali e non, con la conseguente possibilità di controversie interistituzionali ma anche tra istituzioni e Stati membri. L’art. 291 TFUE si occupa invece dell’esecuzione degli atti giuridici vincolanti dell’Unione. L’esecuzione è normalmente affidata agli Stati membri, i quali “adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione”. Il conferimento del potere d’esecuzione al Consiglio può avvenire soltanto “in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli art. 24 e 26 del trattato sull’Unione europea”. Il par.3 ha ad oggetto il controllo da parte degli Stati membri sull’operato della Commissione prevedendo “le regole e i principi generali relativi alle modalità” di tale controllo saranno stabiliti dal Parlamento europeo e dal Consiglio “deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria”. Il conferimento alla Commissione della delega di attuazione oppure dei poteri di esecuzione non esauriscono le ipotesi in cui gli atti legislativi possono procedere ad una delega di poteri. Deve considerarsi compatibile con le norme del TFUE l’attribuzione di poteri decisori, che includano anche l’adozione di atti a portata generale, alle agenzie indipendenti in settori che comportano una perizia professionale e tecnica specifica purchè tali poteri non abbiano carattere discrezionale ma si fondino su presupposti e criteri predeterminati dagli atti normativi di riferimento. 10. La procedura per instaurare una cooperazione rafforzata L’istituto della cooperazione rafforzata si è affermato in occasione del Trattato di Amsterdam, rappresenta la piena accettazione di quella concezione che è stata definita Europa a più velocità. Scopo della cooperazione rafforzata è di consentire ad un gruppo di Stati membri di utilizzare le istituzioni, le procedure ed i meccanismi decisionali previsti dai trattati per instaurare tra loro forme di cooperazione non condivise da tutti gli Stati membri. La disciplina dell’istituto è contenuta nell’art. 20 TUE e negli artt. 326 e 334 TFUE ed è piuttosto articolata. Numerosi sono innanzitutto i requisiti materiali necessari. La procedura per l’autorizzazione ad instaurare una cooperazione rafforzata diverge a seconda che l’oggetto della cooperazione riguardi o meno la PESC. Per questa l’art. 329 TFUE dispone che la richiesta di instaurare una cooperazione rafforzata è presentata dagli Stati interessati al Consiglio e trasmessa all’Alto rappresentante e alla Commissione perché esprimano un parere sulla coerenza con la PESC e con le altre politiche dell’Unione e al Parlamento europeo per conoscenza. L’autorizzazione è concessa dal Consiglio con deliberazione all’unanimità. Per gli altri settori invece gli Stati membri interessati devono trasmettere la loro richiesta alla Commissione. La composizione delle istituzioni, le modalità deliberative e le procedure decisionali applicabili nell’ambito di una cooperazione rafforzata sono quelle ordinarie. L’unica particolarità riguarda il Consiglio. I rappresentanti degli Stati membri non possono votare. Il quorum per raggiungere la maggioranza qualificata è determinato proporzionalmente rispetto agli Stati partecipanti. Il Trattato di Lisbona ha disposto che nell’ambito della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD), che costituisce una componente della PESC, sia applicabile un istituto analogo detto cooperazione strutturata permanente. La disciplina è simile a quella della cooperazione rafforzata ma è detta permanente per distinguerla dalla cooperazione che può essere instaurata tra alcuni Stati membri per lo svolgimento delle missioni civili o militari. PARTE III-L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA Sezione I Le fonti: quadro generale- I Trattati 1. Considerazione generali Il complesso delle norme del TUE e TFUE costituisce o meno un ordinamento autonomo? L’Unione europea è portatrice di un proprio ordinamento giuridico, che si distingue tanto dal diritto internazionale quanto dal diritto interno di ciascuno Stato membro? Inizialmente nella sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62 Van Gend & Loos la Corte di giustizia conclude che “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini”. Questa concezione viene ribadita nella celebre sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. ENEL dove la Corte afferma che “il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudizi nazionali sono tenuti ad osservare”. Potrebbe ricavarsi l’impressione che la maggiore preoccupazione della Corte sia di distinguere il TCE dai trattati internazionali tradizionali. A differenza di questi comporta delle vere e proprie limitazioni di sovranità a carico degli Stati membri, sia pure in settori limitati. Il TCE e il complesso di norme che ne scaturisce non si limitano a porre obblighi a carico degli Stati membri, ma toccano la sfera giuridica degli stessi soggetti degli ordinamenti interni degli Stati membri, i quali diventano perciò soggetti anche nell’ordinamento comunitario. I caratteri che distinguono il TCE servono anche e soprattutto a segnare l’autonomia del diritto comunitario rispetto al diritto interno degli Stati membri. L’applicazione del diritto comunitario nei settori assegnati alla sovranità della Comunità e all’interno degli Stati membri non è subordinata all’adozione da parte di tali Stati di misure interne di adattamento. L’ordinamento comunitario è dunque autonomo tanto rispetto all’ordinamento internazionale generale, quanto e soprattutto rispetto agli ordinamenti interni degli Stati membri. In principio la Corte aveva parlato di ordinamento autonomo soltanto con riferimento al diritto comunitario e non aveva avuto occasione di pronunciarsi sul se fosse possibile dirsi altrettanto dell’ordinamento dell’Unione comprensivo anche delle disposizioni dei Trattati e gli atti delle istituzioni riguardanti i settori che, prima del Trattato di Lisbona, costituivano il secondo e il terzo pilastro. La situazione appare mutata dopo il Trattato di Lisbona, la soppressione della CE come ente autonomo rispetto all’Unione e la (parziale) abolizione della struttura a pilastri vigente in precedenza oltre che l‘esplicito riconoscimento all’Unione della personalità giuridica (art. 47 TUE) sono tutti elementi che renderebbero anacronistico ogni tentativo di continuare a tracciare distinzioni all’interno di un ordinamento che, nel nuovo assetto, vuole essere unico e onnicomprensivo. L’ordinamento dell’Unione si fonda, come ogni ordinamento giuridico, su un sistema di fonti di produzione del diritto:  i trattati, i principi generali del diritto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;  le norme del diritto internazionale generale e gli accordi internazionali conclusi dall’Unione con Stati terzi;  gli atti di base adottati dalle istituzioni;  gli atti d’attuazione o di esecuzione adottati dalla Commissione o dal Consiglio. La distinzione fondamentale resta quella tra diritto primario e diritto secondario o derivato: in origine la prima categoria era composta dai trattati, mentre la seconda era costituita dagli atti che le istituzioni possono adottare in attuazione dei trattati. La giurisprudenza con il tempo ha riconosciuto al diritto primario l’esistenza di principi generali del diritto, in particolare quelli attinenti alla protezione dei diritti fondamentali dell’uomo che hanno caratteristiche assimilabili a quelle dei trattati. Il Trattato di Lisbona ha creato con il nuovo art. 6 par.1 primo comma TUE una nuova fonte scritta cui è riconosciuto “lo stesso valore giuridico dei trattati”: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tra le fonti di diritto primario vero e proprio o ad esse assimilabili e quelle di diritto secondario o derivato si inseriscono, come fonti intermedie, le norme di diritto internazionale generale e gli accordi internazionali conclusi dall’Unione europea con Stati terzi. All’interno del diritto secondario o derivato, può stabilirsi una gerarchia tra atti di base e atti d’attuazione o di esecuzione. L’atto d’attuazione o di esecuzione deve infatti rispettare l’atto di base e restare nei limiti della delega conferita. Il Trattato di Lisbona ha introdotto una distinzione netta tra atti di attuazione e atti di esecuzione che prima non esisteva (artt. 290 e 291 TFUE). Gli atti di attuazione si distinguono dagli atti di base perché sono sempre adottati dalla Commissione su delega disposta da un atto legislativo adottato congiuntamente dal Parlamento europeo e dal diretta delle direttive). I trattati possono essere modificati soltanto ricorrendo alle procedure previste a questo scopo dagli stessi trattati, in particolare dal 48 TUE, che disciplina le procedure di revisioni. La più importante è la procedura di revisione ordinaria, sono poi previste due procedure di previsione semplificate che si applicano, la prima, soltanto a determinate parti dei trattati e la seconda soltanto per modificare le procedure decisionali. La procedura di revisione ordinaria si suddivide in numerose fasi di cui le prime, aventi carattere preparatorio, si svolgono all’interno del circuito istituzionale dell’Unione, mentre le fasi finali si svolgono all’esterno di tale circuito e vedono come protagonisti gli Stati membri e i loro parlamenti nazionali. 1. Presentazione al Consiglio di un progetto di modifica da parte del governo di qualsiasi Stato membro, del Parlamento europeo o della Commissione. 2. Decisione del Consiglio europeo che, a maggioranza semplice, previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione, provvede all’esame delle modifiche trasmesse dal Consiglio. 3. Conseguente convocazione da parte del Presidente del Consiglio europeo di “una convenzione composta dai rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione” con lo scopo di esaminare i progetti di modifica e di adottare per consenso una raccomandazione per la conferenza intergovernativa. 4. In alternativa, qualora l’entità delle modifiche non giustifichi la convocazione della convenzione di cui al punto precedente. Decisione del Consiglio europeo a maggioranza semplice, previa approvazione del Parlamento europeo, che definisce il mandato per la CIG. 5. Convocazione di una CIG formata dai rappresentanti dei governi degli Stati membri per stabilire di comune accordo le modifiche da apportare ai trattati. 6. Ratifica delle modifiche approvate da parte di tutti gli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali e la loro entrata in vigore. L’avvio della procedura è agevolato dalla circostanza che il Consiglio europeo può deliberare a maggioranza semplice, tuttavia poi è necessario l’accordo unanime degli Stati membri sul trattato di revisione. L’esperienza passata ha indotto a introdurre nell’art. 48 un apposito comma che dovrebbe facilitare l’entrata in vigore del trattato di revisione. Il par.5 prevede “qualora, al termine di un periodo di due anni a decorrere dalla firma di un trattato che modifica i trattati, i quattro quinti degli Stati membri abbiano ratificato detto trattato e uno o più Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo”. La norma evoca la possibilità che il Consiglio europeo decida misure che favoriscano l’entrata in vigore del trattato di revisione nonostante la mancata ratifica da parte di un unico Stato membro o da parte di un numero limitato di Stati. Il Trattato di Lisbona ha previsto due procedure semplificate di revisione. La procedura disciplinata dell’art.48 par.6 TUE, può avere ad oggetto soltanto modifiche, parziali ma anche totali senza però che ciò comporti alcuna estensioni delle competenze attribuite all’Unione nei trattati”. La procedura consta delle seguenti fasi:  Presentazione al Consiglio europeo da parte del governo di qualsiasi Stato membro, del Parlamento europeo o della Commissione, di progetti di modifica nei limiti di cui si è detto  Adozione delle modifiche da parte del Consiglio europeo con decisione approvata all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, della Commissione e, se le modifiche riguardano le disposizioni istituzionali nel settore monetario, della BCE.  Entrata in vigore della decisione del Consiglio europeo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali L’unica differenza rispetto alla procedura ordinaria è che si evita la convocazione della convenzione e quella della CIG, essendo affidato direttamente al Consiglio europeo il compito di definire le modifiche attraverso una propria decisione. La procedura disciplinata dall’art. 48 par.7 TUE invece può avere ad oggetto soltanto quelle disposizioni del TFUE o del Titolo V del TUE (PESC) che prevedono che “il Consiglio deliberi all’unanimità in un settore o in un caso determinato” o che “il Consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale” Nel primo caso è possibile stabilire che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata, nel secondo che si passi alla procedura legislativa ordinaria. La procedura in esame è infatti comunemente nota come procedura passerella. Si attua nelle seguenti fasi:  Iniziativa del Consiglio europeo  Trasmissione dell’iniziativa ai parlamenti nazionali, ciascuno dei quali può, entro sei mesi, opporsi all’iniziativa, impedendo che la procedura prosegua  In assenza di opposizioni da parte dei parlamenti nazionali, deliberazione del Consiglio europeo con decisione adottata all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo. In questo caso, le differenze rispetto alla procedura di revisione ordinaria sono di notevole importanza. Al posto della ratifica da parte degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali, è sufficiente la delibera unanime del Consiglio europeo per l’approvazione del Parlamento europeo. L’assenza di intervento diretto da parte degli Stati membri e dei rispettivi apparati costituzionali è però compensata dall’obbligo di notificare ogni iniziativa del Consiglio europeo (prima che deliberi) ai parlamenti nazionali e dal potere di ciascuno di questi di porre il veto, opponendosi. I trattati prevedono infine alcune procedure speciali che permettono di modificare soltanto taluni articoli o aspetti specifici. In generale l’elaborazione e l’approvazione delle modifiche è affidato ad una delibera unanime del Consiglio europeo o del Consiglio ma l’entrata in vigore, come nella procedura semplificata dell’art. 48 par.6 TUE, è subordinata all’approvazione da parte degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. Ci si è chiesti se vi siano dei limiti intrinseci al potere di revisione, se esistano cioè delle parti dei trattati che non possono essere modificate. L’art. 48 non prevede nulla al riguardo. Nel già citato parere 1/91 del 14 dicembre 1991 sul Progetto di accordo relativo alla creazione dello Spazio Economico Europeo, la Corte di giustizia ha giudicato incompatibili con il Trattato le disposizioni del citato accordo relative all’istituzione di una Corte SEE. I toni utilizzati dalla Corte sembrerebbero implicare che l’introduzione di norme che pregiudichi il sistema giurisdizionale previsto dai trattati, alterando la funzione giurisdizionale della Corte o restringendo la portata della competenza della stessa, non sarebbe consentita, nemmeno ricorrendo alla procedura di revisione. Si può ritenere che siano immodificabili le norme che costituiscono il nocciolo duro dell’ordinamento dell’Unione europea quali l’art. 2 TUE, che definisce i valori dell’Unione, l’art. 6 almeno nel suo par. 3, che impone all’Unione il rispetto dei diritti dell’uomo come principi generali del diritto e l’art. 14 TFUE che stabilisce il principio del mercato interno. I valori su cui è fondata l’Unione sono al centro del quadro costituzionale e consistono, ai sensi dell’art. cit., nel “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. I valori costituiscono il fondamento giuridico da cui sono ricostruiti i principi generali del diritto dell’Unione, specialmente i diritti fondamentali della persona, che a tali valori danno espressione e sono impiegati talora per interpretare il diritto primario e colmarne le lacune. Un altro modo per modificare i trattati è previsto dall’art. 49 TUE che disciplina la procedura di adesione all’Unione da parte di nuovi Stati. Ai sensi di tale articolo può presentare domanda di adesione all’Unione “ogni Stato europeo” (condizione geografica) “che rispetti i valori di cui all’art. 2 e si impegni a promuoverli”(condizione politica). Anche la procedura di adesione si articola in due fasi: -prima fase: si svolge all'interno dell'apparato istituzionale. La domanda di adesione è presentata al Consiglio e approvata all'unanimità da questo, previa consultazione della Commissione e approvazione del Parlamento europeo tenendo conto dei criteri di ammissibilità. -seconda fase: affidata gli Stati membri. Essa ha il solo scopo di stabilire le condizioni per l'ammissione e gli adattamenti da apportare ai Trattati. In proposito viene concluso tra gli Stati membri e lo stato candidato un trattato di adesione (Atto di adesione), che deve essere ratificato da tutti gli stati contraenti secondo le rispettive norme costituzionali. Attraverso questa procedura possono quindi essere apportati soltanto degli adattamenti, delle modifiche minoris generis, che normalmente consistono in un ampliamento della composizione delle istituzioni e degli organi per assicurare la rappresentanza del nuovo Stato membro. Un’innovazione di grande rilievo introdotta dal Trattato di Lisbona consiste nella possibilità di recesso dall’Unione (art. 50 TUE), che può essere concordato oppure unilaterale. È recesso concordato se si arriva alla conclusione di un accordo tra l’Unione e lo Stato recedente “volto a definire le modalità del recesso”. L’accordo è negoziato sulla base degli “orientamenti formulati dal Consiglio europeo tenendo conto delle future relazioni” con lo Stato recedente con l’Unione, è concluso dal Consiglio, secondo la procedura di cui all’art. 218 par. 3 TFUE. L’alternativa è il recesso unilaterale che avviene qualora non sia possibile raggiungere un accordo sulle modalità di recesso entro due anni dalla notifica dell’intenzione di ritirarsi. Anche se l’art. 50 non lo contempla esplicitamente, la Corte ha ammesso che lo Stato recedente, dopo aver notificato la sua intenzione di recedere, ma prima del decorso del termine previsto dall’art. ha la facoltà di decidere la revoca della notifica di recesso, ponendo fine alla procedura. Ci si è posti la domanda se sia possibile modificare i trattati al di fuori di procedure di revisione o delle altre procedure previste a questo scopo. Il diritto internazionale non esclude infatti che gli Stati contraenti di un trattato possano decidere di modificarlo senza seguire la procedura prevista a tale fine, a condizione che vi sia accordo in tal senso da parte di tutti gli Stati contraenti. La Corte di giustizia non ha mai avuto occasione di pronunciarsi espressamente sulla possibilità che gli Stati membri modifichino i trattati senza osservare una delle procedure previste dai trattati a questo fine ma la risposta darebbe negativa considerando la netta presa di posizione dell’istituzione contro il riconoscimento della possibilità che il TCE venisse modificato da una prassi difforme degli Stati. Per quanto riguarda la prassi del Consiglio europeo è consistita nell’inserimento nelle conclusioni della Presidenza relative a riunioni del Consiglio europeo o in allegato alle stesse di alcune prese di posizione finalizzate a dare assicurazioni allo Stato membro che non aveva ancora proceduto alla ratifica e a consentire di superare l’impasse. Tali prese di posizione possono contenere l’impegno degli Stati membri riuniti nel Consiglio europeo a modificare in futuro talune disposizioni dei trattari o possono esprimere il punto di vista degli Stati membri riuniti nella stessa sede circa il modo in cui talune disposizioni dei trattati vanno intese ed applicate. Sezione II I Principi Generali- La Carta dei Diritti Fondamentali 3. I principi generali del diritto Tra le fonti assimilabili a quelle di diritto primario si segnalano anzitutto i principi generali del diritto, comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo. Questi svolgono un ruolo più importante negli ordinamenti di più recente formazione o in quelli nei quali il sistema di produzione di norme è poco efficiente. La tipologia dei principi generali è ampia. Una prima categoria è costituita dai principi generali del diritto dell’Unione. Tali principi trovano espressione in determinate norme dei trattati, alle quali vengono assegnati grande importanza e carattere assolutamente imperativo e inderogabile. Un esempio è dato dal principio di non discriminazione, il quale trova specifica applicazione in diverse disposizioni del TFUE: l'articolo 18 vieta le discriminazioni legate alla nazionalità, divieto questo che viene ribadito nelle norme relative alle libertà di circolazione (artt. 45,49 e 57 secondo comma); l’art. 19 che prevede l’adozione di provvedimenti “per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale”; l’art. 40 par.2 secondo comma che vieta le discriminazioni tra produttori e consumatori nell’ambito delle organizzazioni comuni dei mercati agricoli; l’art. 157 par.1 che vieta le discriminazioni in materia salariale tra lavoratrici e lavoratori. Secondo la Corte di giustizia le disposizioni citate sono specifiche applicazioni del principio generale di non discriminazione e vanno pertanto interpretate in maniera ampia. Un esempio è fornito dalla maniera n cui è stata definita la portata della nozione di discriminazione, alle hanno valore normativo immediato e pertanto non vincolano direttamente la Corte. Nonostante ciò va dato atto che la Corte, a partire dalla sentenza 13 dicembre 1979, causa 44/79, Hauer ha eletto la CEDU a riferimento privilegiato. Inoltre da tempo si è spinta fino ad includere nelle proprie sentenze ampi e precisi riferimenti alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dando così l’impressione di considerare la CEDU vincolante in quanto tale per l’Unione e per la Corte stessa. Si tratta tuttavia solo di un’impressione. La mancata adesione formale della Comunità e ora dell’Unione alla CEDU solleva il problema della responsabilità degli Stati membri di fronte agli organi della Convenzione. Il problema è stato affrontato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha innanzitutto ribadito che gli Stati i quali abbiano trasferito a un’organizzazione sopranazionale come la CE (e ora l’Unione) taluni poteri sovrani non sono sottratti, per quanto riguarda l’esercizio dei poteri sovrani oggetto del trasferimento, all’obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla CEDU. Quest’ultima non intende esercitare il proprio controllo riguardo ad ogni e qualsiasi attività intrapresa da uno Stato in attuazione degli obblighi derivanti dalla sua appartenenza a una tale organizzazione. La Corte distingue casi in cui gli Stati membri si limitano ad attuare atti dell’Unione CE e casi in cui gli stessi godono di un certo margine di discrezionalità. Per quanto riguarda i casi in cui manca ogni discrezionalità in capo agli Stati membri, la Corte europea considera che il suo intervento non è necessario. Infatti l’Unione tutela i diritti fondamentali in un modo che, tanto dal punto di vista sostanziale, quanto da quello del meccanismo di controllo, è almeno equivalente a quello della Convenzione (principio della protezione equivalente). In pronunce successive alla sentenza Bosphorus la Corte europea ha adottato un atteggiamento alquanto più cauto sul rispetto del principio di equivalenza. Essa infatti non si accontenta più di constatare che lo Stato membro non disponesse di alcun margine di discrezionalità nell’applicare il diritto dell’Unione, ma verifica anche se, i rimedi giurisdizionali previsti dal diritto dell’Unione sono stati pienamente attivati a garanzia dei diritti fondamentali. Per quanto riguarda invece i casi rientranti nella seconda categoria cioè i casi in cui sussiste un margine di discrezionalità in capo agli Stati membri nel dare attuazione agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, la Corte afferma che uno Stato è pienamente responsabile in base alla Convenzione. Va segnalato come l’impostazione data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia al problema della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione non ha del tutto soddisfatto le Corti costituzionali italiana e tedesco-federale e non le ha indotte a rinunciare alla pretesa di assicurare un autonomo controllo sul rispetto di tali diritti da parte delle istituzioni. 5. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Il fatto di considerare i diritti fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comporta che alla Corte di giustizia è riservato un ruolo determinante. Ad essa spetta il compito non soltanto di individuare quali diritti siano da considerare fondamentali alla luce delle tradizioni costituzionali comuni e dei trattati internazionali, ma anche di delineare il contenuto e la portata dei diritti così individuati. La Corte non è tenuta ad applicare un testo scritto, e questo attribuisce un alto grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani. Da un lato le consente di adattare alla realtà di un ente sovranazionale norme che sono state redatte per essere applicate all’azione di Stati, dall’altro accresce l’imprevedibilità dei risultati cui la Corte perviene di volta in volta e rende perciò poco trasparente il sistema. Per ovviare a questo difetto si è deciso di predisporre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la Carta). Fino al Trattato di Lisbona, il valore giuridico della Carta è rimasto incerto. La mera proclamazione non era in grado di farne un’autonoma fonte del diritto ma la solennità del processo di elaborazione e l’ampiezza di consensi che il suo testo ha riscosso tuttavia ne hanno favorito l’utilizzazione come strumento interpretativo privilegiato. Tuttavia solo con il Trattato di Lisbona il valore giuridico della Carta è stato definito. Come si è visto, l’art.6 par.1 primo comma TUE afferma il riconoscimento da parte dell’Unione dei diritti, libertà e principi da essa sanciti e attribuisce alla Carta “lo stesso valore giuridico dei trattati”. La Carta risulta ora posta sullo stesso piano delle altre fonti di diritti primario, in particolare del TUE e TFUE. Non è chiaro se per modificare la Carta sia necessario seguire la procedura di revisione sia necessario seguire la procedura di revisione dell’art. 48 par.1-5 e non è certo che l’eventuale violazione della Carta da parte di uno Stato membro possa dare vita ad un procedimento di infrazione ai sensi dell’art. 258 e ss. TFUE. Quanto all’interpretazione della Carta prendiamo in considerazione il terzo comma del par.1 dell’art. 6, la parte più interessante riguarda il richiamo alle spiegazioni. Redatte a fini meramente esplicativi sotto la responsabilità del Presidium della Convenzione e pubblicate nella stessa GU in cui è stata pubblicata la Carta le spiegazioni risultano elevate al rango di fonte interpretativa obbligata da cui la Corte di giustizia non può discostarsi. La funzione della Carta risulta dal preambolo in cui si precisa che “è necessario rafforzare la tutela dei diritti fondamentali, alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici, rendendo tali diritti più visibili in una Carta”. Sembrerebbe dunque che la Carta non abbia carattere normativo, nel senso che non crea diritti che non siano già ricavabili dalle fonti richiamate: tradizioni costituzionali comuni, trattati internazionali, in particolare la CEDU, che corrispondono alle fonti di ispirazione da tempo individuate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. La Carta avrebbe invece più che altro carattere documentale, perché riassumerebbe in un unico documento l’elenco e la descrizione dei diritti fondamentali ricavabili delle suddette fonti e già facenti parte dei principi generali del diritto vincolanti per l’Unione. Nondimeno il rapporto tra le fonti richiamate e la Carta solleva alcune difficoltà, si pone infatti il problema di stabilire come regolarsi nel caso di non coincidenza tra i diritti previsti dalla Carta e quelli ricavabili dalle altre fonti citate nel preambolo. Indicazioni su come risolvere tali difficoltà si ricavano dagli art. 52 par.3 e 53 della Carta. L’art. 53 stabilisce quella che può essere qualificata una clausola di compatibilità (detta anche di disconnessione): “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito d’applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri”. Dall’art. 53 si evince che la Carta non impedisce l’applicazione della CEDU o delle altre fonti richiamate nella misura in cui queste prevedano una tutela più ampia di quella garantita dalla Carta. In base alla lettera dell’art. cit., la garanzia particolarmente elevata offerta da una Costituzione nazionale a un determinato diritto fondamentale dovrebbe essere in grado di prevalere in ogni circostanza sul regime comune stabilito dal diritto dell’Unione. La giurisprudenza ha invece limitato la facoltà di invocare il maggior standard di protezione di un diritto fondamentale garantito da una Costituzione nazionale viene meno qualora ci si trovi in settori disciplinati dal diritto dell’Unione. La facoltà di invocare il maggior standard di tutela costituzionale è dunque riconosciuta quando lo Stato membro gode di un margine di discrezionalità. In casi del genere, lo Stato membro può bilanciare, secondo le proprie scelte, un valore fondamentale sancito dalla propria Costituzione nazionale. La facoltà di invocare il più elevato livello di tutela sancito dalla Costituzione nazionale è invece esclusa in presenza di un’armonizzazione completa, qualora il grado di tutela del diritto fondamentale in esame sia stato cristallizzato con precisione da una specifica norma o atto di diritto dell’Unione. In conclusione la possibilità di ricorrere all’art. 53 della Carta, per giustificare casi di protezione asimmetrica dei diritti fondamentali da parte degli Stati membri. È limitata agli ambiti in cui il diritto primario o derivato dell’Unione lascia agli Stati membri un certo spazio di libertà. Tale conclusione è implicitamente confermata dal caso Taricco. La Corte di giustizia, nella sentenza 5 dicembre 2017, causa C-42/17 M.A.S (nota come Taricco II), pur senza citare l’art. 53 della Carta, ne fornisce implicitamente un’interpretazione più permissiva rispetto a quella che si poteva dedurre dalla prima sentenza, ribadisce che un giudice nazionale deve disapplicare una normativa in materia di prescrizione che sia incompatibile con l’art. 325 TFUE, in quanto tale disapplicazione non è vietata dall’art. 49 della Carta. Ammette che il giudice non deve procedere in questo senso sempre ma soltanto “a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o nell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”. L’art. 52 par.3 si occupa invece soltanto della CEDU, introducendo quella che può definirsi una clausola di equivalenza secondo cui la Carta deve essere applicata in maniera che il livello di protezione assicurato dalla Carta ai diritti tutelati anche dalla CEDU sia almeno equivalente a quello garantito da quest’ultimo strumento. Secondo la Corte di giustizia l’art. è inteso ad assicurare la necessaria coerenza tra i diritti contenuti nella Carta e i corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU senza che ciò pregiudichi l’autonomia del diritto dell’Unione e della Corte di giustizia dell’Unione europea. Resta invece salva la possibilità che il diritto dell’Unione preveda un livello di tutela addirittura superiore. L’equivalenza del livello di tutela assicurato dalla Carta rispetto a quello assicurato, per lo stesso diritto, dalla CEDU risalta con particolare evidenza nel caso relativo al divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti protetto tanto dall’art.3 CEDU che dall’art.4 della Carta. I diritti tutelati dalla Carta possono subire limitazioni che come affermato al par.1 dell’art. 52 devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Una limitazione all’esercizio dei diritti fondamentali della Carta è possibile solo nel rispetto di quattro condizioni cumulative: -deve essere prevista dalla legge; -deve rispettare il contenuto essenziale del diritto protetto; -deve rispondere a uno scopo di interesse generale riconosciuto dal diritto dell’Unione; -deve essere necessaria a soddisfare l’interesse pubblico perseguito e proporzionata a tale fine. 6. Il ruolo dei principi generali e della Carta dei diritti fondamentali Si deve ora chiarire il ruolo che i principi generali del diritto e la Carta svolgono all’interno del sistema delle fonti. Essi assolvono ad una funzione strumentale, in quanto influiscono sull’applicazione di norme materiali derivanti da altre fonti. I principi generali del diritto vengono in rilievo in primo luogo come criteri interpretativi delle altre fonti del diritto dell’Unione: tanto le norme dei trattati quanto le norme contenute negli atti delle istituzioni devono essere interpretate alla luce dei principi generali. In presenza di più interpretazioni possibili, dovrà scegliere la soluzione più coerente con i principi generali e con il rispetto dei diritti fondamentali. In secondo luogo, i principi generali fungono da parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni, possono essere annullati o dichiarati invalidi per violazione dell’uno o dell’altro dei principi indicati o per contrarietà ai diritti sanciti dalla Carta. La Corte, che in passato mostrava prudenza nel dichiarare la nullità di atti delle istituzioni per violazione dei principi generali o dei diritti fondamentali, intervenendo piuttosto con lo strumento interpretativo, sembra orientata ad un maggiore attivismo dopo l’entrata in vigore della Carta. In terzo luogo, i principi generali operano indirettamente da parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli Stati membri, ciò avviene quando il comportamento o l’atto in causa è stato adottato dallo Stato membro in attuazione di una norma dei trattati o di un atto delle istituzioni che ne autorizzi o addirittura ne richieda l’adozione. Gli interventi degli Stati membri in attuazione del diritto dell’Unione devono conformarsi ai principi generali del diritto e in particolare a quelli attinenti al rispetto dei diritti fondamentali, qualora ciò non avvenisse tali interventi sarebbero incompatibili rispetto alla norma dell’Unione che li autorizza o li prescrive e andrebbero pertanto disapplicati. Perché ad uno Stato membro possa essere contestata la violazione di un principio generale o la violazione di uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, è necessario che sussista un collegamento tra il comportamento dello Stato membro e il diritto dell’Unione. Occorre che lo Stato membro abbia agito per attuare una norma dei trattati o un atto delle istituzioni o almeno che il comportamento contestato venga assunto in un settore rientrante nel campo d’applicazione dei trattati. Anche l’art. 52 conferma che il dovere degli Stati membri di rispettare i diritti fondamentali ivi previsti è limitato ai casi in cui essi agiscono nell’attuazione del diritto dell’Unione. La formula utilizzata in Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982. 8. I regolamenti Il regolamento viene descritto nel secondo comma dell’art. 288 TFUE nei seguenti termini: “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. La caratteristica della portata generale indica che il regolamento ha natura normativa, pone regole di comportamento rivolte non a soggetti predeterminati ma alla generalità di questi. Può accadere che un regolamento definisca i requisiti di fatto o di diritto richiesti per la sua applicazione in maniera che soltanto un numero relativamente ristretto di persone li soddisfi. Può anche darsi che il campo di applicazione sia talmente esiguo che si possa individuare a priori coloro ai quali il regolamento, una volta entrato in vigore, si applicherà. La seconda caratteristica è l’obbligatorietà integrale: il regolamento deve essere rispettato in tutti i suoi elementi, vale a dire nella sua interezza. L’art. 288 secondo comma si rivolge soprattutto agli Stati membri, esplicitando che essi non possono lasciare inapplicate talune disposizioni del regolamento, limitarne il campo d’applicazione dal punto di vista temporale, territoriale o personale, subordinarle a condizioni d’applicazione non previste oppure introdurre facoltà di deroga non contemplate dal regolamento stesso. L’ultima caratteristica è la diretta applicabilità “in ciascuno degli Stati membri”. In primo luogo la diretta applicabilità riguarda l’adattamento degli ordinamenti interni degli Stato membri o meglio i modi attraverso cui l’adattamento deve avvenire. In genere, i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali non si preoccupano di stabilire come gli Stati membri dovranno dare applicazione agli atti obbligatori che gli organi dell’organizzazione adottano. L’art. 288 invece ha inteso disciplinare uniformemente tale importante aspetto, prescrivendo che l’adattamento degli ordinamenti interni al regolamento avviene “direttamente”, quindi immediatamente e automaticamente. La diretta applicabilità non esclude però gli Stati membri siano chiamati ad adottare provvedimenti nazionali integrativi. In secondo luogo, l’applicabilità diretta dei regolamenti implica la loro capacità di produrre effetti diretti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri (c.d efficacia diretta), ne discende che il regolamento, alla stessa stregua di qualsiasi fonte normativa di diritto interno, è “atto ad attribuire ai singoli dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare” (sentenza 17 maggio 1972, 93/71). 9. Le direttive e le decisioni quadro dell’ex III pilastro Il terzo comma dell’art. 288 TFUE prevede che “la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. La direttiva pur essendo un atto vincolante ha portata individuale. Essa infatti ha dei destinatari definiti in ciascuna direttiva, consistenti in uno più Stati membri. Spesso è rivolta tutti gli Stati membri, in questo caso si parla di direttive generali. In prevalenza le direttive mirano ad ottenere il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in determinate materie. Esse rappresentano uno strumento di normazione in due fasi: la prima accentrata livello comunitario, dove vengono fissati gli obiettivi e i principi generali, la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli obiettivi e i principi generali fissati dalla direttiva. Come il regolamento, essa è obbligatoria in tutti i suoi elementi (obbligatorietà integrale) infatti gli Stati membri non possono applicarla selettivamente o parzialmente, ma a differenza di quello, la direttiva si limita ad imporre agli Stati membri un risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere le misure di adattamento necessarie per realizzare il risultato prescritto. Si può affermare che la direttiva comporta un obbligo di risultato, mentre il regolamento impone un obbligo di mezzi. Quanto alla diretta applicabilità, occorre distinguere tra i due profili individuati a proposito dei regolamenti. La direttiva non gode della diretta applicabilità: il meccanismo descritto nel terzo comma dell'articolo 288 TFUE richiede che la direttiva riceva attuazione da parte degli Stati membri attraverso apposite misure. Gli Stati membri sono dunque tenuti ad adattare l'ordinamento interno in modo da assicurare che il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto. In mancanza, l'atto comunitario non è in grado, da solo, di ottenere il risultato voluto. Si tratta quindi di uno strumento che risponde ad una visione internazionalistica dei rapporti tra ordinamenti. Quanto al secondo profilo, perché possa parlarsi di efficacia diretta di una direttiva è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla giurisprudenza della Corte. Inoltre l'efficacia diretta delle direttive ha una ridotta portata ratione personarum. L’obbligo di attuazione di una direttiva è assoluto per ciascuno Stato membro al quale la direttiva è rivolta. L’unica ipotesi in cui è possibile omettere di attivarsi si ha quando lo Stato membro è in grado di dimostrare che il proprio ordinamento interno è già perfettamente conforme alla direttiva. L’obbligo va adempiuto entro il termine di attuazione fissato dalla direttiva stessa, il quale, può variare da pochi mesi ad uno o più anni a seconda dell'importanza della materia oggetto della direttiva e delle difficoltà che gli Stati membri possono incontrare nell'attuazione. Il termine è imperativo e perentorio: non è possibile addurre giustificazioni di sorta per il mancato rispetto. Il fatto che agli Stati membri sia concesso un termine per l’attuazione non deve far dimenticare che l’obbligo di trasposizione sorge nel momento in cui la direttiva entra in vigore. Lo Stato membro può attuare la direttiva anche prima della scadenza. È altresì possibile procedere ad un’attuazione per tappe purché questa sia completata entro il termine previsto. Viceversa in pendenza del termine lo Stato membro non può adottare provvedimenti in contrasto con la direttiva o comunque tali da compromettere gravemente la realizzazione del risultato che la direttiva prescrive (c.d obbligo di stand-still o di non aggravamento). Il principio di leale collaborazione con l’unione impone agli Stati membri di comunicare le misure di attuazione che essi hanno adottato. Secondo la lettera del terzo comma dell’art. 288 gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei mezzi di attuazione. La scelta non è peraltro del tutto libera. È infatti anzitutto necessario che gli strumenti scelti dal legislatore nazionale siano idonei a produrre la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva. Nella scelta si deve quindi tenere conto della gerarchia delle fonti di diritto interno. Se ad esempio la direttiva interviene su una materia già disciplinata da norme di legge, è chiaro che l’attuazione dovrà avvenire attraverso norme aventi almeno pari rango rispetto a quelle da modificare o abrogare. In caso contrario le norme di attuazione sarebbero inefficaci e lo scopo voluto dalla direttiva non sarebbe raggiunto. In secondo luogo, devono essere scelti strumenti di attuazione che garantiscano trasparenza e certezza del diritto (evitando procedure agevolate di attuazione, come circolari o semplici istruzioni rivolte agli uffici amministrativi). Per quanto riguarda il contenuto delle direttive, come si è visto, il meccanismo previsto si articola intorno al binomio risultato/forme e mezzi(il primo viene definito dalla direttiva, le forme e i mezzi sono scelti dalle autorità competenti degli Stati membri). Tuttavia determinati risultati non possono essere definiti limitandosi ad indicare obiettivi i principi generali, ma richiedono l'elaborazione di un quadro normativo alquanto dettagliato, che lascia alla libera determinazione degli Stati membri soltanto interventi limitati ad aspetti di secondaria importanza. Si parla a tal proposito di direttive dettagliate, le quali, benché simili nel contenuto ai regolamenti, non soltanto mantengono la struttura di qualsiasi direttiva (obbligo d'attuazione e termine) ma si giustificano in base al risultato voluto (adottate fino a gli anni '80, soprattutto nel campo dell'armonizzazione delle legislazioni tecniche, caratterizzate da una disciplina particolarmente precisa e particolareggiata). Nell’ambito di quello che, fino al Trattato di Lisbona era noto come III pilastro (Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), le istituzioni potevano adottare una serie di atti che rispondevano ad una tipologia diversa rispetto a quella prevista per il pilastro comunitario dell’art. 249 TCE. L’art. 34 TUE elencava infatti quattro tipi di atti: le posizioni comuni, le decisioni- quadro, le decisioni e le convenzioni. Le decisioni quadro sono definite dall’art. 34 par.2 lettera b). Si tratta di un tipo di atto che si ispira chiaramente al modello delle direttive, infatti condivide lo scopo che la maggior parte di queste prevede: “ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri” e il fatto di essere vincolanti quanto al risultato da ottenere. Sussiste però un’importante differenza cioè che le decisioni quadro non hanno efficacia diretta. 10. Le decisioni L’ultima categoria di atti vincolanti contemplata dall’art. 288 TFUE è costituita dalle decisioni, ai sensi del quarto comma "la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi” e che se la decisione “designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi". La categoria comprende: -le decisioni individuali dotate di destinatari individuati nell’atto, che sono i soli soggetti alla sua portata obbligatoria; - le decisioni generali prive di destinatari individuati nell’atto, che hanno pertanto portata obbligatoria generale. La decisione individuale coniuga due caratteristiche, l'una propria dei regolamenti e l'altra delle direttive. Come il regolamento è obbligatoria in tutti i suoi elementi e deve quindi essere rispettata nella sua interezza. Come la direttiva non ha portata generale, vincolando i soli destinatari da essa designati. A differenza della direttiva può essere rivolta non solo agli Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli. Le decisioni individuali rivolte agli Stati membri sono nella sostanza simili alle direttive, qualora impongano un obbligo di facere. Tuttavia l'obbligo di facere è spesso molto più specifico dell'obbligo di attuare una direttiva e lascia quindi allo Stato membro un margine di discrezionalità molto più ristretto. Esistono anche decisioni che si limitano a prescrivere un obbligo di non facere. In questo caso lo Stato membro destinatario è tenuto ad astenersi dall'attività vietata. (Ad esempio le decisioni della Commissione in materia di aiuti statali delle imprese possono avere l'uno e l'altro contenuto). Le decisioni individuali rivolte ai singoli hanno una natura spiccatamente amministrativa. I casi più importanti sono rappresentati dalle decisioni che la Commissione adotta nell'ambito della disciplina della concorrenza, che possono prevedere anche la comminazione di sanzioni pecuniarie a carico delle imprese. In quest'ultimo caso le decisioni costituiscono titolo esecutivo ai sensi dell'articolo 299 TFUE (previa apposizione della forma esecutiva da parte dell'autorità designata dallo Stato membro in cui s'intende ottenere l'esecuzione, è quindi possibile procedere alla loro esecuzione forzata). Le decisioni generali hanno natura varia. Gli esempi più importanti sono costituiti da alcune disposizioni che il Consiglio europeo adotta nell’ambito delle procedure di revisione dei trattati, in particolare quelle che riguardano alcune procedure semplificate. Di importanza analoga sono alcune decisioni, sempre del Consiglio europeo, che danno attuazione a specifiche disposizioni dei trattati (le decisioni con cui il Consiglio europeo stabilisce la composizione del Parlamento europeo, l’elenco delle formazioni del Consiglio diverse da quella “Affari generali” e “Affari esteri” e la presidenza delle formazioni diverse da quest’ultima). Alcune decisioni generali invece sono prese dal Consiglio (dove c’è un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art.2 oppure quelle con cui autorizza una cooperazione rafforzata). Vanno inoltre ricordate le decisioni in genere del Consiglio adottate nel quadro della PESC. 11. Gli atti nel settore PESC Mentre elimina le distinzioni tra gli atti di quello che in passato era il III pilastro e quelli tradizionali del pilastro comunitario, il Trattato di Lisbona mantiene un regime speciale per la PESC. Ai sensi dell’art. 25 TUE gli atti giuridici attraverso i quali l’Unione conduce la PESC sono di due tipi:  Gli orientamenti generali sono atti del Consiglio europeo corrispondenti alle strategie comuni previste in passato. Essi si configurano come atti di altissima politica, che definiscono le linee guida su cui l’Unione deve muoversi nel settore della politica estera e di sicurezza comune comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa.  Le decisioni sono atti del Consiglio, possono assumere vari contenuti potendo definire le azioni che l’Unione deve intraprendere, le posizioni che l’Unione deve assumere e le modalità di attuazione delle decisioni su azioni e posizioni. Gli atti che possono essere adottati nell’ambito PESC non hanno mai carattere legislativo, le decisioni però vincolano gli Stati membri. L'efficacia diretta di una norma dell’Unione implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio: i soggetti favoriti della norma possono chiedere al giudice nazionale l'applicazione in giudizio della norma stessa, ottenendone la corrispondente tutela giurisdizionale. Occorre rilevare che in passato, la Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà l'applicabilità diretta in senso stretto (nel senso di non necessità di misure di attuazione da parte degli Stati membri) è riservata dall' art. 288 TFUE ai soli regolamenti. L'efficacia diretta è invece una caratteristica che può essere presente anche in altre fonti del diritto dell’Unione, appare quindi opportuno distinguere le due nozioni ed utilizzare soltanto il termine efficacia diretta per riferirsi all'oggetto della presente Parte. Non sempre le norme dell’Unione presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti (persino di regolamenti). L'efficacia diretta non costituisce tuttavia l'unica forma attraverso cui le norme dell’Unione assumono rilevanza normativa interna. In presenza di norme prive della capacità di produrre effetti diretti, la giurisprudenza ha individuato almeno due forme di efficacia indiretta: -interpretazione conforme: riconoscere che il diritto dell’Unione, anche non direttamente efficace, ha un valore interpretativo cogente rispetto alle norme interne. I giudici nazionali sono infatti soggetti ad un obbligo di interpretazione conforme capace di ovviare a situazioni di apparente (ma non inevitabile) conflitto tra norme interne e dell’Unione. -risarcimento del danno: riconoscere che la mancata attuazione di una norma non direttamente efficace fa sorgere, in capo coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione, il diritto al risarcimento del danno a carico dello Stato membro responsabile. Tanto l’efficacia diretta quanto le due forme di efficacia indiretta che sono state menzionate sono la conseguenza del principio del primato del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri. Il diritto che deriva dall’ordinamento sovranazionale deve prevalere su quello nazionale. Benché non consacrato da alcuna norma scritta e tantomeno dai trattati, il principio del primato è implicito nell’idea stessa di Unione, al punto che ne è considerato una delle caratteristiche essenziali. Il principio del primato si manifesta sotto due aspetti. In primo luogo esprime l’idea che ogni Stato membro e tutti i suoi organi compresi i giudici nazionali devono osservare, nell’ambito delle rispettive competenze, il diritto dell’Unione e “dare pieno effetto alle varie norme dell’Unione, dato che il diritto degli Stati membri non può sminuire l’efficacia riconosciuta a tali differenti norme nel territorio dei suddetti Stati”. Tale obbligo che potremmo definire primato in senso ampio comporta che gli organi dotati del potere legislativo devono abrogare le disposizioni legislative incompatibili con il diritto dell’Unione o che ne rendano l’applicazione impossibile o difficile. Lo stesso vale per le Corti costituzionali che abbiano il potere di dichiarare erga omnes la nullità di una disposizione di legge contraria al diritto dell’Unione. Le amministrazioni sono anch’esse tenute, nell’esercizio dei loro poteri, ad adottare provvedimenti conformi al diritto dell’Unione. Infine anche i giudici hanno il compito di applicare le norme del diritto dell’Unione nei giudizi di cui sono investiti. La loro posizione rispetto al principio del primato è tuttavia molto particolare e il loro ruolo molto importante. Ai giudici da un lato spetta l’obbligo di interpretare le norme interne quanto più possibile conforme alle esigenze del diritto dell’Unione, in maniera da eliminare in via ermeneutica ogni possibile conflitto tra l’una e l’altro (obbligo di interpretazione conforme). Ugualmente ai giudici spetta accordare un risarcimento dei danni subiti da individui a causa della mancata osservanza del diritto dell’Unione da parte degli organi dello Stato (risarcimento del danno). Dall’altro lato i giudici sono titolari del potere-dovere di disapplicare immediatamente, senza bisogno di attendere la rimozione ne di rivolgersi ad altri organi tutte le disposizioni interne siano esse legislative o meno che siano incompatibili con il diritto dell’Unione (primato-disapplicazione). Un tale potere-dovere sussiste però solo in presenza di norme del diritto dell’Unione dotate di efficacia diretta. È solo qualora la norma dell’Unione abbia le caratteristiche particolari che ne fanno una norma direttamente efficace che la sua applicazione non può essere impedita dalla presenza di norme interne ad essa contrarie, anche se di rango legislativo, e richiede la disapplicazione immediata di tali norme ad opera diretta del giudice. 2. I presupposti dell’efficacia diretta Posto che l’efficacia diretta non è una caratteristica propria di ogni norma dell’Unione, il giudice nazionale qualora intenda trarre da una norma effetti diretti al fine di risolvere una controversia, ha l’onere di verificare d’ufficio se la norma presenti le caratteristiche necessarie avvalendosi se del caso del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. Nell’indagine volta a stabilire se una norma dell’Unione abbia o meno efficacia diretta, la Corte mira ad individuare nella norma in questione alcune caratteristiche sostanziali che la rendano suscettibile di essere applicata dal giudice senza che questo debba assumere compiti che in base al principio della separazione dei poteri non gli spetterebbero. Le caratteristiche richieste della Corte sono espresse con formule variabili ma che ruotano sempre intorno al concetto di sufficiente precisione e incondizionatezza della norma. Il presupposto della sufficiente precisione ha riguardo alla formulazione della norma: considerata alla luce del suo scopo e del contesto in cui si inserisce, la norma deve contenere un precetto sufficientemente definito perché i soggetti destinatari possano comprendere la portata e il giudice possa applicarlo nei giudizi di propria competenza. Esso richiede che la norma comunitaria specifichi almeno i seguenti tre aspetti: -titolare dell’obbligo; -titolare del diritto; -il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa. Può accadere che una stessa norma dell’Unione sia considerata sufficientemente precisa per determinati fini e non per altri. In altri termini, la diretta efficacia si determina anche in funzione del contenuto del diritto che si intende azionare. Il presupposto dell’incondizionatezza invece attiene all’assenza di clausole che subordinino l’applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri o delle istituzioni dell’Unione ovvero consentano agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nell’applicazione. L’esistenza di norme che consentono agli Stati membri di derogare all’applicazione di un’altra norma per determinati motivi non esclude di per sé l’efficacia diretta di quest’ultima. I presupposti della precisione e dell’incondizionatezza assumono importanza decisiva quando la norma di diritto dell’Unione abbia l’effetto di determinare o di aggravare la responsabilità penale dei singoli. Il giudice chiamato a farne applicazione dovrà tener conto dei principi generali e dei diritti fondamentali dell’individuo e in particolare “del principio di determinatezza della legge applicabile” che rientra nell’art. 49 della Carta (principio di legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene). Si tenga infine conto che, ai fini della verifica dell’efficacia diretta, la destinatarietà formale della norma non ha alcun rilievo. In particolare la circostanza che la norma si rivolga agli Stati membri o alle istituzioni non comporta necessariamente che sia priva di efficacia diretta. In linea di massima, i presupposti dell’efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma dell’Unione rispetto alla quale il problema si pone. Le caratteristiche proprie di ciascuna fonte portano ad alcune differenze di approccio e, talvolta, come nel caso delle direttive, a soluzioni particolari, su cui occorre soffermarsi. Per quanto riguarda le disposizioni dei trattati va rilevato che alcune di esse si riferiscono espressamente ai singoli. Un esempio molto importante è dato dalle norme in materia di competenza, in particolare gli artt. 101 e 102 TFUE che vietano alcuni comportamenti delle imprese. Queste norme sono direttamente efficaci nel senso che sono direttamente opponibili alle imprese interessate. Anche norme dei trattati rivolte agli Stati membri possono produrre effetti diretti qualora siano dotate delle caratteristiche sopra citate. Le norme dei trattati producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali quanto in quelli orizzontali. È dunque possibile invocarne il disposto non soltanto nei confronti di un’autorità pubblica, ma anche nei confronti di un privato. Si parla pertanto di efficacia diretta verticale e orizzontale. Il problema dell’efficacia diretta si è posto anche con riguardo ai principi generali e alle norme della Carta dei diritti fondamentali. Per quanto riguarda i primi va ricordata la sentenza 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri. La Corte ha accordato efficacia orizzontale al principio di non discriminazione sulla base dell’età in materia lavorativa e al principio fondamentale della parità di trattamento. Quanto alla Carta dei diritti fondamentali le sue norme in quanto dirette a tutelare i diritti individuali delle persone godono in generale di diretta efficacia, nel senso che possono essere invocate dagli interessati in rapporti verticali, cioè a difesa di comportamento lesivi assunti da poteri pubblici. Va però tenuto conto dell’art. 52 par. 5 da cui si ricava che le disposizioni della Carta contenenti meri principi non sarebbero in grado di produrre effetti diretti. Il problema dell’efficacia diretta si pone anche riguardo agli accordi internazionali conclusi dall’Unione con Stati terzi ai sensi dell’art. 216 TFUE. È infatti possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la disciplina contenuta in tali accordi, per contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni. Rispetto all’analisi effettuata riguardo ad altre fonti dell’Unione, la verifica svolta dalla Corte per decidere circa l’efficacia diretta delle disposizioni contenute in accordi internazionali si caratterizza per una particolare attenzione rivolta al contesto. Dapprima occorre dimostrare che la natura e la struttura dell’accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue disposizioni in generale e successivamente è necessario provare che la specifica disposizione invocata presenti le caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza. Riguardo ai regolamenti il problema dell’efficacia diretta ha in genere scarsa consistenza. Infatti la caratteristica della diretta applicabilità implica che normalmente le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti. Il principio subisce una certa attenuazione nel caso dei regolamenti che richiedono (implicitamente o esplicitamente) l’emanazione da parte degli Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In mancanza dei provvedimenti nazionali non si può fare a meno di verificare che la disposizione regolamentare in questione presenti i presupposti della sufficiente precisione e della incondizionatezza. Anche i regolamenti producono effetti diretti orizzontali e verticali. 3. Casi particolari (direttive, decisioni, atti degli ex pilastri non comunitari) Il problema dell’efficacia diretta delle direttive si pone in termini parzialmente diversi sa quelli sin qui esposti. Per quanto riguarda i presupposti sostanziali anche le direttive per essere direttamente efficaci devono presentare le caratteristiche precedentemente citate. Le differenza riguardano invece il momento a partire da quale l’efficacia diretta di produce e i soggetti nei cui confronti può essere fatta valere. Per quanto riguarda la portata temporale occorre tenere presente che per sua natura la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti. Di regola, le direttive hanno pertanto un’efficacia normativa interna meramente indiretta o mediata. Capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo oppure in forme non corrette o sufficienti, in modo da impedire il raggiungimento del risultato voluto. Solo in casi del genere (che pur frequenti appartengono alla patologia del meccanismo delle direttive) si pone il problema di stabilire se nonostante la mancanza o l’insufficienza delle misure nazionali d’attuazione, la direttiva possa produrre effetti diretti. Pertanto di effetti diretti di una direttiva non può parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l’attuazione concesso agli Stati membri. La seconda differenza riguarda la portata soggettiva dell’efficacia diretta di una direttiva. La giurisprudenza che ha riconosciuto anche alle direttive non attuate la possibilità di produrre effetti diretti, ha seguito un percorso argomentativo alquanto vario. Dal momento che l’efficacia interna della direttiva inattuata è conseguenza dell’obbligatorietà della stessa nei confronti degli Stati membri si comprende perché la Corte abbia limitato tale efficacia ai soli rapporti verticali. Pertanto la direttiva ha solo efficacia diretta verticale mentre è priva di efficacia quando è invocata da un soggetto pubblico contro un soggetto privato (rapporti verticali invertiti) e quando è invocato da un soggetto privato contro un altro soggetto privato (rapporti orizzontali). Si dice pertanto che le direttive inattuate no hanno efficacia diretta orizzontale. organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, di una cassa di previdenza, di un ente locale, ma anche del potere giudiziario. Le condizioni formali e sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento: dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il rispetto dei limiti che tali legislazioni devono rispettare quando si applicano ad azioni aventi ad oggetto diritti di derivazione comunitaria. 6. La tutela processuale dei diritti derivanti da norme dell’Unione Salvo eventuali interventi di armonizzazione da parte delle istituzioni dell’Unione, la definizione degli aspetti processuali spetta all'ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la norma dell’Unione è azionata. Tale principio definito dell'autonomia processuale degli Stati membri non è assoluto, le condizioni perché il principio possa valere sono due: 1) principio di equivalenza: le modalità definite dal diritto nazionale per l'esercizio di posizioni di derivazione del diritto dell’Unione non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziaria di posizione analoghe, di origine puramente interna; 2) principio di effettività: le modalità non possono essere tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di derivazione comunitaria. Le due condizioni sono cumulative. Il principio dell'autonomia processuale degli Stati membri e i collegati principi si applicano anche alle disposizioni nazionali che garantiscono l’intangibilità delle sentenze passate in giudicato e nel caso di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto dell’Unione. Il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri e soprattutto i limiti che vi si accompagnano sono stati richiamati dalla Corte per valutare le misure sanzionatorie amministrative o penali che gli Stati membri adottano in attuazione di vincoli posti dal diritto primario o dal diritto derivato. 7. Il primato del diritto dell’Unione La capacità del diritto dell’Unione di produrre effetti diretti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri pone il problema dei conflitti che possono sorgere tra norma dell’Unione e norme interne incompatibili. Conflitti del genere sono risolti in base al principio del primato del diritto dell’Unione: quando la norma comunitaria direttamente efficace incontra una norma interna incompatibile , perché ne impedisce parzialmente o totalmente l'applicazione, il principio del primato impone che la norma dell’Unione prevalga su quella interna. Da un punto di vista logico, il principio del primato si salda con quello dell'efficacia diretta: se l'efficacia diretta non si accompagnasse al primato, la norma dell’Unione non potrebbe concretamente creare diritti in capo ai soggetti di quegli ordinamenti degli Stati membri in cui fossero presenti norme interne incompatibili. L'efficacia della norma dell’Unione varierebbe infatti da uno Stato membro all'altro. Una situazione del genere sarebbe inaccettabile. È infatti un'esigenza fondamentale dell'ordinamento comunitario che le sue norme siano applicate uniformemente in tutti gli Stati membri. A cedere di fronte al diritto dell’Unione sono le norme interne di qualunque rango infatti sono si possono distinguere tra norme di carattere amministrativo, legislativo o costituzionale. In caso contrario, l'efficacia della norma dell’Unione varierebbe in ragione del diverso rango delle norme interne che regolano, nei vari Stati, la stessa materia oggetto della norma dell’Unione. Secondo la Corte, l'ordinamento dell’Unione non soltanto impone la prevalenza della norma dell’Unione sulla norma interna incompatibile, ma determina altresì le modalità attraverso cui tale prevalenza deve trovare applicazione e in particolare l'organo competente a farlo valere (se l'ordinamento nazionale fosse libero di determinare modalità e procedimenti, il carattere uniforme della norma comunitaria verrebbe meno). La Corte riconosce in particolare, che il giudice nazionale ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (sentenza Simmenthal). Non possono pertanto essere ammesse le costruzioni normative o le prassi giurisprudenziali che hanno per effetto di sottrarre al giudice ordinario il potere di disapplicare immediatamente le norme interne incompatibili con il diritto dell’Unione e di riservarlo ad organi diversi. Della sentenza Simmenthal rilevano alcuni passaggi in cui la Corte sembra voler delineare l'esistenza di un rapporto gerarchico tra ordinamento dell’Unione e ordinamenti degli Stati membri, tale da provocare l'invalidità della norma interna incompatibile con quella dell’Unione. Quindi non solo rendere ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme dell’Unione. L'esigenza di assicurare la tutela giudiziaria immediata delle norme dell’Unione produttive di effetti diretti implica altresì il potere per il giudice nazionale di emanare provvedimenti provvisori, che comportino la sospensione dell'applicazione di una norma interna, in attesa che sia definitivamente accertato (mediante rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia) l'incompatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione. La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto dell’Unione e vada pertanto disapplicata dal giudice nazionale in forza del principio del primato, norme esime lo Stato membro interessato dal provvedere alla abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza, la permanenza della norma nell'ordinamento dello Stato membro mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario (sentenza 24 marzo 1988, Commissione c. Italia - sentenza San Giorgio, sentenza Provincia autonoma di Bolzano). 8. La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale italiana è risultata particolarmente difficoltosa. Inizialmente la Corte parte dall'assunto che, secondo l'ordinamento costituzionale italiano, l'unico procedimento attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la dichiarazione di incostituzionalità ai sensi dell'art. 134 Cost. (Sentenza Costa c. Enel). L'attenzione della Corte si focalizza sulla legge di esecuzione del TCE ,la quale, come si è visto, è una legge ordinaria. Da ciò la Corte costituzionale deduce che anche le norme del TCE hanno il rango di legge ordinaria e sono pertanto destinate a cedere di fronte ad una norma di legge Successiva. Il contrasto è netto: secondo la Corte di giustizia il giudice nazionale deve applicare le norme del Trattato, disapplicando qualsiasi norma interna contraria, mentre, secondo la Corte costituzionale, il giudice italiano può applicare le norme dei trattati soltanto se non sia intervenuta una legge interna successiva incompatibile. Un primo avvicinamento avviene con la sentenza I.C.I.C. La Corte costituzionale, valorizzando maggiormente l'articolo 11 Cost., ne deduce che tale norma non soltanto consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con legge ordinaria, ma esige altresì che il legislatore rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi successive incompatibili o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta dall'art. 249 secondo comma TCE (ora art. 288 secondo comma TFUE). In simili evenienze, la norma di legge è incostituzionale per violazione dell'articolo 11, ma tale vizio non può portare alla sua disapplicazione da parte del giudice ordinario, rendendosi invece sempre necessario il ricorso alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost. Riassumendo, il giudice italiano, per effetto del principio della successione delle leggi nel tempo, ha il potere di disapplicare una norma di legge interna contraria al diritto comunitario qualora la legge preceda nel tempo la norma dell’Unione, ma non ha il potere di fare altrettanto qualora il rapporto temporale sia inverso: in questo caso il giudice non potrà fare altro che sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte costituzionale. Il sopravvenire della sentenza Simmenthal (in cui la Corte di giustizia prende posizione proprio contro la soluzione contenuta nella sentenza I.C.I.C.) costringe la Corte costituzionale a modificare nuovamente il proprio orientamento. L'occasione viene fornita dalla sentenza 8 giugno 1984 n. 170, Granital. La novità del ragionamento della Corte costituzionale consiste nel rifiuto di assimilare le norme dell’Unione a norme nazionali di legge. Da ciò discende l'impossibilità di applicare ai conflitti tra norme comunitarie e norme di legge i metodi di risoluzione previsti per l'ipotesi di conflitto tra norme entrambe appartenenti all'ordinamento italiano, compresa la dichiarazione di incostituzionalità. Trattandosi di norme di ordinamenti diversi, gli eventuali conflitti vanno risolti in base ad un diverso criterio: il criterio della competenza (l'ordinamento della C.e.e. e quello dello Stato, pur distinti e autonomi sono necessariamente coordinati). Occorrerà pertanto stabilire se la materia disciplinata rientri tra quelle in relazione alle quali l'Italia ha accettato, in conformità con l'articolo 11, di limitare la propria sovranità in favore della Comunità. Tale compito va svolto dal giudice ordinario e non richiede l'intervento della Corte costituzionale. Qualora risulti che la materia rientra effettivamente nella competenza che il Trattato attribuisce alle istituzioni dell’Unione, il giudice italiano, accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con l'esclusivo riferimento al sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. La soluzione vale soltanto se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno (come nel caso dei regolamenti). La soluzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital benché molto vicina a quanto richiesto dalla Corte nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze. La Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma dell’Unione e di disapplicare l'eventuale legge interna confliggente, esigendo invece che sia sollevata questione di costituzionalità. Si tratta pertanto di casi ancora oggi riservati alla competenza residua della Corte costituzionale: 1) norma dell’Unione contraria ai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e ai diritti dell'uomo: il giudice nazionale chiamato ad applicare una norma dell’Unione sospettata di violare i predetti principi, sarebbe pertanto tenuto a sollevare questione di costituzionalità relativamente alla legge di esecuzione dei trattati, in quanto da tale legge deriverebbe l'applicazione in Italia di una norma del genere. 2) norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali dei trattati: dovrebbe trattarsi di casi caratterizzati da particolare gravità e da una comprovata intenzione di impedire l'applicazione in Italia di interi settori del diritto dell’Unione. In casi del genere la Corte sarebbe quindi chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti della sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante la legge d'esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell'articolo 11 Cost. La competenza della Corte costituzionale a conoscere di conflitti tra norme dell’Unione e norme interne sussiste anche in tutte quelle ipotesi che si pongano al di fuori del giudizio di costituzionalità in via incidentale. Qualora infatti un conflitto del genere venga in rilievo nell'ambito di una delle sue competenze dirette, la Corte costituzionale è chiamata a risolverlo, rispettando, come tutti gli organi dello Stato, il principio del primato. Con la riforma del Titolo V della Costituzione il principio del primato del diritto dell’Unione su quello interno ha trovato un'esplicita consacrazione nel nuovo testo dell'art. 117 primo comma. PARTE V- IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE 1. Considerazioni generali L'ordinamento dell’Unione comprende un sistema di tutela giurisdizionale che assicura la protezione delle posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto dell’Unione. Tale sistema è ripartito su due livelli: -la Corte di giustizia dell’Unione europea (articolata al suo interno in Corte di giustizia, Tribunale e prima della sua abolizione il Tribunale della Funzione pubblica) -gli organi giurisdizionali degli Stati membri. Al primo livello spettano in via esclusiva alcune azioni tassativamente enumerate dai trattati, che i soggetti interessati possono proporre direttamente davanti ad una delle articolazioni della Corte di giustizia (competenze dirette): che la stessa Commissione non accetti di rinunciare a ricorso): la situazione di infrazione si cristallizza al momento della presentazione del ricorso,eventi successivi pertanto restano irrilevanti (v. sentenza 30 maggio 1991, Commissione c. Germania). Spetta comunque alla Commissione l’onere di dimostrare l’esistenza dell’inadempimento dedotto e di fornire le prove necessarie finchè la Corte lo possa accettare. La fase contenziosa termine con una sentenza della Corte. Dall'articolo 260 TFUE si evince che, in caso di accoglimento del ricorso, la Corte si limita a riconoscere che lo Stato membro ha mancato ad un obbligo derivante dai trattati. Si tratta pertanto di una sentenza di mero accertamento. Lo stesso articolo prevede che lo Stato membro è tenuto a prendere provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta. La sentenza non indica a quali adempimenti lo Stato membro dovrà dar corso e neppure il termine entro cui dovrà provvedere. La mancata o ritardata adozione dei provvedimenti necessari a conformarsi alla sentenza può indurre la Commissione ad avviare nei confronti dello Stato membro un secondo procedimento di infrazione per violazione dell'art.260. Per accrescere l'efficacia deterrente del secondo procedimento, è stata aggiunta una specifica disciplina contenuta nel par.2 dell’art. 260. La maggiore novità consiste nella possibilità che il secondo procedimento possa condurre all’emanazione, a carico dello Stato membro inadempiente, di una vera e propria sentenza di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria. Nel caso ritenga che uno Stato membro non ha preso i provvedimenti imposti da una precedente sentenza della Corte, la Commissione, esperita nuovamente la fase precontenziosa, presente alla Corte un ricorso, nel quale può essere indicato l'importo della somma forfettaria o di una penalità. Una disciplina speciale è prevista dal par. 3 dell’art. 260 per le infrazioni consistenti nel non avere comunicato le misure di attuazione di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa. In casi del genere tanto l’indicazione da parte della Commissione della sanzione da comminare a carico dello Stato inadempiente quanto la sentenza della Corte con cui la sanzione è comminata entro i limiti dell’importo indicato dalla Commissione possono intervenire già all’esito del primo procedimento di infrazione. L'art. 259 TFUE disciplina il procedimento di infrazione avviato su iniziativa di uno Stato membro. Tale procedura costituisce l’unico mezzo per risolvere una controversia tra Stati membri. 3. Il ricorso d’annullamento Disciplinato dagli artt. 263 e ss. TFUE costituisce la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità prevista per gli atti dell'istituzioni comunitarie. Esso mira ad ottenere l'annullamento degli atti che risultino viziati. È importante chiarire che secondo la Corte essa è l’unico organo competente a controllare la legittimità degli atti delle istituzioni e a dichiararne l’illegittimità o l’annullamento quindi essa ritiene di essere investita del monopolio sul controllo della legittimità del diritto derivato dell’Unione. Questa soluzione è finalizzata ad evitare che le Corti costituzionali tedesco-federale e italiana rivendicassero la necessità di operare esse stesse un controllo. L'art. 263 primo comma definisce gli atti impugnabili facendo riferimento a tre criteri: a)autore: possono essere impugnati gli atti di tutte le istituzioni (art. 13 par.1 comma secondo TUE) eccetto la Corte di giustizia e la Corte dei conti, nonché gli atti degli organi o organismi dell’Unione. Tutti questi soggetti sono pertanto dotati di legittimazione passiva nell'ambito del ricorso d'annullamento. 2)tipo: l' art. 263 distingue anzitutto gli atti legislativi dagli atti che tali non sono. Gli atti legislativi sono sempre impugnabili. Per gli altri che vengono genericamente designati come "atti" l'impugnabilità dipende dal terzo criterio, quello degli effetti. Per il Consiglio, la Commissione e la BCE questo scopo è implicitamente raggiunto, escludendo l’impugnabilità di raccomandazioni o pareri e ammettendo invece quella di qualsiasi altro atto di tali istituzioni appartenente alle altre categorie dell’art. 288 TFUE ( regolamenti, direttive e decisioni). 3)effetti: permette di limitare l'impugnazione ad atti non legislativi che sono destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. I soggetti legittimati a proporre il ricorso d’annullamento (legittimazione attiva) sono individuati dai commi 2,3,4 dell'art.263. Ciascuno di questi commi prevede condizioni diverse di ricevibilità. Può pertanto parlarsi di tre categorie di ricorrenti. -prima categoria (ricorrenti privilegiati): comprende Stati membri, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione. Il loro diritto di ricorso non è soggetto ad alcun limite. Essi possono proporre ricorso contro qualunque atto che rientri nella definizione di atto impugnabile e non devono dimostrare alcuno specifico interesse a ricorrere, essendo considerati portatori di un interesse generale alla legittimità degli atti comunitari. -seconda categoria (ricorrenti intermedi): costituita dalla Corte dei conti e dalla BCE e dal Comitato delle regioni. La legittimazione ricorrere di tali organi non è generale, ma specificatamente finalizzata a salvaguardare le loro prerogative. -terza categoria (ricorrenti non privilegiati): costituita dalle persone fisiche e giuridiche. Le condizioni alle quali è sottoposto il diritto di ricorso spettante a tali soggetti sono definite in maniera particolarmente restrittiva dall'art.263 quarto comma. La norma disciplina tre ipotesi distinte: -prima ipotesi: una persona fisica o giuridica impugna un atto adottato nei suoi confronti, di cui il ricorrente è il destinatario. In questo caso occorre soltanto dimostrare di avere interesse a ricorrere (esempi di tali decisioni si hanno nel campo della disciplina della concorrenza); -seconda ipotesi: una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è il destinatario. Per ricorrere contro un atto del genere il ricorrente deve dimostrare che l'atto lo riguarda direttamente ed individualmente; -terza ipotesi: costituisce in realtà una deroga alla seconda. La persona fisica o giuridica anche in questo caso non è il destinatario formale dell’atto impugnato. L’atto però deve essere un atto regolamentare e non comportare alcune misura d’esecuzione. In passato l'identificazione dei casi in cui il doppio requisito dell’interesse diretto e dell’interesse individuale potesse dirsi soddisfatto ha costituito un problema interpretativo dei più difficili e delicati dell'intero diritto dell’Unione. L’introduzione nell’art. 263 quarto comma TFUE della terza ipotesi è un tentativo, seppur limitato, di superare o almeno di attenuare il rigore che la giurisprudenza aveva sinora mostrato in proposito.  Perché una persona fisica o giuridica possa impugnare una decisione rivolta ad un'altra persona fisica o giuridica, l'onere probatorio non è eccessivo. Basta dimostrare che il ricorrente è portatore di un interesse qualificato all'annullamento dell'atto. Un siffatto interesse è ritenuto implicito nel fatto di aver provocato l'avvio del procedimento che ha portato all'adozione dell'atto impugnato o nell'avervi partecipato, presentando osservazioni che sono state prese in considerazione nell'atto impugnato. In casi del genere, la ricevibilità del ricorso viene ammessa, senza procedere ad un esame differenziato dell'interesse diretto rispetto a quello individuale. Soluzione questa seguita in particolare riguardo all'impugnazione delle decisioni di in materia di concorrenza  Qualora invece l'atto impugnato sia costituito da un regolamento o anche da una decisione rivolta ad uno o più Stati membri, l'onere probatorio è maggiore. Le difficoltà non riguardano tanto l'interesse diretto inteso come dimostrazione che il ricorrente è pregiudicato direttamente dall’atto impugnato. Per i regolamenti, considerato che si tratti di atti direttamente applicabili negli Stati membri, l'interesse diretto è in re ipsa. Quanto alle decisioni rivolte a Stati membri, si tratta di provare che le autorità nazionali non dispongono di alcun potere discrezionale riguardo all'applicazione della decisione o che, pur godendo della facoltà di non applicare la decisione o di applicarla parzialmente, hanno già manifestato in anticipo la loro volontà di dare all'atto piena applicazione Il vero "scoglio" è costituito invece dall'interesse individuale. La giurisprudenza applica una formula particolarmente rigorosa, risalente alla sentenza 15 luglio 1963, Plaumann. Dalla formula Plaumann ciò che rileva da essa non è che l'atto impugnato colpisca il ricorrente, ma a quale titolo il ricorrente sia colpito. Non basta che ciò avvenga in quanto il ricorrente appartiene ad una categoria di soggetti astrattamente individuata. Occorre invece dimostrare che l'atto ha preso in considerazione proprio la posizione individuale del ricorrente e pertanto a) produce effetti giuridici soltanto sulla sua posizione individuale b) produce sul ricorrente effetti giuridici diversi (più gravi) rispetto a quelli che si producono a carico di tutti gli altri soggetti. Conviene soffermarsi sui casi in cui l'interesse individuale può essere considerato sussistente: -smascheramento dell'atto: il ricorrente deve fornire la dimostrazione che l'atto non è quel che appare, ma, in sostanza, è una decisione individuale nei suoi confronti (allo smascheramento si è talvolta pervenuti in casi di impugnazione di regolamenti) -in altri casi è sufficiente dimostrare che l'atto contiene disposizioni che riguardano in maniera individuale determinati operatori economici. -presenza di un interesse individuale dimostrata dalla circostanza che l'atto impugnato contiene un espresso riferimento a determinati soggetti, ovvero che il comportamento di determinati soggetti sia stato preso in considerazione nel corso del procedimento per l'emanazione dell'atto impugnato. - interesse individuale può derivare anche dalle caratteristiche del procedimento che conduce all'atto impugnato. Qualora sia prescritto che il procedimento coinvolga obbligatoriamente determinati soggetti o sia garantita la partecipazione di altri soggetti interessati, si presume che tutti questi soggetti siano portatori di un interesse qualificato che consente loro di impugnazione dell'atto finale, indipendentemente dalla sua natura -in maniera analoga, l'interesse individuale è provato se l'istituzione autrice dell'atto impugnato è soggetta all'obbligo di prendere in considerazione la posizione giuridica di determinati soggetti. Le notevoli difficoltà che le persone fisiche o giuridiche incontrano per dimostrare l'esistenza delle condizioni previste dall'allora vigente art. 230.4 TCE aveva spinto molti a chiedere un'attenuazione del rigore mostrato finora dalla giurisprudenza. In particolare era stato evidenziato il rischio che si potessero produrre lacune nel sistema di tutela giurisdizionale in situazioni in cui i soggetti pregiudicati non dispongano di alcun rimedio giurisdizionale effettivo, in alternativa al ricorso diretto ai sensi dell'art. 230.4. Lacune si sarebbero potute avere nel caso di regolamenti che non richiedono alcun provvedimento d'esecuzione da parte delle autorità nazionali. In questi casi verrebbe infatti meno anche la possibilità per gli interessati di rimettere in discussione la legittimità del regolamento, impugnando il provvedimento nazionale d'esecuzione e inducendo il giudice nazionale competente a sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 TCE (ora 267 TFUE). Ciò avrebbe comportato una violazione del diritto fondamentale ad un rimedio giurisdizionale effettivo. L’appello della Corte a che gli Stati membri provvedano a riformare le condizioni di ricevibilità di un ricorso d’annullamento presentato da una persona fisica o giuridica contro un atto di cui non è il destinatario e contro un atto di portata generale, non è rimasto del tutto inascoltato. La terza ipotesi ora prevista dall’art. 263.4 TFUE sembra infatti prendere in considerazione proprio casi del tipo di quelli oggetto delle sentenze Union de Pequenos agricultores e Jego-Quere. Stabilisce condizioni di ricevibilità dei ricordi individuali meno severe, che però valgono solo che oggetto di impugnazione sono atti regolamentari e che non comportano alcuna misura di esecuzione. L'art. 263 secondo comma elenca i vizi di legittimità, che possono essere fatti valere nell'ambito di un ricorso all'annullamento: a) incompetenza: può essere interna nel caso in cui l'istituzione che emette l'atto non ha il potere di farlo, perché tale potere spetta ad altra istituzione. E' esterna quando nessuna istituzione ha il potere di emanare l'atto in questione, che non rientra fatto nella competenza comunitaria. b) violazione delle forme sostanziali: sussiste quando non sono rispettati quei requisiti formali di tale importanza da influire sul contenuto dell'atto. Può trattarsi di forme relative al procedimento da seguire per l'emanazione dell'atto o in materia di concorrenza l’audizione delle imprese interessate prima dell’adozione della decisione finale. Un atto adottato senza osservare tali formalità è viziato e deve essere annullato. Altre ipotesi attengono all'atto in quanto tale. La più importante è distintivo è legato anche alla disponibilità di un'azione da proporre dinanzi ai giudici nazionali, che sia in grado di soddisfare pienamente la pretesa stessa. Se un'azione del genere è possibile, la competenza della Corte ai sensi dell'art. 268 è esclusa. Il ricorso per risarcimento si configura pertanto come un rimedio residuale rispetto alla tutela che possono offrire i giudici nazionali. I presupposti della responsabilità extracontrattuale vanno tratti dai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri. Principi che spetta alla giurisprudenza individuare. Secondo la Corte ai tre presupposti del danno, del nesso di causalità tra il danno e il comportamento e l’illegittimità del comportamento delle istituzioni, altri due se ne aggiungono qualora il comportamento delle istituzioni consista nell'esercizio di poteri caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità e, in particolare, nell'adozione di atti normativi implicanti scelte di politica economica. In questi casi occorre altresì provare che: a) la norma violata dalle istituzioni sia preordinata a conferire diritti singoli, b) si tratti di una violazione grave e manifesta. La scelta di subordinare la responsabilità delle istituzioni in caso di esercizio di poteri discrezionali e, normativi in particolare, a specifici presupposti aggiuntivi discende dalla necessità di evitare che l'istituzione in questione sia ostacolata nelle sue decisioni dalla prospettiva di azioni di danni ogni volta che debba adottare, nell'interesse generale, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli. Talvolta la giurisprudenza è stata chiamata a decidere se in taluni casi sia possibile prescindere dal presupposto dell’illegittimità del comportamento delle istituzioni che ha provocato il danno: in altri termini se alle istituzioni possa essere eccezionalmente imputata una responsabilità da attività lecita. Il diritto al risarcimento dei danni è soggetto ad un termine di prescrizione di cinque anni, a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà loro origine. 6. La competenza pregiudiziale: concetti generali Art. 267 TFUE: la Corte di giustizia può o, secondo i casi, deve essere chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto dell’Unione che si pongono nell'ambito di un giudizio instaurato davanti ad una giurisdizione di uno degli Stati membri. In base a tale competenza, la Corte conosce di determinate questioni di diritto dell’Unione, soltanto in seguito al rinvio operato da un giudice nazionale. Questi richiede alla Corte di pronunciarsi su determinate questioni perché reputa necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto. Si tratta quindi di una competenza indiretta, in quanto l'iniziativa di rivolgersi alla Corte non è assunta direttamente dalle parti interessate, ma dal giudice nazionale. Essa è anche una competenza limitata, potendo la Corte esaminare soltanto le questioni di diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale. Questi rimane competente a pronunciarsi su tutti gli altri profili della controversia. Le ragioni che hanno condotto ad inserire una competenza di tipo pregiudiziale, tra le altre competenze della Corte di giustizia, sono relative ad alcune caratteristiche tipiche dell'ordinamento dell’Unione: da un lato il sistema decentralizzato di applicazione del diritto dell’Unione, per cui il compito di applicare la normativa ai soggetti degli ordinamenti interni è affidato alle autorità di ciascuno Stato membro; dall’altro l’essere la maggiore parte delle norme dell’Unione dotate di efficacia diretta. Entrambe queste caratteristiche rendono estremamente frequente l'insorgere di controversie, le quali, in quanto non sottoposte dai trattati alla competenza diretta del diritto dell’Unione vanno instaurate dinanzi ai giudici degli Stati membri. Lo scopo di tale meccanismo è duplice: a) evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme dell’Unione in maniera autonoma, col rischio di infrangere l'unitarietà del diritto dell’Unione; b) offrire ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le difficoltà interpretative che il diritto dell’Unione può sollevare. In quanto garanzia della corretta applicazione e dell'uniforme interpretazione del diritto dell’Unione, la competenza pregiudiziale ha dato un contributo di inestimabile importanza allo sviluppo di tale diritto. Il meccanismo previsto dall'art. 267 ha infatti coinvolto in prima persona i giudici nazionali, e quindi anche le persone che a tali giudici si rivolgono, nello sforzo diretto a controllare che il diritto dell’Unione venga correttamente interpretato ed applicato da parte degli Stati membri e all'interno degli stessi, moltiplicando in misura esponenziale le occasioni in cui tale controllo può venire. L'importanza della competenza pregiudiziale è ampiamente riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza della corte di giustizia. Per quanto riguarda il settore della PESC prima del Trattato di Lisbona, il Titolo V del TUE non prevedeva alcuna competenza analoga a quella disciplinata dall’art. 267. La situazione non è formalmente cambiata infatti la Corte non è competente per quanto riguarda le disposizioni relative alla PESC e gli atti adottati. Tuttavia tenuto conto che il secondo comma dell’art. 275 contiene un’eccezione, costituita dal ricordo d’annullamento speciale, la Corte di giustizia ha ammesso nel recente caso della sentenza PJSC di essere competente a valutare la legittimità di simili decisioni anche nell’ambito del rinvio pregiudiziale di validità. La competenza pregiudiziale viene in rilievo anche sotto il profilo del diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva, tutelata dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Infatti omettendo di sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia quando invece le circostanze lo richiederebbero, il giudice, pregiudica il diritto dei soggetti interessati ad un rimedio giurisdizionale effettivo o addirittura li distoglie dal loro giudice naturale. 7. L’oggetto delle questioni pregiudiziali Risulta dal testo dell’art. 267 che la competenza pregiudiziale della Corte può riguardare questioni di interpretazione e questioni di validità. -Le questioni pregiudiziali di interpretazione possono avere ad oggetto i trattati e gli atti compiuti dalle istituzioni dagli organi e dagli organismi dell’Unione. Per trattati si deve intendere il testo del TUE e del TFUE nella versione applicabile ratione temporis ai fatti della causa pendente davanti al giudice nazionale, compresi i protocolli e gli allegati (art. 51 TUE), tenendo conto degli emendamenti intervenuto ai sensi dell’art. 48 TUE o degli adattamenti apportati in occasione dell’adesione di nuovi Stati membri e gli stessi atti di adesione. La nozione di atti compiuti delle istituzioni è molto ampia e comprende anzitutto gli atti appartenenti alle categorie di cui all’art. 288 TFUE, include le raccomandazioni e i pareri, ma anche gli atti atipici, gli accordi internazionali e gli atti privi di efficacia diretta. La lettera dell’art. 267 esclude che, nell’ambito di una questione di interpretazione, la Corte possa essa stessa procedere all’applicazione di norme dell’Unione alla fattispecie oggetto del giudizio pendente davanti al giudice nazionale. L’art. 267 contrappone implicitamente l’interpretazione all’applicazione del diritto dell’Unione ed attribuisce alla Corte solo la prima funzione, riservando la seconda al giudice nazionale. Parimenti non è previsto che la Corte possa procedere all’interpretazione di norme degli Stati membri o pronunciarsi sull’incompatibilità di una norma nazionale con norme dell’Unione. Entrambi questi compiti spettano al giudice nazionale che ha operato il rinvio. Occorre tuttavia osservare che qualora il giudice nazionale, come molto spesso avviene, chieda alla Corte un giudizio sulla compatibilità con il diritto dell’Unione di specifiche norme interne, la Corte pur mantenendo fermo il principio della sua incompetenza a rispondere a questioni del genere, non le dichiara inammissibili, ma le riformula, in modo da fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione che gli consentono di valutare tale compatibilità ai fini della soluzione della causa. In questo modo si permette che il rinvio pregiudiziale sia utilizzato dai giudici nazionali per ottenere dalla Corte un giudizio, sia pure indiretto, sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione, con effetti non molto diversi da quelli di una sentenza emessa contro lo Stato membro in questione all’esito di un ricorso per infrazione (uso alternativo del rinvio pregiudiziale). -Le questioni pregiudiziali di validità possono avere ad oggetto soltanto gli atti compiuti dalle istituzioni dagli organi e dagli organismi dall’Unione. Tali questioni consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla validità di tali atti ad integrazione del controllo che la Corte esercita attraverso il ricorso d’annullamento, l’eccezione di invalidità e l’azione di danni da responsabilità extracontrattuale. L’analogia con il ricorso d’annullamento comporta che oggetto di una questione pregiudiziale di validità possano essere tutti gli atti contro i quali si può proporre un ricorso ai sensi dell’art. 263. Anche i motivi di invalidità che possono essere fatti valere sono gli stessi di quelli menzionati nel secondo comma dell’art. cit. 8. Ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale Giudici nazionali e Corte di giustizia svolgono quindi un ruolo complementare al fine di individuare una soluzione al caso concreto che sia conforme al diritto dell’Unione. L'assenza di un rapporto di tipo gerarchico spiega perché la Corte non eserciti alcun tipo di controllo sulla competenza del giudice nazionale a conoscere del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state sollevate oppure sulla regolarità del giudizio stesso e, in particolare, del provvedimento di rinvio. Si tratta di aspetti disciplinati solo dal diritto interno del giudice nazionale e pertanto vanno risolti dalla Corte. Esistono casi in cui la Corte esercita un controllo sulle decisioni di rinvio da parte del giudice nazionale e può dichiarare le questioni irricevibili o si rifiuta comunque di pronunciarsi. Questo avviene in ipotesi patologiche individuate dalla giurisprudenza. Tali ipotesi possono definirsi: -questioni mancanti di una sufficiente definizione dell’ambito di fatto e di diritto -questioni manifestamente irrilevanti -questioni puramente ipotetiche. La prima ipotesi è alquanto diversa dalle altre perché riguarda il contenuto del provvedimento di rinvio. La Corte richiede che (soprattutto con riferimento a questioni riguardanti il settore della concorrenza) il giudice nazionale definisca l'ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno le ipotesi di fatto. In mancanza di sufficienti indicazioni la Corte non potrebbe giungere ad un'interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale e si riserva quindi la possibilità di non rispondere alle questioni pregiudiziali. Per quanto riguarda le altre due ipotesi, occorre partire dal constatare che la Corte non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni del diritto dell’Unione rispetto alla soluzione del caso pendente davanti al giudice nazionale. Di conseguenza, in una prima fase, la Corte che spettasse al solo giudice nazionale valutare la necessità del rinvio e, in particolare, la rilevanza o la pertinenza delle questioni pregiudiziali. Successivamente un uso talvolta improprio e persino abusivo del rinvio pregiudiziale ad opera delle parti e degli stessi giudici nazionali ha indotto la Corte a mutare atteggiamento. Essa si è così riservata il potere di verificare la rilevanza delle questioni pregiudiziali al fine di controllare se essa sia competente a rispondere nei seguenti casi: - questioni manifestamente irrilevanti: in cui la norma dell’Unione oggetto della questione pregiudiziale è manifestamente inapplicabile alla fattispecie oggetto del giudizio nazionale; - questioni puramente ipotetiche: definite in ragione della loro genericità o del fatto che non rispondono ad un effettivo bisogno del giudice nazionale, in vista della soluzione della controversia. Nella fase attuale, l'atteggiamento della Corte è nuovamente orientato verso maggiore prudenza. Infatti pur ribadendo il suo potere di rifiutarsi di rispondere a questioni pregiudiziali in casi eccezionali parte da una sorta di prudenza di rilevanza. Essa considera che qualora le questioni sollevate dal giudice nazionale vertano sull’interpretazione di una norma comunitaria la Corte è tenuta a statuire in via di principio. Quindi si accontenta che il giudice abbia indicato i motivi. 9. La nozione di giurisdizione La competenza pregiudiziale può essere attivata soltanto da un organo che possa essere definito come una giurisdizione di uno degli Stati membri. La Corte si riserva il potere di verificare che l'organo autore del rinvio pregiudiziale rientri effettivamente in tale nozione, considerandola come validità. Con riferimento alle sentenze di validità può essere invocato per analogia l’art. 264 TFUE applicabile alle sentenze che accolgono un ricorso d’annullamento. La Corte tuttavia fa generalmente salva la possibilità di invocare la sentenza pregiudiziale da parte di coloro che abbiano proposto un'azione giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza stessa (v. sentenza FRAGD). PARTE VI- LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA 1. Considerazioni generali in materia di competenza: il principio d’attribuzione Inizialmente il problema di come vanno delimitate e qualificate le competenze dell’Unione europea si è posto soprattutto per quanto riguarda la CE. Rispetto alle altre componenti dell’Unione (la PESC e la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), la CE ha avuto vita molto più lunga nel corso della quale si è assistito ad uno sviluppo ampio e articolato delle sue competenze. La CE inoltre era caratterizzata da un’impostazione sovranazionale, che la rendeva autonoma rispetto agli Stati membri e questi non sempre riuscivano a controllarne i processi decisionali, pertanto il rischio era che si verificasse una strisciante estensione delle competenze della Comunità privando così gli Stati membri del loro potere individuale di veto. Tutto ciò spiega come mai il problema della delimitazione delle competenze sia stato affrontato a partire dal Trattato di Maastricht, principalmente con riferimento al TCE. In tale trattato è stato inserito l’art.5 nel quale venivano enunciati il principio di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità. In un secondo momento, delineandosi l’abolizione della struttura a pilastri e l’estensione del metodo comunitario alle materie in precedenza appartenenti al III pilastro si è arrivati all’esigenza di arrivare a una disciplina di più ampia portata da dedicare al problema delle competenze. Il Trattato di Lisbona ha rafforzato lo status dei richiamati principi erigendoli a principi applicabili all’intera Unione e incorporandoli in uno dei primi articoli del TUE, l’art. 5. Il par.1 enfatizza la centralità del principio, e il par. 2 lo definisce. In questa definizione l’accento è posto sul carattere derivato delle competenze dell’Unione. Questo carattere risulta già dall’art. 1 primo comma TUE ai sensi del quale: “con il presente trattato le Alte parti Contraenti istituiscono tra di loro un’Unione europea […] alla quale gli Stati membri attribuiscono competenze per conseguire i loro obiettivi comuni”. La seconda frase del par. 2 art. 5 completa la definizione contenuta nel par. 1, esprimendo l’idea della specialità delle competenze dell’Unione rispetto a quelle degli Stati membri:”Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri”. In altri termini, la competenza dell’Unione non si presume. La regola generale è la competenza degli Stati membri. Il principio di attribuzione esige che per ciascun atto dell’Unione venga indicata la base giuridica su cui l’atto è fondato. Gli Stati membri e le Corti costituzionali sono molto attenti a che il principio della competenza d’attribuzione sia rispettato e che le istituzioni non eccedano le competenze attribuite, invadendo quelle riservate agli Stati membri. La portata del principio di attribuzione risulta tuttavia meno rigida di quel che potrebbe sembrare. Da un lato la Corte di giustizia ha ammesso che pur in mancanza di un’espressa attribuzione di poteri, l’Unione possa essere considerata competente quando l’esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto oppure per il raggiungimento degli obiettivi dell’ente (teoria dei poteri impliciti). La teoria in esame ha trovato applicazione nella giurisprudenza tutte le volte che questa ha interpretato estensivamente i poteri delle istituzioni e restrittivamente i poteri residui degli Stati membri. Tra i casi più celebri possono ricordarsi l’affermazione della competenza dell’Unione a stipulare accordi internazionali in materia di trasporti nonostante la mancanza di un’esplicita previsione al riguarda in forza del principio del parallelismo dei poteri interni ed esterni secondo cui l’Unione può concludere accordi internazionali in tutte le materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul piano interno. Dall’altro lato i trattati stessi prevedono una sia pur parziale deroga al principio della competenza d’attribuzione, attraverso l’art. 352 par. 1 TFUE. Tale norma è nota come clausola di flessibilità. L’inserimento di una norma così formulata rivela come gli stessi Stati membri siano coscienti dell’impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui l’Unione potrebbe avere bisogno per raggiungere i suoi fini complessi e variegati (art. 3 TUE). Da qui la necessità di consentire, entro limiti molto ristretti e con il rispetto di una procedura rigorosa, l’assunzione autonoma, cioè senza l’intervento degli Stati membri, di nuovi poteri. La procedura infatti è delle più solenni. È sempre prevista una deliberazione del Consiglio all’unanimità, su proposta della Commissione, previa approvazione del Parlamento europeo. La seconda frase precisa che qualora si intendesse adottare un atto legislativo, si seguirà una procedura legislativa speciale dello stesso tipo. Da un punto di vista sostanziale occorre che siano soddisfatte numerose e complesse condizioni: -la nuova azione deve apparire necessaria nel quadro delle politiche definite dai trattati per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati; -i trattati non devono aver previsto i poteri di azione richiesti a tal fine; -la nuova azione non può comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati lo escludono; -la nuova azione non può servire per il conseguimento di obiettivi riguardanti la PESC. La prima condizione (necessità dell’azione) comporta un notevole margine di discrezionalità in favore delle istituzioni. La vastità degli scopi previsti dall’art. 3 TUE, soprattutto dopo l’abolizione della struttura a pilastri, è infatti tale che qualsiasi azione potrebbe essere agevolmente collegata con essi, qualora ce ne fosse volontà politica. Quanto alla seconda condizione (mancata previsione di adeguati poteri), una prima sentenza della Corte sembrava volerne sminuire l’importanza, poiché era stato ritenuto sufficiente per il ricorso al vecchio art. 308 TCE l’assenza di una soluzione abbastanza efficace nell’ambito del TCE e l’esigenza di garantire la certezza del diritto. Successivamente però la Corte ha mostrato un atteggiamento più restrittivo, sottolineando il carattere residuale della norma in esame ed escludendone l’utilizzabilità ogni volta che il TCE prevedeva una base giuridica alternativa. La terza condizione (esclusione di misure d’armonizzazione nei settori in cui non sono previste) mira ad impedire che, attraverso misure approvate ai sensi dell’art. 352 TFUE, le istituzioni possano aggirare un limite alla loro competenza espressamente voluto dai trattati. L’art. 352 TFUE affida alle istituzioni la scelta del tipo di atto da adottare, riferendosi genericamente a le disposizioni appropriate. Ci si è domandati se, al di là delle esclusioni espressamente previste dal testo dell’art. 352 TFUE esistano dei limiti intrinseci alla possibilità di ricorrere a questa norma. È infatti evidente che essa costituisce un minus rispetto alla procedura di revisione di cui all’art. 48 TUE. La norma in esame (art. 308 TCE) consente nuove azioni ma non deviazioni o deroghe rispetto alla disciplina materiale fissata dagli stessi trattati. Ad esempio non sarebbe possibile adottare disposizioni che contraddicano le regole relative alle quattro libertà di circolazione. 2. I vari tipi di competenza Non tutte le competenze attribuite dai trattati all’Unione hanno pari natura. Occorre distinguere tra competenze esclusive, competenze concorrenti e competenze di sostegno, coordinamento e completamento (c.d. di terzo tipo). Accanto a queste tre categorie, l’art. 2 TFUE prevede anche una competenza di coordinamento nel campo delle politiche economiche e dell’occupazione e la competenza per definire e attuare la PESC. L’art. 2 par. 1 TFUE è dedicato alle competenze esclusive. Le caratteristiche di queste sono: -esistenza del potere di adottare atti legislativi o, più in generale, vincolanti soltanto nel campo dell’Unione; -assenza del potere di adottare atti del genere in capo agli Stati membri anche in caso di inazione dell’Unione; -potere degli Stati membri di agire soltanto se autorizzati dall’Unione o se si tratta di atti destinati a dare attuazione ad atti dell’Unione. L’art. 3, par.1 TFUE contiene un’elencazione dei settori in cui l’Unione ha competenza esclusiva. Tale elencazione è da considerarsi tassativa. I settori sono unione doganale, definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, politica commerciale comune. Inoltre il par. 2 prevede un’ulteriore competenza esclusiva in merito alla conclusione di accordi internazionali. Per quanto riguarda l’art. 2 par. 2 TFUE si occupa delle competenze concorrenti. Le caratteristiche di queste sono: -coesistenza del potere di adottare atti legislativi e vincolanti in genere in capo sia all’Unione che agli Stati membri; -pienezza del potere di azione degli Stati membri finchè l’Unione resta inerte; -progressiva perdita del potere di azione degli Stati membri man mano che l’Unione agisce; -riacquisto del potere di azione da parte degli Stati membri nella misura in cui l’Unione decide di cessare di esercitare la propria competenza. Ni settori di competenza concorrente, infatti, inizialmente Unione e Stati membri possono ciascuno esercitare i propri poteri. Si tratta però di una situazione transitoria infatti man mano che l’Unione agisce, diminuisce corrispondentemente lo spazio d’azione degli Stati membri. In forza del principio di leale collaborazione di cui all’art. 4 par. 3 TUE, gli Stati membri sono tenuti ad astenersi da qualsiasi misura possa mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Essi non potrebbero pertanto adottare provvedimenti in materie già oggetto si atti dell’Unione, qualora poi questa scegliesse di adottare in un certo settore di competenza concorrente una disciplina completa e dettagliata, agli Stati membri sarebbe precluso qualunque intervento (tale fenomeno può essere definito come svuotamento o pre-emption: competenza esclusiva dell’Unione). Ne risulta che nei settori di competenza concorrente l’estensione e finanche la sopravvivenza della competenza degli Stati membri dipendono dai tempi e dai modi con cui la competenza dell’Unione viene esercitata. L’Unione può infatti scegliere di esercitare pienamente la propria competenza o può decidere di lasciare a lungo inutilizzati i propri poteri o di utilizzarli in misura estremamente ridotta, facendo così sopravvivere la competenza concorrente degli Stati. L’art. 4 TFUE definisce i settori di competenza concorrente dell’Unione. Differentemente da quanto avviene per i settori di competenza esclusiva e per quelli rientranti nella competenza di sostegno, coordinamento e completamento o di terzo tipo non è prevista un’elencazione tassativa. Le competenze dell’Unione sono pertanto concorrenti a meno che non ricadano tra quelle espressamente qualificate come esclusive o di terzo tipo. Il par.2 dell’art. 4 contiene invece un’elencazione dei settori di competenza concorrenti ma precisa che quelli elencati sono solo i principali, lasciando presumere che ce ne siano altri. Accanto alle competenze esclusive e a quelle concorrenti, i trattati prevedono un terzo tipo di competenze. Le caratteristiche sono: -la competenza dell’Unione è esercitata in parallelo con la competenza degli Stati membri, attraverso azioni destinate a sostenere, coordinare o integrare quelle degli Stati membri; -l’esercizio della competenza dell’Unione non può mai sostituirsi a quella degli Stati membri o portare ad un suo progressivo svuotamento. Il quadro delle competenze dell’Unione è completato dalle competenze di coordinamento in materia di politiche economiche, in particolare attraverso l’adozione di indirizzi di massima, nonché in materia di politiche occupazionali, in particolare attraverso l’adozione di orientamenti, e in materia di politiche sociali. Infine va ricordata la competenza nel settore della PESC. 3. Il principio di sussidiarietà Il principio di sussidiarietà così come quello di proporzionalità presuppongono l’esistenza di una competenza attribuita all’Unione. L’art. 5 par. 3 specifica il campo d’applicazione, esso vale soltanto nei settori che non sono di competenza esclusiva dell’Unione ma dato che sono pochissimi e rappresentano l’eccezione questa precisazione ha portata limitata. Restano infatti soggette all’applicazione del principio tutte le competenze concorrenti, quelle del terzo tipo, quelle di coordinamento e quelle relative alla PESC. Considerando che nei settori di competenza concorrente, la sopravvivenza della competenza statale dipende dalla misura in cui la competenza dell’Unione viene esercitata, il principio di sussidiarietà ha grande importanza proprio in questi
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